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IXCANUL AL CINEMA

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Orso d'argento al Festival di Berlino, esce nelle sale italiane “Vulcano” di Jayro Bustamante. Girato in una comunità maya, ne racconta la vita quotidiana.

Cristina Piccino

La rivoluzione di Maria è fare l'amore nel bosco
Oltre la cima scura del vul­cano c’è l’Eldorado. Pepe, ragazzo maya che si spezza la schiena nella pian­ta­gioni di caffè con­su­mando i pochi soldi in «pagherò» di liquore prima di incas­sarli ci crede dav­vero. Il suo Eldo­rado è l’America coi soldi e le ville con piscina, il Mes­sico che sta dall’altra parte e li separa dal con­fine è un pic­colo pez­zetto di terra, poca cosa. Ma Pepe non sa nem­meno par­lare lo spa­gnolo come quasi tutti i maya della regione, come farai gli chiede Maria che di quel ragazzo ribelle è un po’ inna­mo­rata, e nella sua insof­fe­renze vede il pas­sa­porto anche per la sua libertà.

Ixcanul il nome del vul­cano dà il titolo (origi­nale) al film d’esordio di Jayro Busta­mante gua­te­mal­teco, quasi qua­ran­tenne (è nato nel ’77) cre­sciuto nei luo­ghi del film che da ragaz­zino ha impa­rato a cono­scere seguendo la madre nelle cam­pa­gne sani­ta­rie di aiuto alle comu­nità maya. Discri­mi­nate, sfrut­tate, mas­sa­crate dal colo­nia­li­smo spa­gnolo che ha con­ti­nuato come in tutta l’America latina a can­cel­lare le tracce dei nativi nei secoli.
In Gua­te­mala pove­ris­simi, deva­stati dal geno­ci­dio della dit­ta­tura impo­sta dagli Stati uniti, visto che gli indios erano la mag­gio­ranza delle forze guer­ri­gliere (mar­xi­ste) di oppo­si­zione, che è con­ti­nuato anche finita la guerra civile. La mino­ranza spa­gnola al potere gli toglie tutto, a comin­ciare dai figli, ci dice il regi­sta che il com­mer­cio di bimbi fio­ri­sce com­plici le isti­tu­zioni, la poli­zia, i giu­dici, i medici.

Ma non è que­sto, non solo almeno il cuore del film che anzi quando espli­cita il suo intento «poli­ti­ca­mente impe­gnato» appare più rigido. Il punto di forza è la sen­si­bi­lità delle sue imma­gini, l’uso del piano sequenza con­trol­lato e senza com­pia­ci­menti che si tratti di fil­mare i con­ta­dini al lavoro men­tre danno da bere al maiale dell’alcol per­ché si accoppi, o quando si vede la gio­vane pro­ta­go­ni­sta fare l’amore col ragazzo dopo essersi «eser­ci­tata» su un tronco d’albero.
E il suo sguardo sui corpi dei per­so­naggi nel loro rito quo­ti­diano, i momenti più belli del film sono nella com­pli­cità che uni­sce Maria e sua madre, del resto il fem­mi­nile è la scelta nar­ra­tiva del film. Un legame quello tra le due donne tene­ra­mente fisico, fatto di carezze e di una sapienza antica tra­ma­data nel tempo, con­tare le lune e sal­tare sul vul­cano. Di una tat­ti­lità che del corpo coglie gli umori e i cam­bia­menti, di con­fi­denze, mani che si toc­cano, che acca­rez­zano senza imbarazzi.
Busta­mante lavora dun­que sul pae­sag­gio, emo­zio­nale e fisico al tempo stesso, sulla terra, sulla vita quo­ti­diana dei suoi con­ta­dini scan­dita dalla dispe­rata e con­ti­nua fatica di soprav­vi­vere. Per que­sto ha orga­niz­zato labo­ra­tori di reci­ta­zione con la comu­nità maya in cui ha rac­colto sto­rie, espe­rienze, vio­lenza subita. La cul­tura e la lin­gua e soprat­tutto il segno esi­sten­ziale, e poe­tico, del loro rap­porto con la natura,e con il vul­cano che li sovrasta.

Maria,la bra­vis­sima María Mer­ce­des Coroy ha dicias­sette anni e il mistero di una bel­lezza antica. Vor­rebbe ribel­larsi alla sua con­di­zione ma è schiava e dun­que le è proi­bito. I geni­tori l’hanno pro­messa al capo pian­ta­gione, uno che li ricatta col lavoro e con la cata­pec­chia in cui vivono, la sua rivolta comin­cia con l’arma che ancora le appar­tiene il corpo, l’unico stru­mento rivo­lu­zio­na­rio rima­sto prima che le tol­gano anche quello. Non era del resto la sua sco­perta e la sua libe­ra­zione al cen­tro di ogni movi­mento rivo­lu­zio­na­rio, oggi più che mai visti gli inte­gra­li­smi e la nuova schia­vitù della glo­ba­liz­za­zione.
Fa l’amore con Pepe nello sca­rico del bar, tra le voci ubria­che degli altri ragazzi, rimane incinta e difende que­sto suo bam­bino a cui non sem­bra avere diritto. Maria crede troppo alle cose la rim­pro­vera la madre, non devi cre­dere a tutto quello che ti dicono ma quella bimba che sta per nascere, e che la sal­verà dal matri­mo­nio com­bi­nato anche se non dalla mise­ria è l’unica cosa che ha e la fa sen­tire immortale.

C’è una durezza quasi impla­ca­bi­le­nella mes­sin­scena di Busta­mante, costruita sull’opposizione dei due spazi: la natura poco idil­liaca dove vivono i suoi pro­ta­go­ni­sti in cui i sogni di un altrove, il cielo invi­si­bile oltre il vul­cano, non sof­fo­cano anti­che cre­denze, riti che li ten­gono anch’essi in qual­che modo pri­gio­nieri e che sem­brano di pazzi visti con l’occhio di oggi. E il mondo «fuori», una moder­nità stra­niera ugual­mente rapace, forse per­sino più sub­dola nell’averli già con­dan­nati per sem­pre. Resta il gesto soli­ta­rio di una fuga, come quella di Pepe, il punk della comu­nità che dice al servo dei padroni: «Per­ché sei dalla loro parte?».
E la con­sa­pe­vo­lezza con­fusa di Maria (che non è cre­du­lona come sem­bra) che al ragazzo quando vaneg­gia dell’America vista solo sulle rivi­ste — replica che lui non sa par­lare inglese, e dove andrà, cosa farà? Dovre­sti impa­rare lo spa­gnolo prima dell’inglese, gli dice men­tre rac­col­gono il caffé, e lui cat­tivo: «È la gente come te che rovina que­sto Paese». Ecco la sua con­sa­pe­vo­lezza sapere, cono­scere, non farsi deru­bare. Lei ci prova, con quello che ha, e il regi­sta le resti­tui­sce una potenza il cui urlo silen­zioso nelle due imma­gini che aprono e chiu­dono il film risuona universale.

Il Manifesto – 10 giugno 2015

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