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RAZZISMO FASCISTA

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Razzismo fascista. E la cultura disse 'sì' 

Nello Ajello

La servitù di un letterato, scrisse molti anni fa un illustre critico, Francesco Flora, è sempre volontaria anche quando è passiva. Dopo la pubblicazione del Manifesto della razza, intellettuali, letterati e giornalisti esercitarono la loro servitù in maniera particolarmente attiva. Non soltanto gli organi di stampa del razzismo ufficiale, come La vita italiana di Giovanni Preziosi, Il Quadrivio o Il Tevere di Telesio Interlandi, Il Regime Fascista di Roberto Farinacci, ma anche i quotidiani normali sembrarono animarsi al seguito di una missione, sia pure turpe. E per un certo numero di scrittori l'antisemitismo rappresentò una comoda palestra in cui esercitare virtù retoriche e talenti pedagogici.
Era stato proprio Interlandi, massimo divulgatore dell'antiebraismo littorio, a proclamare sulla Difesa della razza, fin dai primi giorni di agosto del 1938, che la campagna antisemita segnava una vera rivolta intellettuale, in quanto mirava alla liberazione dell'Italia dai caratteri remissivi che le erano stati imposti dalle precedenti classi politiche. Quale occasione migliore, dunque, per mostrarsi aggiornati e rivoluzionari, senza alcun rischio, anzi avrebbe detto Francesco De Sanctis, “con licenza de' superiori”? In un saggio intitolato Le persecuzioni razziali in Italia, pubblicato in quattro puntate sul Ponte, fra il 1952 e il 1953, Antonio Spinosa offriva una nutrita antologia di scritti, letterari e giornalistici, dichiara obbedienza razzistica; e altrettanto ricca, in questo senso, è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice. Si tratta di documenti penosi, ma istruttivi.
Per questo genere di letteratura, il 1938 è naturalmente l' anno dei portenti. Esce appunto in quell'anno un saggio dello storico Gabriele De Rosa, intitolato La rivincita di Ario, in cui si sostiene l'identità ebraismo=comunismo, binomio contro il quale c'è l'asse Roma-Berlino. “Tutti sanno, - scrive De Rosa, - che noi combattiamo in terra di Spagna non l'iberico nemico, ma la terza internazionale ebraica, quella creata dall'ingegno giudaico-massonico del Komintern. Gli fanno eco, fra gli altri, giornalisti come Felice Chilanti e Ugo D'Andrea. Critici delle più diverse discipline s'impegnano, intanto, nel denunziare i danni che l'ebraismo infligge alla creazione artistica. Un noto musicologo, Francesco Santoliquido, definisce assurdamente, nell'agosto 1938, l'intera musica moderna un vero e proprio monopolio della razza ebraica. Poco più tardi, un critico letterario, Francesco Biondolillo, cerca invece di dimostrare che il pericolo maggiore è nella narrativa. Qui, da Italo Svevo, ebreo di tre cotte, ad Alberto Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo tutta una miserabile rete per pescare dal fondo limaccioso della società figure ripugnanti. Moravia non era nuovo a simili attacchi.
Già otto anni prima, nel 1931, essendo andato a visitare Giovanni Papini, era stato accolto con una battuta sconcertante: “Lei collabora alla rivista Solaria. I solariani sono o zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte e tre le cose”. “Si trattava di una frase almeno in parte inesatta”, commenta ora Moravia. Ma si può aggiungere quel tipo di accoglienza rientrava nello stile di Papini, autore, proprio nel' 31, di un romanzo intitolato Gog e ispirato al più schietto antisemitismo. Fra gli scrittori contemporanei di Papini o anche più anziani, lo spirito antiebraico non era, d'altronde, ignoto. Per Alfredo Oriani (1852-1909) dopo Gesù gli ebrei non hanno più davvero creato: nella filosofia, nella scienza, nell' arte, nella politica, possono tutto sapere, tutto adoperare: creare no. Simili umori razzisti sarebbero stati condivisi da Enrico Corradini (1865-1931), giornalista, letterato e leader politico nazionalista, poi accostatosi al fascismo. Per non parlare di Ardengo Soffici (1879-64), ispiratore ideologico fra l' altro di quel Selvaggio che individuava il proprio nemico nella plutocrazia ebraica internazionale.
Ma ora, nei tardi anni Trenta, quei lontani precedenti si amalgamavano in una parola d'ordine unitaria, e gli intellettuali antisemiti diventavano una pletora. Fra i più zelanti fu Guido Piovene, autore, sul “Corriere della Sera” del 15 dicembre 1939, di una recensione entusiastica a un libro immondo, Contra judaeos di Telesio Interlandi. La virtù principale di quest'opera consisteva, a suo parere, nell'aver ridotto all'osso la questione ebraica. Secondo Piovene, comunque, salvarsi dagli influssi semitici non era difficile: si deve sentire d'istinto, e quasi per l'odore, quello che v'è di giudaico nella cultura. Nel libro La coda di paglia (1962), lo scrittore avrebbe poi abiurato queste posizioni, confessando di aver obbedito da schiavo, senza sentirsi mai partecipe alle direttive del regime e aggiungendo che, nel ricordo, il fascismo era diventato per lui la figura stessa della sua umiliazione, umana, e soprattutto intellettuale. In altri casi, come quello di Amintore Fanfani il quale, in un saggio del '39, sosteneva che per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri un'abiura altrettanto recisa e penitenziale non c'è stata. E neppure c'è stata nel caso di Gioacchino Volpe, storico insigne (1876-1971), al quale nel 39 la politica della razza parve una tappa verso la costruzione di un'Europa veramente unita e solidale.
Ma torniamo a letterati e giornalisti. Con lo scoppio della guerra l'antisemitismo diventa un condimento abituale nei racconti degli inviati speciali. Dal ghetto di Varsavia, nel '39, Paolo Monelli scrive sul “Corriere della Sera”: “Nulla ci pare di aver in comune con questa schiatta ebraica, con la sua strana lingua, le sue insegne illeggibili, gli esotici costumi, i gesti paurosi, l'andare sbilenchi il più rasente al muro possibile”. Dalla Jugoslavia gli risponde, due anni più tardi, Alfio Russo, affermando sulla “Stampa” che “Stato Maggiore, Chiesa ortodossa, ebrei agivano nascostamente da tempo, preparavano la vanga per scavare la fossa della Jugoslavia”. Dalla Cecoslovacchia, Curzio Malaparte denunzia sul “Corriere” il pericolo sociale che rappresenta, per le città boeme, l'enorme massa del proletariato giudaico; mentre Giovanni Ansaldo scopre sulla “Gazzetta del Popolo” che sono stati gli ebrei a volere il conflitto mondiale: i rabbi di Nuova York, spingendo l'America alla guerra, hanno seguito l'istinto e la tradizione della razza.
Ci sono poi gli ossessi, come Mario Appelius e Marco Ramperti. Per il primo, Israele, traditore del mondo è un bersaglio continuo, alla radio e sui giornali. Per il secondo, “più che dalla stella gialla gli ebrei si riconoscono dalla ferocia dello sguardo”. Così scrive nel dicembre 1941, e continua: “gote livide, bocche ferine, occhi di fiamma ossidrica, spianti e perforanti di sotto in su. Se potessero, gli ebrei farebbero una strage”. E fra gli ebrei, Ramperti ne elegge uno, destinatario privilegiato dei suoi furori: il più sozzo, il più ripugnante, il più disumano e nemico è Charlot... l'avaro Charlot, l'indecente Charlot, il montecatto Charlot. E qui siamo alla trascrizione letterario-anedottica, con l' aggiunta di una furibonda retorica, delle teorie di Giovanni Preziosi e di Julius Evola.
Furono tutti così? Sostenerlo sarebbe fuori luogo. Perfino nell'intellighenzia fascista si riscontrano casi di adesione soltanto parziale al razzismo, o addirittura di ripudio. Nella prima categoria va inserito per fare qualche rapido esempio Giuseppe Bottai che, a detta di un suo biografo, Alexander J. De Grand, fu in grado di limitare l'applicabilità alla cultura delle teorie antisemite; nella seconda, Filippo Tommaso Marinetti, che espresse la sua disapprovazione fin dal novembre 1938. In ambiente cattolico, Giorgio La Pira fu tra i più ostili alla campagna antisemita. A divisioni significative si assiste anche nel dibattito sul tema arte e razza. Ugo Ojetti si riconosce nel fanatismo razzista. L'ex futurista Carlo Carrà si schiera invece con coraggio sulla trincea opposta: “Chiamare ebraizzante l'arte moderna italiana, non potendo chiamare ebrei gli artisti che oggi meglio la rappresentano, è tutto sommato molto puerile”. Siamo nel dicembre del ' 38. Pochi giorni prima, il 28 novembre, si è suicidato a Modena, gettandosi dall'alto della torre Ghirlandina, un intellettuale ebreo: il sessantenne editore Angelo Fortunato Formiggini. Era un uomo colto, con una vera di caustico anticonformismo, come dimostra un suo pamphlet del 1923 contro Giovanni Gentile. Aveva creato una casa editrice di buon livello. In una lettera indirizzata alla moglie poco prima di uccidersi, scrisse che sentiva un dovere impellente: dimostrare l'assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti. Forse Formiggini non immaginava, con queste parole, di dettare un'epigrafe. Su se stesso e su un momento assai triste della storia d' Italia.
“la Repubblica”, 12 luglio 1988 

MIGRANTI E VALORI

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Secondo la Cassazione i migranti dovranno conformarsi ai "nostri valori". Ma quali sono i "nostri valori"?  Chiediamo al Parroco di Capo Rizzuto?

BORGES SUL MARE

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Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare.

 Jorge Luis Borges






IL 19 MAGGIO DACIA MARAINI A PALERMO

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Il Polo Museale Regionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Palermo e la Fondazione Orestiadi di Gibellina presentano il ciclo di incontri Un viaggio nella scrittura femminile, a cura di Anna Maria Ruta.

Dopo i primi due incontri con le scrittrici Silvana Grasso ed Elvira Seminara, sarà la volta di Dacia Maraini, Venerdì 19 Maggio alle 17.30 presso Palazzo Riso, dialogherà con la scrittrice Salvatore Ferlita.

 
Oltre a parlare della loro scrittura, le autrici sono invitate a raccontare anche e soprattutto del loro rapporto con la Sicilia, con la terra madre, da cui hanno variamente attinto vita, cultura, pensieri, riflessioni per le loro trame narrative. Come la vedono la loro Isola queste scrittrici? «La Sicilia è un luogo di memoria e di creatività, dove intraprendere un’escursione attraverso i ricordi feriti, un viaggio narrativo ed esperienziale «alla ricerca dell’isola perduta», tra vissuto e scrittura, tra passato e presente, che la Maraini affida alle migliori pagine della sua scrittura.
Accattivanti, allora, questi incontri ravvicinati, vis à vis, in cui le avremo davanti a noi, vive, in carne e ossa, portatrici di tipologie narrative diverse, ma tutte altrettanto intriganti, con montaggi di scrittura personali (la letteratura è anche tecnica, è anche costruzione), con mitologie e simbolismi ora più drammatici, ora più sofisticati, ora con un tocco di leggerezza affascinante, ora con picchi lirici, ma pur sempre autoreferenziali, alimentate dal proprio vissuto, dal proprio back ground personale.
Gli incontri sono inseriti nel programma Il Maggio dei Libri, campagna nazionale del Mibact - Centro per il libro e la lettura - con l’obiettivo di sottolineare il valore sociale della lettura nella crescita personale, culturale e civile.

QUANTO POTRA' DURARE IL NOSTRO AMORE?

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Ho portato il guanciale e sto a giacere
Alla finestra di Settentrione;
Vieni a giocare un pochino con me!
Con tante liti e così pochi baci
Quanto potrà durare il nostro amore?

 
 Anonimo in Liriche cinesi, Einaudi, 1987

L' ARTE FOTOGRAFICA DI MARIO GIACOMELLI

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 Nel Complesso Monumentale di Astino (Bergamo), fino al 31 luglio, è visitabile la mostra “Mario Giacomelli. Terre scritte”, a cura di Corrado Benigni e Mauro Zanchi.Il testo che segue fa parte del catalogo della mostra, pubblicato da Silvana Editoriale.

Le terre scritte di Mario Giacomelli

di Corrado Benigni

Mario Giacomelli (1925-2000) è stato il più visionario e insieme il più visivo dei fotografi italiani degli ultimi decenni. Grazie a un sorprendente virtuosismo immaginativo, non contaminato da sovrastrutture culturali e ideologiche, egli è riuscito a vedere e a mostrare ciò che agli altri era impossibile scorgere. La sua fotografia ci conduce dove non siamo mai stati, suggerendoci corrispondenze inesplorate: volti e figure di corpi umani nei tronchi di un albero o linee astratte dentro un campo arato visto dall’alto. Questo perché l’opera di Giacomelli è prima di tutto il risultato di una forma di pensiero e di sguardo puramente analogica che percepisce somiglianze che nessun altro avrebbe saputo trovare. L’analogia è una forma di conoscenza che la nostra cultura ha respinto sempre più ai margini, ma che Giacomelli − con il suo temperamento da irregolare e “incongregabile” (per usare un’espressione cara ad Alberto Savinio) − ha fatto propria: una sorta di istinto fisiognomico che gli ha permesso di ridisegnare ogni volta la geografia del sapere fotografico. Ha immortalato l’apparentemente invisibile prediligendo i lapsus stilistici, le pieghe segrete, gli aspetti imprevisti, i barlumi visivi, in un’ostinata ricerca del non-finito, dell’irrisolto, dell’incompiuto. Anche per questo il suo stile è personalissimo e inconfondibile. «La mia è una mediazione tra realtà e fantasia. Immagini volute, create, come pensiero, come segno di un movimento interiore (…). Non vorrei ripetere le cose visibili, ma renderle visibili, interiorizzate, vorrei poter scivolare sotto la pelle delle cose, poter mostrare l’energia che passa tra l’anima mia e le cose che mi sono attorno», ha detto. L’immagine dunque è stata la sua vera ossessione: il visibile nella sua dimensione perturbante e misteriosa. L’opera di Giacomelli conferma nel modo più concreto le parole di San Paolo: vediamo come in uno specchio e per enigmi. A pensarci bene, infatti, la fotografia è anche un’illazione che facciamo sugli enigmi di noi stessi e degli altri, senza raggiungere certezze. Forse per questo c’è nel linguaggio fotografico una vocazione all’incompiuto.

Tutto il lavoro di Giacomelli è attraversato da echi che rimandano e rimbalzano dal verso all’immagine. In lui, poesia e immagine appaiono come la declinazione di una fonte comune dalla quale possono generarsi vicendevolmente e appartenersi. In fondo ogni gesto espressivo, verbale o iconografico, è il luogo in cui impera la forma, il luogo in cui si celebra il baudelairiano culte des images. Quasi fossero un unico poema, le fotografie di Mario Giacomelli si rincorrono e a volte addirittura tornano da una serie all’altra, da una stanza all’altra. Come la sequenza dei Paesaggi proposti in questo volume.
Il paesaggio di Giacomelli è insieme reale e inventato, così come il suo sguardo è visionario e visivo al contempo. È il pretesto per rappresentare una situazione altra. «Odio le immagini che rimangono così come la macchina le vede. Riprendere un soggetto senza però modificare niente è come aver sprecato tempo», ha detto. Le sue sono ‘terre scritte’, dove l’orizzonte è quasi del tutto eliminato: un incastro di tempo e non-tempo, che può forse esistere solo in un mondo contadino, il più epico e il più oscuro, triste e invivibile, riluttante alla civiltà e all’umano o forse ignaro di essi, nodosa e scorzata radice della vita che spacca la terra per crescere e poi marcire.

Le fotografie qui presentate sono soprattutto quelle scattate a partire dagli anni Ottanta, dove la sua scrittura si fa più incisiva, a tratti violenta, come se gli elementi della terra, alberi ed erba, affiorassero quasi alla superficie del foglio, come se improvvisamente tutte le componenti del sistema venissero sul medesimo piano per poi affondare di nuovo. I paesaggi sembrano aerei anche quando si tratta di pendii di colline. È capitato che chiedesse ai contadini di arare e mietere secondo una certa forma. In questo ciclo il rapporto tra campagna e memoria, tra Giacomelli e una terra-madre negata e accettata si fa più drammatico, traducendosi in un’asciutta e grande rappresentazione, dove la presenza umana è quasi del tutto assente. Della terra egli coglie i segni, la materia, i solchi, tuttavia trovando in essi corrispondenze con i corpi dell’uomo, perché la terra, nella sua poetica, è la carne stessa dell’uomo.
Giacomelli è stato un fotografo sempre in fieri: ogni fotografia contiene già in pectore quelle successive. Così la serie del paesaggio è profondamente legata a un altro importante capitolo della sua opera: Motivo suggerito dal taglio dell’albero. Entrambe queste ricerche sono le più dimostrative del suo modo di procedere e del suo modo di costruire. Nel complesso la sua opera è caratterizzata dalla ricchezza di rimandi interni e di sviluppi che la rendono inconfondibile, nelle parti come nell’insieme.
In questa serie di scatti, in particolare, partendo dai piccoli dettagli della natura, che veicolano in sé un respiro umano, come un alchimista dello sguardo egli trasforma l’immagine in un ‘doppio visivo’. Il taglio dell’albero suggerisce a Giacomelli lo spunto per indagare – attraverso forme reali – immagini scaturite dalla sua fantasia: volti di persone, facce urlanti, nudi di donna e maternità. È come se percepisse un intimo legame fra quelle superfici rugose e i contadini che ha fotografato fin lì. «Nella sezione dell’albero – ha spiegato lo stesso Giacomelli – ho cercato quei volti che pensavo di trovare tra i contadini, le loro espressioni che non sapevo fermare altrimenti; sono nodi, spacchi; in una sezione si vedono delle palme, in altri volti umani, in certi vedi un ciglio non reale, troppo alto ma a me piace ancora di più perché mi dà l’idea del volto con tre segni». Le sue fotografie presentano un mondo in cui il legame con la terra – e con la quotidiana esperienza di chi la abita e lavora – sprigiona un senso di complessa autenticità vitale.
Attraverso gli alberi è come se la natura parlasse all’uomo, mostrasse la propria anima, tramite un proprio ‘paesaggio in codice’, che solo uno sguardo sensibile, allenato a osservare il mondo oltre le apparenze, riesce a cogliere. La serie dell’albero tagliato, in particolare, mette in luce la scrittura nettamente metaforica di Giacomelli, che non legge la realtà nei termini della tradizione e in modo oggettivo, ma concependo il visibile come spazio poetico simbolico, all’interno del quale si esercita liberamente il pensiero fotografico. In questo modo partendo dall’immagine ripresa dalla camera, dall’insieme delle linee dei tronchi, è riuscito a ritrovare dentro di essi dei volti e delle figure antropomorfe. Questo è stato possibile anche grazie alla tecnica con cui il fotografo marchigiano ha stampato le sue foto, concentrandosi sul contrasto dei bianchi abbacinati e dei neri. Anche in questo modo in ogni sua fotografia si avverte il senso di un piccolo atto drammatico (nell’accezione greca del termine): la consapevolezza cioè di fissare ‘materialmente’ su carta qualcosa che è latente e destinato a scomparire.
Il suo è un linguaggio interiore, che esprime un discorso assai più emozionale che analitico. Per Giacomelli, infatti, fare esperienza della fotografia è tentare – con forte libertà inventiva, ma non gridata – di dare corpo e respiro a quel che l’astrazione o il ‘pensiero concettuale’ hanno privato di singolarità, di senso corporeo e desiderio e pulsazione. Sottrarre il visibile ai sistemi di definizione e alle recinzioni dei saperi sovrapposti.
L’opera di Giacomelli è dunque una bussola antropologica, che ha a che vedere con la consapevolezza di sé, come se la nostra immagine, ciò che davvero siamo, ci venisse ogni volta restituita. E questo forse, a ben vedere, è il dono più grande che il maestro marchigiano ci ha lasciato.


[Immagine: foto di Mario Giacomelli]

LA LINGUA DELL' ESPERIENZA IN UN CONVEGNO SU LUIGI MENEGHELLO

LA FOLLIA SECONDO M. FOUCAULT

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Manuela Busalla, con questa essenziale recensione, ci invita a rileggere un testo classico del pensiero contemporaneo:


Foucault e la fenomenologia della follia
I tanti volti della devianza e il loro significato antropologico. Un viaggio nelle pieghe della diversità per comprendere disfunzioni sociali e fragilità valide ancora oggi.

Un approccio scientifico multidisciplinare, un’attenta analisi sociale con profonde implicazioni morali, ma anche una lettura ragionata che sottende argomenti legati a letteratura e arte. Storia della follia nell’età classica (1961) è uno studio condotto con metodo strutturalista sulle relazioni tra le scienze umane, la filosofia e le istituzioni. Michel Foucault passa in rassegna il pensiero dal tardo Medioevo alla Rivoluzione industriale per scandagliare tutti quei complessi meccanismi che – di volta in volta – hanno fatto di devianza e diversità una malattia.
La follia apre un vuoto, suggerisce a gran voce interrogativi che talvolta non hanno una risposta e in tal misura è uno stimolo creativo. Allo stesso modo la malinconia può produrre stati di eccellenza intellettuale. A partire da queste premesse Foucault studia la ghettizzazione a cui venivano sottoposti gli insani. Spesso confusi coi malati, essi erano internati nei lebbrosari d’epoca medievale. Eppure con lo sparire della lebbra tali strutture continuano a svolgere un ruolo proprio. Si arriva agli asili o ai ricoveri sorti nel XV secolo e poi trasformati nel Seicento in ospedali. Basti pensare che in Francia sarà un decreto del 1656 a istituire il primo hôpital général. Nel corso del tempo tuttavia persino le prigioni assolveranno ruoli analoghi, quando la confusione tra carità e repressione sarà totale, quando folli e non folli finiranno costretti tra le medesime mura.
Esclusione e abbandono hanno però un senso profondo, quasi trascendentale. L’abbandono garantisce al malato una reintegrazione spirituale e una forma di salvezza. Perché il suo stato di salute mentale viene letto come delirio legato alla fede o a speculazioni filosofiche. Poi, con il primo Rinascimento, si cede il passo a un modo di ragionare nuovo. Se la “nave dei folli” aveva un senso in quanto allontanava il pericolo dalle città, più avanti l’acqua assume un valore simbolico differente. Essa purifica e la navigazione viene vista come un rito di passaggio per rientrare nei canoni della normalità, nei ranghi dell’ordinario. A tale proposito Foucault ricorda quanto accade nell’arte. Con Hieronymus Bosch, Dürer e Brueghel la follia entra nella rappresentazione pittorica, affascina l’osservatore e gioca un ruolo analogo in letteratura. Ce lo ricordano Cervantes col suo Don Chisciotte e Shakespeare tra le pagine del Macbeth.
La storia della follia attraversa alterne vicende. C’è un momento in cui essa diventa un tema caro ai mistici: rinuncia al mondo, abbandono totale all’oscura volontà divina. Erasmo da Rotterdam parla di un Dio che nasconde ai saggi il mistero della salvezza, salvando il mondo dalla follia stessa. Per Blaise Pascal gli uomini sono necessariamente pazzi, «che il non esser pazzo equivarrebbe a esser soggetto a un altro genere di pazzia». Gli attori sociali che entrano in gioco sono diversi. La Chiesa non resta estranea al discorso, non è poi così lontana dall’organizzazione degli ospedali generali. Tanto più che la follia viene definita “malattia dell’anima” e bisognerà aspettare Freud perché sia considerata “malattia mentale”. Ma in mezzo ci sono Philippe Pinel e Samuel Tuke. Psichiatra francese e attento innovatore, il primo conduce un’analisi fisiologica del disturbo mentale. L’altro, filantropo e riformatore inglese, discetta di trattamenti “morali” come sola cura adeguata.
Con il Rinascimento, invece, follia e miseria perdono spessore mistico. In un’ottica rinnovata, povertà significa punizione. L’uomo ha i suoi doveri verso la società. Il folle viene condannato poiché mina alla base l’ordine pubblico. L’internamento assume un valore nuovo: l’internato deve essere produttivo. Sorge così il mito della felicità sociale, ma in tutta Europa le case d’internamento si rivelano un insuccesso. Nella Storia della follia Foucault non tralascia il racconto delle pratiche magiche per curare la demenza, parla della musica e del suo senso terapeutico. L’analisi è ancora oggi attuale poiché la follia è un aspetto del progresso e della civiltà. Si dà quindi voce a Nietzsche, Van Gogh e Artaud.
Nella follia l’uomo scopre la verità e solo allora una guarigione è possibile. Foucault ci lascia con un assioma: la follia diventa l’ambito di governo di una nuova scienza, la psichiatria. Ma quello che può sorprende è l’attualità di questo saggio laddove si legge «la follia non spiega e non scusa niente… entra in complicità col male per moltiplicarlo, per renderlo più insistente e pericoloso, e prestargli nuovi volti».
Manuela Busalla 2017
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S. SILVANO NIGRO SUL VOLTAIRE SICILIANO

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Riprendiamo un ampio stralcio della recensione, sotto molti punti di vista eccellente, di Salvatore Silvano Nigroalla recente riedizione per Adelphi (2017), curata da Paolo Squillacioti, di A futura memoria, l'ultimo libro di Leonardo Sciascia.


 Avere ragione (o sbagliarsi) alla Voltaire
 Salvatore Silvano Nigro

A futura memoria (se la memoria ha un futuro)è un libro estremo, terminale. Leonardo Sciascia licenziò le bozze, senza neppure correggerle. Le scorse soltanto. La data che appose all’Introduzione, «novembre 1989», non indicava il giorno. Non poteva. Sciascia era sul letto di morte. Voleva che le carte, uscite dalle sue mani, fossero comunque segnate dall’ormai prossima scomparsa del loro autore; e si affidassero postume ai lettori, come un testamento. Era novembre. La morte arrivò il 20. Il libro era stato lanciato oltre l’orizzonte, con la speranza ultima che la «malafede» fanatica di quanti, tra mascalzonate e patetismi sociologici, avevano tentato di screditare l’impegno civile dello scrittore, non fosse intanto riuscita a negare o a rendere corta la «memoria».
[...]
A futura memoria è una raccolta di scritti polemici (su «certi delitti, certa amministrazione della giustizia; e sulla mafia») pubblicati su quotidiani e settimanali nell’arco di un decennio, dal 1979 al 1988. Sciascia auspicava che il libro venisse letto «con serenità». Con quella serenità che di certo era mancata quando gli articoli erano apparsi singolarmente, per la prima volta. Basti pensare al celebre intervento intitolato I professionisti dell’antimafia («Corriere della Sera», 10 gennaio 1987) che, riletto oggi, nel libro, senza la torbida e maligna seduttività della titolazione redazionale, si stenta a credere che possa essere stato scambiato per un subdolo attacco personale a uno dei massimi protagonisti della lotta alla mafia; mentre oggi appare poco più che un ragionevole articolo di denuncia della procedura (burocraticamente incoerente) seguita per la promozione del giudice Borsellino al posto di Procuratore della Repubblica a Marsala. A suo tempo si aprirono, contro lo scrittore, le cateratte della «retorica nazionale». Sciascia si sentì messo al bando, collocato ai margini della «società civile». Reagì volterrianamente, con implacabile intelligenza; e un (letteratissimo) sorriso sottotraccia. Chiamò «imbecilli» i falsari del risentimento nazionale, associando l’imbecillità (com’era solito) al «berretto di Charles Bovary»: «Flaubert lo descrive per mezza pagina, ma a un certo punto, come rendendosi conto della “indescrivibilità” dell’oggetto, si ferma ad assomigliarlo alla faccia di un imbecille. Del resto – e giustamente – l’imbecillità e gli imbecilli sono apparsi sempre, a Gustave Flaubert, maledettamente complicati. L’intelligenza – che come Poe ci insegna è meno mente matematica e più mente poetica – è semplice e semplificante, produce il semplice e semplifica».
Al generale Dalla Chiesa piaceva identificarsi con il capitano dei carabinieri del Giorno della civetta di Sciascia, tanto da pensare che lo scrittore si fosse ispirato a lui per tratteggiare figura e carattere del personaggio letterario. Nulla di male. Era un nobile sentimento. Una legittima illusione. A Sciascia però non si voleva riconoscere il diritto di rivelare il soggetto vero della sua ispirazione, che era sì un generale dei carabinieri ma si chiamava Renato Candida. Quando il disvelamento accadde, l’episodio venne letto (ecco di nuovo un caso di «complicazione» alla Flaubert) come un atto di bassa delegittimazione del generale Dalla Chiesa, fra l’altro caduto in un agguato mafioso a Palermo, insieme alla moglie e all’agente di scorta; e come una delle possibili prove dell’«alleanza oggettiva» di Sciascia con le potenze eversive contro le quali diceva di schierarsi: «Non molti anni fa, a rendere impronunciabili certe verità, si diceva che facevano il gioco di qualcuno o di qualcosa che bisognava invece combattere; oggi l’interdetto sulle verità cade con l’espressione di “alleanza oggettiva”. Ricatto insopportabile e che non sopporto», scriveva Sciascia.
È con il nome di Candida che si chiude A futura memoria: «E infine, quel che i lettori si aspettano che io dica: non solo per Il giorno della civetta, ma per ogni mio racconto in cui c’è il personaggio di un investigatore, la figura e gli intendimenti di Renato Candida, la sua esperienza, il suo agire, più o meno vagamente mi si sono presentati alla memoria, all’immaginazione». Del resto Candida «aveva scritto sulla mafia un libro che precorre di trentadue anni, rompendo il silenzio che le istituzioni e gli uomini che le rappresentavano rigorosamente mantenevano, quella volontà di abbatterla che oggi sembra anche diffondersi, oltre che nella coscienza degli italiani, nelle istituzioni». Di questo libro Sciascia, tra l’agosto e l’ottobre del 1956, discusse a lungo con l’editore Vito Laterza in un manipolo di lettere che non sono state accolte nel recente carteggio Sciascia-Laterza, L’invenzione di Regalpetra (Editore Laterza, Introduzione di Tullio De Mauro, 2016). Vale la pena trascrivere almeno la prima di queste lettere inedite datata 9 agosto 1956: «Caro Dr. Laterza, (…) un maggiore dei carabinieri, pugliese, comandante dei gruppi di Agrigento, lavora a un saggio sulla mafia nell’agrigentino che ritengo possa riuscire di grande interesse. Il lavoro è destinato, per trattative intercorse, a Sciascia editore: ma io, senza mancare di lealtà verso Salvatore Sciascia, vedrei meglio il saggio nei Suoi Libri del tempo. Debbo farLe presente che il maggiore scrive… correntemente. Ma è la materia che è interessantissima, e rivela un mondo anche per me sconosciuto. Se riuscissi a convincere Sciascia a rinunciare alla pubblicazione del libro (rinuncia che sarebbe salutare per lui, stante che opera in una città [Caltanissetta] che è focolaio di mafia), Lei sarebbe disposto, in linea di massima ad accettarlo? – Io, ma con discrezione, cercherei di mettere mano nella definitiva stesura del saggio».
La mafia, il pentitismo, i cadaveri eccellenti, l’ingiusta detenzione, l’errore giudiziario sono i temi terribili (per la coscienza, la civiltà, la politica, la storia) che Sciascia affronta in questo libello. La sua prosa è tersa, inquieta nella sintassi che si avvolge e si districa per accerchiare infine, con fulminante esattezza, il punto cieco nel quale si annida lo scandalo della ragione. Gli articoli si concedono diversioni aneddotiche, racconti brevi, minimi: l’osservazione degli eventi è per lo più filtrata da varie suggestioni letterarie. Il libro va letto anche come reinvenzione della scelta corsara della polemica civile, con la consapevolezza che essa sempre e comunque appartiene alla letteratura. Può capitare talvolta che le conclusioni di Sciascia (ed è il caso del “suicidio” di Calvi) non siano più condivisibili (dopo anni e nuove acquisizioni). Poco importa. Voltaire si sbagliò sul caso Calas. Ma scrisse quel capolavoro che si chiama Trattato della tolleranza. Ce lo ricorda lo stesso Sciascia.
Fra gli aneddoti piacevoli intramati nel libro, uno, evocato a proposito della inespugnabilità della prosa burocratica, è spendibile nel dibattito in corso sull’uso della lingua italiana nella nostra scuola: «Quando io andavo a scuola, e la scuola già appariva abbastanza malandata (ma davvero c’è stato un tempo in cui andava bene?), si raccontava l’aneddoto di quella commissione d’esami in cui, interrogato in storia, il candidato dice a un certo punto: «i galli hanno sceso per le Alpi». Al che il professore di lettere dolcemente osserva: “se si potrebbe dire”, così suscitando l’indignazione del presidente, che esclama: “dove abbiamo giunto”». Anche la questione linguistica faceva e continua a far parte della questione civile.


Da “Il Sole 24 Ore Domenica”, 28 marzo 2017

L. CANFORA SUL TEATRO DI ARISTOFANE

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Ad Atene il teatro aveva una forte impronta politica. Con effetti molto pericolosi. Luciano Canfora rivela il senso politico del teatro di Aristofane.

Mauro Bonazzi

L’arma letale di Aristofane

Che cosa succede quando un comico comincia a fare politica? Che vuol dire «popolo» in democrazia? Sono le domande intorno a cui ruota il nuovo libro di Luciano Canfora Cleofonte deve morire (Laterza). Protagonista indiscusso è Aristofane, il più noto commediografo di Atene, uno dei più grandi di tutti i tempi. L’ideatore di storie strampalate (città costruite in cielo, viaggi nell’oltretomba) con personaggi esilaranti (ossessionati dal sesso o dai tribunali, inseguiti dai creditori, che si depilano petto e gambe: una bella descrizione degli italiani, tra l’altro). Le battute si susseguono con ritmo vorticoso, su piani linguistici diversi, ora volgari ora raffinati, più spesso entrambi insieme. Senza riguardo per niente e nessuno, perché l’unico obiettivo è la risata, e la vittoria nella competizione teatrale.

Tutte cose note, per chi si è divertito con le sue commedie. Meno note sono invece le implicazioni politiche che si nascondono nei suoi versi, soprattutto dove meno ce lo si aspetta. Di questo si occupa Canfora, e improvvisamente si squaderna davanti agli occhi del lettore la vita di una città in permanente fibrillazione, lacerata da scontri sempre più violenti, incapace di resistere alle passioni che la travolgono. Ad Atene tutto è politico.


In alcuni casi la polemica è tanto virulenta quanto esplicita — nei Cavalieri il Paflagone che i cavalieri devono sconfiggere allude smaccatamente all’odiato Cleone, il leader democratico erede di Pericle. Ma è nelle commedie cosiddette d’evasione che il discorso si fa più interessante. Nella Lisistrata ad esempio, in cui la trama boccaccesca — uno sciopero del sesso fino a che i maschi non firmeranno la pace con Sparta — serve anche a descrivere il colpo di Stato oligarchico del 411. La parola d’ordine, che deve legittimare la congiura di fronte all’assemblea popolare, è la stessa che Lisistrata ha difeso in scena: è solo per poter concludere il più in fretta possibile una guerra vantaggiosa per pochi che bisogna destituire gli attuali governanti democratici. La commedia, insomma, non è solo una descrizione, ma anche una difesa della necessità del putsch .

Ancora, nelle Rane del 406 lo strampalato viaggio di Dioniso agli Inferi è ripetutamente interrotto da proclami che invitano all’unità e alla concordia, per restituire i diritti civici a quei cittadini che li avevano persi. Un invito lodevole, se preso in termini generici. Un invito più problematico, quando si pensa chi sono i cittadini che vanno reintegrati nel corpo della città: i responsabili delle sedizioni degli anni precedenti, che in quei mesi stavano orchestrando l’assassinio del democratico Cleofonte e che di lì a poco avrebbero nuovamente abbattuto il governo, grazie all’intervento spartano. Aveva le idee chiare, Aristofane, e sapeva come esprimerle.


In palio c’è il controllo del «popolo», che è poi l’obiettivo di tutti i conflitti politici. Inventori della democrazia, gli Ateniesi lo hanno capito per primi: «popolo» è un termine vuoto, che attende di essere riempito di un contenuto. È una entità la cui natura sarà determinata da chi prevale nello scontro politico. Per i democratici il popolo è la collettività, che insieme stabilisce le leggi e i princìpi che permetteranno a tutti di prosperare. Niente di più fuorviante per gli oligarchici, di cui Aristofane sembra condividere le idee, che nel popolo vedono invece una parte soltanto del corpo sociale: quella maggioranza silenziosa che abita nelle campagne e che si riconosce nei sani valori della tradizione. Una maggioranza destinata ad essere sopraffatta dal blocco sociale urbano (dedito agli affari e ai commerci, e per questo bisognoso di un impero globale), se non saprà affidarsi alle persone giuste: «Dementi, cambiate sistema e tornate a servirvi delle persone per bene!», tuona il coro delle Rane . 

Sono dibattiti che non mancano di attualità, viene da osservare. E Aristofane — raffinato e moderno maestro di comunicazione politica, che indossa una maschera popolana per accreditarsi come la guida capace di salvare la città — ha tanto da insegnarci oggi, in un mondo in cui il dibattito politico è sempre più influenzato dall’adozione di registri comici e satirici. Perché se in politica tutto passa per le parole, la commedia, grazie alla libertà che le è concessa, acquista un peso notevole: con le sue battute può parlare di quello di cui gli altri devono tacere; e può colpire dove le difese sono più sguarnite.

Il gioco, però, è rischioso. Fino a che si tiene sopra le parti, questa libertà ha un che di meraviglioso: smaschera le ipocrisie del potere, svelando le realtà poco nobili che si nascondono dietro ai proclami altisonanti. Ma quando passa a difendere gli interessi di una fazione, il potere di cui dispone e gli eccessi in cui inevitabilmente cade (deve pur far ridere, altrimenti è solo noioso moralismo) rischiano di scatenare passioni che poi è difficile controllare. Contribuendo nell’immediato al successo della sua parte, sulla lunga distanza alza il livello della conflittualità, rendendo normale quello che normale non dovrebbe essere: l’attacco diretto, la battuta greve, la deformazione non più divertente — tutte cose di cui poi ci si pente, sorpresi di aver potuto osare tanto. Sempre troppo tardi, però. Sono dinamiche che non hanno aiutato gli Ateniesi. Speriamo di essere più saggi. 


Il Corriere della sera/La Lettura – 14 maggio 2017

IL TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI SECONDO PASOLINI

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« il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l’Italia».

P. P. PASOLINI, Lettere Luterane, pag 30

MARIELLA TRAMONTANO, Scrivo i desideri

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Scrivo i desideri
E mi racconto l'amore


Pianto fiori
Ascolto il vento
Parlo piano


Percorro i tagli
migliori strade
del mio cammino 


Scrivo i desideri
E ancora
mi racconto l'amore


Mariella Tramontano 19/05/2016


Il testo integrale dell'intervista rilasciata da STEFANO VILARDO a Repubblica

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      Qualche giorno fa ho provato a fare una sintesi della bella intervista di Tano Gullo a Stefano Vilardo, pubblicata domenica scorsa sulle pagine palermitane de La Repubblica. Ma, si sa, ogni riassunto è sempre soggettivo e, considerato il peso che hanno le parole, mi sembra corretto dare la possibilità a tutti i lettori di questo blog di farsi una idea diretta del pensiero del grande amico di Leonardo Sciascia.
                fv

JUNG VISTO DA R. MADERA

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Lea Melandri
La visione luminosa dell’inconscio

L’ultimo libro di Romano Màdera, Carl Gustav Jung (Feltrinelli, pp. 160, euro 14) è difficile da districare nei suoi molteplici annodamenti e al contempo affascinante per il sapere a cui vorrebbe aprire la strada: «fortemente individualizzato, autobiografico e biografico, immaginativo, emozionale, onirizzato e relazionale».

Una «clinica dell’individuazione», intenta a riportare la dimensione inconscia collettiva al momento storico-biografico delle persone è, del resto, l’assunto principale di Philo e Sabot, le scuole a orientamento filosofico di cui Màdera è stato ideatore.

La ricerca di nessi tra individuo e collettivo, tra i mutamenti storici, sociali, culturali e il riflesso che hanno nel vissuto dei singoli, è stata al centro dei movimenti antiautoritari degli anni Settanta, del femminismo in particolare, e la psicoanalisi, sia pure per un tempo breve, è sembrata indispensabile per interrogare l’agire politico.

La «sfinge analitica» – scriveva Elvio Fachinelli – aspetta al varco il viandante e il quesito che gli pone è «che cosa è l’uomo». Ma per incontrare Edipo bisogna essere sulla strada di Tebe, bisogna che l’analista porti in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica.

Ma si può dire – come fa notare Màdera – che la stessa psicoanalisi aveva rappresentato, agli inizi del Novecento, il «sintomo» di un profondo rivolgimento della ragione e della cultura occidentale, la crisi del patriarcato e l’inizio di quella che Jung, identificando sesso e genere, chiama la rinascita attraverso il «principio femminile», l’ingresso nel «dominio vero e proprio della donna, la sua psicologia basata sul privilegio dell’Eros», cioè sessualità, corporeità, istinti, maternità creativa.

È su questi inizi e sul Libro rosso di Jung del 1916 che si ferma l’attenzione di chi, come Màdera, ha conosciuto le delusioni della sua militanza politica e l’analisi che gli avrebbe «cambiato la vita». Con un libro che fa della «immaginazione attiva» – sogni, visioni, metafore, simboli – la «via regia per il viaggio nell’inconscio», Jung si fa interprete di una svolta che coinvolge, al medesimo tempo, la sua vita personale, la separazione da Freud, padre, maestro, e il contesto storico culturale che ha fatto da sfondo alla Grande Guerra.

Dallo smottamento di una storia che si era basata fino ad allora sulla tradizione e l’imitazione, così come dalla presa di distanza dal successo, dalla maschera professionale e accademica, avrebbe preso avvio la psicoterapia vista come «processo di sviluppo della personalità», la via dell’individuazione capace di portare gli umani a sentire la comunanza delle loro vite.

Per quanto ancora legato, come Freud, all’idea che sia da cercare nella psiche la «sorgente segreta della storia», Jung sembra tuttavia voler riportare la malattia al di là del singolo, il nevrotico visto come un «sistema di relazioni sociali ammalato».

A fare da ponte, da mediazione, tra il vissuto del singolo e il segno che lasciano su di esso l’eredità storica e il presente, sono le immagini dominanti nell’inconscio collettivo rielaborate dalla psiche individuale. Per unirsi a se stessi – precisa Màdera – bisogna sapere di poter crescere sul terreno della comune umanità. Il viaggio per il mare notturno dell’inconscio collettivo e personale è imprescindibile se si vuole rimanere in contatto con ciò che ci costituisce, ci nutre, ci sfida a trovare «la nostra personalissima equazione di risposta all’enigma che la vita è».

Ma perché la clinica della individuazione diventi in qualche modo anche «clinica del mondo», una via per interrogare la nevrosi comune di un determinato tempo storico culturale, è necessario una «rinascita della psiche» come riunificazione degli opposti ereditati dalla visione maschile del mondo: inclusione del male, della corporeità, degli istinti, del «pantano e delle rovine che ogni secolo ha lasciato in noi».

È in questo appello alla totalità dell’uomo, alla ricerca di un senso che può venire solo dalla cooperazione della coscienza con l’inconscio, che Màdera vede la «modernità» del Libro Rosso di Jung. La figura più rappresentativa della nostra cultura e della nostra psiche, individuale e collettiva, è il «caos», frutto di una globalità che è accumulazione fine a se stessa, iperstimolazione di bisogni e desideri, licitazionismo, orrore e diseguaglianza in crescita.
Tra gli aspetti rimossi della vita psichica c’è il «non-potere», l’interdipendenza degli umani, la guerra con l’ «ombra» che ci portiamo dentro e che, proiettata all’esterno va alla ricerca ogni volta di un capro espiatorio: il nemico, lo straniero, il diverso.

Màdera ricorda l’esplosione della Jugoslavia, dieci anni di atrocità che mostrano che il nuovo ordine mondiale «non solo è inesistente ma volge al caos; che la globalizzazione non salva, neppure in Europa dallo sterminio di massa come mezzo per affrontare i conflitti».

Il libro si chiude con quello che Màdera chiama un «astuto paradosso»: la via della individuazione spinge ad assumersi la responsabilità della propria vita e quindi anche ad abbandonare Jung per «rilanciare il futuro del suo insegnamento», prendersi la responsabilità del distacco solitario come via per una «autorealizzazione consapevole e solidale» nel concepirsi dentro l’«interdipendenza» di ciascuno da tutto e da tutti.
il manifesto – 17 maggio 2017

IN SICILIA GIUSTIZIA A TEMPO DI ROLEX


IL GARIBALDI DI STEFANO VILARDO A MARSALA

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Mercoledì 24 maggio 2017, ore 18.00, al Convento del Carmine di Marsala, si presenta il nuovo libro di Stefano Vilardo, Garibaldi e il Cavaliere. Storia, racconti e folclore di un paese della profonda Sicilia.
Siete tutti invitati a partecipare.

STORIA DEL PIU' ANTICO SIMBOLO EBRAICO

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I Musei Vaticani e il Museo Ebraico dedicano una mostra al più importante tra i segni dell'ebraismo: dal testo biblico al candelabro del Tempio di Gerusalemme.

Anna Foa

A Roma storia e mito della Menorà, il più antico simbolo ebraico

La mostra che si apre in Vaticano lunedì 15 maggio, organizzata in collaborazione tra i Musei Vaticani e il Museo Ebraico di Roma, è intitolata "Menorà: culto, storia e mito". La Menorà, il candelabro a sette braccia il cui nome ha la stessa radice di or, luce, è il maggiore e il più antico dei simboli ebraici. La sua storia va dal testo biblico al candelabro del Tempio portato a Roma nel trofeo di Tito alle raffigurazioni nelle catacombe ebraiche al moderno stemma dello Stato di Israele, dove è affiancata da due rametti d'olivo.

Il logo della mostra raffigura appunto un particolare segmento dai bassorilievi dell'arco di Tito, che rappresentano il trofeo romano sulla Giudea sconfitta: prigionieri ebrei portano sulle spalle la grande e pesante Menorà in oro. È, di tutte le immagini che abbiamo della Menorà, quella che più si avvicina alla realtà, dal momento che pochi anni soltanto erano passati dal corteo vittorioso di Tito e la Menorà del Tempio era ancora presente agli occhi degli artisti che la scolpirono.

Ma una raffigurazione della Menorà in una pietra di una sinagoga di Magdala, scoperta nel 2009 e datata intorno alla distruzione del Tempio, mostra un'immagine differente da quella di Roma, sia nei bracci, non arcuati ma ottagonali, sia nella base. La Menorà era simbolo di saggezza e di illuminazione. Essa ricordava anche, come ricordano i testi, il roveto ardente, e con i suoi sette bracci è stata ancora interpretata come il simbolo della creazione che appunto richiese sette giorni per realizzarsi.
La lucerna centrale simboleggerebbe il Sabato. Essa è stata interpretata anche alla luce delle dottrine cabalistiche. La Menorà fu per secoli il simbolo stesso dell'ebraismo. Solo a partire dal XVII secolo essa cominciò ad essere affiancata dal magen David, la stella di David, che ritroviamo ora sulla bandiera di Israele.Nella storia della Menorà, realtà, culto e valore simbolico sono strettamente intrecciati. La sua costruzione è disposta e minuziosamente descritta nella rivelazione fatta da Dio a Mosè, come si legge in Esodo 25, 31-40.

La sua base era adorna di immagini di fiori e frutti. Inizialmente era collocata nel Tabernacolo, il santuario trasportabile che accompagnava gli ebrei nel deserto, poi nell'anticamera del Tempio. Scomparve nell'esilio babilonese e fu ricostruita e collocata nel secondo Tempio. Ce la descrive Giuseppe Flavio, che fu testimone della sua traslazione a Roma. La Menorà doveva restare accesa dal tramonto all'alba, ma una o più delle sue lampade restavano accese anche durante il giorno. Nella riconsacrazione del Tempio ad opera dei Maccabei, nonostante fosse sufficiente per un sol giorno, l'olio delle lampade rimase miracolosamente acceso per otto giorni. Da lì la festa di Hannukka, caratterizzata dall'accensione del candelabro a nove braccia, la hannukia.
Come il rilievo datole nei bassorilievi dell'Arco di Tito dimostrano, la Menorà ebbe un ruolo speciale nel trionfo di Tito. Era al tempo stesso un oggetto di gran pregio, costruita com'era in oro puro, e il simbolo della Giudea sconfitta.

Inizialmente, fu custodita nel Tempio della Pace, il nome attribuito al Foro di Vespasiano, tra i Fori e la Suburra. Durante il sacco di Roma del 455 ad opera dei Vandali di Genserico, fu trasportata a Cartagine con il resto del bottino. Di là fu portata a Bisanzio da Belisario, il generale di Giustiniano, quando questi conquistò Cartagine nel 533, per essere portata in un ulteriore trionfo descrittoci da Procopio. Ed infine sembra essere approdata a Gerusalemme, non sappiamo dove né come. Da allora se ne sono perse le tracce, forse è stata fusa nel sacco di Gerusalemme ad opera dei Persiani nel 614. Si tratta però di notizie prive di fonti certe. Infatti, ben presto, di fronte ad un candelabro errante, e sostanzialmente, dopo Tito, volto a far ritorno nel luogo delle sue origini, la sua localizzazione cominciò ad essere avvolta nelle nebbie del mito.
La questione si complicava per il fatto che già nei primi secoli si parlò di una duplicazione del candelabro. Quale era quello originario, strappato al Tempio nel 70 e divenuto il simbolo dell'identità di un popolo in diaspora?A Roma, dove l'esistenza della Menorà era quotidianamente testimoniata dai bassorilievi dell'arco di Tito, l'idea che essa non avesse mai lasciato la Città era diffusa.

Ne ritroviamo traccia, sia pur vaga, in alcuni testi talmudici e perfino nel viaggio di Beniamino da Tudela, un viaggiatore ebreo del XII secolo. Una delle leggende fiorite intorno al candelabro lo diceva affondato nel Tevere. Era una diceria che risaliva ai secoli del sacco dei Vandali, e che ha forse come punto reale di riferimento il fatto che il bottino fu trasportato fino al mare sul Tevere. 

Un'altra leggenda lo diceva invece nascosto sotto il Laterano. Priva di basi documentarie, la leggenda sulla presenza a Roma della Menorà è tuttavia sopravvissuta nei secoli, fino ad arrivare agli scavi tentati nel Tevere alla fine del XIX secolo e alla richiesta che sarebbe stata fatta in anni recenti al Vaticano di cercarla nei suoi sotterranei e di restituirla allo Stato di Israele. L'altra ipotesi, che ha una maggiore corrispondenza nelle fonti, è quella che essa sia a Gerusalemme, nascosta o perduta.
È questa, ad esempio, la tesi su cui si basa un romanzo di Stefan Zweig, Il candelabro sepolto, scritto nel 1937 e pubblicato in italiano da Skira, per la prima volta autonomamente dagli altri scritti di Zweig, nel 2013 con una bella postfazione di Fabio Isman. In anni molto recenti, nel 2002, aveva per un momento rinforzato la tesi del Tevere la scoperta di una lapide nei giardini del Tempio secondo cui il candelabro sarebbe stato visto, all'inizio del V secolo, in fondo al Tevere a sud dell'Isola Tiberina. Un falso del XIX secolo, ha scoperto l'allora direttrice del Museo Ebraico, la scomparsa Daniela di Castro, creato forse per dar lustro alla già illustre storia degli ebrei a Roma. Il candelabro del Tempio continua ad restare inafferrabile.

Avvenire – 13 maggio 2017

PACO IGNACIO TAIBO II, Una spia a Parigi nel 1871

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Paco Ignacio Taibo IIricostruisce  la storia di una spia durante la “gloriosa” Comune.

Paco Ignacio Taibo II

Parigi 1871 caccia al fantasma

Rimasi colpito, leggendo “La Comune” di Louise Michel, da un misterioso accenno: “Vaysett, per meglio cospirare, aveva a Parigi sette domicili”. Non avevo mai sentito parlare di questo Vaysett, ma che godesse di sette domicili mi sembrava un bel vanto, anche per una spia di Versailles e anticomunarda. Diedi per scontato che si trattasse di una metafora. Spinto dalla curiosità, tuttavia, andai nel garage di casa mia, dove c’è lo scaffale comunardo della mia biblioteca, e mi sono messo a cercare Vaysett. La ricerca mi portò al nome di Vaysett George e alla fine che fece, fucilato dai “Vengeurs de Flourens” negli ultimi giorni della Comune. Prima di essere fucilato, lanciò una strana minaccia: «Risponderete della mia morte davanti al Conte di Fabrice », che, a quanto pare, era un ufficiale prussiano e non un capo dello spionaggio di Versailles. I dati forniti da Jules Tallandier nel 1871 assicuravano che la fucilazione aveva avuto luogo sul Pont Neuf, il famoso nono ponte, dove una volta mi ha portato per mano Julio Cortázar in Le armi segrete. Place Dauphine è la punta dell’Île Saint-Louis. Il sesso di Parigi, secondo Breton. Ricordo che proprio lì mi aveva fatto una foto Daniel Mordzinski. Aveva scelto inconsapevolmente il luogo della fucilazione per fotografarmi?
Messo da parte il ponte, tornai al personaggio. Diverse ore più tardi, avevo chiarito che Vaysett era stato scoperto mentre tentava di comprare il generale comunardo Jaroslaw Dombrowski, quel meraviglioso polacco dai baffi sottili che si era formato in una scuola militare per nobili a San Pietroburgo, aveva partecipato all’insurrezione popolare di Varsavia e, divenuto generale della Comune, era morto sulle barricate a 33 anni, dando poi il suo nome, molti anni dopo, alla XIII Brigata Internazionale che combatté nella guerra di Spagna. Era troppo per la mia anima inesistente: una spia che ha sette case, fucilata sul Ponte di Cortázar per aver tentato di comprare Dombrowski. Finii col leggermi tutto quello che c’era sulla XIII Brigata e la battaglia di Teruel. Passarono i giorni.
Nella History of the Commune of 1871 di Eleanor Marx Aveling, la figlia di Marx racconta che Vaysett usò come intermediario per arrivare al generale comunardo un suo aiutante di campo, Hutzinger, che era stato una spia della polizia tra gli esiliati londinesi, e che dunque doveva aver conosciuto da bambina, nelle riunioni che si facevano a casa di suo padre. Lo sguardo della bambina sulla spia, che era l’aiutante dell’altra spia? Vaysett offrì 500 mila franchi, secondo alcuni, un milione e mezzo secondo gli esagerati e diecimila secondo i moderati, a Dombrowski perché ritirasse le sue truppe consentendo l’apertura di una delle porte di Parigi per lasciar passare i versagliesi. Al generale comunardo veniva offerto un salvacondotto e il pagamento in biglietti della Banca di Francia o con un pagherò della casa Rothschild di Francoforte. Veysett sarà denunciato, arrestato, fucilato.

Accidenti. Questa è una storia, il frammento di un romanzo? Niente? Ero sul punto di arrendermi e di lasciare la cosa nell’armadio virtuale dove conservo i materiali che un giorno dovranno trovare un destino migliore, quando in un ottimo studio di Bernard Vassor compare la lista delle case usate dalla spia Vaysett... Solo che sommandoli non abbiamo quei sette e presumibilmente metaforici domicili di Louise Michel, ma nove! A che gli servivano nove case? Sono tentato di andare a vedere quelle strade prendendo come guida i romanzi dei Pardaillan di Zevaco. Per fortuna, mi fermo. [...] Un giorno in cui sembra che quello che scrivo non voglia farsi raccontare, torno erraticamente su questa storia e provo a cercare in rete con altre ortografie. Veysett/ Vayset/Vaysset/Veysset?
Alleluia. Trovo uno studio di P. Martínez sugli esuli e le spie nella English Historical Revue, un testo della vedova, il ritaglio di un giornale di provincia degli Stati Uniti che riprende una nota di agenzia, versioni piuttosto conservatrici sulla Revue des deux mondes. Uso il mio tesserino della Biblioteca di New York per accedere a versioni complete e leggibili di questo materiale.

La versione anticomunarda lo descrive come un uomo “intraprendente, energico e abile”, un agricoltore di 50 anni (agricoltore?) tenuto d’occhio dalla polizia comunarda di Raoul Rigault per un certo tempo finché era riuscito a depistarla. Quando viene denunciato il tentativo di corrompere Dombrowski tramite Hutzinger e sua moglie, signora Frossard, cominciano a cercarlo; perquisiscono la casa di rue Caumartin, arrestano sua moglie, più tardi viene denunciato dal portiere di una delle sue tante altre case mentre si trova all’Hotel Le Lapin Blanc a Saint-Denis (decimo domicilio), lo arrestano, dice di chiamarsi Jean, non Georges.

Stranamente, emerge dagli interrogatori un nuovo indirizzo “dove si tenevano le riunioni più importanti”: rue de Madrid numero 29. Compare nella storia Théophile Ferré. Grazie al Dictionnaire de la Commune de Paris di Georges Darboy posso precisare la sua biografia: militante blanquista e forse impiegato in uno studio legale, condannato quattro volte durante il Secondo Impero per le sue opinioni politiche, membro del 152° battaglione della Guardia Nazionale, delegato del comitato centrale repubblicano dei venti circondari (arrondissements) con Louise Michel. Dirige la difesa dei cannoni di Montmartre del 18 marzo. Mi fermo. Cerco la straordinaria versione a fumetti dell’insurrezione di Tardi e Vautrin, L’urlo del popolo; quando finisco i quattro volumi mi sono scordato perché sono tornato in modo così ossessivo sulla Comune (non torniamo tutti sulla Comune di Parigi, madre di tutte le sinistre?).

Passano i mesi, casualmente torno su Veysett. È il 24 maggio, lo stesso giorno in cui Ferré ordina la fucilazione dell’arcivescovo di Parigi, che poi giustificherà la sua futura esecuzione nel novembre del 1871? Accade che il responsabile della Sicurezza e membro del comitato centrale della Comune, con un plotone dei Vengeurs de Flourens, tira fuori l’uomo delle undici case dal deposito in cui è detenuto. Lo portano al Pont Neuf, accanto alla statua di Enrico IV. Ferré dice a Georges Veysset: “Sarà fucilato. Ha qualcosa da dire?”. E Georges risponde: “La perdono”. Quattro uomini scaricano i propri fucili, il cadavere viene gettato oltre il parapetto nella Senna. “Questa è la giustizia del popolo”, avrebbe detto Ferré. Tutto ciò dove mi porta? Non ne ho la minima idea.

Traduzione di Luis E. Moriones

La repubblica – 12 maggio 2017

A MARINEO TORNANO PUPI E PUPARI...

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Troppi pupi e/o portavoci di pupari nel mio paese natale. Cose gia' viste piu' volte: nulla di nuovo sotto il sole! E le stelle in cielo, per fortuna, sono molto più di cinque...

MOSTRA DI O'TAMA A PALERMO

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O’Tama e Vincenzo Ragusa:

 un ponte tra Tokyo e Palermo

a cura diMaria Antonietta Spadaro

Palazzo Sant'Elia, Palermo

12 maggio 2017 – 28 luglio 2017

Catalogo, a cura di M. A. Spadaro, pp. 400, con saggi di studiosi palermitani e giapponesi, relativi al percorso dei due artisti e all’ambiente in cui operarono.

Allestimento: Carola Arrivas Bajardi
Grafica: Antonio Giannusa

Si terrà il 9 giugno 2017, sempre a palazzo Sant’Elia,  una “Giornata di studi” sul tema: L’utopia del Giappone in Europa - relatori di Palermo, Roma, Tokyo e Kyoto

Dalla metà del XIX secolo, dopo duecento anni di chiusura nei confronti dell’Occidente, il Giappone apre le sue frontiere, avviando rapporti economici e diplomatici con gli Stati Uniti d’America e i paesi europei. Nel clima di questa apertura generale verso l’Occidente, l’imperatore Mutsuhito ritiene necessario invitare dall’Italia - il paese occidentale dalla più solida tradizione artistica - tre artisti per fondare una scuola d’arte che sia al passo con le linee stilistiche della cultura figurativa moderna: nasce a Tokyo la scuola d’arte Kobu Bijutsu Gekko del Ministero dell’industria e tecnologia.
I tre artisti selezionati dall’Accademia milanese di Brera sono: Antonio Fontanesi per la pittura, Giovanni Vincenzo Cappelletti per l’architettura e il palermitano Vincenzo Ragusa per la scultura.
Ragusa arriva nella capitale nipponica nel 1876. Da questo episodio, già di per sé clamoroso, deriveranno due eventi stupefacenti per la città di Palermo: la sua idea di istituire una scuola d’arti orientali, progetto pionieristico a livello europeo, e la presenza di un’artista giapponese, O’Tama Kiyohara, divenuta sua moglie col nome di Eleonora Ragusa, che vivrà a Palermo per 51 anni. A contatto con le novità espressive occidentali, la strategia creativa di O’Tama si trasforma: dal grafismo sintetico giapponese giunge al naturalismo con la sua oggettiva rappresentazione del reale.
La pittrice O’Tama Kiyohara (Tokyo 1861-1939) e lo scultore Vincenzo Ragusa (Palermo 1841-1927) costituiscono nella storia dell’arte del nostro paese due importanti figure, promotrici del precoce giapponismo fiorito a Palermo, quando erano ancora in pochi, negli anni 80 del sec. XIX, in Europa, ad accostarsi con passione alla cultura e all’arte nipponiche. Ricordiamo la grande importanza che ebbe il Japponisme in Francia.
L’inizio dei rapporti Italia-Giappone avvenne nel 1866 e lo scorso 2016 ne sono stati celebrati, nei due paesi, i 150 anni: il Comune di Palermo ha intitolato ad O’Tama Kiyohara il giardinetto di via Praga, inaugurato proprio lo scorso anno, con una partecipata cerimonia alla presenza delle autorità cittadine.
In mostra si vedranno opere di O’Tama Kiyohara Ragusa, la quale ha lasciato qui una ricca produzione, esplorando varie tecniche (da opere da cavalletto con olii, acquerelli e pastelli, a dipinti murali) e soggetti diversi (dal ritratto al paesaggio, dalle nature morte alle scene di genere, dai fiori agli animali, dai temi religiosi alle memorie d’atmosfere orientali, dall’arte applicata alle decorazioni d’interni). Saranno in mostra anche lavori di Vincenzo Ragusa, del quale si vedranno attraverso pannelli quelle non trasportabili.
Si tratta della prima mostra antologica dedicata ai due artisti a Palermo. Le Sezioni:
O’Tama: dal grafismo sintetico giapponese al naturalismo occidentale; Passione per la natura; Il ritratto; Scene di genere; Sentimento del sacro; Suggestioni d’oriente; Il Paesaggio; Decorazioni d’interni; Arte applicata; Allievi di O’Tama Ragusa; Vincenzo Ragusa; La Scuola Officina Artistico Industriale di V. Ragusa; Giapponismo.
Patrocini
La mostra, promossa dalla Fondazione Sant’Elia, è patrocinata dal Ministero dei Beni Culturali, dall’Area Metropolitana di Palermo, dal Comune di Palermo, dalla Fondazione Whitaker, dall’Assemblea Regionale Siciliana, dalla Società Siciliana di Storia Patria, dalla Gam di Palermo, dalla Galleria d’arte moderna del Comune di Messina, dal Museo delle Civiltà “Luigi Pigorini” di Roma, dall’Ambasciata Giapponese a Roma, dall’Istituto di Cultura giapponese a Roma, dall’Associazione Sicilia-Giappone, dall’Associazione Settimana delle Culture, dall’Anisa (Associazione Nazionale Insegnanti Storia dell’Arte).
Progetto espositivo
La mostra sarà allestita nelle sale del prestigioso settecentesco Palazzo Sant’Elia nel cuore del centro storico di Palermo. In mostra:
  • circa 170 opere (per lo più in collezioni private) prodotte da O’Tama Kiyohara Ragusa prima e durante il suo periodo palermitano durato 51 anni. Enti Prestatori: Ars, Gam Palermo, Museo Pitré, Società Siciliana di Storia Patria, Fondazione Whitaker, Museo del Liceo Artistico “Vincenzo Ragusa e O’Tama Kiyohara”, Chiesa di Sant’Antonio Abate di Palermo, Gam di Messina, Museo delle Civiltà “L. Pigorini” di Roma;

  • dipinti conservati presso l’ex scuola fondata da Ragusa a Palermo, oggi Liceo Artistico “Vincenzo Ragusa e O’Tama Kiyohara” e l’Armadio monumentale realizzato dalla Scuola per l’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-92 (oggi conservato all’ITI “Vitt. Em. III” di Palermo;
  • un video, di Maria Muratore, illustrerà le opere di O’Tama e Vincenzo Ragusa;
  • l’allestimento includerà pannelli, arredi, kimono e oggetti del periodo, per evocare il fenomeno del giapponismo.
Infine, nella sezione “Artisti per O’Tama”, verranno proiettati i video di Gianni Gebbia (O’Tama Monogatari, 2012) e Antonio Giannusa (La stanza di O’Tama, 2017) e sarà esposta l’opera di Fabrice de Nola (Nympheae, 2012), tutti ispirati all’artista. Inoltre, all’inaugurazione, l’artista giapponese Setsuko si esibirà in una performance dedicata alla pittrice e allo scultore.

INFO
Vernissage, 12 Maggio 2017 ore 17:00

Orari: Martedì – Venerdì 9:30-13:00; 15:30-18:30
         Sabato – Domenica 10:00-13:00; 16:00-19:00

Biglietti
Intero  € 5,00








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