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Channel: CESIM - Centro Studi e Iniziative di Marineo
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STATO E MAFIA OGGI

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All'indomani del  venticinquennale retorico ricordo della strage di Capaci voglio segnalare due episodi:

1. Ieri, nel corso dei cortei commemorativi, la polizia ha sequestrato uno striscione in cui si trovavano scritte queste parole: VOI NON SIETE STATO, SIETE STATI VOI.

2. Nella stessa giornata Fiammetta Borsellino, figlia del Giudice Paolo, ha detto: "Con forza dobbiamo pretendere la verita'.  Non una verita' qualsiasi o una mezza verita' ma una vetita' che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime - come mio padre le defini' - che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare due veri servitori dello Stato."

PACO IGNACIO TAIBO II, Una spia a Parigi nel 1871

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Paco Ignacio Taibo IIricostruisce  la storia di una spia durante la “gloriosa” Comune.

Paco Ignacio Taibo II

Parigi 1871 caccia al fantasma

Rimasi colpito, leggendo “La Comune” di Louise Michel, da un misterioso accenno: “Vaysett, per meglio cospirare, aveva a Parigi sette domicili”. Non avevo mai sentito parlare di questo Vaysett, ma che godesse di sette domicili mi sembrava un bel vanto, anche per una spia di Versailles e anticomunarda. Diedi per scontato che si trattasse di una metafora. Spinto dalla curiosità, tuttavia, andai nel garage di casa mia, dove c’è lo scaffale comunardo della mia biblioteca, e mi sono messo a cercare Vaysett. La ricerca mi portò al nome di Vaysett George e alla fine che fece, fucilato dai “Vengeurs de Flourens” negli ultimi giorni della Comune. Prima di essere fucilato, lanciò una strana minaccia: «Risponderete della mia morte davanti al Conte di Fabrice », che, a quanto pare, era un ufficiale prussiano e non un capo dello spionaggio di Versailles. I dati forniti da Jules Tallandier nel 1871 assicuravano che la fucilazione aveva avuto luogo sul Pont Neuf, il famoso nono ponte, dove una volta mi ha portato per mano Julio Cortázar in Le armi segrete. Place Dauphine è la punta dell’Île Saint-Louis. Il sesso di Parigi, secondo Breton. Ricordo che proprio lì mi aveva fatto una foto Daniel Mordzinski. Aveva scelto inconsapevolmente il luogo della fucilazione per fotografarmi?
Messo da parte il ponte, tornai al personaggio. Diverse ore più tardi, avevo chiarito che Vaysett era stato scoperto mentre tentava di comprare il generale comunardo Jaroslaw Dombrowski, quel meraviglioso polacco dai baffi sottili che si era formato in una scuola militare per nobili a San Pietroburgo, aveva partecipato all’insurrezione popolare di Varsavia e, divenuto generale della Comune, era morto sulle barricate a 33 anni, dando poi il suo nome, molti anni dopo, alla XIII Brigata Internazionale che combatté nella guerra di Spagna. Era troppo per la mia anima inesistente: una spia che ha sette case, fucilata sul Ponte di Cortázar per aver tentato di comprare Dombrowski. Finii col leggermi tutto quello che c’era sulla XIII Brigata e la battaglia di Teruel. Passarono i giorni.
Nella History of the Commune of 1871 di Eleanor Marx Aveling, la figlia di Marx racconta che Vaysett usò come intermediario per arrivare al generale comunardo un suo aiutante di campo, Hutzinger, che era stato una spia della polizia tra gli esiliati londinesi, e che dunque doveva aver conosciuto da bambina, nelle riunioni che si facevano a casa di suo padre. Lo sguardo della bambina sulla spia, che era l’aiutante dell’altra spia? Vaysett offrì 500 mila franchi, secondo alcuni, un milione e mezzo secondo gli esagerati e diecimila secondo i moderati, a Dombrowski perché ritirasse le sue truppe consentendo l’apertura di una delle porte di Parigi per lasciar passare i versagliesi. Al generale comunardo veniva offerto un salvacondotto e il pagamento in biglietti della Banca di Francia o con un pagherò della casa Rothschild di Francoforte. Veysett sarà denunciato, arrestato, fucilato.

Accidenti. Questa è una storia, il frammento di un romanzo? Niente? Ero sul punto di arrendermi e di lasciare la cosa nell’armadio virtuale dove conservo i materiali che un giorno dovranno trovare un destino migliore, quando in un ottimo studio di Bernard Vassor compare la lista delle case usate dalla spia Vaysett... Solo che sommandoli non abbiamo quei sette e presumibilmente metaforici domicili di Louise Michel, ma nove! A che gli servivano nove case? Sono tentato di andare a vedere quelle strade prendendo come guida i romanzi dei Pardaillan di Zevaco. Per fortuna, mi fermo. [...] Un giorno in cui sembra che quello che scrivo non voglia farsi raccontare, torno erraticamente su questa storia e provo a cercare in rete con altre ortografie. Veysett/ Vayset/Vaysset/Veysset?
Alleluia. Trovo uno studio di P. Martínez sugli esuli e le spie nella English Historical Revue, un testo della vedova, il ritaglio di un giornale di provincia degli Stati Uniti che riprende una nota di agenzia, versioni piuttosto conservatrici sulla Revue des deux mondes. Uso il mio tesserino della Biblioteca di New York per accedere a versioni complete e leggibili di questo materiale.

La versione anticomunarda lo descrive come un uomo “intraprendente, energico e abile”, un agricoltore di 50 anni (agricoltore?) tenuto d’occhio dalla polizia comunarda di Raoul Rigault per un certo tempo finché era riuscito a depistarla. Quando viene denunciato il tentativo di corrompere Dombrowski tramite Hutzinger e sua moglie, signora Frossard, cominciano a cercarlo; perquisiscono la casa di rue Caumartin, arrestano sua moglie, più tardi viene denunciato dal portiere di una delle sue tante altre case mentre si trova all’Hotel Le Lapin Blanc a Saint-Denis (decimo domicilio), lo arrestano, dice di chiamarsi Jean, non Georges.

Stranamente, emerge dagli interrogatori un nuovo indirizzo “dove si tenevano le riunioni più importanti”: rue de Madrid numero 29. Compare nella storia Théophile Ferré. Grazie al Dictionnaire de la Commune de Paris di Georges Darboy posso precisare la sua biografia: militante blanquista e forse impiegato in uno studio legale, condannato quattro volte durante il Secondo Impero per le sue opinioni politiche, membro del 152° battaglione della Guardia Nazionale, delegato del comitato centrale repubblicano dei venti circondari (arrondissements) con Louise Michel. Dirige la difesa dei cannoni di Montmartre del 18 marzo. Mi fermo. Cerco la straordinaria versione a fumetti dell’insurrezione di Tardi e Vautrin, L’urlo del popolo; quando finisco i quattro volumi mi sono scordato perché sono tornato in modo così ossessivo sulla Comune (non torniamo tutti sulla Comune di Parigi, madre di tutte le sinistre?).

Passano i mesi, casualmente torno su Veysett. È il 24 maggio, lo stesso giorno in cui Ferré ordina la fucilazione dell’arcivescovo di Parigi, che poi giustificherà la sua futura esecuzione nel novembre del 1871? Accade che il responsabile della Sicurezza e membro del comitato centrale della Comune, con un plotone dei Vengeurs de Flourens, tira fuori l’uomo delle undici case dal deposito in cui è detenuto. Lo portano al Pont Neuf, accanto alla statua di Enrico IV. Ferré dice a Georges Veysset: “Sarà fucilato. Ha qualcosa da dire?”. E Georges risponde: “La perdono”. Quattro uomini scaricano i propri fucili, il cadavere viene gettato oltre il parapetto nella Senna. “Questa è la giustizia del popolo”, avrebbe detto Ferré. Tutto ciò dove mi porta? Non ne ho la minima idea.

Traduzione di Luis E. Moriones

La repubblica – 12 maggio 2017

M. RECALCATI, L' infanzia perduta del mondo

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Come non perdere umanità e mantenere viva la speranza.

Massimo Recalcati

L'infanzia perduta del mondo

L'obiettivo tragicamente chiaro: uccidere nel mucchio le vite dei nostri figli in un luogo di festa. Lo strumento terribilmente noto: una bomba cieca costruita per fare a pezzi i loro giovani corpi offrendoli al Dio pazzo e sanguinario che vuole la morte degli infedeli. E noi? Noi che restiamo attoniti di fronte a questa orrida malvagità? Non siamo solo esposti allo sgomento della nostra vulnerabilità impossibile da proteggere, al fatto semplice e brutale che niente può garantirci una sicurezza adeguata se il “nemico” ci colpisce in questo modo moltiplicando infinitamente i nostri punti sensibili. Siamo anche investiti di una responsabilità enorme.

Cosa fare, cosa dire di fronte all’angoscia dei nostri figli? Quale responsabilità hanno gli adulti che osservano impotenti lo scempio compiuto sulle vite innocenti? Cosa possiamo fare per aiutare quelle vite che non sono state spezzate dalla violenza assurda della morte?

L’obiettivo del narcisismo folle del terrorista islamico è quello di generare angoscia. Colpire l’innocente è colpire tutto il mondo. In gioco non è solo la punizione dell’Occidente corrotto, ma la chiusura, l’annientamento dell’orizzonte stesso del mondo. Dopo ogni attentato dove i nostri figli muoiono, muore con loro anche un pezzo di mondo. Dopo ogni attentato l’orizzonte del mondo si restringe, la libertà si riduce, si contrae, non è più libera. Siamo tutti, a causa della follia terrorista, nella condizione paradossale di vivere in una sorta di libertà prigioniera. È questo il vero messaggio di morte che il terrorismo ogni volta rinnova soprattutto quando stronca la vita nel pieno della sua giovinezza.

La nostra prima responsabilità è fare in modo che questo lutto possa diventare davvero collettivo. Ma cosa significa? Condividere il lutto — renderlo collettivo — significa condividere un dolore sordo che vorrebbe separarsi e allontanarsi da tutto, significa continuare a scegliere l’apertura del mondo alla tentazione della sua chiusura.

È il terrorismo che vuole il muro, la guerra, lo scontro, il conflitto senza tregua. È il terrorismo che vuole che il mondo si chiuda, che perda la sua apertura. Condividere il lutto significa allora preservare il mondo come un luogo aperto del quale non si deve avere paura. Come accade in quel noto esperimento di psicologia evolutiva dove si invita un bambino piccolo a gattonare verso un precipizio illusorio.

Se il volto della madre che lo osserva reagisce con un’espressione di spavento, il bambino si blocca e si mette a piangere disperatamente. Se, invece, la madre risponde con un sorriso il bambino, dopo un attimo di esitazione, riprende a gattonare attraversando felice e sicuro il precipizio. La paura è dissolta. Ecco la responsabilità che ci investe: dare prova di saper resistere, di fronte allo sguardo impaurito dei nostri figli, alla tentazione della chiusura.

Nella vita dei nostri figli — nella vita dell’innocente — è custodito il segreto del mondo. La vita dei nostri figli coincide con l’avvenire, con il dono, con la vita stessa del mondo. Sopprimerla è voler sopprimere la vita del mondo. Tenere aperto il mondo è, dunque, la sola possibilità di continuare a fare vivere i nostri figli. Solo se non tutto è morte, la vita può avere ancora un senso.

Questo non significa sottovalutare il delirio teologico che ispira questi assassini. Il loro mondo vorrebbe sopprimere il mondo in quanto tale. È la manifestazione più odiosa del fondamentalismo. Essi ci dicono: «Il tuo mondo non vale nulla, è fatto di concerti e cose frivole, è fatto solo di polvere; il solo mondo che conta è il mondo al di là del mondo dove i martiri saranno ricompensati illimitatamente del loro sacrificio». Ecco, noi siamo, invece, quelli che abitano il mondo. È questa la prova che dobbiamo sostenere per amore dei nostri figli: mostrare loro che questo mondo fatto di polvere è in realtà anche ricco di luce, che non tutto è morte.

Si tratta di testimoniare più che spiegare. Testimoniare cosa? Testimoniare l’apertura e non la chiusura del mondo. Come? Non avendo paura, rifiutando l’angoscia, respingendo la rassegnazione. Mostrare che la morte non è l’ultima parola sulla vita. Non lasciare che l’illusione teologica dei terroristi trasformi il nostro mondo in un luogo di polvere e di paura.

Di fronte al flagello inesorabile dell’epidemia che trascinava con sé le vite di bambini innocenti, il padre gesuita Paneloux, uno dei protagonisti del romanzo “La Peste” di Camus, distingueva gli uomini in due tipi: quelli che fuggono dal dolore e dalla malattia e quelli che restano. Condividere il lutto — fare del lutto un evento collettivo — significa mettersi, di fronte agli occhi smarriti dei nostri figli, dalla parte di quelli che sanno restare, che sanno, appunto, mantenere sempre aperto l’orizzonte del mondo.

La repubblica – 24 maggio 2017


HIPPY REVOLUTION

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Nella confusione psichedelica della nostra giovinezza c'è stato spazio anche per la beat generation, i romanzi di Kerouac, le poesie di Ginsberg, le camicie a fiori e il sogno di una San Francisco assolata e libera. Un libro ricostruisce quella storia.

Massimo De Feo

Hippy sapiens sapiens

Con Hippy Revolution (Edizioni 24 Ore Cultura, 154 p.) Matteo Guarnaccia torna all’estate del 1967 per raccontare, a chi non l’ha vissuta in prima persona e a chi ha bisogno di una ripassata, fatti, personaggi e storie della reale Summer of Love. É un libro-oggetto molto illustrato dalla psichedelica mano del suo autore, dagli anni 70 tra i pionieri della nuova arte visionaria, grafico, pittore, scrittore, psiconauta, grande viaggiatore e parecchie altre cose ancora.

La Beat Generation, gli hippies, il jazz, il rock, gli happenings, le droghe, la rivoluzione sessuale, le comuni, la California, l’Oriente, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam… ad ogni pagina un disegno in bianco e nero da colorare e/o ritagliare, in cima a ogni capitolo una canzone da indovinare, a chiusura del manuale un Gioco dell’Oca per hippies doc.

Nel 1967 all’Human Be-In erano in 30 mila nel Golden Gate Park a San Francisco quando Timothy Leary pronunciò la famosa frase «Turn on, tune in, drop out» (più o meno: accenditi, sintonizzati, lasciati andare).
Come si è «acceso» Matteo Guarnaccia?

È stata fondamentale l’epifania cromatica delle copertine dei dischi, che mi hanno messo in contatto con mondi alieni eppure così vicini al mio sentire. Ascoltando le copertine di artisti come Rick Griffin (Aoxomoxoa), Martin Sharp (Disraeli Gears) o Peter Blake (Sgt. Pepper) e guardando la musica dei Dead, dei Cream e dei Beatles, ho iniziato a tendere le antenne, anzi devo dire che è stata una bella sorpresa scoprire di essere provvisto di organi sensoriali del genere. Un corto circuito psichico che ha ristabilito il contatto – forte e chiaro – con il prezioso mondo interiore, o con lo sguardo infantile se si preferisce; un contatto che la società conformata – scuola, famiglia, chiesa, tv – stava facendo svanire. Avevo 14 anni, un bel prurito esistenziale e un desiderio di percorrere il lato soleggiato della vita, che di lì a breve mi avrebbe trascinato, in autostop come si usava allora, ad Amsterdam. Un luogo a cui sarò sempre grato per avermi offerto lo spazio «protetto» per ascoltare il colore dei miei pensieri. Lo zeitgeist (spirito del tempo, ndr.) sgambettava felice tra i suoi canali, e avere a che fare con arcobaleni e unicorni era una faccenda quotidiana. Migliaia di pischelli come me sognavano lo stesso sogno, materializzandolo sul posto. Avete in mente la scena del film Woodstock quando inizia a piovere e la gente si mette a cantare insieme «no rain», ecco la situazione era esattamente quella: per qualche anno non ha piovuto – in senso metaforico ovviamente visto che eravamo in Nord Europa.

Invece che perder tempo a seguire il classico copione distruttivo, la gente si impegnava, un po’ stonata, a far funzionare meglio le relazioni tornando a un medioevo idealizzato, formando allegre bande di fuorilegge psichici contro lo sceriffo di turno. Ad Amsterdam ho iniziato la mia rivista psichedelica Insekten Sekte, due parole lette su un muro del Paradiso, un locale multimediale gentilmente concesso dal Comune per attività creative, dai light show ai corsi di cucito ed esoterismo, dai concerti dei Pink Floyd alla pasticceria, che si adattava perfettamente alle dolci tribù mutanti che stavano trasformando la città in disarmo in un centro magico, uscendo come farfalle variopinte dai loro impolverati sacchi a pelo/bozzoli militari. Una lunga estate dell’amore, vissuta in una comune internazionalista su un barcone colorato ancorato in un canale, con tanto di orto rigoglioso e capre stranite sul ponte, senza dormire e perduti in interminabili jam di musica, disegno, meditazione, cucina e carezze. Senza corazze, senza aggressività, bastava uno sguardo per intendersi con gli altri. È stata la prova, al di là del cinismo odierno e della cancellazione della memoria, che gli esseri umani possono trovare un modo di interagire gradevole non dettato dal modello «difesa territoriale, avidità, controllo». Si può realmente fluttuare rilassati e farsi trascinare dalla corrente.

Cosa c’è dietro la formula «sex drug & rock’n’roll»?

Tolta l’ironia dell’omonimo brano di Ian Dury, scritto in pieno periodo punk, rimane una stupida semplificazione giornalistica, che continua a fare danni perché riduce le coordinate di una rivoluzione a un clichè mercantile. Le parole dei Jefferson Airplane, grandi protagonisti della Summer of Love di San Francisco, suonano meglio: «Free love, Free Dope, Free Music». Comunque per correttezza bisognerebbe sostituire il termine «sex» con «intima comunicazione sensoriale e spirituale fra individui». Come si diceva ad Amsterdam: l’amore è stereo il sesso è mono. «Drugs» con «esperienze di stati allargati di coscienza», «rock’n’roll» con «liberazione delle energie creative presenti in ogni essere».
Che rapporti tra il 1967 Usa e il 1968 europeo?

La Summer of Love, nei suoi aspetti più radicali, ha elaborato segnali provenienti dalla scena provo olandese e dal surrealismo, godendo di un margine di manovra sconosciuto in Europa. Da parte sua l’America poteva contare su grandi spazi, un atteggiamento di grande disponibilità verso le novità, la presenza stregata della tradizione nativa americana, uniti alla forza propulsiva e comunicativa del rock’n’roll. La particolarità più evidente, e la differenza con quanto accadrà in Europa l’anno successivo, è una totale refrattarietà alle ideologie politiche (escluso un certo anarchismo alla Thoreau) e la capacità di mettere immediatamente in atto forme di aggregazione spontanea, famiglie allargate su basi solidaristiche e progettuali, figlie dello spirito di frontiera rilanciato dal famoso discorso di John Kennedy. La Nuova Frontiera, recepita dagli spiriti ribelli non come metafora ma come realtà crepitante nel sistema nervoso. Il 1967 californiano è stato uno dei tanti focolai di una rivolta giovanile che si andava diffondendo a macchia d’olio in tutto il mondo.
Gli hippies hanno resuscitato  Dioniso….

Quello che i grandi saggi degli albori della psichedelia avevano intuito, da Hoffman a Huxley, il legame tra l’esperienza con l’LSd e i culti eleusini, veniva messo in pratica nella Summer of Love. I party esperienziali, gli acid test, i be-in, gli happening riproponevano in maniera chiara e inequivocabile il ritorno di Dioniso, un tuffo nello sciamanesimo. «Uno strano lungo viaggio» come cantavano i Grateful Dead. Scosse, Scatenamenti («Shake, Rattle and Roll») perdita dell’ego, fusione nel Tutto, ritorno, consapevolezza… avvenivano non più con la colonna sonora dei cimbali e dei flauti ma con le chitarre elettriche distorte. «Non è morire, non è morire» salmodiavano i Beatles. Erano pittoreschi e pasticciati tentativi di riportare i Misteri nella modernità. Le giovani hippies erano la versioni moderne delle menadi del mondo classico, senza truculenza annessa. Se guardiamo le loro rappresentazioni nelle pitture greco-romane e le foto delle figlie dei fiori nei festival pop, c’è una somiglianza incredibile.
Cosa è rimasto della Summer of Love?

Molto più di quanto comunemente si creda. L’atteggiamento responsabile verso le tematiche ambientali, i diritti delle donne – più dee che suffragette – dei bambini, la tribù più maltrattata del pianeta, e delle minoranze in genere. La percezione di interdipendenza tra tutte le forme di vita, considerare la tenerezza come un valore e non come una debolezza. L’arte intesa come collante sociale, celebrazione e liberazione, non solo decorazione o mercato. La fine della demonizzazione dell’uso di certe sostanze sacre, nella terapia medica e nella ricerca scientifica. Piccoli passi: la scienza abbandona la geometria euclidea e si apre a quella frattale, allo studio dei delfini con John Lilly; la nascita del personal computer con Steve Wozniak, l’inventore della Apple; il Tao della fisica di Fritjof Capra; le terapie psicoanalitiche unite al lavoro sulle energie sottili del corpo dell’Esalen Institute; gli studi sugli stati pre-morte di Stanislas Grof, e la Politica dell’esperienza di Ronald Laing. La rivoluzione hippy continua…
Sei mai stato  a San Francisco?

Certo parecchie volte, avevo dei cari amici che stavano in città. Haight Ashbury in via di gentrificazione ma con ancora nell’aria qualcosa di particolare, deliziose bottegucce, librerie con i pavimenti imbarcati dal peso dei volumi e gattoni pigri che proteggevano i pezzi più desiderati, poeti che vivevano come indiani tra le piante di Golden Gate Park, i disegni di Rick Griffin contemplati con reverenza, il piacere degli incontri pieni di salsedine e buddhismo nelle house boat di Sausalito. Andare a un concerto di gamelan usando un carrello del supermercato come mezzo di trasporto, scivolando giù dalle colline con la mia dolce compagna. Una gelateria con i gusti dedicati agli eroi della Summer of Love: Cherry Garcia, Wavy Gravy.

Ma la magia vera si era conservata più a nord a Bolinas, una meraviglia persa dietro una muraglia di nebbia, protetta dal mantra incessante dell’oceano e abitata da arditi carpentieri, artisti e poeti – tra cui Joanne Kyger (già compagna di Gary Snyder) – che avevano tolto i cartelli stradali che portavano al paese per evitarsi turisti e scocciatori.
Una tua storia hippy?

In Sardegna vago con un paio di amiche alla ricerca di una comune (Madria) dove siamo stati invitati, ma di cui ignoriamo l’indirizzo. Ci siamo persi e ci ripariamo dal sole nell’antro dove una vecchina faceva lo yogurth come ai tempi di Ulisse. Dal nulla sbucano una banda di freak colorati come una scatola di cioccolatini, gente del Living Theatre. Fratellanza istantanea. Sollevandoci letteralmente da terra ci caricano sul loro furgone dipinto, dove un mangianastri quasi scarico suona All Right Now dei Free. Arriviamo in mezzo al nulla, in una fantastica villa costruita su una spiaggia e circondata da un tappeto di ginestre. Passiamo una nottata funambolica, poi al pomeriggio ci svegliamo, abbiamo delle penne tra i capelli, gli occhi truccati, c’è un mio disegno sul muro, siamo soli in questa casa enorme che profuma di primavera, con accanto una borsa di paglia piena di cibo, un libro sui preraffaelliti e un foglio con scritto «love». Dopo un bel bagno salutiamo le sagge capre che fanno colazione sulla strada e ci rimettiamo fischiettando a cercare Madria. Naturalmente non abbiamo più incontrato i nostri ospiti.


Il manifesto – 13 maggio 2017

G. RABONI, Non c'è chiodo che schiacci chiodo

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Aki Kuroda - Untitled, 1987


Non di questo presente ora bisogna
vivere – ma in esso sì: non c’è modo,
pare, d’averne un altro, non c’è chiodo
che scacci questo chiodo. Nè a chi sogna

va meglio, che le più volte si infogna
a figurarlo, e fa più groppi al nodo
se cerca di disfarlo (sta nel todo
che si crede nel nada, sempre) o agogna,

ma con che lama? troncarlo. La mente
infortunata non ha altra fortuna,
dunque, che nel pensiero? .....

Giovanni Raboni



PS: Ho ripreso questi versi , insieme all'immagine, dal diario fb di Stefano Brandi  che ringrazio vivamente. fv       

L' attesa leggera di Daìta Martinez

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Henri Matisse - Femme nue allongée, 1905-07



Daìta Martinez è nata a Palermo dove risiede.
Segnalata e premiata in diversi concorsi, ha pubblicato in antologica con LietoColle, La Vita Felice, Mondadori, Akkuaria, Fusibilialibri, Ursini Edizioni.
E’ autrice dei testi in video Kalavria 2009.
(dietro l’una) è la sua opera prima, edita LietoColle 2011, segnalata alla V Edizione del Premio Nazionale di Poesia “Maria Marino”.
. la bottega di via alloro . è il suo ultimo lavoro poetico, edito LietoColle, 2013.
Nel 2015 ha vinto il primo premio - sezione dialetto del 7° Concorso Nazionale di Poesia “Città di Chiaramonte Gulfi”.
Sono lieto di pubblicare oggi, in questo spazio, alcuni suoi versi che evocano la migliore poesia futurista e surrealista. 
fv





(geenna)

nel (geenna) in piena
intingermi
carme tuo amante.

generata nudità
matura il bacio nel ciliegio
schermata pietra di l’una.

verso origina
supplica del goduto vizio
e naufrago
in te

– umido seme d’orione –

al paesaggio
perduto
bevo del pianto
l’infinito.

da ( dietro l’una )LietoColle, 2011

*****



: la pioggia :

discende ricolmo il calore del ginocchio
appiccicato all’asfalto che andremo svegliando
sulla punta del fucile prima del coraggio
dove si alloggia spasmo sottratto il guinzaglio

                 dallo sparo
                 di latta
                 la lingua
                 sgorgata

: dei richiami

lacrimati parentesi sotto le serrande
un giorno ai primordi della piazza
e quei limoni fasciati all’ingresso degli sguardi
dentro la fronte slacciata d’inganni e di albori

                divorati
                i guanciali
               allarmano
               le idee

: delle gambe assassinate

sopra l’incendio delle dita incarnate poi abbaglio
quando è cenere il rigo fiutato ade in quella virgola
di letti impigliati tra i denti allo scadere della sete
nell’identico dei seni precipitati edicole dopo la preghiera

                 spiegato il confine
                 squilibrate oscurità
                 come solitudini
                 riconsegnando

: la pioggia :

( da . la bottega di via alloro . LietoColle, 2013 )



 *****
 

l'attesa leggera   il tonfo
dondolìo  d'un immenso
istante dal vento scende

sai d'acqua a maggio  le
ciglia  di bianco silenzio
la mano quasi un odore

il girotondo accucciato i
tuoi gesti  nel soave dire
fammi di niente  domani

la casa  la margherita di
un bambino e il sole giù
dal tetto al mio petto un

saremo nudità anteriore
andando e stando inizio
nel cavo come arreso di

una mora addormentata
e d'innocenza accesa la
vertigine così all'infinito

s'è fiorita al nido la ferita
dall'alba bagna doralisa          

Daìta Martinez, inedito, 2017 )

FRAMMENTI DI UN DISCORSO AMOROSO OGGI

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Frammenti e notifiche di un discorso amoroso

Come cambiano attesa e trame d’amore su Facebook
di Ornella Tajani

Il punto di partenza dei Frammenti di Roland Barthes è l’estrema solitudine in cui affonda il discorso amoroso: ignorato o ridicolizzato dalle varie discipline, è tuttavia parlato da migliaia di soggetti e dunque necessita di una affermazione. Era il 1977: oggi, che si militi nel partito degli apocalittici o in quello degli integrati, non si può ignorare che una buona parte di questi frammenti navighi ormai nel virtuale.
Tra le figure più incisive delineate da Barthes c’è quella dell’attesa, che si presta particolarmente bene a una rilettura alla luce delle nuove dinamiche che il web crea: la pièce de théâtre dell’Erwartung si svolge non più in un caffé, bensì davanti allo schermo. Il social network che userò come fondale è quello che meglio scatena le mie velleità di innamorata semiologa: Facebook.
La prima differenza essenziale da rilevare tra l’attesa d’amore classica (dell’incontro, della telefonata) e l’attesa patita attraverso Facebook è che oggi, mentre aspetto, sono al corrente di ciò che l’oggetto amato fa – invece di contattarmi. Sono investita da una serie di informazioni sulla sua quotidianità: ieri sera era alla tal festa, stamattina ha incontrato quel comune amico, due ore fa aveva mal di testa. Eccomi trasformata in Aracne: con i dati che ho a disposizione tesso la tela dalla quale cercherò di indovinare il movimento mentale dell’oggetto amato, il perché mi abbandoni al mio cristallizzarmi nella condizione di colei che aspetta.
Proviamo a seguire la suddivisione che Barthes dà del dramma dell’attesa.
Atto I: supposizioni.
Se l’altro non è on line, mi domando perché non sia ancora tornato a casa: controllo quanto dura il film che è andato a vedere, o cerco di capire se la persona con cui ha preso un aperitivo è già rientrata, studiando la sua bacheca.
Se l’altro è on line: perché non mi contatta? Seguo i suoi passi nel web. A chi scrive, cosa commenta? Non ho più, come Barthes spiega, il senso delle proporzioni: un suo «like» al post di un’altra persona equivale al tradimento.
Atto II: rimproveri. L’altro è connesso, lo vedo mentre legge articoli di quotidiani o apprezza link di amici. Mi prende la collera: può mai essere tutto ciò più urgente che scrivermi?
Atto III: è il lutto, l’angoscia pura, l’abbandono. Che lui mi veda on line o meno, mi sento interiormente «livida».
Nel frattempo, lo spazio dell’attesa è vissuto in maniera simile a quella descritta da Barthes: intorno a me, ovvero nel mondo di Facebook, gli altri «entrano, chiacchierano, scherzano, leggono». Questo perché loro non aspettano.
Come si vede, quella che il social network crea è una situazione quasi inedita nel panorama dell’attesa: essa somiglia all’aspettare che l’altro ci venga incontro mentre partecipiamo a una stessa festa – con la differenza, tuttavia, che in rete tutti possono guardare non visti, e quel che si sta facendo al di qua dello schermo è assolutamente impenetrabile. Laddove a una festa è semplice notare se sono da sola in un angolo o, al contrario, impegnata in una conversazione, su Facebook tutto è avvolto nel mistero. Il presente insostenibile di cui parlava Barthes a proposito dell’assenza, quel presente che mescola il tempo della referenza (in cui l’altro è assente) al tempo dell’allocuzione (in cui l’altro è presente, perché è a lui che mi rivolgo), diventa ancora più arduo da gestire, perché il tempo della referenza si frantuma: spesso non so più se l’altro è presente o assente.
Prendiamo un altro caso: vedo che l’oggetto amato è collegato, mentre mi aveva detto che oggi non avremmo potuto sentirci né vederci perché era impegnato (così impegnato da perdere tempo on line), oppure perché non era a casa (invece c’è). Mi ha mentito. Oppure ha cambiato idea: ma in quel caso, perché non mi scrive? Mentre aspetto un suo segno o richiamo, io, Aracne, impazzisco. Facebook, lo strumento che mi illude di poter monitorare la vita dell’altro, e dunque impiegare il tempo dell’attesa in una maniera che ingenuamente credo funzionale al mio scopo, assume in realtà il controllo del mio sentire: a tratti consuma la mia consapevolezza di innamorata che aspetta, lasciandomi credere che i miei sforzi nel raccogliere dati e interpretarli possano avvicinarmi all’altro, o addirittura spingere l’altro a contattarmi.
Questa operazione investigativa esula dal mero spazio dell’attesa. Mi autoconvinco di essere sempre al corrente della vita dell’oggetto amato. Ciò da un lato mi nuoce, perché suscita in me gelosie, rancori, insicurezze, ossessioni spesso del tutto fuori luogo, dal momento che mi sforzo di interpretare segni decontestualizzati e molto spesso mi sbaglio, a causa della completa ambiguità in cui questi segni galleggiano. Allo stesso tempo, però, le informazioni sull’altro appagano in parte il bisogno che ho di lui: anche se non mi contatta, sono felice di «vederlo» connesso, di poter leggere quello che scrive, di appagare la naturale sete di notizie di lui che io, innamorata, ho. Godo della sua presenza, seppur virtuale.
Su Facebook, le mie strategie di innamorata si moltiplicano: dopo averlo aspettato a lungo, nel momento in cui lo vedo connesso scompaio, per evitare che per lui sia troppo semplice contattarmi. Resto on line fino a tarda notte senza scrivergli, perché egli sappia che la mia vita –telematica- esula da lui, che ho altro da fare e dunque altri con cui interagire. Posso anch’io ostentare complicità e divertimento con altre persone, posso sventolare la mia mondanità perché egli sappia che non ho nessun bisogno di lui, che si fa attendere. È vero che non voglio altri che lui, a salvarmi da una mondanità che non mi interessa minimamente; ma questo è un segreto tra Barthes e me.
Improvvisamente nasce la paura: se questa vetrina che allestisco, la vetrina della mia autonomia da lui, non fosse neanche notata dall’oggetto amato? Se la sua attenzione si dirigesse verso altre vetrine, o se semplicemente ignorasse la mia? Sono un negoziante che mira a un unico cliente; senza di lui posso chiudere bottega.
Ancora: all’ora in cui normalmente è connesso, non lo trovo. Dove sarà? Ripercorro le ultime informazioni che ha seminato in bacheca per tentare di indovinarlo. Aspetto che torni, che appaia un pallino verde accanto al suo nome, segno che è on line.
Improvvisamente avverto il peso del ridicolo per questa mia maniacale attenzione alla presenza virtuale dell’altro. Basta! Spengo il computer. Quello che sto aspettando non è lui, è solo una sua proiezione. È tardi, vado a dormire col proposito di reinserire i miei sentimenti nel contesto reale, domani.
Ma non dormo, e il domani è lontano. Dopo due ore di insonnia sono di nuovo davanti allo schermo: meglio un pallino verde che il nulla assoluto. «L’attesa è un incantesimo»: ho ricevuto l’ordine di non schiodarmi dalla scrivania. Resto lì finché non sento il bip di qualcuno che mi scrive in chat. I primi secondi sono di allucinazione: «l’attesa è delirio». Mi sembra di riconoscere il suo nome e invece non è lui: immediatamente, proprio come scrive Barthes a proposito della telefonata, detesto la persona che mi ha contattato, rimproverandole di non essere l’oggetto amato.
«Sono innamorato? Sì, poiché aspetto. L’altro, invece, non aspetta mai». Non aspetta mai, perché io sono sempre qui, già collegata. Provo a ingannarmi, scrivo, chiacchiero con altre persone; e, quando finalmente arriva l’atteso messaggio, rispondo in ritardo, cerco di interpretare il ruolo di chi fa aspettare. Ma, esattamente come in Barthes, è un gioco a cui perdo sempre, perché nei momenti di pausa nella comunicazione, in quelli in cui pianifico di lasciarlo aspettare, sono in realtà sempre io che aspetto il momento di rispondergli: «L’identità fatale dell’innamorato non è altro che: io sono colui che aspetta».
Una nota finale merita la funzione che mi consente di sapere quando l’altro ha letto il mio messaggio: «visualizzato alle ore tot». Prima ho citato il caso in cui provo a far attendere l’oggetto amato: parlavo di quando ricevo un suo messaggio ma non lo apro. Nel momento in cui però leggo il messaggio, e l’altro riceve il diabolico «visualizzato alle», non riesco mai ad aspettare prima di rispondere: sia perché non vedo l’ora di farlo, sia perché mi terrorizzano tutte le motivazioni che l’altro potrebbe addurre al mio ritardo – e, soprattutto, perché ho paura che nell’attesa lui scappi. Io sono colui che aspetta e non posso essere (anche) l’altro, quello che fa aspettare.
Il «faire attendre» resta una prerogativa dell’oggetto amato e io, al contrario del mandarino innamorato con cui Barthes conclude il suo frammento, alla centesima notte sono ancora on line.

Un mandarino era innamorato di una cortigiana. «Sarò vostra, disse lei, quando avrete trascorso cento notti ad aspettarmi seduto su uno sgabello, nel mio giardino, sotto la mia finestra». Ma, il novantanovesimo giorno, il mandarino si alzò, prese il suo sgabello sotto il braccio e andò via.

Pezzo pubblicato il  4 settembre 2013 su https://www.nazioneindiana.com/

M. BENEDETTI, Tutti abbiamo bisogno di un complice

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CÓMPLICE

Todos necesitamos alguna vez un cómplice
alguien que nos ayude a usar el corazón
que nos espere ufano en los viejos desvanes
que desnude el pasado y desarme el dolor

prodigioso / sencillo / dueño de su silencio
alguien que esté en el barrio donde nacimos o
que por lo menos cargue nuestros remordimientos
hasta que la conciencia nos cuelgue su perdón

cómplice del trasmundo nos defiende del mundo
del sablazo del rayo y las llamas del sol
todos necesitamos alguna vez un cómplice
alguien que nos ayude a usar el corazón



Complice
Tutti abbiamo bisogno talora di un complice,
qualcuno che ci aiuti a usare il cuore.
Che ci aspetti orgoglioso nelle vecchie stanze,
che denudi il passato e disarmi il dolore.

Prodigioso/unico/padrone del suo silenzio.
Qualcuno rimasto nel quartiere dove nascemmo o
che perlomeno si accolli i nostri rimpianti
finché la coscienza non apponga il suo perdono.

Complice dell’immaginario ci difende dal mondo,
dalla sciabolata del raggio e dalle fiamme del sole.
Tutti abbiamo bisogno talora di un complice,
qualcuno che ci aiuti a usare il cuore.

MARIO BENEDETTI



CLASSICI IN STRADA: Ariosto per i vicoli di Palermo.

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A Palermo, mercoledì prossimo, tornano i Classici in strada. L'Orlando Furioso da Ballarò a Borgo Vecchio, da Brancaccio a via Lazio. Le donne, le armi e gli amori per le piazze e i vicoli della città.

STORIA DEL PIU' ANTICO SIMBOLO EBRAICO

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I Musei Vaticani e il Museo Ebraico dedicano una mostra al più importante tra i segni dell'ebraismo: dal testo biblico al candelabro del Tempio di Gerusalemme.

Anna Foa

A Roma storia e mito della Menorà, il più antico simbolo ebraico

La mostra che si apre in Vaticano lunedì 15 maggio, organizzata in collaborazione tra i Musei Vaticani e il Museo Ebraico di Roma, è intitolata "Menorà: culto, storia e mito". La Menorà, il candelabro a sette braccia il cui nome ha la stessa radice di or, luce, è il maggiore e il più antico dei simboli ebraici. La sua storia va dal testo biblico al candelabro del Tempio portato a Roma nel trofeo di Tito alle raffigurazioni nelle catacombe ebraiche al moderno stemma dello Stato di Israele, dove è affiancata da due rametti d'olivo.

Il logo della mostra raffigura appunto un particolare segmento dai bassorilievi dell'arco di Tito, che rappresentano il trofeo romano sulla Giudea sconfitta: prigionieri ebrei portano sulle spalle la grande e pesante Menorà in oro. È, di tutte le immagini che abbiamo della Menorà, quella che più si avvicina alla realtà, dal momento che pochi anni soltanto erano passati dal corteo vittorioso di Tito e la Menorà del Tempio era ancora presente agli occhi degli artisti che la scolpirono.

Ma una raffigurazione della Menorà in una pietra di una sinagoga di Magdala, scoperta nel 2009 e datata intorno alla distruzione del Tempio, mostra un'immagine differente da quella di Roma, sia nei bracci, non arcuati ma ottagonali, sia nella base. La Menorà era simbolo di saggezza e di illuminazione. Essa ricordava anche, come ricordano i testi, il roveto ardente, e con i suoi sette bracci è stata ancora interpretata come il simbolo della creazione che appunto richiese sette giorni per realizzarsi.
La lucerna centrale simboleggerebbe il Sabato. Essa è stata interpretata anche alla luce delle dottrine cabalistiche. La Menorà fu per secoli il simbolo stesso dell'ebraismo. Solo a partire dal XVII secolo essa cominciò ad essere affiancata dal magen David, la stella di David, che ritroviamo ora sulla bandiera di Israele.Nella storia della Menorà, realtà, culto e valore simbolico sono strettamente intrecciati. La sua costruzione è disposta e minuziosamente descritta nella rivelazione fatta da Dio a Mosè, come si legge in Esodo 25, 31-40.

La sua base era adorna di immagini di fiori e frutti. Inizialmente era collocata nel Tabernacolo, il santuario trasportabile che accompagnava gli ebrei nel deserto, poi nell'anticamera del Tempio. Scomparve nell'esilio babilonese e fu ricostruita e collocata nel secondo Tempio. Ce la descrive Giuseppe Flavio, che fu testimone della sua traslazione a Roma. La Menorà doveva restare accesa dal tramonto all'alba, ma una o più delle sue lampade restavano accese anche durante il giorno. Nella riconsacrazione del Tempio ad opera dei Maccabei, nonostante fosse sufficiente per un sol giorno, l'olio delle lampade rimase miracolosamente acceso per otto giorni. Da lì la festa di Hannukka, caratterizzata dall'accensione del candelabro a nove braccia, la hannukia.
Come il rilievo datole nei bassorilievi dell'Arco di Tito dimostrano, la Menorà ebbe un ruolo speciale nel trionfo di Tito. Era al tempo stesso un oggetto di gran pregio, costruita com'era in oro puro, e il simbolo della Giudea sconfitta.

Inizialmente, fu custodita nel Tempio della Pace, il nome attribuito al Foro di Vespasiano, tra i Fori e la Suburra. Durante il sacco di Roma del 455 ad opera dei Vandali di Genserico, fu trasportata a Cartagine con il resto del bottino. Di là fu portata a Bisanzio da Belisario, il generale di Giustiniano, quando questi conquistò Cartagine nel 533, per essere portata in un ulteriore trionfo descrittoci da Procopio. Ed infine sembra essere approdata a Gerusalemme, non sappiamo dove né come. Da allora se ne sono perse le tracce, forse è stata fusa nel sacco di Gerusalemme ad opera dei Persiani nel 614. Si tratta però di notizie prive di fonti certe. Infatti, ben presto, di fronte ad un candelabro errante, e sostanzialmente, dopo Tito, volto a far ritorno nel luogo delle sue origini, la sua localizzazione cominciò ad essere avvolta nelle nebbie del mito.
La questione si complicava per il fatto che già nei primi secoli si parlò di una duplicazione del candelabro. Quale era quello originario, strappato al Tempio nel 70 e divenuto il simbolo dell'identità di un popolo in diaspora?A Roma, dove l'esistenza della Menorà era quotidianamente testimoniata dai bassorilievi dell'arco di Tito, l'idea che essa non avesse mai lasciato la Città era diffusa.

Ne ritroviamo traccia, sia pur vaga, in alcuni testi talmudici e perfino nel viaggio di Beniamino da Tudela, un viaggiatore ebreo del XII secolo. Una delle leggende fiorite intorno al candelabro lo diceva affondato nel Tevere. Era una diceria che risaliva ai secoli del sacco dei Vandali, e che ha forse come punto reale di riferimento il fatto che il bottino fu trasportato fino al mare sul Tevere. 

Un'altra leggenda lo diceva invece nascosto sotto il Laterano. Priva di basi documentarie, la leggenda sulla presenza a Roma della Menorà è tuttavia sopravvissuta nei secoli, fino ad arrivare agli scavi tentati nel Tevere alla fine del XIX secolo e alla richiesta che sarebbe stata fatta in anni recenti al Vaticano di cercarla nei suoi sotterranei e di restituirla allo Stato di Israele. L'altra ipotesi, che ha una maggiore corrispondenza nelle fonti, è quella che essa sia a Gerusalemme, nascosta o perduta.
È questa, ad esempio, la tesi su cui si basa un romanzo di Stefan Zweig, Il candelabro sepolto, scritto nel 1937 e pubblicato in italiano da Skira, per la prima volta autonomamente dagli altri scritti di Zweig, nel 2013 con una bella postfazione di Fabio Isman. In anni molto recenti, nel 2002, aveva per un momento rinforzato la tesi del Tevere la scoperta di una lapide nei giardini del Tempio secondo cui il candelabro sarebbe stato visto, all'inizio del V secolo, in fondo al Tevere a sud dell'Isola Tiberina. Un falso del XIX secolo, ha scoperto l'allora direttrice del Museo Ebraico, la scomparsa Daniela di Castro, creato forse per dar lustro alla già illustre storia degli ebrei a Roma. Il candelabro del Tempio continua ad restare inafferrabile.

Avvenire – 13 maggio 2017

IL CARAVAGGIO DI ERMANNO REA

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Caravaggio, Giordano Bruno e l'Inquisizione in un romanzo inedito di Ermanno Rea.
Giuseppe Lupo

Caravaggio ellittico e silente

Sullo sfondo di una Roma ancora intossicata dal fuoco che ha bruciato vivo Giordano Bruno sulla piazza di Campo dei Fiori, Ermanno Rea immagina Caravaggio costretto ad ascoltare, suo malgrado, le parole di un Inquisitore ormai vecchio e malato, che gli parla di ordine, di sottomissione, di organizzazione verticale del sapere, di visione unilaterale del mondo. In dubbio non ci sono soltanto le sorti della pittura o la fortuna dei suoi dipinti, ma il rischio della libertà, che poi è una maniera assai sottile per alludere alla propria incolumità.

Caravaggio - a parere di questo Inquisitore - ascolta troppo convintamente le voci sinistre del monaco di Nola, ha una maniera tutta sua di rappresentare Dio e il suo mistero, diverge dalla norma in nome di una modernità che nel suo caso si manifesta nei criteri di una religione inquieta e irriverente, fatta di poche verità e soprattutto percorsa da uno spirito di ribellione a qualsiasi concetto di autorità. Di questi ingredienti forti si compone il breve monologo che Rea aveva inizialmente pensato come spettacolo teatrale, poi come video, salvo più tardi abbandonare entrambi i progetti e destinare tutto alla forma di pagine stampate per essere lette. 

La parola del padre non è soltanto un’opera inedita, dunque, ma l’ultimo lascito di un autore che ha cercato nelle storie da narrare le ragioni per cui credere nell’umano, credere nella sua vocazione originaria, che è quella del combattere contro i demoni della propria epoca e contro il buco nero del tempo. Testamento morale? Può darsi. Di sicuro è un testo dalla natura enigmatica, ricco di silenzi e di ellissi (addirittura il personaggio di Caravaggio non interviene mai, se non con gesti e atteggiamenti), che poi il lettore, ragionando per paradossi, scopre essere la parte dotata di maggior fascino evocativo, perché sono quei silenzi appunto i luoghi di più pronunciata suggestione, i momenti in cui il non-dire diventa più eloquente del dire.

Se ci fermassimo ai preliminari, il pensiero correrebbe subito a un romanzo quasi omonimo di Raffaele Crovi, il cui titolo - Le parole del padre (1991) - ricalca perfettamente questo di Rea. Nel caso di Crovi, però, a manovrare il discorso non era il cardine di obbedienza/disobbedienza, ma il dialogo tra un genitore di sangue (Virginio Crovi) e un genitore letterario (Elio Vittorini). È chiaro che Crovi e Rea indagano in direzione diversa, soprattutto destinano alla dimensione autoriale un ruolo che attiene alla sfera formativa o alla funzione di controllo del sapere.
Nell’arringa che l’inquisitore pronuncia dinanzi a uno spaesato Caravaggio, infatti, i padri sono addirittura tre: il Dio supremo, il Papa, Cesare, un pantheon di auctoritates, a cui inchinarsi sempre. Più che essere una tormentata mistificazione dei doveri di una generazione verso l’altra, Rea trasforma le angosce di un’epoca in risorse di civiltà. Non è tanto importante ciò che avrebbe risposto Caravaggio (a cui peraltro, per esprimersi, basta la voce dei suoi dipinti), quanto il presagio di una condizione umana che continua a sfuggire ai richiami dell’obbedienza, continua a nascondersi in quella zona franca che è il tacere prima di assumere le vesti del dubbio.

In quel territorio di verità frammiste, in quell’area di confine dove rifugiarsi quando il rifiuto di obbedire diventa necessità di conservazione, sta il segreto di Caravaggio e Rea ne approfitta per compiere un discorso sull’artificio del dissenso, sul segreto del non allinearsi che risuona un po’ come una sorta di sfida lanciata ai paradigmi del potere nelle sue forme più ottuse e sterili. Rea parla di ieri ma con un occhio sull’oggi ed è così che la sua scrittura si fa recitativo morale, forse presagio di tempi tristi, i nostri, dove altre, più subdole funzioni di controllo esercitano il proprio potere lasciando aperta e indisturbata la porta di una finta libertà.

il sole 24 ore – 21 maggio 2017

ANTONIO GRAMSCI NON AMAVA I GIORNALISTI

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«Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire perché la menzogna entra nella sua qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo, sempre di una sola opinione, e non ho mai dovuto nascondere le mie convinzioni per fare piacere a dei padroni o manutengoli»   (Antonio Gramsci)

Brano tratto da una Lettera del carcere di Antonio Gramsci alla cognata Tatiana Schucht del 12 ottobre 1931

B. BRECHT ESORTA A NON MENTIRE MAI

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       Da uno dei libri più belli di Bertolt Brecht prendo questa perla:

 
Me-ti diceva: Il peggio non è aver difetti, nemmeno astenersi dal combatterli è grave. È grave nasconderli. Non sembrare quel che si è, è una disgrazia per se stessi. Sembrare quel che non si è, è una disgrazia per gli altri. Come fa uno ad andare in battaglia al tuo fianco, se non gli hai mostrato i tuoi difetti? Lo sforzo di sembrare quel che non sei esaurisce già tutta la tua capacità di lotta. Per esempio temi che il tuo amico ti potrebbe respingere se sapesse che sei vile. Ma quel che egli deve temere sono soltanto le conseguenze della tua vigliaccheria, che lui può evitare meglio di quel che tu non possa - a patto che conosca la tua vigliaccheria. Perfino quando uno è bugiardo deve far capire almeno ai suoi migliori amici che lo è; su questo punto non deve mentire.

Da Me-ti - Libro delle svolte, Bertolt Brecht

R. COTRONEO SUL NARCISISMO

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Caravaggio, Narciso

Siamo un mondo di narcisisti incapaci di guardarsi   di  Roberto Cotroneo 


Jose Saramago pubblicò nel 1995 un celebre romanzo intitolato Cecità. È una storia paradossale, che racconta di un intero paese dove le persone perdono la vista, una a una, come fosse un’epidemia inspiegabile. È una metafora sull’indifferenza, sull’incapacità di vedere e sulla perdita del senso di solidarietà tra le persone. Quando Saramago ricevette il premio Nobel per la letteratura, era il 1998, nel suo discorso a Stoccolma parlò proprio di questo suo romanzo e dell’indifferenza sociale con cui dobbiamo fare i conti.
C’è uno stretto rapporto tra la psicoanalisi, il romanzo di Saramago, la filosofia e il mito di Narciso. Più volte in questi anni sono tornato sul tema del narcisismo, l’ho fatto perché mi sono occupato in modo particolare degli effetti dei social network sulla nostra vita quotidiana, l’ho fatto perché avendo un’attenzione particolare su quelle che chiamiamo forme di espressione artistica, o creatività, mi sono accorto che l’elemento narcisistico è diventato talmente predominante tra i letterati e gli artisti, da cancellare quello che scrivono o che producono bruciandolo sull’altare della loro visibilità o del successo. Mi sono occupato di narcisismo inoltre perché la diffusione massiccia e totale della fotografia, attraverso il digitale, oltre alla sua facilità di diffusione, ha generato miliardi di stagni dove Narciso va a specchiarsi per caderci dentro: gli stagni dell’ossessione per Instagram e naturalmente dei selfie.
Ma c’è un aspetto importante che va oltre il prendere atto che viviamo in una società di narcisisti patologici. Freud, ma anche Jung, sapevano bene che il narcisista per un terapista è quasi incurabile, perché non vede gli altri, e vive in una sorta di delirio dove conta soltanto quello che si fa, il proprio aspetto, e il successo che si riscuote. E mentre il narcisismo dilagava attraverso i social, la psicoanalisi entrava in una crisi profonda, crisi di modelli terapeutici e teorici. I pazienti in analisi sono sempre meno, il tempo che richiede l’analisi è esagerato in una società rapida come quella in cui viviamo, persino il costo dell’analisi è diventato proibitivo. Ma soprattutto è entrata in crisi l’idea fondante della psicoanalisi: la guarigione. Gli anni di analisi guariscono. Però il narcisismo è inguaribile e si autoalimenta.
Lo spettacolo che ogni giorno abbiamo davanti agli occhi dice moltissime cose: persone stimabili che perdono il senso della misura in nome di una percezione di sé parossistica e perfino ridicola. La tenacia nel darsi un carattere, un’identità tese al successo, al plauso, al piacere e al piacersi, senza che questo abbia un minimo fondamento, una qualsiasi realtà di valori riconosciuti. Il mondo si è fatto ridicolo perché il narcisismo, quando non è quello di Pablo Picasso, di Marcel Proust, di Greta Garbo o di Gianni Agnelli, è ridicolo e grottesco.
Ma se la situazione ci appare così disperata è anche perché l’unica disciplina, se così possiamo chiamarla, in grado di capire, anche se non certo di guarire, e di portarci a una qualche consapevolezza, è la filosofia. La filosofia ha affiancato la psicoanalisi con un ruolo diverso, un ruolo di comprensione del mondo. Non cura, ma illumina e permette di vedere. Di vedere il fondo dello stagno, e non soltanto l’immagine di Narciso. Ma sono tutte discipline destinate a restare lontane dalla cultura contemporanea, che è cultura del fare e del piacersi.
Saramago ci ha insegnato che l’indifferenza è una forma simbolica di cecità, e noi stiamo imparando che il narcisismo è una forma malata di indifferenza sociale. Immaginare un Narciso reso cieco dalla malattia raccontata da Saramago è un’immagine terribile e potente. Un Narciso cieco, che continua a specchiarsi pur non vedendosi è il tema filosofico di questo tempo paradossale.

©2017 Roberto Cotroneo. Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency



DANTE. UN ERETICO IN PARADISO

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Collocò i papi all’inferno Separò teologia e politica. Esaltò il libero arbitrio e la coscienza personale. Non a caso Marx lo considera punto di svolta fra due mondi: ultimo uomo del Medoevo e primo dell'età moderna.

Vito Mancuso

Il Dante laico un eretico in Paradiso


Il centro matematico della “Commedia” è una terzina in cui si celebra la libertà in quanto possibilità di libera decisione: «Se così fosse, in voi fora distrutto / libero arbitrio, e non fora giustizia / per ben letizia, e per male aver lutto» (“Purg.” XVI, 70-72). L’intera opera in realtà ruota attorno al concetto di libero arbitrio, come spiega Dante stesso presentando il suo lavoro: «L’uomo, meritando o demeritando nell’esercizio del suo libero arbitrio, è soggetto al giusto premio o alla giusta pena» (“Epistola a Cangrande”,8). È per questo che si dà commedia, cioè movimento, trama, creatività, mentre in sua assenza si avrebbe tragedia, come Edipo destinato a uccidere il padre e a giacere con la madre, oppure farsa, mero caos, assenza totale di struttura.

Uno dei versi più belli è quello con cui Virgilio, accomiatandosi da Dante, gli conferisce la corona e la mitria attestando che ormai egli è re e papa di se stesso: «Per ch’io te sovra te corono e mitrio» ( Purg. XXVII, 142). Appare qui l’altissimo senso della libertà della coscienza personale coltivato da Dante, confermato da quanto scrive al signore di Verona: «Coloro che hanno vigore d’intelletto e di ragione sono dotati di una sorta di divina libertà e non sono rigidamente legati a nessuna consuetudine; e ciò non fa meraviglia, perché non essi sono diretti dalle leggi, ma piuttosto le leggi da loro» ( Epistola a Cangrande, 2). Tale primato della coscienza ha ben poco a che fare con lo stereotipo del medioevo oscurantista e non a caso si ritroverà nell’umanesimo con la Oratio pro hominis dignitate di Pico della Mirandola del 1486, e nella modernità con lo scritto di Kant del 1784 Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo?.
Da tale considerazione della libertà discende il primato della morale sostenuto da Dante: «Cessando la Morale Filosofia, l’altre scienze sarebbero celate alcuno tempo, e non sarebbe generazione né vita di felicitade, e indarno sarebbero scritte e per antico trovate» (Convivio, II, 14). Si tratta di una tesi «veramente straordinaria nel medioevo» (Gilson), secondo cui la filosofia si compie come etica e la conoscenza come giustizia. È per questo che in Dante hanno tanto spazio la denuncia e l’invettiva: sono una logica conseguenza dell’aver assunto l’etica quale punto di vista in base a cui guardare il mondo.

Uno sguardo informato dalla giustizia intende giudicare, sente cioè la necessità di distinguere il bene dal male e gli onesti dai truffatori. Dante quindi è un moralista, non però nel senso decaduto della contemporaneità, ma nel senso classico che fa della giustizia la virtù più grande al cui servizio si devono porre la politica, la filosofia e la teologia, perché a questo servono il potere, la conoscenza e la religione: a essere giusti nel proprio intimo e a incrementare il tasso di giustizia nel mondo.

Esattamente per perseguire la giustizia sopra ogni cosa Dante non esita a collocare all’inferno ben cinque papi: Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V, Celestino V, Anastasio IV, oltre ad altri non nominati e a moltissimi esponenti del clero, collocati soprattutto nel girone degli avari e dei sodomiti.

Il pensiero di Dante sul rapporto della teologia con le altre scienze, in particolare con la filosofia, emerge con chiarezza dal Convivio dove viene ripreso un passo biblico secondo cui «sessanta sono le regine… una è la colomba mia e la perfetta mia», con il seguente commento: «Tutte scienze come regine» e la teologia «colomba perché è sanza macula di lite» ( Convivio II,14; la citazione biblica è Cantico dei cantici 6,8). Ora Dante sapeva bene che la condizione effettiva della teologia non era certo quella di essere priva di liti, visto che la rabies theologorum alimentava scomuniche e roghi.
Egli si riferiva però alla teologia quale avrebbe dovuto essere idealmente: una scienza non a servizio del potere, e perciò ricolma di invidia e di litigiosità, ma a servizio della vita spirituale, e perciò ricolma di pace e di mitezza. La teologia amata da Dante ha il vertice non nella dogmatica, ma nella spiritualità e nella mistica: non a caso Beatrice al culmine del Paradiso lo affida non a un teologo dogmatico come Tommaso d’Aquino, ma a san Bernardo, il teologo della mistica unitiva.

A questo proposito un grande esperto quale Gilson ha scritto che la prospettiva dantesca «non solo non contiene la dottrina tomista della subordinazione delle scienze alla teologia, ma manifesta piuttosto l’intenzione di evitarla », e qui occorre ricordare che fu a causa di tale teoria tomista della subordinazione delle scienze alla teologia che in Italia si ebbero eventi come il rogo di Giordano Bruno e l’abiura di Galileo, che tanto hanno contribuito al declino culturale, civile e morale del nostro paese.

Tutto ciò trova conferma nella clamorosa presenza in Paradiso di ben due eretici, già condannati come tali all’epoca in cui Dante scriveva: Gioacchino da Fiore, condannato dal Lateranense IV nel 1215, e Sigieri di Brabante, condannato dall’arcivescovo di Parigi nel 1270 e nel 1277. Dante fa sì che essi vengano presentati da chi in terra era stato loro particolarmente ostile, così fa dire a Bonaventura che Gioacchino da Fiore è «di spirito profetico dotato », un’affermazione che il Bonaventura storico non avrebbe mai potuto compiere perché considerava Gioacchino «come un ignorante condannato a buon diritto ».
Quanto a Sigieri, ancora gli esperti non hanno trovato un accordo sul motivo che portò Dante a porre in Paradiso un pensatore tanto scomodo, esponente di quell’aristotelismo radicale, o averroismo, guardato con palese ostilità dal potere ecclesiastico per la piena autonomia della ragione che professava. Ma proprio un personaggio così scomodo viene posto da Dante in Paradiso accanto ai teologi più illustri e fatto presentare dal più illustre di tutti, san Tommaso d’Aquino, con le celebri parole: «Essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel vico degli strami, / sillogizzò invidiosi veri» ( Par. X, 136-138). Sigieri era un filosofo che professava la più rigorosa distinzione tra teologia e filosofia: collocandolo in Paradiso Dante approva questa impostazione, persino dopo la pubblica condanna ecclesiastica (cui peraltro seguì la morte sospetta di Sigieri nella curia papale per mano del segretario, si disse preso da un raptus di follia).

Perché Dante esalta Sigieri? Perché il suo pensiero si traduceva in politica nella rigorosa distinzione tra papato e impero, e nella conseguente esclusione del papato da ogni gestione del potere politico. È la prospettiva che noi oggi denominiamo laicità. Si spiega così anche l’ostilità di cui fu oggetto il pensiero politico di Dante da parte del potere ecclesiastico, con l’ordine di papa Giovanni XXII nel 1329 di dare alle fiamme il De Monarchia e l’inserimento della stessa opera nel 1559 nella prima edizione del famigerato Index librorum prohibitorum.


La repubblica – 27 maggio 2017

SICILIA GIA' VENDUTA!

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           Cara Antonella, la povera Melania ignora che la Sicilia è stata venduta da tempo!



PAPA FRANCESCO DA' UNA LEZIONE DI DIRITTO COSTITUZIONALE

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Il Papa incontra gli operai dell' ILVA di Genova

      
«L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Papa Francesco inizia la sua visita a Genova partendo dall'Ilva, cattedrale laica simbolica della crisi industriale nazionale, e cita la Costituzione Italiana, aggiungendo: «Togliere il lavoro alla gente, sfruttare la gente è anticostituzionale». 
Se non erro, è la prima volta che un Papa citi un articolo della Costituzione del 1948 che, più d'uno, in questi ultimi anni ha cercato di stracciare. Anche per questo mi sembra importante  ricordarlo. fv

      Riprendo dal quotidiano della CEI, L' Avvenire,  il resoconto dell' incontro di Papa Francesco con gli operai di Genova avvenuto la settimana scorsa:

Papa Francesco: «Lavoro per tutti, non reddito per tutti» 

«È la prima volta che vengo a Genova, qui vicino al porto da dove è partito il mio papà. E questo mi fa una grande emozione» così ha esordito papa Francesco, si è poi svolto il dialogo, in 4 domande e 4 risposte, con esponenti del mondo del lavoro. Un imprenditore, una lavoratrice interinale, un sindacalista, un disoccupato.

Il buon imprenditore e lo speculatore
Accolto dagli applausi, il Papa scandisce: «Il lavoro è una priorità umana, e quindi della Chiesa e del Papa». «Non c'è buona economia senza buon imprenditore» afferma. «Il lavoro va fatto bene». E pensare che il lavoratore lavori bene solo perché è pagato è una grande disistima nei suoi confronti. Bisogna lavorare bene per rispetto della propria dignità, e della dignità del lavoro. «Il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori, ne condivide le fatiche e le gioie. Se non ha l'esperienza della dignità del lavoro non sarà un buon imprenditore. Quando deve licenziare qualcuno è sempre una scelta dolorosa. Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente. Chi pensa di rivolvere il problema della sua impresa licenziando gente è un commerciante. Oggi vende la sua gente, domani venderà la dignità propria». E ricorda l'episodio, già citato in altre occasioni, di un imprenditore che lo ha avvicinato piangendo, dopo la Messa in Casa Santa Marta, perché costretto a dichiarare fallimento facendo perdere il lavoro a 60 persone. «Pregava e piangeva». L'imprenditore «non è uno speculatore, che usa e strumentalizza persone per fare profitto». Lo speculatore licenzia, sposta l'azienda, senza problemi. «Con lo speculatore l'economia perde volto e volti. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone. Bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori». «Paradossalmente, qualche volta il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi crede nel lavoro. Perché crea burocrazia e controlli, così chi non è speculatore rimane svantaggiato e chi lo è riesce a trovare i mezzi per eludere i controlli». il Papa cita l'economista Luigi Einaudi: «Milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno».

Il ricatto sociale e la dignità. «Lavoro per tutti, non reddito garantito»
Francesco prende poi spunto dalle parole di una lavoratrice interinale: «Tu hai finito con la parola "riscatto sociale". A me viene in mente "ricatto sociale". Quello che dico adesso è accaduto in Italia un anno fa. C'era povera gente disoccupata. La ragazza che me lo ha raccontato era colta, parlava alcune lingue. Le hanno detto: saranno 10-11 ore al giorno, lei ha detto "Sì, sì". Le hanno detto: si comincia con 800 euro al mese. Lei: "800 soltanto, 11 ore?". L'impiegato dello speculatore le ha detto: signorina, guardi indietro la coda, se non le piace se ne vada. Questo è ricatto». «Un'altra persona mi ha raccontato che ha lavoro, ma da settembre a giugno. Viene licenziato a giugno e ripreso a settembre. E così si gioca, nel lavoro in nero». Dopo queste aggiunte a braccio, Francesco prende in mano il testo scritto: «I luoghi della Chiesa sono i luoghi della vita, dunque anche le piazze e le fabbriche. Molti degli incontri tra Dio e gli uomini sono avvenuti mentre le persone lavoravano: Mosè pascolava il gregge, i primi discepoli erano pescatori. La mancanza di lavoro è molto più del venire meno di una sorgente di reddito per poter vivere. Lavorando noi diventiamo "più" persone, la nostra umanità fiorisce. I giovani diventano adulti solo lavorando». «Il lavoro è amico dell'uomo e l'uomo è amico del lavoro. Gli uomini e le donne si nutrono con il lavoro, con il lavoro sono unti di dignità». Per questo «attorno al lavoro si unisce l'intero patto sociale». Quando non si lavora «la democrazia entra in crisi». E cita l'articolo 1 della Costituzione italiana: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». «Togliere il lavoro, sfruttare la gente è anticostituzionale». «L'obiettivo vero da raggiungere non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti. Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti». «Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso da quello di ieri. Ma dovrà essere lavoro, non pensione. Si va in pensione all'età giusta, è un atto di giustizia. Ma è contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 40 anni, dare loro un assegno dello Stato e dire "Arrangiati"». «La scelta è fra il sopravvivere e il vivere».

La meritocrazia è un'ingiustizia
La competitività non è buona impresa, perché mina «quel tessuto di fiducia che è l'anima di ogni organizzazione». «Bisogna dire con forza che questa cultura competitiva tra i lavoratori dentro l'impresa è un errore e quindi va cambiata se vogliamo il bene dell'impresa, dei lavoratori e dell'economia». Un altro errore: la meritocrazia. «Usa una parola bella, il merito, ma sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza perché interpreta i talenti delle persone non come un dono ma come un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi». In questa cultura, «il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole». È la vecchia logica degli amici di Giobbe, che volevano convincerlo di essere colpevole della propria sventura. È la logica del fratello maggiore nella parabola del Figliol Prodigo.

No al lavoro domenicale
Una disoccupata. Ci sono quelli che vorrebbero lavorare ma non riescono e quelli che sono «Senza il tempo della festa, il lavoro è schiavismo. Nelle famiglie dei disoccupati non è mai domenica. Per celebrare la festa dobbiamo celebrare il lavoro». Il lavoro è fatica, ma «una società edonista che vuole solo il consumo non capisce il valore del lavoro». «Tutte le idolatrie sono esperienze di puro consumo». «Senza ritrovare una cultura che stima la fatica e il sudore - sottolinea il Papa - continueremo a sognare il consumo di puro piacere». «Il lavoro è il centro di ogni patto sociale».

Da L'AVVENIRE del 27 maggio 2017

G. BUFALINO SUI LIBRI CAPACI DI SCARDINARE IMPERI.

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Gesualdo Bufalino con Leonardo Sciascia e i suoi nipoti, Racalmuto, 1983

Un libro può scardinare un impero, può forzare le porte di ferro d’una coscienza per introdurvi un seme d’amore, di bellezza e di verità.
Gesualdo Bufalino
Pagine disperse per l’inaugurazione di una biblioteca, 15 dicembre 1990


PS: Naturalmente le parole di Bufalino valgono solo per i libri degni di questo nome. Non, certamente, per tutta la carta stampata che sta sommergendo il nostro povero mondo. fv

SVILUPPO E GUERRA

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Una visione sentimentale della politica internazionale vede nello sviluppo del sud del mondo un antidoto alle guerre e alle migrazioni. In realtà, è proprio il contrario: lo sviluppo, determinando nuovi assetti geopolitici e nuove contraddizioni, è spesso l'anticamera della guerra.Tutta la storia europea degli ultimi tre secoli ne è la dimostrazione. Oggi l'India, dove il rilancio economico del Nord-Est è pensato in funzione anticinese, ne è un buon esempio.
Carlo Pizzati

L’India inaugura il maxi ponte. Prova di forza contro la Cina

Tra le vette più alte del mondo, nell’Himalaya al confine tra Cina e India, sono già arrivate le tempeste dei pre-monsoni. Ma le bufere non sono solo meteorologiche perché stanno addensandosi tensioni tra i due Paesi più popolati al mondo, con più di 1,3 miliardi di abitanti ciascuno.

Così, l’inaugurazione del ponte più lungo dell’India tra l’Assam e lo stato confinante con la Cina, l’Arunachal Pradesh, dovrebbe essere una bella notizia. E difatti il presidente Narendra Modi, nel celebrare tre anni esatti al governo, ha dichiarato ieri che questo ponte è l’inizio di una fase di rilancio economico del Nordest con autostrade, treni, canali, aeroporti e potenziamento dell’Information Technology.

Quel che non ha detto è che si tratta anche di un cambiamento di strategia militare, in un botta e risposta che coinvolge un caccia indiano schiantatosi sui monti dell’Assam, un viaggio del Dalai Lama nel nord dell’India, le offerte misteriose di un «Kissinger cinese» e un flettersi di muscoli in una disputa lunga un secolo, rafforzata dai ritrovati nazionalismi tipici di questa nostra era.

Il ponte Hazarika, lungo 9,15 chilometri attraverserà il fiume sacro Brahmaputra, nell’Assam, consentendo ai carri armati indiani di raggiungere più in fretta le zone di confine, su un’autostrada di duemila chilometri da costruirsi nell’Arunachal Pradesh. Ma provate a pronunciare il nome di questo stato indiano in Cina e vi diranno: «Intendi il Tibet del Sud?». Pechino non riconosce questo stato, e lo reclama come suo. Non solo, si è lamentata pubblicamente con l’India di aver concesso al Dalai Lama di restarci per due settimane ad aprile.

Ponte e autostrada sono un cambiamento di strategia significativo. Dopo la guerra del 1962, in cui per 4 settimane la Cina sconfinò dimostrando il suo potere, l’India ha adottato una strategia difensiva al limite del timoroso: non ha più costruito strade nelle zone di confine perché, in caso d’invasione da nord, per i cinesi sarebbe stato impraticabile conquistare le pianure via terra. Così senza strade e commercio, le regioni si sono impoverite.

Ma Modi ha cambiato gioco, finendo la prima di molte grandi opere rimaste in sospeso, cui seguirà il ponte ferroviario più alto del mondo, 359 metri su un abisso nel Kashmir, e una linea di binari nelle isole Andamane, nel Golfo del Bengala dove transitano navi cargo cinesi.

Non sorprende allora il summit che il ministro degli Interni indiano ha tenuto nel Sikkim, staterello montagnoso con meno di un milione d’abitanti infilato tra Nepal, Bhutan e Cina. A Nathula, posto di frontiera con la Cina, Rajanth Singh ha raccolto i governatori dei sette stati di confine per dire loro, sotto lo sguardo severo dei gurkha: «Alzate il livello di vigilanza. Ci sono state trasgressioni delle forze cinesi in passato. E potrebbero esserci altri faccia a faccia. Dobbiamo sviluppare le zone di confine per arginare l’emigrazione verso sud. Lo faremo finanziando lo sviluppo di villaggi modello, mentre completiamo le reti stradali».

È un cambiamento di rotta totale. Prima la necessità di svuotare le zone cuscinetto con la Cina e renderle impervie a una possibile invasione, ma rendendo anche difficoltoso il pattugliamento. Ora la decisione di popolare il confine di strutture e abitanti, ponti, strade, treni.

L’annuncio arriva proprio quando il cosiddetto «Kissinger cinese», il rispettato diplomatico Dai Bingguo, aveva commentato che se l’India fosse disposta a consegnare territori nel «Tibet del Sud», il governo cinese avrebbe rivisto le sue posizioni in «altre aree», ovvero a nord del Kashmir, in una territorio di 38mila km quadrati che l’India reclama come suo. Scambio improponibile, al momento.

Secondo S.K. Chatterji, analista indiano di sistemi di difesa, la situazione si fa seria: «L’India si deve preparare per una breve, ma intensa guerra nei prossimi anni. Riuscire a spostare le risorse militari da un settore all’altro, a seconda delle minacce, è ora importantissimo per le forze armate indiane. Il ponte sul Brahmaputra aiuterà a muovere rapidamente mezzi e soldati lungo il confine con la Cina».

In quella frontiera, tre giorni fa, è scomparso dai radar un caccia Sukhoi-30 dell’aviazione indiana. Ieri è stato ritrovato proprio sulla linea di confine con la Cina. Nessuna traccia dei due piloti.

La Stampa – 27 maggio 2017

E. MONTALE, Sotto l'azzurro del cielo

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Palermo, Mondello ieri


Sotto l'azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
«più in là». 

da E. Montale, "Maestrale"
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