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ANCHE IL POETA GIUSEPPE BATTAGLIA HA PIANTO PER LA SCOMPARSA DELLE LUCCIOLE

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Pino Battaglia (1951-1995)


Il poeta Pino Battaglia, in un articolo che risente fortemente dell'influenza pasoliniana, alla fine degli anni settanta, con riferimento alle imprese criminali del banchiere democristiano Michele Sindona, con amaro sarcasmo scriverà:

"O mostri dell’intelligenza, menti mostruosamente fantastiche, genìa sublimemente illuminata. O sterminatori di lucciole e di rami, amici degli uomini e della poesia, puri di cuore che, anche, il cielo asseconda. Noi, adesso, ammirando la vostra Opera, non possiamo fare a meno di dire: oh! Ci inchiniamo meravigliati ai vostri piedi, […]. E, se la distruzione delle lucciole pasoliniane, che, dice Renard, figlie di una goccia di rugiada e di un raggio di luna, sembra sempre più definitiva, a noi certo poco interessa; noi ci inchiniamo alle grandiose città; ai centri storici; alle fabbriche, alle scuole. Ci inchiniamo alle immense opere di Lor Signori. E  siamo felici, lo confessiamo.Il mondo, ormai, è davvero mondo. Muoiono le lucciole ed, anche, i fiordalisi, finalmente. Le morte cose ritornano alla terra. Ma la storia, dice un compagno contadino, è una pentola senza coperchio."

N.B.:  questo brano di Pino Battaglia fa parte di un articolo intitolato Sindonia di anime mortepubblicato nel giugno 1979 su un periodico provinciale. Dello stesso Battaglia - autore noto in Italia solo per alcune poesie scritte in un antico dialetto siciliano - l'anno scorso sono stati pubblicati tutti i versi scritti in lingua italiana, raccolti in un volume di circa 500 pagine. Purtroppo il libro è stato ignorato da gran parte dell'industria culturale nazionale. Ma vi assicuro che i versi di Giuseppe Battaglia, spentosi a soli 44 anni, reggono benissimo al confronto con i più grandi autori del 900. fv

A VERONA UNA MOSTRA DI PICASSO

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«L’arte non è l’applicazione di un canone di bellezza, ma ciò che l’istinto e il cervello elaborano dietro ogni canone» diceva Picasso a chi gli rimproverava di essere poco comprensibile. La pittura non rappresenta il mondo, ma lo sguardo del pittore sul mondo. Una mostra a Verona racconta l'evoluzione dal 1906 al 1971 della rappresentazione della figura umana da parte del Maestro.

Roberta Scorranese
Così nacquero le sue figure stravolte
Nel film Midnight in Paris di Woody Allen (2011) lo scrittore in crisi Gil Pender si ritrova catapultato nella capitale francese di 90 anni prima, in quella stagione irripetibile degli anni Venti in cui Cole Porter accenna al pianoforte la sua Let’s Do It , Ernest Hemingway vive gli anni «poveri ma felici» che poi si condenseranno nel capolavoro Festa mobile e Pablo Picasso si veste da torero accanto a Marcel Duchamp che si traveste da Rose Sélavy. Questa Parigi lontana dal proibizionismo americano e ignara del baratro dove sprofonderà venti anni dopo è l’incarnazione storica della libertà moderna.

E Picasso, che giunse qui nell’ottobre del 1900, ha vissuto non solo questa stagione ma anche quella della Belle Époque, dove la libertà creativa correva come un fiume lavico per le strade illuminate dall’elettricità e sulle gambe delle modelle nude che vagavano per gli atelier. E dunque, quanto influì questa primavera infinita di sensi nella sua radicale trasformazione della figura umana? È il campo d’indagine della mostra che si apre a Palazzo Forti ma è anche uno dei nodi della poetica picassiana: vicinissimo all’astrazione totale ma senza mai abbandonare le forme — il sodalizio con Georges Braque, per esempio, lo spinse fino a opere come Il poeta del 1911, oggi nella Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, dove gli oggetti sono quasi irriconoscibili grazie al bisturi del Cubismo analitico, ma non andò oltre.

Emilie Bouvard, curatrice della mostra, trova una definizione calzante: «Non abbandonò mai la tradizione perché in essa cercava l’atipicità. Ne aveva bisogno». Si delinea allora il «metodo Picasso»: conservare la figura per mostrarne ogni possibile trasfigurazione , anche grazie a quella libertà di mezzi, di espressione, di parola e di sensi che Parigi gli dava. Lui, il pittore che a quattro anni dipingeva «come Raffaello» e che era bravissimo nel disegno partì dall’Ingres più atipico, «quello del Ritratto di monsieur Bertin — dice Bouvard — cioè l’Ingres lontano dalle rappresentazioni epiche. O studiò bene la lezione di Francesco Primaticcio, l’allievo di Giulio Romano che decorò alcuni ambienti del castello di Fontainebleau su invito del re Francesco I di Francia».

Perché Picasso era interessato alle declinazioni della figura umana così come Cézanne era interessato alla mistica delle cose (delle mele, delle pere, delle montagne brulle). Le prostitute di Les demoiselles d’Avignon nascono dalle sensualissime odalische del Bagno turco di Ingres ma hanno la solidità dei corpi cezanniani e al tempo stesso quella leggerezza in dissolvenza che Picasso aveva preso dal cinquecentesco El Greco.

«Cézanne aveva insegnato sia a lui che a Georges Braque la costruzione dello spazio» commenta Bouvard. Solo che Picasso ci aggiunse una continua reinvenzione dello stesso soggetto (dalla donna ai bambini).

Si può dire che la storia della rappresentazione della figura umana sia stata quella di tante rivoluzioni picassiane, anche nel passato? «In un certo senso sì — ammette Bouvard —: ogni volta che si individua un nuovo modo di raccontare la figura, legata alla sensibilità dell’epoca. Prendiamo per esempio il manierismo del XVI secolo». Cioè i dipinti di Pontormo o di Rosso Fiorentino: quest’ultimo in particolare, nel 1518, si vide rifiutare una pala d’altare perché il committente disse che quei santi «parevano diavoli», tanto i visi erano stravolti. E, secoli dopo, parlando delle sue Demoiselles , Picasso affermò: «Questa bruttezza è il segno della lotta del suo creatore per dire una cosa nuova in maniera nuova»
il Corriere della sera – 16 ottobre 2016

Chiara Vanzetto

Cubismo o fase «surrealista» Indagine su un rivoluzionario

«L’arte non è l’applicazione di un canone di bellezza, ma ciò che l’istinto e il cervello elaborano dietro ogni canone» diceva Pablo Picasso. Istinto e cervello, passione e ragione: il maestro spagnolo, classe 1883, ha intrecciato questa doppia visione in infinite soluzioni creative, personalità tanto poliedrica e vitale da rivelare sempre aspetti inediti.

Benvenuta quindi la nuova mostra Picasso. Figure (1906-1971) , appena aperta all’Arena Museo Opera (A.M.O.) di Verona a cura di Emilie Bouvard, conservatrice del Musée national Picasso — Parigi che ha concesso in prestito i capolavori esposti.

Organizzata da Arthemisia Group, la rassegna propone un viaggio lungo l’itinerario creativo picassiano tra 1906, data convenzionale per la nascita del primo Cubismo, e 1971, ultime produzioni di Picasso, mancato nel 1972.

La scommessa? Esporre almeno un’opera per ognuno di questi anni: scommessa vinta, novanta i pezzi eccellenti tra dipinti, sculture e grafiche, integrati da foto e filmati. Il taglio? Raccontare le trasformazioni a cui Picasso ha sottoposto la figura umana, scardinata e ricomposta più volte durante le molte fasi creative.

Importante in questo senso il trasferimento in Francia. «Giunto dalla Spagna nel 1900 carico di cultura accademica, a Parigi trova un mondo molto diverso, dove la pittura può confrontarsi con la realtà e con il corpo, esaltato dall’Art Nouveau — spiega in catalogo Macha Paquis —. Influenzato dal lavoro degli autori dell’Ottocento, Picasso può avventurarsi alla scoperta di un nuovo tipo di rappresentazione: inizia a far posare le modelle e a catturarne le immagini da diversi punti di vista».
Ma anche la cosiddetta traccia accademica in Picasso diventa spunto di novità. «Sarebbe arrivato alla scomposizione cubista anche grazie all’applicazione di schemi proporzionali la cui funzione è, in origine, la creazione di figure armoniose — osserva nel suo saggio Hiromi Matsui —. Questi schemi, che dovrebbero sparire nell’opera finita, qui invece affiorano e alterano le forme in senso geometrico».

La mostra si articola in sei sezioni. In primis il Cubismo, 1906-‘16 , arte concettuale in cui non si riproduce la natura come è ma come si presenta alla nostra mente: nell’ Uomo col mandolino si intravvedono solo tracce di realtà, anche se Picasso non raggiunge mai l’astrazione totale.
Si passa, nel periodo che abbraccia l’arco temporale 1917-‘24, alla reinvenzione della classicità, scoperta grazie ad un viaggio a Roma: La Prima comunione propone figure plastiche che sembrano ispirate ad un’estetica antica.

Poi le metamorfosi surrealiste, anni 1925-’36: il contatto col Surrealismo suggerisce maggior libertà nella deformazione del ritratto, come in Donna con gorgiera , fisionomia sconvolta e aggressiva. Quarta sezione, guerra civile spagnola, 1937-’45: nella Donna che piange , volto distorto dal dolore, Picasso riassume la sofferenza delle madri che perdono un figlio.

Quinto step il ritorno alle origini, 1946-’53, un nuovo primitivismo alla ricerca di forme originarie e infantili, come in Madri e figli che giocano . Per chiudere gli ultimi vent’anni, 1954-71, tra riflessione sui maestri del passato, da Diego Velàzquez a Édouard Manet, e ossessiva meditazione sul rapporto artista-modella.

il Corriere della sera – 16 ottobre 2016

CHAGALL E LA CIVILTA' EBRAICA RUSSA

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“CHAGALL E’ IL TESTIMONE STRAORDINARIO DELLA CIVILTA’ EBRAICA RUSSA E IL CANTORE DI QUESTO MONDO. QUELLO RURALE DEI CONTADINI, DEGLI EMARGINATI, DEI SOLDATI, E DEGLI OPERAI. L’UMANITA’ TUTTA INTERA, IL COMPLESSO DEGLI EMARGINATI, DEI POVERI, DEGLI UMILIATI, DEGLI OFFESI, DEI DEPORTATI, DEI SEVIZIATI”. A CONDURCI NELL’UNIVERSO DI CHAGALL, LE CUI OPERE SONO IN MOSTRA AL VITTORIANO, E’ GEORGES DE CANINO, L’ARTISTA PIU’ RAPPRESENTATIVO DELLA COMUNITA’ EBRAICA DI ROMA.
L’ALCHIMIA, LA MAGIA CHE ESPLODE NEI COLORI E NELLE TELE DEL PITTORE RUSSO E’ L’ESPRESSIONE DEL SUO IMMAGINARIO LIRICO E VISIONARIO. IN QUESTO CHAGALL NON ASSOMIGLIA A NESSUN ALTRO ARTISTA DEL SUO TEMPO, NON CREA UNA SCUOLA MA DA’ VITA A UN’ARTE E A UNA POETICA ORIGINALE E SINGOLARISSIMA.
PER COMPRENDERLO OCCORRE PARTIRE DALLE RADICI, CHE DANNO UN’IMPRONTA INDELEBILE ALLA SUA IDENTITA’ E DAL MONDO DELL’INFANZIA A VITEBSK. “CHAGALL TRAE DALLA PATRIA LA SUA VISIONE DEL MONDO. IL PITTORE RUSSO – PRECISA DE CANINO – E’ NELLA SUA UNICITA’ E NEL SUO STILE GIA’ PREDESTINATO, PERCHE’ FIN DA BAMBINO ERA CONSAPEVOLE DEL SUO DESTINO DI ARTISTA. LUI NON POTEVA ESSERE ALTRO CHE QUELLO CHE E’ STATO”.
L’INFANZA DI CHAGALL E’ INFATTI TRASCORSA NELLA DISPERAZIONE. “IO SONO NATO MORTO”, SCRIVERA’ NELLA SUA AUTOBIOGRAFIA. LUI E’ TRA COLORO CHE DECIDONO DI PARTIRE, QUANDO NEGLI ANNI ’80 DELL’OTTOCENTO, IN SEGUITO AI PROGROM DI ALESSANDRO III, LE REPRESSIONI DIVENTANO VIOLENTISSIME.
LASCIA LA RUSSIA E VA A PARIGI, DOVE SCOPRE LA LUCE, “CHE ERA COMPLETAMENTE DIVERSA DA QUELLA DELLA SUA PATRIA – AGGIUNGE DE CANINO – UNA LUCE ARTIFICIALE, LA VIE E LA VILLE LUMIERE, PUNTO D’ARRIVO DI TUTTI I POETI, I SOGNATORI, I PERSEGUITATI. PARIGI E’ LA PATRIA DELLA LIBERTA’, E’ UN MODELLO”.
CHAGALL TROVA LA SUA DIMORA A LA RUCHE, UN ‘QUARTIERE UNIVERSO’ CHE ERA UNO DEI PADIGLIONI CREATI PER L’ESPOSIZIONE UNIVERSALE DI PARIGI DEL 1900. QUI CONOSCE MODIGLIANI, APOLLINAIRE.
“CHAGALL PORTA CON SE’ NON SOLO LA CULTURA EBRAICA, MA ANCHE QUELLA RUSSA, QUELLA BIZANTINA DELLE ICONE, LA FIABA RUSSA – SPIEGA GEORGES DE CANINO – E LE IMMAGINI SI FANNO SIMBOLI, COME GLI ANGELI CHE VOLANO. PER ESEMPIO, L’ASCESA DI ELIA SUL CARRO, UNA DELLE IMMAGINI PIU’ IMPORTANTI DELLA TRADIZIONE DELLE ICONE E’ APPUNTO IL CARRO DI FUOCO CHE PORTA SU’ IN CIELO”.
CONTINUI VOLI, ASCENSIONI DI PERSONAGGI CHE POI DIVENTANO LA SUA AUTOBIOGRAFIA. I PERSONAGGI SONO UMILI, IL SUO MONDO SONO I SUOI AMICI, IL NONNO MACELLAIO E RABBINO, GLI ANIMALI, CHE SONO STATI I SUOI PRIMI COMPAGNI.
“GLI ANIMALI VIVONO, CANTANO, SUONANO E PARTECIPANO ALLA RESURREZIONE DELL’UMANITA’ E DI ISRAELE”, SPIEGA.
NELLA TRADIZIONE EBRAICA GLI ANIMALI HANNO UN RUOLO IMPORTANTE NON SOLO NEL SACRIFICIO, INTESO COME PREGHIERA, MEDIAZIONE TRA DIO E L’UOMO. L’ANIMALE HA UNA SUA VITA. “IL CAPRETTO E’ IL SIMBOLO DELLA REDENZIONE E DELLA LIBERTA’, DELL’USCITA DALL’EGITTO – CONTINUA -. LE MUCCHE CHE SI LIBRANO NEL CIELO SONO LA VITA. LA MUCCA CI DA’ IL LATTE E VIENE DIPINTA COME CON GLI OCCHI SEMPRE APERTI, VIVI, PROIETTATI IN AVANTI. FA ANCH’ESSA PARTE DI QUESTA GRANDE FIABA”.
LA MUCCA E’ LA TERRA, LA MADRE, COLEI CHE TI ALLATTA, TI DA’ LA VITA. “ANCHE I PESCI SONO UN SIMBOLO EBRAICO, SINONIMO DI RICCHEZZA E LIBERTA’, PERCHE’ I PESCI SONO LIBERI, SI SPOSTANO, SONO PROLIFICI, NON DORMONO E, QUANDO LO FANNO, NON CHIUDONO GLI OCCHI, PERCIO’ SONO VIGILI”.
IL GALLO INVECE RAPPRESENTA IL RISVEGLIO, L’ALBA, IL CICLO VITALE, PERCHE’, NELL’OPERA DI CHAGALL, “LA LUCE E LE TENEBRE SI COMPENETRANO – SPIEGA DE CANINO -. LA LUCE E’ IL COMPLETAMENTO DELLA NOTTE. E, ANCHE QUANDO IL BUIO E’ TOTALE, GLI ANIMALI NON SOLO ATTENDONO IL RISVEGLIO, MA SONO I PRIMI AD ACCORGERSI DELL’AURORA”.
IN CHAGALL C’E’ TUTTA L’UMANITA’ CHE SOFFRE, CHE VIVE, CHE FUGGE, CHE SCAPPA E CHE RITORNA, CHE AMA, CHE NASCE E CHE MUORE. EGLI E’ UNO DEGLI ARTISTI CHE PERCEPISCE COME ANCHE I TEMI DRAMMATICI DELLA MORTE HANNO UNA LORO SACRALITA’ CHE STEMPERA IL DOLORE. SIGNIFICATIVO E’ IL QUADRO CHE RAPPRESENTA LA MORTE DI ‘BELLA’, CON UN LENZUOLO CHE AVVOLGE IL CORPO. COSI’ COME SI NASCE LIBERI, NUDI, COSI’ NUDI SI TORNA ALLA TERRA.
NEL SUO UNIVERSO ARTISTICO, C’E’ UNA ‘DANZA’, UNA SFILATA DI SUONATORI DI VIOLINO, TRAPEZISTI, SALTIMBANCHI DEL CIRCO. LA MUSICA DEL VIOLINO E’ UN ACCOMPAGNAMENTO DELLE FESTE EBRAICHE, HA UN SUONO GIOIOSO, GAIO. UN INNO ALLA VITA, UNA GIOIA CHE STRARIPA IN TUTTA LA SUA OPERA.
IL SUO MONDO, VITEBSK E LA RELIGIONE EBRAICA CONTINUERANNO A VIVERE NELLA SUA ARTE, NON SI DISSOLVERANNO MAI. PER CHAGALL “LA BIBBIA E’ L’ALFABETO COLORATO IN CUI HO INTINTO I MIEI COLORI”. I CROCIFISSI, LA MORTE DELL’OCCIDENTE, UN INTERO SECOLO CHE BRUCIA E IL TENACE ATTACCAMENTO ALLA VITA.

MANUELA BUSALLA, 2007.

ELOGIO DEI CLASSICI

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Saremo diventati "reazionari" (o magari più realisticamente, semplicemente vecchi), ma sempre più spesso ci capita di pensare che nelle sue pulsioni fondamentali e nei suoi comportamenti l'uomo resti sempre lo stesso, nonostante il trascorrere del tempo e delle culture. Succede ad esempio così che nel racconto della grande Atene di Plutarco e Tucidide troviamo motivi di riflessione sulla politica di oggi spesso più interessanti di ciò che ci offre la lettura mattutina dei quotidiani.

Franco Manzoni

Classici antichi, un viaggio infinito


Nell’era della globalizzazione e della dispersiva simultaneità di internet i classici greco-latini conservano ancora quell’energia di enigmaticità, segretezza, invenzione. Ciò che li alimenta è il continuo sviluppo delle identità nelle molteplici forme di radici, impronte, tracce, teorie, metafore. E nelle diverse forme offrono modelli di pensiero, a cui rifarsi: una pluralità di concezioni differenti come quelle presenti in Aristotele, Platone, Eschilo, Aristofane, Tucidide, Catullo, Virgilio, Plauto, Tacito, Cicerone.

I classici sono dunque testimoni di poliedriche identità in continua metamorfosi, insofferenti a ogni legge precostituita. In fondo si tratta di prodotti di un’elaborazione collettiva, che rappresentano l’universo sotto forma di miti, ovvero di racconti, i quali tendono a spiegare le origini e le relazioni naturali fra l’uomo e le cose. Ciò deriva dalla necessità di rendere comprensibile il mistero contenuto nelle varie ritualità. Già nel gruppo di cantori, che passa alla Storia con il nome di Omero, si assiste alla costituzione di un’universalità concreta e non metafisica. Addirittura un poema scientifico è quello costruito da Esiodo nella sua Teogonia .
I classici greco-latini cantano alle Muse, parlano di ricerca della sapienza, insegnano i principi di tutte le leggi per rendere conto ai cittadini della realtà quotidiana. Consapevoli che le forze naturali sono anteriori a qualsiasi divinità e ogni evento viene regolato dalla sorte o destino. Percepire la musica interna, che anima opere come il De amicitia di Cicerone, la Metafisica di Aristotele, il De bello gallico di Cesare o l’ Elettra di Sofocle, significa essere in grado di penetrare nel territorio più interiore del mistero, che corrisponde all’intuizione del sapere. Dimenticare i classici greco-latini significherebbe per gli italiani e per tutti gli abitanti dei Paesi occidentali non capire più chi siamo.

Il problema non è se i classici sono attuali, semmai se lo siamo noi rispetto a loro. Leggere, invece, gli autori del passato aiuta a recuperare la consapevolezza di un destino comune al genere umano, ad acquisire il senso della continuità, della pluralità e della ricchezza. Importante riflessione sulla pedagogia contemporanea viene offerta dalla commedia Le nuvole di Aristofane, uno dei testi più noti del teatro antico, anche se spesso dimenticato. È la rappresentazione dello scontro generazionale, del conflitto fra padri e figli, fra giovani e vecchi, fra tradizione e innovazione con il personaggio Socrate come bersaglio da ridicolizzare.

È naturale che in modo dissacrante Aristofane intenda colpire Socrate, colpevole secondo lui di rovinare i giovani con una pedagogia utopica, trasgressiva, priva degli antichi valori e fuori da ogni realismo quotidiano. Nel De rerum natura Lucrezio ritiene di fare scienza, esponendo la dottrina di Epicuro per un fine di salvezza. Tuttavia riesce a dare corpo a un poema certamente tutto fisico e astrofisico, ma che seduce come una musica, un monumento di bellezza sonora che illumina il buio dell’ignoranza.

La forza del latino e del greco antico sta proprio nel sapere che riescono a trasmettere. Così l’impossibilità di utilizzare l’acquisizione a un uso immediato può creare la passione per lo studio disinteressato, educa e allena a quella ricerca fine a se stessa, origine di ogni grande conquista scientifica. Inoltre la civiltà classica costituisce un modello storico e culturale imprescindibile, una fonte perenne di valori umani insostituibili.
Virgilio, Epicuro, Plauto, Euripide esercitano un’influenza particolare nel lettore quando s’impongono come indimenticabili oppure quando si nascondono nelle pieghe della memoria, mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale. Tant’è vero che ogni rilettura — sia in lingua originale sia in traduzione — corrisponde sempre a una lettura di scoperta, quasi fosse la prima volta, con gli eventuali riverberi sugli autori successivi.

Se affronto l’ Odissea , leggo il testo d’Omero ma non posso dimenticare tutto quello che le avventure d’Ulisse sono venute a significare durante i secoli, da Dante a Pascoli, Gozzano, D’Annunzio, da Joyce a Saba, Pavese, Seferis. Neppure posso non domandarmi se questi significati fossero impliciti nel testo o se siano incrostazioni, deformazioni, dilatazioni, ricreazioni. Lo stesso dicasi per Eschilo e il suo Prometeo incatenato , il titano colpevole di aver donato il fuoco agli uomini. Nella lettura della tragedia subito viene da pensare alle musiche di Beethoven, Liszt, Scrjabin, Orff, Luigi Nono. Oppure all’interpretazione della sua iconografia delineata da artisti visivi come Piero di Cosimo, Heinrich Friedrich Füger, Nicolas-Sébastien Adam, Jan Cossiers, Arno Breker. E in letteratura al mito di Prometeo trattato da Goethe a Hugo von Hofmannsthal, da Caldéron de la Barca a Carl Spitteler, André Gide, al romanzo Frankenstein, o il Prometeo moderno di Mary Wollstonecraft Shelley.

In sostanza tutte le opere greche o latine hanno influenzato gli artisti successivi. Questo dovrebbe portare a compiere riflessioni sull’importanza di conoscere la letteratura antica. Pensare di farne a meno è sin troppo facile. Rimarrà un vuoto enorme nel nostro sapere, che non potremo mai colmare. La lettura dei lirici greci, di Catullo, Platone, Orazio, è uno degli strumenti più semplici che consente di comprendere ciò che è stato. Di certo il massimo rendimento della lettura dei classici greco-latini sta nel riuscire ad alternarla con sapiente dosaggio con quella dei quotidiani. Si possono affrontare Euripide o Petronio avendo come sottofondo lo sferragliare delle tramvie o il traffico più caotico.

Non si tratta di una contraddizione rispetto al nostro ritmo di vita che, è vero, non conosce più i tempi lunghi, il respiro dell’ otium umanistico. Conoscere il passato oggi è fondamentale per avere un presente e un possibile futuro. Occorre semplicemente un piccolo sforzo di concentrazione, dare sfogo alla lettura con la mente libera e si riuscirà a (ri)scoprire l’etica e il pensiero dei greci e dei latini nel loro contesto storico.


Il Corriere della sera – 14 ottobre 2016

REFERENDUM COSTITUZIONALE: SCHEDA SEMPLIFICATA

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Sono sempre più convinto che prevarrano i NO. Ma penso che Renzi rimarrà in sella.
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TU MI HAI RAPITO IL CUORE

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Tu mi hai rapito il cuore,
sorella mia, sposa,
tu mi hai rapito il cuore
con un solo tuo sguardo,
con una perla sola della tua collana!

(...) Quanto sono soavi le tue carezze,
sorella mia, sposa,
quanto più deliziose del vino le tue carezze.


L'odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi.
Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,
c'è miele e latte sotto la tua lingua
e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano.


Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa,
giardino chiuso, fontana sigillata.


I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,
con i frutti più squisiti,
alberi di cipro con nardo,
nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo
con ogni specie di alberi da incenso;
mirra e aloe
con tutti i migliori aromi.


Fontana che irrora i giardini,
pozzo d'acque vive
e ruscelli sgorganti dal Libano.


Dal Cantico dei cantici

SEIKILOS, Finché vivi, splendi

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«Finché vivi, splendi.
Non ti affliggere troppo per nessuna cosa:
la vita dura poco,
il tempo reclama la sua fine».

Ὅσον ζῇς, φαίνου,
μηδὲν ὅλως σὺ λυποῦ·
πρὸς ὀλίγον ἐστὶ τὸ ζῆν,
τὸ τέλος ὁ xρόνος ἀπαιτεῖ.

Seikilos (Sicilo)
II sec. a.c.



LA MASCHERA TRAGI-COMICA DI EDUARDO DE FILIPPO

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Edoardo tragico anche se ride. Un'intervista di Enzo Biagi

Il Corriere nel 1977 pubblicò alcune interviste di Enzo Biagi ai personaggi che hanno cambiato qualcosa in Italia. Questa ad Eduardo De Filippo è tra le meglio riuscite. (S.L.L.)

ROMA — Mi ha detto Fellini: «È come una sacra rappresentazione». Non c’è mai posto, bisogna prenotarsi con una settimana di anticipo, non consegnano più di cinque biglietti. La balconata è gremita di giovani che assistono, stupefatti, al prodigio.
Le voci di dentroha quasi trent’annì: ma nel canovaccio c’è tutta l’angoscia di questo tempo, i cattivi pensieri, i sospetti. Zi’ Nicola, lo strampalato personaggio che si è chiuso in se stesso, non parla, comunica con gli altri a botti, a razzi, una specie di essenziale alfabeto Morse che non concede nulla alla divagazione; è un precursore dell’alienato, un pensatore dei « Bassi » che ignora di avere scoperto la incomunicabilità.
«Ero più forte» ricorda Eduardo. «Buttai giù il copione in diciassette ore, tutte le notti, di fila. Il dovere, sa. Filumena Marturano mi impegnò per dodici giorni. Titina diceva: — Il teatro è fatto per gli uomini, la donna è soltanto un appoggio. Feci la sorpresa: invitai tutti a un pranzetto, e lessi le mie pagine. Alla fine, silenzio. Titina mi baciò la mano e piangeva. In una stagione, 44-45, feci anche Napoli milionaria, Le bugie con le gambe lunghe, e Questi fantasmi, che restò nel cassetto per due anni. Quando si è cresciuti in palcoscenico, si è frequentato una scuola rigida, che non ti fa guardare in faccia a nessuno: si deve fare, e così è ».

La grande avventura
Il 24 maggio compirà i settantasette; ne aveva 4 quando salì per la prima volta alla ribalta, con un vestitino da cinese. Scarpetta recitava La geisha, e i «tre piccirilli sott’a nu’ umbrello», come diceva la gente, lui, con Titina e Peppino, cominciavano la loro grande avventura.
Nella leggenda c’è tutto: le fatiche dell’avanspettacolo, la fame, i contrasti e le incomprensioni, la solitudine. Poi, la rivelazione: quelle storie napoletane hanno commosso' lo spettatore in Inghilterra, nella Unione Sovietica, in Spagna, in America, in Giappone. Migliaia di repliche, milioni di copie. Perché i diseredati dei «vichi», sono come lo straccione di Chaplin: nascono dai bassifondi di Londra o dagli androni umidi di Forcella, e portano la loro malinconia, le chimere, la dolce rassegnazione per le strade del mondo, e tutti li capiscono, e anche quando l’ultimo scontro con la sventura sembra perduto, lasciano sempre una possibilità alla speranza: «S’ha da aspettà», «A’ da passà ’a nuttata», è la battuta finale di un infelice Gennaro Esposito, sulla quale cala il sipario.
Ho appuntamento all’Eliseo. Un vento gelido spazza le vie di Roma. Aspetto all'ingresso degli artisti, e chiacchiero un po' col custode: «Da quando lo conosco io» dice «è sempre andata in questo modo. Il commendatore è unico, non c'è paragone, e vengono a vedere il fenomeno. Non pare mica che reciti, non sembra che ci sia. fatica. Naturale, vero. Ma bisogna assistere alle prove, tutto pensato, calcolato, lo applauso, scatta sempre in quel momento, preciso ».
Arriva infreddolito con Isabella, la moglie. Sale le scale con energia; non pensa allo stimolatore che gli hanno messo dentro, per rianimare il cuore stanco. Soltanto Pupella Maggio gli dice: «Ciao, Eduardo», tutti gli altri salutano: «Buona sera, direttore».
Conversiamo senz’ordine, nel camerino semplice, c’è un disegno di Titina, la statuetta di un pastore ungherese, che un giovanotto straniero gli mise in mano sorridendo, e lo cacciarono, perché temevano nascondesse un coltello, poche cose per il trucco, una bottiglia di colonia.
Quando si sveste e rimane in maglietta, osservo quel torace magro, e poi il viso scavato, gli occhi spenti, gli zigomi che danno carattere a quella fisionomia essenziale, e andiamo avanti senza regola, come se riprendessimo un vecchio discorso interrotto, e io sono anche un poco commosso. Mi torna in mente il loggione del Duse, a Bologna, e Sik Sik l’artefice magico, e gli incanti della giovinezza, com’è passato in fretta.
«Io osservo, osservo continuamente» dice Eduordo, come se volesse rivelarmi il segreto della sua arte. No, non è stato facile imporre un repertorio, un modo di essere, tra le quinte e anche fuori. Faccio il nome di un amico: «Eppure» dice senza rancore «quando diedi Filumena, scrisse che era un’opera ignobile. Ma non mi sono mai arrabbiato per la critica, ho appreso molto, specialmente dagli attacchi. Renato Simoni aveva garbo. Ma adesso siamo divisi: chi recensisce da una parte, interpreti dall’altra, e in fondo si lavora tutti insieme. Una volta non era così. Qui non si vede più nessuno. Io facevo mattina a discutere con Vergani, con D’Amico. Gli artisti, quelli moderni, non parlo di me, quelli che vengono dall’Accademia, si sono tagliati anche i ponti col pubblico, sono freddi. Il saluto non è più come si usava, c’è una certa alterigia. Si ringraziava ogni fine d’atto, significava rispondere con una cortesia, senza lasciare attendere inutilmente ».

L’amarezza
Dico: l’altro giorno, ho incontrato Sandro Pertini. Gli ho chiesto: «Era peggio il ’45 o oggi?». Peggio oggi, mi ha risposto. C’è un’altra Napoli, c’è un’altra Italia? Quale? «Diversa, soprattutto perché abbiamo preso coscienza, e allora le manchevolezze mi appaiono più evidenti. Abbiamo capito. Allora si era pieni di attesa, siamo ricaduti negli stessi errori, sfiducia, disistima, dal disprezzo alla voce di dentro. Una parola buona spesa in quel momento di euforia, di fede nel futuro, ora sarebbe anacronistica, da ridere ».
In un’intervista lei ha detto: «Non me ne importa niente di sapere che cos’è l’aldilà». Perché? «Non è un fatto che mi riguarda. Sarebbe una cosa molto importante, per cui avremmo dovuto avere qualche ragguaglio, indipendentemente delle esplorazioni scientifiche e filosofiche, invece lasciamo senza che ci venga un segno qualsiasi per darci un orientamento, e allora è come spingere un muro, una piramide, si fa troppa fatica ».
Da che cosa nasce la sua amarezza? «Oggi, se dovessi prevedere qualcosa, sarei ottimista. E le dico la ragione: perché i giovani capiscono, e le generazioni non si susseguono ogni vent’anni, o quindici, ma con maggiore rapidità. Due o tre fanno già differenza. I più piccoli vengono su con idee molto avanzate, in meglio, credo. Il futuro, secondo me, verrà salvato dai ragazzini, come dice Elsa Morante, e dalle donne che, al contrario dei maschi, esercitano una politica indipendente da qualunque tradizione. Verrà il meglio, ma questa alba non mi sarà dato di vederla; ci vorrà molto tempo. Mi è stato riservato di combattere i mulini a vento, come un don Chisciotte ».
Che cosa trova nell’uomo, di migliorato, e di peggio? «Peccati intollerabili sono la vanità, l’invidia e la debolezza di carattere. Qualità buone, lo spirito di adattamento, ma non la rinuncia, la comprensione dei difetti altrui, ma non l’accettazione».
C’è chi la definisce un piccolo borghese per il suo desiderio di pulizia, di rispetto dei sentimenti. È un giudizio che la soddisfa? «Luigi Compagnone lo dice. Forse lo è lui, e allora vede così anche me. Io mi rivolgo alle masse e questo senso di nitore, questa voglia dì moralità è un’aspirazione al bene comune. Nelle mie commedie non dico mai: 'Io parlo di problemi'. Anche lui fa la stessa cosa, e lo ammiro per questo».
I suoi eroi, invece, sono quasi sempre dei falliti, degli umiliati, sul piano sociale, e degli anarchici su quello delle scelte. «E’ giusto : il seme della libertà nasce con l'uomo. Filumena Marturano, per esempio, è il simbolo dell’Italia: tre figli, tre condizioni umane. E poi la lotta: del resto, buoni non si potrà mai esserlo del tutto ».
Come nasce in lei una storia? «Chi lo sa. Dall’attenzione, dall’esperienza, dallo spirito di ricerca. Basta un’idea, non tante, e lavorarci sopra. Quando non c’è, si ricorre alle trovate».
Se dovesse spiegare a un giovane che vuol fare l’attore che cos’è il teatro, che cosa direbbe? «Se dovessi indicare un programma, suggerirei la pratica, perché il teatro porta alla vita e la vita porta al teatro. Non si possono scindere le due cose. Cerca la vita e troverai la forma, cerca la forma e troverai la morte. L'umanità, attraverso fatti che si evolvono continuamente, e che si trasformano, ci fornisce modelli che ci sorprendono sempre: nuovi, pazzi, imprevedibili, che ci danno i personaggi. Le parole cambiano, i rapporti si trasformano. Come può finire il teatro? Una volta io ho detto che fino a quando ci sarà un filo d’erba sulla terra, ce ne sarà uno finto sul palcoscenico».
Qual è il suo primo ricordo, la prima impressione, davanti a una platea? «Uno splendore abbagliante. Ero al Valle di Roma, ero piccolo e sbigottito. Mi portarono in scena da un momento all’altro: è luce, è sorpresa».
Da grande, quando decise? «Molto tardi, perché mi affannavo a convincere ali altri, che mi sconsigliavano. Piano piano cominciai a capire che quella sarebbe stata la mia passione. Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male».
Lei è religioso? «A modo mio. Io so che mi trovo qui per una ragione, e questo è già sufficiente. Se non mi è stato spiegato perché sono venuto, vuol dire che non lo devo sapere».
Quando si è sentito affaticato, e le hanno messo il pacemaker, che cosa ha pensato? Ha avuto paura? «No, no. Anzi, non volevo applicarlo, mi sembrava di forzare la mano alla natura, se me ne debbo andare, basta; poi mi abituai ad accettarlo, qualcosa da dire l’avevo ancora, infatti».
Filumena Marturano dice: «Sto piangendo. Quanto è bello piangere». E l’uomo, quando è solo o sgomento, che fa? «Lo fa troppo spesso, quindi non si può distinguere se c’è una ragione seria, o emotività e debolezza».
Cosa è stato il successo? «Un premio alla mia fatica, continua, ossessiva, da ragioniere».
C’è qualcuno fra i contemporanei che ammira? «Molti, non uno solo, e non soltanto nel mio mestiere, e fra questi Carmelo Bene, perché mi piace pure fuori, mi piacciono le sue opinioni, come si esprime, come si ribella, come si accetta. Poi Proietti, che ho stimato da quando era alle prime armi».
Anche di suo figlio Luca parlano bene. «C’è tempo per vedere se è bravo. Meno male che lo dicono gli altri. Quando nacque, Lucio Ridenti mi chiese 'Glifarai fare l’attore?'. Io risposi di sì, perché anche se non dovesse riuscire, e rimanesse soltanto un generico, il teatro gli offrirebbe sempre il modo di essere libero».
Perché l’uomo vuole recitare? «È come le scimmie che hanno il gusto dell’imitazione. Le hanno viste che si mettevano fiori e raffia addosso, e ballavano. Ma se è vanitoso, è solo uno che ha la faccia tosta di salire in alto, su delle assi inchiodate, per farsi vedere. L’artista è un'altra cosa».
Che sogni fa? «Dei palcoscenici, sempre. Inventati. Uno tutto di vetro, anche la scena di cristallo, gli attori potevano vedere lo spettacolo senza essere scorti dal pubblico. Sogno di arrivare in ritardo, stanno già per alzare il velario, tutto contribuisce a farmi rallentare, non sono truccato, non trovo il cappello, allora mi sveglio. Uno cominciava in un quartiere di Napoli, e finiva, naturalmente, in teatro. Avevo messo Titina in un camerino tutto di merletti. Una specie di delirio, forse. Quasimodo mi diceva :'Tu fai le didascalie con due o tre aggettivi. Che te ne fotte?'. Ma di questo ho vissuto».
L’altoparlante avverte: «Cinque minuti. Signori, chi è di scena?». Eduardo De Filippo si fissa nello specchio: qualche ritocco appena. In quel volto estatico ed assorto, si può specchiare tutto il dolore del mondo: «Le mie commedie sono sempre tragedie, anche quando fanno ridere».
Eduardo conosce il segreto dell’esistenza. Dice il protagonista di Gli esami non finiscono mai: «In questa vita nessuno può mettere il punto; esiste soltanto il punto e virgola. Non possiamo illuderci, dobbiamo lasciare il posto agli altri». Non sempre: lui, ormai, ne ha uno tutto per sé.


Ho ripreso questo documento da  http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2016/10/edoardo-tragico-anche-se-ride.html

PABLO NERUDA AL CINEMA

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Esce al cinema l’antibiografia del Nobel firmata da Pablo Larraín, candidato dal Cile all'Oscar come miglior film straniero. Interpreta il poeta il grandissimo Luis Gnecco affiancato da un “tragico” Gael García Bernal nel ruolo del poliziotto che gli da la caccia.

Natalia Aspesi

Neruda. Il gioco senza fine del poeta e del poliziotto


Baciato, abbracciato, toccato da chi lo ama, come senatore del partito comunista cileno e come meraviglioso poeta, Pablo Neruda entra nei gabinetti del Parlamento dove lo aspettano i colleghi che subito attacca definendoli “di merda”, offendendo il nuovo presidente González Videla, di cui ha curato la campagna, perché “traditore al servizio dell’America”. È il 1948, Neruda ha 44 anni, è già celebre nel mondo (vincerà il Nobel per la letteratura nel 1971) ed è un uomo grosso, molto stempiato, brutto, che fa impazzire le donne. «È obeso e ha messo per la prima volta le scarpe a 12 anni» lo offende un avversario, ricordando le sue origini popolari.
Così inizia Neruda, il grande film del quarantenne cileno Pablo Larraín, che lo definisce un’antibiografia: storicamente e umanamente esatta ma esaltata da una geniale sovrapposizione di invenzioni simili a sogni, e dall’uso del colore spesso sfumato nei viola di una natura notturna stupenda e vuota.

In quell’anno il partito comunista cileno è messo fuori legge, 26 mila cileni privati del voto, i lavoratori in sciopero prelevati dall’esercito e rinchiusi in campi di concentramento, Neruda destituito dal ruolo di senatore, dichiarato nemico pubblico e traditore. Il partito lo convince a entrare in clandestinità e il film segue i lunghi mesi di questa fuga che lo porterà in salvo in Argentina e poi in Europa. Lo insegue il poliziotto Óscar Peluchonneau (così si chiamava davvero chi doveva scovarlo e arrestarlo), che il regista trasforma in un personaggio letterario, che si autoinventa o forse è un invenzione di Neruda.
Lui stesso, Peluchonneau, non sa chi è, si cerca in quell’inseguimento del poeta che gli sfugge pochi minuti prima che lui lo raggiunga, come in un gioco senza fine. Il poeta vaga di paese in paese, di casa in casa, protetto dagli amici comunisti, assieme alla seconda moglie Delia (Mercedes Moran), pittrice argentina di famiglia aristocratica che ha 20 anni più di lui, lo venera e lo aiuta a sgrezzarsi.
Neruda era fisicamente privo di attrattive se non per la voce cantilenante con cui leggeva i suoi versi, d’amore carnale e di pena per la miseria del popolo cileno: e lo interpreta un grandissimo attore, Luis Gnecco (ingrassato di 25 chili), sufficientemente brutto per diventare davvero identico al poeta.
Come nella realtà Neruda non sopporta la clandestinità, e di notte ma anche di giorno, sfida il pericolo uscendo travestito da prete o vistosamente abbigliato di bianco, anche per rifugiarsi nei casini tra prostitute nude cui declama i suoi versi e che lo adorano e lo proteggono. In ogni casa, in ogni macchina, nella tasca della sua elegante giacca che ha lasciato a una mendicante coperta di stracci, lascia per l’inseguitore uno dei libri gialli che adora, come un Pollicino crudele e sprezzante.

Il poeta del film, come quello della realtà, beve molto, fa da mangiare i suoi piatti a base di cipolle, ha sempre con sé le nuove poesie e la macchina da scrivere: è l’epoca, dice Larraín, del grandioso Canto general, che scrive a mano, o ricopia, o detta e poi recita in quella lingua morbida, che non si riesce ad immaginare doppiata.
Peluchonneau ha il viso chiuso e talvolta tragico di Gael García Bernal, con i piccoli baffi, i lunghi silenzi, il cappello d’epoca, e pare il detective Dick Tracy dei fumetti di Chester Gould o il Philip Marlowe di Humphrey Bogart del Grande sonno diretto da Hawks, sempre più irreale, anche ridicolo quando guida una moto con occhialoni e casco, ripreso come fosse un cartoon.

Il duello mortale con l’inseguito è impari, è una sfida sempre persa, sempre umiliante: lui figlio di una prostituta e di un padre ignoto che si è inventato, bisognoso di riscatto, in quella caccia cerca la sua rivincita sul mondo. Vuole passare alla storia mentre una voce fuori campo, il suo pensiero, si racconta come fosse il protagonista di un poliziesco di Raymond Chandler: “il sagace commissario”, “l’esperto poliziotto che segue un odore asiatico”. Perduto in una solitudine impotente, rifiuta di essere un personaggio secondario, di carta, addirittura inventato dal poeta, come gli dice ironica e sicura Delia.
Neruda tornò in Cile ai tempi del presidente Allende ed è ormai sicuro che dopo il golpe di Pinochet sia stato ucciso, a 69 anni con un’iniezione, per ordine del dittatore: che tra l’altro compare nel film come capo di un campo di concentramento per comunisti cileni.

In febbraio arriverà da noi Jackie, il nuovo film di Larraín, antibiografia dei giorni di lutto di Jacqueline Kennedy, che alla Mostra di Venezia ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura e che è molto piaciuto anche alla critica

la Republica – 6 ottobre 2016

LIBERTA' E RAGIONE SECONDO KANT

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«Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (cioè come egli immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale». Così nel 1784 Kant prefigura il rischio ciò che noi chiameremo due secoli più tardi totalitarismo.

Giuseppe Bedeschi
La libertà di essere un fine

Benché Kant abbia tenuto, tra il 1767 e il 1788, dodici corsi universitari sul diritto naturale, a noi è rimasta una sola trascrizione manoscritta: quella del semestre estivo del 1784 (nota come Naturrecht Feyerabend, dal nome del suo possessore), che esce ora per la prima volta in traduzione italiana (presso Bompiani), a cura di Gianluca Sadun Bordoni, il quale ha premesso al testo kantiano una acuta introduzione e vi ha apposto un ricco apparato di note.

Il cosiddetto Naturrecht Feyerabend è un testo di grandissimo interesse: infatti, mentre svolgeva tale corso, Kant ultimò la redazione della Metafisica dei costumi: di qui i numerosi parallelismi tra le due opere, a volte assai stretti, che meritano di essere considerati attentamente.

Al centro della meditazione kantiana è il nesso libertà-ragione. Già nelle lezioni di filosofia morale degli anni settanta Kant aveva detto che «la libertà è il grado più alto della vita» ed è «il valore intrinseco del mondo». Il manoscritto del 1784 svolge su questo punto considerazioni assai importanti. «Il valore intrinseco dell’uomo – dice il filosofo – si fonda sulla sua libertà, sul fatto che egli possiede una propria volontà. Dato che egli deve essere il fine ultimo, la sua volontà non deve dipendere da null’altro».

Anche gli animali hanno una volontà, ma non hanno una volontà propria, bensì la volontà della natura. La libertà dell’uomo, invece, è la condizione sotto la quale l’uomo può essere un fine in se stesso, nel senso che egli regola le proprie azioni secondo fini degni di lui, e quindi non tratta (non deve trattare mai) i propri simili come mezzi.
Perciò alla libertà umana è indissolubilmente connessa la ragione. Infatti, “senza ragione un ente non può essere fine in se stesso: perché non può essere cosciente della sua esistenza, non può riflettere su di essa”. Ma attenzione: la ragione non costituisce ancora la causa per cui l’uomo è scopo in se stesso. Noi vediamo infatti che la natura produce negli animali attraverso l’istinto ciò che la ragione scopre attraverso tortuosi cammini.
Separata dalla libertà, la ragione può ricadere interamente nel meccanismo della natura: in tal modo noi non saremmo migliori degli animali. Dunque, soltanto la libertà fa sì che noi siamo scopi in sé. «Qui abbiamo la capacità di agire secondo il nostro proprio volere», e quindi di perseguire le finalità più alte.

Kant non esita ad affermare di non sapere «come io possa comprendere tale libertà». E tuttavia, egli dice, essa è un’ipotesi necessaria, se devo pensare enti razionali come scopi in sé. Se l’ente umano non è libero, allora egli è nelle mani di un altro, dunque è sempre scopo di un altro, cioè è un semplice mezzo. «La libertà quindi non è solo la condizione suprema, ma anche quella sufficiente».
La libertà diventa così la chiave di volta tanto del mondo morale quanto del mondo etico-politico.
Infatti per Kant uno dei princìpi a priori sui quali deve essere fondato lo Stato in quanto Stato giuridico, è la libertà. Tale principio significa, dice il filosofo, che «nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (cioè come egli immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri)».

Sicché Kant affermava in modo perentorio che un governo paternalistico, in cui i sudditi, come figli minorenni che non possono distinguere ciò che è loro utile o dannoso, sono costretti ad aspettare che il Capo dello Stato giudichi in qual modo essi devono essere felici, è il peggior dispotismo che si possa immaginare.
Il Sole 24 Ore – 9 ottobre 2016

P. AUSTER, Affrontare la musica

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    Devo ad una cara amica sarda, Lorena Melis, questa bella foto e questi splendidi versi che fanno toccare con mano la potenza della lingua umana:



[...]

Impossibile
udirla ancora. La lingua
ci porta via per sempre
da dove siamo, e in nessun luogo
possiamo stare in pace
nelle cose che ci è dato
vedere, perché ogni parola
è un altrove, una cosa che si muove
più veloce dell’occhio, proprio
mentre si muove questo passero, virando
nell'aria
dove non ha una casa. Credo, allora,
in niente

che queste parole possano darti, ma
le sento
parlare attraverso di me, come se
solo questo
fosse ciò che desidero, questo blu
e questo verde, e dire
come questo blu
sia per me diventato l'essenza
di questo verde, e più del puro
vederlo, voglio che tu senta
questa parola
che è vissuta in me
tutto il giorno, questo
desiderio di niente

che non sia il giorno stesso, e come sia cresciuto
dentro i miei occhi, più forte
della parola di cui è fatto, come se
non potesse mai esserci altra parola

che mi terrebbe
senza spezzarsi.

Paul Auster

IL PCI DI FRONTE ALLA RIVOLTA UNGHERESE DEL 1956

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Ripensando a come il PCI reagì nel 1956 all'intervento sovietico in Ungheria, diventano più chiare le ragioni per le quali quel partito non poteva sopravvivere al crollo dell'unione sovietica. (fv)

1)"Impiccate pure Nagy, ma solo dopo le elezioni politiche in Italia. Così il PCI non perderà voti." E' quello che si legge nel verbale di un incontro a Mosca tra Togliatti e Kadar. E infatti si votò il 25 maggio 1958 e Nagy fu ucciso il 16 giugno.
Federico Argentieri
E Togliatti lodò la «lotta eroica» contro gli insorti di Budapest

Il sessantesimo della rivoluzione ungherese offre l’occasione per discutere lo stato delle nostre conoscenze sul 1956, specie sulle ripercussioni italiane. È però necessario premettere che alcuni fatti documentati vengono ignorati, il che ritarda il processo di acquisizione di una visione complessiva.

Primo esempio: nel libro Un nocciolo di verità (La Pietra, 1978), poco diffuso e quasi mai citato, l’autrice Felicita Ferrero testimoniò la presenza a Budapest di Aldo Togliatti, figlio di Palmiro, durante l’estate del 1956. L’ottimo e recente studio di Massimo Cirri Un’altra parte del mondo (Feltrinelli, pp. 352, e 18) richiama la nostra attenzione: in effetti, «Aldino», che soffriva di gravi problemi psichici, era in cura presso i medici ungheresi. Non è dato sapere quando esattamente rientrasse in Italia: sembra essere un segreto ottimamente custodito. È però probabile che la vicenda abbia svolto un ruolo nella fredda e rabbiosa determinazione con cui suo padre reagì alla rivoluzione magiara, dapprima invocando e poi festeggiando la sua repressione da parte delle truppe sovietiche.

Secondo esempio: in uno studio scrupolosamente documentato e mai citato, Oro da Mosca (Mondadori, 1999), Valerio Riva e Francesco Bigazzi pubblicarono un documento che dice molto, il cui originale si trova nell’archivio moscovita chiamato Rgani: una «nota spese» datata 4 dicembre 1956 di Boris Ponomariov, responsabile Pcus dei rapporti coi partiti fratelli, in cui si sottoponeva all’approvazione di Krusciov e compagni l’elargizione di due milioni e mezzo di dollari al Pci, la metà al Pcf e via calando. È evidente che, in presenza di tale documento, la retorica sui «capolavori» di Togliatti e sulla «via italiana al socialismo», consacrata qualche giorno dopo dall’VIII Congresso del Pci, acquisisce un significato diverso.

Passando agli inediti, è da registrare che ne manca all’appello almeno ancora uno: il verbale della riunione tra Krusciov e i dirigenti dei Paesi satelliti svoltasi a fine giugno 1956, dopo il lungo viaggio effettuato da Tito in Urss, durante la quale furono comunicate le condizioni appena concordate per la riappacificazione tra Mosca e Belgrado.
Tra queste vi era probabilmente la rimozione di Rákosi dai vertici ungheresi e forse anche la riabilitazione di László Rajk, la principale vittima dei processi-farsa contro il «titoismo», poi avvenuta il 6 ottobre e definita da Togliatti «una follia».
In attesa (probabilmente lunga) che l’archivio presidenziale russo ridiventi disponibile, è da registrare il verbale del colloquio tra Togliatti e Kádár, il leader ungherese installato al potere dai sovietici, svoltosi nel novembre 1957 a Mosca.
Oltre a chiedere l’ormai celebre rinvio dell’esecuzione di Nagy (il primo ministro portato al governo dalla rivolta di Budapest) a dopo le elezioni italiane del 1958, il capo del Pci disse di conoscere quest’ultimo «fin dal 1935 e di non considerarlo una persona seria». Al termine, Togliatti si congratulò con Kádár per la «lotta eroica» da lui guidata nel 1956: dal modo in cui è scritto il verbale e dall’assenza di una risposta, si deduce che questo commento creò comprensibile imbarazzo.

Il Corriere della sera/La Lettura – 16 ottobre 2016

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2) Sessanta anni fa Asor Rosa fu tra i firmatari del “Manifesto dei 101” intellettuali legati al Pci che solidarizzarono con gli insorti ungheresi. In un'intervista racconta quei giorni. Ne esce, per l'ennesima volta, smentito il mito dell'Ingrao “eretico”. Il dirigente comunista fu tra i più duri nel reprimere il dissenso interno.

Asor Rosa

Budapest 1956, i giorni che sconvolsero il mio mondo
intervista di Mirella Serri

«Entrammo nella sede romana dell’Unità, in via 4 Novembre, pieni di speranze e di attese. Facevo parte della delegazione di professori e studenti incaricata di consegnare al giornale un documento che prendeva di petto una questione cruciale: sollecitavamo il Partito comunista ad avviare una discussione su quanto stava accadendo a Budapest». Alberto Asor Rosa ricorda così quei convulsi giorni della rivolta ungherese del 1956, quando i blindati sovietici schiacciarono le speranze del paese satellite dell’Urss che chiedeva libertà culturali, economiche e politiche. Proprio in questo mese ricorrono i 60 anni dalla rivoluzione che, iniziata il 23 ottobre, segnò per la prima volta una fino ad allora impensabile cesura nel mondo comunista, e in cui morirono circa tremila ungheresi e quasi mille soldati sovietici, mentre fuggirono all’estero 250 mila persone.

Lo storico della letteratura aveva all’epoca 23 anni, era in procinto di laurearsi e fu uno dei firmatari del manifesto dei 101 intellettuali del Pci che decisero di non piegare la testa e di esprimere solidarietà con gli insorti. Quella firma siglò, però, una svolta radicale anche nella sua vita: l’anno successivo il futuro professore uscì dal partito di Togliatti, a cui aveva aderito quando aveva 20 anni, e vi rientrò solo venti anni dopo.





«Mi iscrissi dopo la morte di Stalin. Il rapporto di Nikita Krusciov al XX Congresso del Pcus del febbraio 1956, in cui si denunciavano i crimini del dittatore, ci fece in seguito respirare un’aria di apertura e di cambiamenti. Mario Tronti e io, per esempio, pubblicammo sulla rivista Il contemporaneo di Carlo Salinari un saggio sui problemi del marxismo per nulla allineato ai dogmi del Pci. Ero iscritto alla storica sezione universitaria Italia, nei pressi di piazza Bologna, di cui facevano parte docenti e studenti, e mi trovavo a discutere a fianco di professori che stimavo molto, come Carlo Muscetta e Natalino Sapegno, a cui si aggiungevano Tronti, Alberto Caracciolo, Lucio Colletti, Piero Melograni e tanti altri».

Come reagiste quando si diffuse la notizia della rivolta?

«Dopo riunioni fiume in sezione, stilammo il documento che chiedeva più democrazia ed esprimeva il sostegno ai ribelli. All’Unità ci ricevette il direttore, Pietro Ingrao, che era considerato un leader molto sensibile alle sollecitazioni della base».

Anche alle vostre richieste?

«Macché. Fu di una durezza senza pari, non fece nessuna concessione: obbediva al mandato che veniva dal vertice di stroncare qualsiasi deviazione dalle prese di posizione ufficiali. “In Ungheria”, ci disse, “si combatte una battaglia per la difesa nel sistema socialista nel mondo, e per questo non possiamo avere alcuna indulgenza”».

Ingrao pubblicò sull’Unitàl’editoriale «Da una parte della barricata» in cui appoggiava i sovietici. Successivamente farà ammenda.

«Con noi non ebbe esitazioni. Convocato dalla nostra sezione, ribadì il suo punto di vista. Mentre ascoltavo il suo intervento non percepii i dubbi di cui parlerà anni dopo: ma il suo atteggiamento è comprensibile, esisteva un vero culto per l’unità e la compattezza del partito».

La bozza di documento proposta all‘Unità dal gruppo universitario romano diventerà la base del manifesto dei 101 intellettuali messo a punto da Muscetta nella notte tra il 28 e il 29 ottobre (lo firmeranno anche Renzo Vespignani, Enzo Siciliano, Elio Petri, Renzo De Felice, Carlo Aymonino, Luciano Cafagna e tanti altri ancora) e sarà diffuso dall’Ansa. Non farà invece la sua apparizione sul giornale di Ingrao.

«Quando verrà arrestato e poi condannato a morte il presidente del Consiglio ungherese, Imre Nagy, che aspirava a nuove relazioni con l’Occidente, decisi per l’addio al Pci», commenta Asor Rosa. «Quelle giornate della ribellione magiara furono passionali e coinvolgenti, prenderanno corpo legami che dureranno tutta la vita, come quelli con Tronti e con Bianca Saletti che firmò il manifesto e che diventerà mia moglie. Abbiamo vissuto in un clima totalizzante nel quale il pensiero delle scelte da prendere, notte e giorno, non ci abbandonava mai. Ci sentivamo in trincea».

Un «eremita del socialismo»: così Italo Calvino, che nell’agosto 1957 darà anche lui le dimissioni dal Pci, diceva di sentirsi dopo lo strappo dalla grande famiglia comunista che era stata da poco abbandonata anche da Antonio Giolitti. È capitato anche a lei?

«Ho sempre avuto presenti le immagini degli operai ungheresi che si ribellavano per una giusta causa. Noi intellettuali, però, abbiamo percepito l’estraneità della gran massa degli iscritti al Pci alle nostre istanze. Basta un esempio: nella sala riunioni della sezione Italia si accedeva attraverso un corridoio spesso affollato da militanti, operai e conducenti dell’Atac. Avvertivamo nei nostri confronti - gli eretici che volevamo demolire il potere socialista - la loro riprovazione. Il mio nuovo approdo sarà la rivista socialista Mondo operaio, diretta da Raniero Panzieri che aveva duramente criticato la reazione sovietica. Dopo il 1956 il Pci cominciò, però, a orientarsi verso un percorso più liberale e tollerante».

La Stampa – 9 ottobre 2016

S. ATZENI, Come posso non amarti?

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Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo

Nei tuoi fianchi materni grazia di passo
di cerva giovane all’abbeverata


nel sorriso ciottoli di stelle profumati
di mandorli in germoglio


negli occhi di lupa che allatta
pace chiara

o negro fuoco di baccante in danza sacra
se la pupilla si allarga di passione.


Come posso non amarti?
Si, sono vecchio di scafo, ho passato burrasche,
sbattuto su scogli e memorie

ma vele nuove l’onda
infida spesso sommerge

e non per una pesca d’alba
ti chiedo compagnia
ma fino all’imbrunire e per cantare.


Sergio Atzeni

L'ETERNITA' SECONDO RIMBAUD

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" Ho trovato l'eternità: è il sole in comunione con il mare "
Arthur Rimbaud



LU RE BEFE', VISCOTTO E MINE'...

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Questa antica filastrocca siciliana l'ho appresa tanti anni fa da mia nonna Ciccina Nicolosi. Esistono tante versioni della stessa filastrocca. Tutte, comunque, contengono una velata critica al re, ossia ai potenti che non mantengono mai quanto promettono:

Lu re befè, viscotto e minè

– C’era nà vota un Re, befè, viscotto e minè, chi avja nà figghia, befigghia, viscotto e minigghia, chi ajia n’acceddu befeddu, viscotto e mineddu.
Un gnjiorno l’acceddu, befeddu, viscotto e mineddu dà figghia befiglia, biscotto e miniglia del re befè, biscotto e minè volò. Ahi, comu chiancia, a figghia befiglia, biscotto e miniglia dù re befè, biscotto e minè!
Allora ù re befè, biscotto e minè risse:
“A ccu mi porta l’acceddu befello, biscotto e minello io ci fazzu maritari mè figghia befiglia, biscotto e miniglia!”.

E vinni un cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso chi disse:
“Ecco, re befè, biscotto e minè, io ti purtavi l’acceddu befello, biscotto e minello di tò figlia befiglia, biscotto e miniglia del re befè, biscotto e minè, ora mi là ddare pì mugghieri!”.

U’ re befè, biscotto e minè chiamò a figghia befiglia, biscotto e miniglia, ma chidda, quanno vitte ddul cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso risse:
“Io sugno a figghia befiglia, biscotto e miniglia dù re befè, biscotto e minè e un mi marito a ddu cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso, mancu si mi purtò l’acceddu befello, biscotto e minello!”.

Allura ù cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso raprìo ii ita e l’acceddu befello, biscotto e minello ddà figghia befiglia, biscotto e miniglia del re befè, biscotto e minè, volò … –

GLI SCHIAFFI DI ARDENGO SOFFICI AL 900

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Soffici e il Novecento. A Firenze una mostra ricostruisce l’opera (e le polemiche) del critico-pittore. Accanto alle tele di Courbet e di Segantini, anche Cézanne che insegnò all’artista a vedere le cose da una prospettiva moderna. A noi la sua figura piace perchè, pur nell'estrema diversità delle posizioni politiche, ne apprezziamo la grande coerenza. Critico verso il regime negli anni della guerra e della sconfitta (ma non verso Mussolini che seguì con Marinetti a Salò), non nascose mai il suo pensiero di fascista disincantato ma convinto. Uno "schiaffo al secolo", appunto.

Roberta Scorranese
Schiaffo al secolo

Quanti schiaffoni sbatacchiano il primo Novecento. «Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno», recita il Manifesto dei Futuristi, italianissimo ma uscito su «Le Figaro» nel 1909. Schiaffi dipinti, quelli della Rissa in galleria di Boccioni, dell’anno dopo, e schiaffoni veri, quelli che nel 1911 lo stesso Boccioni assesterà in faccia a un critico secco e sulfureo, seduto in un caffè di Firenze e reo di aver definito «delusione sdegnosa» la mostra dei Futuristi allestita a Milano. Ecco, Ardengo Soffici, il critico preso a ceffoni, è la somma di tutti questi schiaffi.
Nato nel 1879, il fiorentino aveva appena un anno in più di Guillaume Apollinaire ma l’irruenza di una lingua che prova a cimentarsi con la violenza è la stessa. È un verme crepuscolare che si raggricchia in una goccia di fosforo/ Ogni cosa è presente, scrive il ragazzo di Rignano sull’Arno che a 21 anni, sul principio del secolo, se ne va a Parigi, affrontando mesi di «miseria, freddo e fame», come scriverà. Che cosa cercava? Uno schiaffo, ovviamente.
Non era soltanto l’ansia della rottura con la tradizione, che attraverserà buona parte del movimento futurista. Soffici rimase sempre molto legato alla sua terra e ai suoi riti. Lo «schiaffo» che cercava era piuttosto uno strumento, un modo di comprendere e raccontare il mondo che stava cambiando. Perché, a Parigi, il giovane Ardengo non aveva solo cercato di «proporre qualche disegno più o meno spiritoso ai giornali umoristici o licenziosi». Aveva anche studiato da vicino artisti come Paul Cézanne, al quale dedicherà uno scritto denso in «Vita d’arte», nel 1908. Soffici, che non era solo un pittore ma era anche uno scrittore, un elaboratore di teorie, notò la grande novità cezanniana: lo sguardo simultaneo sulle cose, il mostrare la realtà non come è (la prospettiva rinascimentale) e nemmeno soltanto come potrebbe essere (l’impressionismo), bensì come la vediamo noi. Le mele disposte in modo irregolare sopra a un tavolo (che secondo i dettami brunelleschiani potrebbero cadere da un momento all’altro), sono il modo con cui noi, sporgendoci al di sopra, le possiamo osservare realmente, con i nostri limiti come la posizione o il campo visivo.
Soffici capì che il solo concetto di velocità (che pure innervava tutto il Futurismo) non bastava a spiegare il mondo che stava nascendo. Nel saggio del 1920 Primi principi di una estetica futurista, del 1920, accenna a questo superamento e parla di un mondo che doveva Assonanze In alto Paul Cézanne, Paesaggio, 1885-1887. Sotto, Ardengo Soffici, Natura morta, 1939 tenere conto della simultaneità (pensiamo a quanto è importante oggi) e delle conseguenze stesse della velocità, come il fatto che qualcuno deve necessariamente rimanere indietro (e oggi la globalizzazione dimostra dolorosamente l’esattezza di questa intuizione). Soffici comprese che lo «schiaffo» vero del Novecento non poteva accontentarsi di uccidere il passato. Deve anche preparare una nuova sensibilità, pronta ad affrontare i cambiamenti.
Così anche la sua veste critica non si fermò mai alle stroncature, come dimostra Scoperte e massacri - Scritti sull’arte, la raccolta di articoli per La Voce e Lacerba che dà il titolo alla mostra degli Uffizi — uscita nel 1919 da Vallecchi. Un testo in cui, sì, c’erano ceffoni (critiche anche a Michelangelo), ma dove c’era anche il tentativo di rifondare l’arte con Courbet, Rosso o l’amato Cézanne.
Fu questa lungimiranza astorica che lo portò a vedere nei dipinti di Rousseau il Doganiere un rimando alla purezza del quattrocentesco Piero di Cosimo e ad apprezzare quelle tele del francese che pochi volevano? Fu questa sensibilità fuori dal tempo a farlo scendere in campo, nel 1955, per la liberazione di Ezra Pound? — il poeta era stato rinchiuso nel manicomio criminale di Washington dopo il sostegno al regime fascista.
E chissà quale demone dell’inconscio lo indusse a smarrire la preziosa copia dei Canti Orfici che l’amico Dino Campana gli aveva amorevolmente messo nelle mani. Per la cronaca: Campana dovette fare appello alla sua malandata memoria e ricostruire da zero l’opera più importante della sua vita, che poi uscì nel 1914. Scoperte, massacri e messaggi subliminali. L’amico Prezzolini lo aveva detto chiaro: «Va preso e lasciato com’è, Soffici, seddiovole».

Il corriere della sera/La Lettura – 2 ottobre 2016


PALERMO, MONACO ESORCISTA ARRESTATO

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Palermo: esorcista arrestato per violenza sessuale. Il diavolo, talvolta, veste prete.

Lara Pan

LA SINISTRA OGGI NON ESISTE

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Senza strategia la tattica è solo gestione del quotidiano, mero galleggiamento. Ma la strategia si basa su un'attenta analisi del terreno e delle forze in campo, nel nostro caso della questione sociale. Non lo capisce una sinistra chiacchierona e inconcludente, incapace di iniziativa autonoma  e costantemente a rimorchio delle situazioni, che di fatto rappresenta la versione confusa e massimalista della vulgata corrente. Lo si vede anche nella gestione della campagna referendaria e nei ripetuti tentativi, sempre falliti, di costruire un nuovo soggetto politico, Rete a Sinistra, Sinistra Italiana o come lo si voglia chiamare. Incapace di contrastare realmente Renzi, come ieri Berlusconi, questa sinistra inesistente consegna la rappresentanza politica della protesta a Grillo e a Salvini.
Paolo Favilli

La sinistra e l’inedita questione sociale dei nostri tempi

E’ naturale che la questione referendaria sia al centro dell’attenzione. Gli esiti influiranno, e non poco, sui modi in cui ci sarà (o meno) «vita a sinistra». Tuttavia una cesura elettorale, per quanto importante, non è né un inizio, né una fine. C’è una storia prima di questa nostra sinistra, ci sarà anche dopo. Quale, in parte, dipende da noi e, in parte, il prima e il dopo si riflettono anche sui modi in cui affrontiamo il referendum.

Non molto tempo fa si è svolta su questo giornale un’interessante discussione sulla «morte della politica» a partire dalle questioni che Alberto Burgio ha argomentato in un articolo (il manifesto, 4 agosto), e poi sviluppato in altri interventi. La discussione ha dimostrato che le capacità analitiche della sinistra non sono morte ma anche le difficoltà di muoversi a partire da un centro argomentativo «radicale». E la sinistra politica «radicale», per lo meno in una sua gran parte, sembra addirittura non riuscire a pensare le «radici» dei problemi economico-sociali che abbiamo di fronte.




Stefano Fassina ha scritto recentemente che Sinistra Italiana è avviata «inerzialmente verso un congresso rituale, senza ragioni fondative adeguate» (il manifesto, 3 settembre). Ebbene, senza ragioni in grado di mettere a fuoco una dimensione analitica diversa rispetto a quella dei partiti establishment, qualsiasi organizzazione politica di sinistra, anche micro, non può che riproporre la consueta ritualità delle manovre di posizionamento dei gruppi dirigenti, la stucchevole misurazione del grado di distanza rispetto al partito cardine dell’establishment: il Pd. Puri e semplici «balletti» come recitava un efficace articolo di Daniela Preziosi.

Balletti che riguardano solo i destini personali di una piccola parte di ceto politico. Indice importante, come sempre, l’uso della terminologia dei ballerini. Uno di questi parla della necessità di non dividere le «anime progressiste». Due termini del tutto indeterminati che messi insieme accentuano il nulla conoscitivo dell’espressione, il suo carattere di «neolingua». A parte il segnale politico, naturalmente: la mossa del balletto, un passo verso future coalizioni «progressiste».

Gli ultimi vent’anni hanno visto coalizioni «progressiste» al governo del paese per circa il 50% del periodo. Gli ultimi vent’anni hanno visto uno spostamento imponente della ricchezza prodotta e di quella accumulata dalla sfera dei salari a quella dei profitti e della rendita. Hanno visto altresì una compressione drastica della sfera dei «diritti», cioè una regressione del processo democratico. Non è che tale tendenza abbia avuto un andamento a zig-zag, con mutamenti di verso durante i governi «progressisti».
Tra «progressisti» e «non progressisti» sulle questioni di fondo riguardanti il rapporto economia-società non ci sono mai state divergenze interpretative. Medesimo, alla radice, il modo di leggere le dinamiche in corso: i fenomeni macroeconomici sono equiparabili ai fenomeni naturali e dunque non ci sono alternative al loro libero svolgimento. Al massimo i governi politici possono esercitarsi sulle diverse tonalità del capitalismo compassionevole.

Di fronte a questa realtà quali sono le «ragioni fondative adeguate» per la nostra sinistra? Abbiamo davanti una gigantesca, e per certi versi inedita, «questione sociale». Affrontare la centralità della «questione sociale» è la nostra ragione fondativa per eccellenza, è il senso stesso del ruolo della nostra storia nella lunga, ed ancora in corso, età contemporanea.

La «questione sociale» dei nostri tempi è inedita, come ho detto, ma nello stesso tempo ha tratti antichi, addirittura ottocenteschi. Polarizzazione e centralizzazione della ricchezza e contemporanea creazione di povertà sono i fenomeni originari, anch’essi in qualche modo fondativi, del modo di produzione capitalistico contemporaneo. Sono i fenomeni che hanno causato le domande fondamentali e un’imponente teoria critica. Solo su queste basi è stato possibile per i subalterni essere protagonisti di quella grande storia dell’emancipazione di cui vogliamo essere eredi.

Oggi la «questione» sociale» si manifesta anche con tratti che in quella storia non sono mai stati presenti. La nostra comprensione di questo nuovo è possibile solo se ragioniamo in termini di fasi di accumulazione di capitale, in particolare se ragioniamo sui caratteri dell’odierna fase di «accumulazione flessibile». Qui stanno le radici analitiche di cui abbiamo bisogno. La loro traduzione in politica è cosa certamente complessa, ma i «balletti» non sono un’alternativa. Anche il nostro No alla manomissione della Costituzione, in fondo, deve avere le sue radici nei modi pervasivi in cui nel nostro tempo si declina la «questione sociale».
il manifesto – 21 ottobre 2016

UNA NUOVA MOSTRA D'ARTE AL CASTELLO DI MARINEO

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Foto di Maria Ribaudo


La Mostra è visitabile fino al 16 novembre. Ingresso libero.

E. CARDENAL, Quando ti ho perduta

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Opera di Marzia Acquaro esposta al Castello di Marineo 


Quando ti ho perduta entrambi abbiamo perduto
io, perché tu eri ciò che amavo di più
tu, perché io ero quello che ti amava di più.
Perciò, tra noi due tu hai perso più di me:
perché io potrò ancora amare un'altra come amavo te
mentre tu non sarai amata da nessuno come ti amavo io.

Ernesto Cardenal 
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