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L' ITALIA IN GUERRA

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Nell'indifferenza generale l'Italia entra in guerra in Iraq. Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania si sono ben guardati dal mandare truppe di terra in uno scenario così difficile e pericoloso. Ma Renzi (che non ha fatto il militare, ma veste in mimetica) ha accettato che a fare gli ascari tocchi a noi. Vedremo cosa succederà quando inizieremo a contare i morti. Di sicuro non mancheranno i rischi, come spiega bene l'articolo che riprendiamo.

Francesco Grignetti
Blindati, cannoni ed elicotteri anti-kamikaze


È terminato il primo sopralluogo dei nostri militari alla diga di Mosul, in Iraq, dove una ditta italiana è in procinto di vincere un appalto miliardario per la manutenzione dell’impianto e dove saranno le forze armate a garantire la sicurezza di chi vi lavorerà. Altri sopralluoghi seguiranno. E colloqui politico-diplomatici con le autorità centrali irachene per definire il quadro legale entro cui far muovere i nostri soldati. Una cosa però è emersa subito: non sarà un’operazione facile.

Molto probabilmente saranno mobilitati anche più dei 450 soldati annunciati nei giorni scorsi. Per difendere adeguatamente il sito, e approvvigionarlo di tutto, oltre agli operativi sarà necessario infatti anche un adeguato apparato logistico. E di conseguenza cresceranno i numeri dei militari coinvolti.

La missione alla diga di Mosul - che proprio ieri è stata evocata nel corso di una telefonata tra la ministra Roberta Pinotti e il collega statunitense Ash Carter, che ha ringraziato l’Italia per «la recente decisione di dislocare truppe addizionali in Iraq» - comincia intanto a prendere forma.

Gli Stati maggiori sono al lavoro per definire i rischi della missione e le contromisure. Appare chiaro che il cantiere diventerà una sorta di Fort Apache super-blindato considerando che la linea del fronte tra Califfato e forze lealiste corre a poche decine di chilometri dalla diga. Sono già stati ripartiti i compiti: ai peshmerga curdi, che saranno rinforzati con armi pesanti e truppe speciali Usa, l’onere di tenere lontani i jihadisti e di garantire la sicurezza sul territorio; agli italiani, la difesa interna del cantiere e la tranquillità dei tecnici provenienti dall’Italia.

In verità i jihadisti, che sono dentro la città di Mosul, e che avevano occupato la diga stessa nell’agosto del 2014, provano spesso a rompere il fronte o anche ad aggirarlo. La diga, che garantisce acqua ed elettricità a una larga parte dell’Iraq, resta un obiettivo ambitissimo. Per evitare guai, quindi, il contingente italiano, che sarà imperniato sui paracadutisti della brigata Folgore, sarà rinforzato da artiglieria pesante, dai blindati Centauro, fors’anche da qualche carro armato Ariete e quasi sicuramente da elicotteri d’attacco Mangusta.
Il pericolo maggiore di questa missione, infatti, sono i cosiddetti blindati-bomba: una micidiale tecnica di guerra messa a punto dai jihadisti che inzeppano di esplosivi e munizioni un’autoblindo rubata all’esercito e con un martire alla guida la usano come torpedine contro le difese del nemico. Quelli del Califfato, quando attaccano caserme, compound o check point delle forze regolari, lanciano addirittura ondate di blindati-bomba.

Sarà imperativo impedire a mezzi del genere di avvicinarsi al cantiere. La base dovrà essere inavvicinabile e inespugnabile. Difese passive, garitte, cemento armato, campi minati: sarà fatto di tutto per prevenire l’arrivo e fermare la corsa a eventuali mezzi sospetti che dovessero avvicinarsi con intenzioni ostili. I droni, allora, oltre al collegamento organico con i peshmerga, saranno utilissimi per monitorare il territorio circostante il cantiere. E gli elicotteri d’attacco avranno missili in grado di arrestare la corsa a qualsiasi automezzo, e da una distanza di sicurezza.

Secondo quanto scrive il portale specializzato Rivista Italiana Difesa, «avere la potenza di fuoco delle Centauro o degli Ariete, o disporre di “nidi” con sistemi controcarro ai gate di accesso, contribuirebbe notevolmente a neutralizzare una minaccia altrimenti devastante. Probabilmente si dovranno dispiegare anche elicotteri d’attacco Mangusta dotati di razzi e missili controcarro Spike, che potrebbero tornare utili contro colonne di pick-up, e vedremo se si deciderà di portare anche obici da 155 mm al cui impiego il reggimento di artiglieria della Folgore è addestrato».

La Stampa – 24 dicembre 2015

IN ITALIA OGGI NON ESISTE UN MOVIMENTO COME PODEMOS

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Il risultato di Podemos nelle ultime elezioni politiche spagnole ha suscitato (come ieri quello di Syriza) entusiasmi in quel che è rimasto della Sinistra italiana. Ma un  Movimento come  Podemos in Italia non esiste.  Cinque Stelle è tutta un'altra cosa!

Jacopo Iacoboni
La Sinistra italiana e il sogno di un Podemos
Se si eccettuano le retoriche, il primo elemento che salta agli occhi osservando il successo di Podemos dal punto di vista della sinistra italiana è semplice: che Podemos, piaccia o no, ha molto poco a che fare con l’attuale sinistra italiana (parentesi, Podemos angoscia i renziani molto più della minoranza Pd, al punto di spingerli alla surreale reazione della Boschi: con l’Italicum il problema Podemos non si porrebbe).

«La verità è che tra Podemos e Sinistra italiana ci sono molte differenze; forse la prima che viene in mente è che alla fine Podemos non ha fatto l’accordo a priori con Izquierda, cioè con la parte più classica e tradizionale della sinistra spagnola», riflette Marco Berlinguer, il terzo figlio di Enrico Berlinguer, che vive a Barcellona - fa il ricercatore all’Università Autonoma - assieme alla sua compagna. Entrambi studiano e frequentano, lei è attivamente coinvolta, il mondo della municipalità e delle nuove pratiche che ha vinto la città di Barcellona, conoscono Ada Colau, e sanno di Podemos da dentro.

Se invece si prendono in esame le considerazioni e gli entusiasmi magari anche genuini di tanti politici di sinistra, sembra che poi la vittoria di Podemos sia una «lezione della spagna per il Pd» (secondo il governatore toscano Enrico Rossi), o la conferma che «l’Europa della precarizzazione del lavoro e della svalutazione dei salari non regge più», o una «critica dell’austerity», e via così, andando sempre per le generalissime e muovendosi come farebbe Izquierda, non Podemos; ideologicamente, non pragmaticamente.

Invece il secondo punto da fissare è proprio questo: il pragmatismo, spesso sottovalutato, di Podemos. Racconta Giorgio Airaudo (che in tempi non sospetti - prima del voto - era a Barcellona a incontrare la Colau) che quelli di «Barcelona en comù» mutano alleanze caso per caso, con applicazione anche spregiudicata delle maggioranze variabili. La Colau ha undici consiglieri su 40 nel consiglio di Barcellona, dunque per governare ha bisogno di arrivare a 21, e ci arriva di volta in volta, non solo con Izquierda, ma anche con una miriade di movimenti e micro movimenti catalani; scenario assolutamente non riproponibile ovunque, ma questo per dire di un’elasticità manovriera che in Italia, semmai, pare appannaggio del renzismo, non della Sinistra da ricostruire.

Il terzo punto, sostanziale, è che Podemos «nasce da un movimento sociale, generazionale, che affonda le radici nel fenomeno degli indignati. Lì c’è un movimento. In Italia, semplicemente, questo movimento non c’è», constata non senza amarezza Airaudo, che pure vorrebbe provare a costruire qualcosa di analogo partendo da Torino.
Forse, si potrebbe aggiungere, l’ultima cosa assimilabile a un movimento, nella sinistra italiana, è stata l’esperienza milanese della primavera arancione di Pisapia: che però non ha prodotto una rete nazionale e un’esperienza generativa a sinistra, e probabilmente, almeno in parte - nel 2013 ha finito per avere zone di tangenza col successo elettorale del Movimento cinque stelle. M5S che però è diversissimo, rispetto a Podemos (i due soggetti hanno anche reciprocamente preso le distanze), almeno perché ha due forti elementi di verticismo: l’azienda che comanda (la Casaleggio) e il leader che ne determina il successo iniziale (Grillo).

Sostiene Enrico Rossi che l’insegnamento di Podemos (anche al Pd) è che bisogna stare «alla larga dalle grandi intese e dal partito della nazione, e invece guardare di più a sinistra, ai ceti deboli della società». Ma cosa vuol dire «guardare più a sinistra?». Podemos non partirebbe mai da cotesta genericità, intanto perché ha una notevole componente anche interclassista, pur declinandola a sinistra, e poi perché nasce in maniera concreta, dalle pratiche, non da un proclama.
È il quarto elemento: la pratica principale originaria è stata il movimento di lotta per la difesa della casa dalle banche. Podemos nasce dai movimenti che proteggono gli affittuari (ma anche i proprietari di case) non più in grado di pagare affitti o mutui bancari.
In questo senso è una prassi, quasi ignota oggi alla sinistra italiana, che è, e resta, un’operazione per lo più politicista, o una fuoruscita dal Pd. Con eccezioni, per esempio la Fiom. Maurizio Landini ha scritto la prefazione italiana al libro di Iglesias, e è ormai convinto che «bisogna andare oltre molti schemi tradizionali, cosa che Podemos fa. Iglesias si dice socialdemocratico, il problema è che ormai in Europa appare estremista anche essere socialdemocratici». In più, per Landini, «in Italia c’è il problema che una fetta di campo è ormai occupata dal M5S, che prima non c’era; e dobbiamo trovare il modo di farci i conti».
La Stampa – 22 dicembre 2015

SUL MISTERO DELLA SINISTRA CHE HA SMESSO DI FARE LA SINISTRA

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Una sinistra incapace di una qualsiasi critica della modernità liberale è una sinistra subalterna che non si pone neanche più il problema di elaborare un'altra visione delle cose e dunque totalmente incapace di egemonia.

Jean-Claude Michéa
La sinistra deve rifondare l’alleanza illuminista
Intervista di Fabio Gambaro

«La progressione del voto per il Fronte Nazionale tra le classi popolari si spiega innanzitutto con l’incapacità della sinistra di parlare a quella parte della popolazione ».
Per Jean-Claude Michéa, infatti, la sinistra contemporanea non ha più nulla a che vedere con la nobile tradizione socialista. Incapace di proporre un’alternativa economica al capitalismo trionfante, ha ripiegato sulle battaglie civili care all’intellighenzia progressista e in sintonia con l’individualismo dominante.
Il filosofo francese lo spiega in un breve e interessantissimo saggio intitolato I misteri della sinistra (Neri Pozza, traduzione di Roberto Boi), il cui analizza la deriva progressista dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto.
«La sinistra non solo difende ardentemente l’economia di mercato, ma, come già sottolineava Pasolini, non smette di celebrarne tutte le implicazioni morali e culturali. Per la più grande gioia di Marine Le Pen, la quale, dopo aver ricusato il reaganismo del padre, cita ormai senza scrupoli Marx, Jaures o Gramsci! Ben inteso, una critica semplicemente nazionalistica dal capitalismo globale è necessariamente incoerente. Ma purtroppo oggi è la sola – nel deserto intellettuale francese – che sia in sintonia con quello che vivono le classi popolari».

Come spiega questa evoluzione della sinistra?
«Quella che ancora oggi chiamiamo “sinistra” è nata da un patto difensivo contro la destra nazionalista, clericale e reazionaria, siglato all’alba del XX secolo tra le correnti maggioritarie del movimento socialista e le forze liberali e repubblicane che si rifacevano ai principi del 1789 e all’eredità dell’illuminismo, la quale include anche Adam Smith. Come notò subito Rosa Luxemburg, era un’alleanza ambigua, che certo fino agli anni Sessanta ha reso possibili molte lotte emancipatrici, ma che, una volta eliminate le ultime vestigia dell’Ancien régime, non poteva che sfociare nella sconfitta di uno dei due alleati. È quello che è successo alla fine degli anni Settanta, quando l’intellighenzia di sinistra si è convinta che il progetto socialista fosse essenzialmente “totalitario”. Da qui il ripiegamento della sinistra europea sul liberalismo di Adam Smith e l’abbandono di ogni idea d’emancipazione dei lavoratori».

Perché quella che lei chiama la “metafisica del progresso” ha spinto la sinistra ad accettare il capitalismo?
«L’ideologia progressista è fondata sulla credenza che esista un “senso della storia” e che ogni passo avanti costituisca un passo nella giusta direzione. Tale idea si è dimostrata globalmente efficace fintanto che si è trattato di combattere l’Ancien régime. Ma il capitalismo – basato su un’accumulazione del capitale che, come ha detto Marx, non conosce “alcun limite naturale né morale” – è un sistema dinamico che tende a colonizzare tutte le regioni del globo e tutte le sfere della vita umana. Focalizzandosi sulla lotta contro il “vecchio mondo” e le “forze del passato”, per il “progressismo” di sinistra è diventato sempre più difficile qualsiasi approccio critico della modernità liberale. Fino al punto di confondere l’idea che “non si può fermare il progresso” con l’idea che non si può fermare il capitalismo ».

In questo contesto, in che modo la sinistra cerca di differenziarsi dalla destra?
«Da quando la sinistra è convinta che l’unico orizzonte del nostro tempo sia il capitalismo, la sua politica economica è diventata indistinguibile da quella della destra liberale. Da qui, negli ultimi trent’anni, il tentativo di cercare il principio ultimo della sua differenza nel liberalismo culturale delle nuove classi medie. Vale a dire nella battaglia permanente combattuta dagli “agenti dominati della dominazione”, secondo la formula di André Gorz, contro tutti i “tabù” del passato. La sinistra dimentica però che il capitalismo è “un fatto sociale” totale. E se la chiave del liberalismo economico, secondo Hayek, è il diritto di ciascuno di “produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto” (che si tratti di droghe, armi chimiche, servizi sessuali o “madri in affitto”), è chiaro che il capitalismo non accetterà alcun limite né tabù. Al contrario, tenderà, come dice Marx, a affondare tutti i valori umani “nelle acque ghiacciate del calcolo egoista”».
Perché considera un errore da parte della sinistra aver accettato il capitalismo? C’è chi sostiene che sia una prova di realismo...
«Come scriveva Rosa Luxemburg nel 1913, la fase finale del capitalismo darà luogo a “un periodo di catastrofi”. Una definizione che si adatta perfettamente all’epoca nella quale stiamo entrando. Innanzitutto catastrofe morale e culturale, dato che nessuna comunità può sopravvivere solo sulla base del ciascuno per sé e dell’interesse personale. Quindi, catastrofe ecologica, perché l’idea di una crescita materiale infinita in un mondo finito è la più folle utopia che l’uomo abbia mai concepito. E infine catastrofe economica e finanziaria, perché l’accumulo mondializzato del capitale – la “crescita”– sta per scontrarsi con quello che Marx chiamava il “limite interno”. Vale a dire la contraddizione tra il fatto che la fonte di ogni valore aggiunto – e dunque di ogni profitto – è sempre il lavoro vivo, e la tendenza del capitale ad accrescere la produttività sostituendo al lavoro vivo le macchine, i programmi e i robot. Il fatto che le “industrie del futuro” creino pochi posti di lavoro conferma la tesi di Marx».

Perché, in questo contesto, ritiene necessario pensare “la sinistra contro la sinistra”?
«La forza della critica socialista nasce proprio dall’aver compreso fin dal XIX secolo che un sistema sociale basato esclusivamente sulla ricerca del profitto privato conduce l’umanità in un vicolo cieco. Paradossalmente, la sinistra europea ha scelto di riconciliarsi con questo sistema sociale, considerando “arcaica” ogni critica radicale nei suoi confronti, proprio nel momento in cui questo comincia a incrinarsi da tutte le parti sotto il peso delle contraddizioni interne. Insomma, non poteva scommettere su un cavallo peggiore! Per questo oggi è urgente pensare la sinistra contro la sinistra».
La Repubblica – 19 dicembre 2015

Jean- Claude Michéa
I misteri della sinistra
Neri Pozza, 2015
euro 15

IL DESERTO SECONDO J. ATTALI. 1 e 2

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Da giovane ero rimasto conquistato dalle parole dedicate al deserto dal mio scrittore preferito di allora: Albert Camus. Oggi che non sono più giovane, almeno dal punto di vista anagrafico, all'elogio lirico che ne aveva fatto il grande scrittore franco-algerino, preferisco le parole più sobrie e meditate del Consigliere di Mitterand.


Jacques Attali
Deserto
Il deserto è anche il tempo che scorre nello spazio, è anche l'adolescenza, il passaggio dal bambino (schiavo dei propri genitori) all'adulto (che deve costruirsi un territorio). L'adolescenza è dunque come il Sinai; il bar mitzvah è come la scoperta del Decalogo.
Il deserto è il luogo dell'apprendistato, necessariamente nomade, alla vita, dove ciascuno esce completamente diverso. Il luogo della trasgressione e del pentimento, entrambi fondamento della maturità, che non bisognerà mai dimenticare, una volta diventati sedentari. E anche il luogo dell'apprendistato alla vita in società, dove si scopre che si ha bisogno degli altri per viaggiare: nessuno è mai sopravvissuto alla traversata del deserto. Per concludere: è il luogo che nessuno ha il desiderio di lasciare, perchè costituisce una specie di tregua, di parentesi di libertà tra due spazi costrittivi; come lo è la notte per gli adolescenti, come lo sono per loro anche i videogiochi, deserti virtuali.
La sola cosa da fare di fronte al deserto, sia esso materiale o morale, reale o virtuale – come con il tempo di cui esso è una metafora -, è darsi il coraggio di attraversarlo; di penetrarvi, di prenderne il meglio, di nutrirsi dell'esperienza, di elevare la coscienza di sé, ma di non restarvi.

(Jacques Attali, Dizionario innamorato dell'ebraismo, Fazi, p. 132)

P. S. A scanso di equivoci continuo a leggere con gusto e amore Albert Camus. Non a caso recentemente ho ricordato la pagina che mi conquistò quando avevo solo vent'anni:  http://cesim-marineo.blogspot.it/2014/06/il-deserto-di-albert-camus.html
 

DIZIONARIO INNAMORATO DELL'EBRAISMO DI J. ATTALI

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Dizionario innamorato dell’ebraismo di Jacques Attali è un libro affascinante. Da tenere sul comodino per leggerlo un poco alla volta, senza fretta.
Il"Dizionario innamorato dell’ebraismo" di Jacques Attali
Il poliedrico Attali (economista, giornalista, consigliere di stato con Mitterrand, consulente economico di Hollande, che proprio da lui fu convinto a iscriversi al Partito socialista, primo presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) nacque ad Algeri da genitori ebrei assieme a un gemello, il primo novembre di settant’anni fa, e cioè ventiquattro ore dopo il ristabilimento di quel decreto che nel 1870 aveva accordato la cittadinanza a tutti gli ebrei di Algeria, e che nell’ottobre 1940 era stato revocato dal governo di Vichy.
Il padre era “rabbino per cultura se non per professione”, ricorda, mentre la madre “insegnava l’ebraico e la Bibbia agli allievi di una scuola dell’Alleanza israelitica universale ad Algeri”. Discendenti di sefarditi fuggiti in nord Africa dalla Spagna, “entrambi traducevano l’ebraico in francese passando per l’arabo, lingua nella quale, per quindici secoli, quasi sessanta generazioni di ebrei hanno commentato la Bibbia”. Ma nel 1956 anche loro avrebbero dovuto di nuovo emigrare, dirigendosi nella Francia metropolitana. Della città natale, Attali ricorda che la sua “essenza ebraica – così vibrante, calorosa e intensa – è da allora totalmente scomparsa”.
In un primo momento, all’offerta di contribuire con questo testo a una popolare collana francese dedicata ai “dizionari innamorati”, Attali aveva reagito con perplessità: “Io leggo l’ebraico, ma lo parlo male, e il giudaismo non è che una delle dimensioni della mia cultura, della mia storia e della mia visione del mondo”, avrebbe risposto. In cambio, si offrì di scrivere un dizionario “innamorato del futuro”. Ma poi, “ripensandoci – spiega – ho realizzato che quella era in fondo la migliore definizione del giudaismo: il giudaismo è innamorato del futuro. E allora ho accettato”, ne sono uscite quasi novanta voci. “Naturalmente l’ordine alfabetico proprio di ogni dizionario non è, in alcun modo, il più logico. Tuttavia, poiché il popolo ebraico adora i giochi di parole e i giochi di lettere, non è affatto per caso che questo libro comincia con Aronne, il primo gran sacerdote, e finisce con Zohar, il grande libro della Qabbalah: bisogna cominciare con il purificarsi per andare, di voce in voce, fino al più grande mistero”.
Nella versione italiana, rispetto all’originale francese l’inizio si è spostato su Abele. Che peraltro, secondo il traduttore, offre anch’esso “significati interessanti” per “i lettori amanti dei giochi di parole e di lettere”. Non si tratta di un’enciclopedia aridamente nozionistica, ma del tentativo di interpretare e vivificare un’eredità personale e culturale dalla portata globale.

Quello di Attali è un ebraismo dubbioso, essenziale: “Nomadi, gli ebrei adorano viaggiare leggeri, perciò amano la sintesi”. Che può essere una lingua, o un libro, o una teologia, o una pratica, o un modo di pensare, ma soprattutto una storia. Una  storia millenaria, in primo luogo mitologica, segnata dall’enigma storico di come sia riuscito a sopravvivere ai millenni e alle più tremende avversità, ma anche dal confronto e dallo scambio con le altre civiltà. E che diventa oggi, in forza della sua spiccata singolarità, un baluardo della resistenza a una certa globalizzazione in cui “tutte le comunità, tutte le culture, tutte le religioni, tutti i particolarismi sono minacciati dalla stessa dissoluzione”.
“Conoscete i sei ebrei che hanno cambiato la storia del mondo?”, chiede a un certo punto Attali, che confessa la sua predilezione molto ebraica per storielle e apologhi. “Mosè, perché ha detto: ‘Tutto è Legge’. Gesù, perché ha detto: ‘Tutto è Amore’. Spinoza, perché ha detto: ‘Tutto è Natura’. Marx, perché ha detto: ‘Tutto è Denaro’. Freud, perché ha detto: ‘Tutto è Sesso’. Infine Einstein, perché ha detto: ‘Tutto è relativo’”.

Il foglio – 1 gennaio 2014

IL NATALE SECONDO EDUARDO DE FILIPPO

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Da Natale in casa Cuppiello riprendiamo il dialogo tristissimo fra padre e figlio sul presepe.

Eduardo De Filippo

Luca ~ Tieni un carattere insopportabile. Io ti voglio bene, ma certe volte non so io stesso come ti devo far capire certe cose. Tu sei un bravo ragazzo. I sentimenti sono buoni, lo so. Ma tieni un caratteraccio selvaggio. Nessuno ti può fare capire niente. Ma io dico, il giudizio!  Tu te vinne 'o cappotto 'e Pasquale al mese di dicembre! Dove siamo arrivati? Oramai sei un giovanotto, non sei più un bambino.  A scuola non hai voluto fare niente. Te n'hanno cacciato da tutte le scuole di Napoli. Terza elementare: “Non voglio studiare, voglio fare il mestiere”. E allora ti devi interessare. Chi cerca trova. Vai girando, guarda dentro ai magazzini. Nelle vetrine ci sono i cartellini: “Cercasi commesso”. Si comincia, poi si può fare strada. Io non sono eterno. I soldi ci vogliono. Mo t'aggia fa''o vestito nuovo. Dopo Natale, viene il sarto, porta i campioni e ti fai un bel vestito di stoffa pesante, questo che tieni addosso ormai è partito. Ti faccio pure due camicie. Tua madre mi ha detto che quelle che tieni non le può salvare più. Un vestito e due camicie. (indica il Presepio) Qua poi ci vengono tutte le montagne con la neve sopra. Le casette piccole per la lontananza. Qua ci metto la lavandaia, qua viene l'osteria e questa è la grotta dove nasce il Bambino (ammiccando) Te piace, eh? Te piace!

Tommasino ~ (annodandosi la cravatta) No

Luca ~ Bè, certo adesso è abbozzato, non si può dare un giudizio, è giusto. Ti compro pure due cravatte, che questa che tieni è diventata nu lucigno. E per Natale ti regalo dieci lire, così se ti trovi con gli amici, coi compagni, puoi offrire pure tu qualche cosa, e fai bella figura. (indicando un altro punto del Presepe) Qua ci faccio il laghetto col pescatore, e dalla montagna faccio scendere la cascata d'acqua. Ma faccio scendere l'acqua vera!

Tommasino ~ (scettico) Già l'acqua vera!

Luca ~ Sì, l'acqua vera. Metto l'interoclisemo dietro, apro la chiavetta e scende l'acqua. Te piace, eh?

Tommasino ~ No

Luca ~ Ma io non mi faccio capace! Ma lo capisci che il presepio è una cosa religiosa?

Tommasino ~ (sostenuto) Una cosa religiosa con l'interoclisemo dietro?  Ma fammi il piacere!

Luca ~ È  questione che tu vuoi fare il giovane moderno… ti vuoi sentire superiore. Come si può dire: “Non mi piace”, se quello non è finito ancora?

Tommasino ~ Ma pure quando è finito non mi piace.

Luca ~ (arrabbiato) E allora vatténne, in casa mia non ti voglio.

Tommasino ~ E  me ne vado.

Luca ~ Trovati un lavoro qualunque e non mettere più piede qua.

Tommasino ~ (alludendo al Presepe) Ma guarda un poco, quello non mi piace, mi deve piacere per forza?

Luca ~ Ma dalla casa mia te ne vai.

Tommasino ~ Ma il Presepio non mi piace.

Luca ~ (furibondo) E vatténne, perché in questa casa si fanno i Presepi.

A. BERTOLUCCI, Portami con te...

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PORTAMI CON TE

Portami con te nel mattino vivace
le reni rotte l'occhio sveglio appoggiato
al tuo fianco di donna che cammina
come fa l'amore,

sono gli ultimi giorni dell'inverno
a bagnarci le mani e i camini
fumano più del necessario in una
stagione così tiepida,
ma lascia che vadano in malora
economia e sobrietà,
si consumino le scorte
della città e della nazione
se il cielo offuscandosi, e poi
schiarendo per un sole più forte,
ci saremo trovati
là dove vita e morte hanno una sosta,
sfavilla il mezzogiorno, lamiera
che è azzurra ormai
senza residui e sopra
calmi uccelli camminano non volano.

Attilio Bertolucci (da Viaggio d'inverno)

MARIO BENEDETTI AI GIOVANI

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Ai Giovani 

Che cosa resta da fare ai giovani
in questo mondo di pazienza e nausea?
Solo graffiti? Rock? Scetticismo?
Ancora resta di non dire amen,
di non lasciare che gli uccidano l’amore,
recuperare la parola e l’utopia,
essere giovani senza fretta e con memoria,
situarsi in una storia che è la loro,
non trasformarsi in vecchi prematuri.

Che cosa resta da fare ai giovani
in questo mondo di routine e rovina?
Cocaina? Birra? Bravate?
Resta loro respirare, aprire gli occhi,
scoprire le radici dell’orrore,
inventar pace anche in modo disordinato,
trovare armonia con la natura,
e con la pioggia ed i lampi,
e col sentimento e con la morte,
quella matta da legare e slegare.

Che cosa resta da fare ai giovani
in questo mondo di consumo e fumo?
Vertigine? Assalti? Discoteche?
Resta loro anche discutere con Dio,
tanto se esiste che se non esiste
tendere mani che aiutano, aprire porte
tra il proprio cuore e quello dell’altro;
soprattutto, resta loro fare futuro
nonostante i meschini del passato
e i saggi ipocriti del presente.
 
 Mario Benedetti

LA DIVINA MIMESIS. PASOLINI E DANTE

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Quest’anno si celebrano i 40 anni dalla morte di Pasolini e i 750 anni dalla nascita di Dante, due autori accumunati dall’interesse per il valore politico della lingua e della rappresentazione. A chiusura di questo periodo di anniversari pubblichiamo l’anticipazione di un libro di Emanuela Patti,Pasolini After Dante. The ‘Divine Mimesis’ and the Politics of Representationin uscita presso Legenda (Oxford),. Le pagine che seguono riprendono, per frammenti e in traduzione, alcune delle questioni trattate nel volume.



Pasolini e Dante. La “divina mimesis” e la politica della rappresentazione



di Emanuela Patti

I
Mimesi. “Il punto d’avvio non può essere che il concetto di mimesi”, scriveva Daniele Giglioli qualche settimana fa in apertura di un suo contributo su Réné Girard pubblicato su LPLC. E questo è anche il punto di partenza del rapporto tra Pasolini e Dante, fortemente incentrato sui temi della rappresentazione e dell’imitazione. Nella riflessione pasoliniana sulla “realtà rappresentata” (mimesis), Dante ha avuto di fatto un ruolo di primo piano. Negli anni Cinquanta la sua influenza ha preso la forma di un certo “realismo dantesco” nella narrativa e poesia pasoliniana, a partire dall’esempio di oggettività, sperimentalismo e plurilingualismo di Dante diffuso da un saggio di Gianfranco Contini del 1951, “Preliminari sulla lingua del Petrarca”. In particolare, il plurilinguismo sarebbe diventato per lui un modello per ripensare la rappresentazione dell’altro (delle classi subalterne e della loro realtà) a livello sociologico, in relazione alla “questione della lingua” e del “nazional-popolare”.Nei primi anni Sessanta, invece, Dante è diventato fonte di ispirazione di un certo “realismo figurale” nel cinema pasoliniano a partire dai concetti di figura e “contaminazione degli stili” di Erich Auerbach – come emerge chiaramente nella fase “nazional-popolare” del suo cinema che va da Accattone (1961) a Il Vangelo secondo Matteo (1964). In questi film la contaminazione degli stili, tradotta in ibridazione di pittura, musica, letteratura ed immagini in movimento, ha consentito associazioni semiotiche piuttosto radicali tra cultura alta e cultura bassa e, nello specifico, tra la figura di Cristo e quella del sottoproletariato. Sulla base di queste premesse, l’ipotesi di questo libro è che Pasolini abbia trovato in Dante — e più precisamente in alcune interpretazioni critiche della sua opera (in particolare quelle di Contini ed Auerbach) — un modello con cui rispondere, in ambito artistico, ad una domanda estetico-politica di grande rilevanza per il suo tempo: la rappresentazione dell’altro, il popolo. Che cosa significa “popolare” in poesia, narrativa, cinema? E qual è il ruolo dell’intellettuale/poeta che vuole rappresentare il popolo in modo realistico?
In questo discorso, è chiaramente cruciale per Pasolini la connessione tra l’esempio di Dante e quello di Cristo, in quanto entrambi rappresentano, come ricorda Auerbach, gli esempi, per eccellenza, di radicale contaminazione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, tra la parola e la carne. Attraverso la tradizione cristiana a lui disponibile, Dante riesce a raggiungere questa integrazione tramite il doppio ruolo di auctor/actor che gli consente di combinare la funzione intellettuale con l’illusione di un reale viaggio fisico attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Ed è proprio questo modello di “poeta della realtà” ad offrire a Pasolini, almeno negli anni Cinquanta, un esempio, sul piano linguistico ed autoriale, di integrazione delle due funzioni, in pieno clima ideologico post-crociano. Eppure, per Pasolini, come l’autore scriverà nel 1965 in “La volontà di Dante “a” essere poeta”, il realismo di Dante rimane un mistero. L’incarnazione, vera ambizione del suo realismo, gli parrà ad un certo punto problematica in letteratura. L’originalità con cui Pasolini ha affrontato l’argomento della “realtà rappresentata” in relazione alle classi subalterne ha comunque avuto il merito di mettere in evidenza il divario esistente tra il cuore idealistico del discorso etico-politico delle culture realiste del suo tempo e il livello dialettico, materiale dell’esperienza artistica.
Nel contesto del periodo considerato, la riscrittura pasoliniana della Divina Commedia, La Divina Mimesis, il cui corpus principale è stato scritto tra gli anni 1963 e 1965 — con un momento di brusca interruzione proprio dopo le celebrazioni per i 700 anni di Dante nel 1965 — si colloca in un momento di svolta nella carriera pasoliniana e costituisce la sua fondamentale riflessione sul ruolo autoriale, misurato, appunto, sull’imitazione di Dante. La riscrittura pasoliniana della Divina Commedia non prenderà mai forma compiuta e resterà nel cassetto per anni, con poche ma importanti aggiunte di note o frammenti. Eppure, Pasolini decise di consegnare all’editore quest’opera, proprio nel suo stato incompiuto e frammentario, pochi giorni prima di essere ucciso nel novembre del 1975. La Divina Mimesis verrà pubblicata postuma qualche settimana dopo ed è una delle più significative dichiarazioni poetiche che l’autore ci ha lasciato.
Per mettere in luce le relazioni che questo testo frammentario ed incompleto stabilisce con l’attività poetica, narrativa e saggistica di Pasolini negli anni Cinquanta, il suo primo cinema e il dibattito sulla “nuova questione della lingua” ed il nazional-popolare, la rappresentazione di Dante in Pasolini viene qui affrontata come un fenomeno complesso e stratificato di appropriazione creativa che va interrogato a diversi livelli. Innanzitutto, le interpretazioni critiche di Dante nel dopoguerra italiano: quale modello di Dante è stato diffuso nelle letture di Contini e Auerbach? E poi, in che modo Pasolini si è appropriato di queste letture e come è stato usato il modello di Dante per ripensare la rappresentazione delle classi subalterne in relazione ad altri modelli culturali come quello gramsciano? 

II
Realismi. Va subito detto che le forme di “realismo” del dopoguerra — tipicamente associate all’impegno ideologico del neorealismo o del realismo socialista di raccontare le condizioni di vita del popolo o dei socialmente esclusi nell’ambito del progetto nazional-popolare — risultavano a Pasolini insufficienti e con non poche contraddizioni. Innanzitutto, queste spesso rivelavano una mancanza di “reale” esperienza dell’altro da parte dell’artista borghese, con la conseguenza di restituire rappresentazioni stereotipate e poco autentiche. Nel volume resta infatti sottesa la questione  — recentemente discussa anche nel libro di David Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’unità a oggi (2015) — che riguarda i limiti di alfabetizzazione  e di potere delle classi subalterne nell’auto-rappresentarsi in letteratura, condizione alla base dell’impegno di molti intellettuali, normalmente appartenenti ad una classe più alta, di “parlare per loro”. Questo è un punto che Pasolini solleva già nel 1952 anche per la poesia dialettale, mettendo in evidenza il falso binomio tra realismo e dialetto (vedi Poesia dialettale del Novecento), quella che Fortini chiamava la “coltivazione artificiale dei dialetti”. In secondo luogo, non venivano messe in discussione le strutture linguistiche che veicolavano contenuti della realtà finendo per utilizzare una lingua tipicamente borghese per rappresentare il popolo. Lo sperimentalismo linguistico non era nell’agenda del realismo. Un’altra contraddizione emergente nella riflessione pasoliniana sul realismo riguarda i limiti del medium letterario che può solo sviluppare forme di approssimazione all’esperienza emozionale e fisica di una determinata realtà. Come imitare la lingua e i comportamenti degli altri è stato di fatto il principio guida della sua sperimentazione narrativa attraverso vari media artistici, in particolare nel passaggio dalla letteratura al cinema. È costante in Pasolini il desiderio di annullare la virtualità delle rappresentazioni egemoniche, nel suo tentativo di trasformare la parola, letteralmente, in carne.

III
1951. Realismo dantesco.La lezione di Gianfranco Contini fu per Pasolini determinante. Attraverso la sua interpretazione di Dante, Contini implicitamente offriva agli scrittori del dopoguerra un modello linguistico-letterario post-crociano. Nel suo saggio,“Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951), contrapponeva il monolinguismo petrarchesco al plurilinguismo dantesco: al primo Contini faceva corrispondere lo stile linguistico puro, assoluto e selettivo; al secondo, lo stile ibrido, sperimentale ed aperto alle contaminazioni di stile, genere e lingua. In linea con i valori ideologici di quegli anni, questo rispondeva all’esigenza di un approccio autoriale basato su un rapporto dialettico nei confronti della realtà. Pasolini fu particolarmente ricettivo verso questa lettura, non ultimo per lo speciale rapporto che lo legava a Contini — vale la pena ricordare che quest’ultimo fu il primo a riconoscerlo come “autore” scrivendo la sua recensione della prima raccolta poetica di Pasolini, Poesie a Casarsa (1942). Non a caso, Dante e le sue tecniche poetiche e narrative — lo sperimentalismo, la contaminazione dei linguaggi — sarebbero state conciliate da Pasolini con la vocazione ideologica di rappresentazione delle classi subalterne. Va infatti precisato che l’Italia di quegli anni presentava uno scenario di bilinguismo non troppo diverso da quello di Dante. L’italiano era principalmente la lingua letteraria dell’élite, mentre la maggior parte degli italiani parlava i dialetti. Esisteva sicuramente un’affinità tra l’Italia di Pasolini e quella dei tempi di Dante: simile era il divario tra lingua istituzionale “alta” del potere, della scienza e della religione (latino) e la varietà plebea del volgare. Come Dante, Pasolini partecipava ad entrambi i mondi linguistici. Sia per Dante che per Pasolini era dunque fondamentale la questione di come tradurre il plurilinguismo in letteratura. Per gli scrittori del dopoguerra si poneva infatti la questione di come realizzare una cultura nazional-popolare, o meglio popolare-nazionale, in altre parole, in che modo fare entrare il popolo nella scena della rappresentazione letteraria, dunque identitaria del Paese. Lo scrittore impegnato si trovava quindi a svolgere una funzione di ponte tra intellettuali e popolo che aveva come obiettivo proprio la rappresentazione. Non troppo distanti erano le parole di Gramsci quando parlava di “rappresentanza” nei Quaderni del carcere:
Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti – tra governanti e governati – è dato da una adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita di insieme che solo è la forza sociale; si crea il “blocco storico”.
Se è vero, come scriveva Gramsci, che in Italia il divario tra letteratura nazionale e realtà sociale era enorme in Italia, tuttavia il pensatore sardo non forniva indicazioni sul come colmare questo divario in letteratura. Partendo da queste riflessioni, Pasolini prese a cuore proprio la questione del come. Come può uno scrittore borghese, socialmente e psicologicamente diverso dai suoi personaggi e dalla loro realtà, rappresentarli senza imporre egemonicamente la propria lingua, dunque visione del mondo? Il paradigma continiano che opponeva plurilinguismo dantesco a monolinguismo petrarchesco offriva una risposta stilistica e venne sviluppato in due direzioni principali nell’opera pasoliniana: (1) un’espansione della lingua poetica verso il reale che ha portato allo sperimentalismo linguistico in poesia (in particolare, Le ceneri di Gramsci); e (2) un approccio mimetico verso la lingua dell’altro che ha portato, specialmente in narrativa, a ciò che Pasolini chiamò la “regressione nel parlante” (una sorta di uso performativo del linguaggio, messo in atto per evitare rappresentazioni aprioristiche delle classi subalterne). Su questi due pilastri Pasolini ha sviluppato la sua filosofia del linguaggio in alcune delle sue principali opere poetiche, narrative e saggistiche degli anni Cinquanta come Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita e l’attività di Officina. In quest’ottica, il plurilinguismo di Dante è stato assunto da Pasolini come il miglior modello letterario di performatività attraverso il quale colmare il divario tra la teoria e pratica del “realismo” negli anni Cinquanta.  Vale dunque la pena sottolineare che da Ragazzi di vita a Le ceneri di Gramsci, da La Mortaccia a La Divina Mimesis, per Pasolini attraversare l’Inferno non significava fare esperienza del peggior destino possibile, ma anzi provare empatia verso gli altri e, attraverso l’empatia,  dare voce alla vita degli altri. Per quanto si tratti di un’esperienza virtuale, quella che Pasolini ha definito come l’opera più realistica della letteratura italiana, La Divina Commedia, di fatto evoca intensamente l’esperienza umana nella sua straordinaria diversità. È in affinità con queste considerazioni che Pasolini formula progressivamente il suo concetto di “regressione nel parlante” e di “intellettuale mimetico”, presenti già in alcuni scritti dei primi anni Cinquanta, ma emersi più esplicitamente solo nei saggi sulla lingua e su Dante del 1965. Sentire il popolo per capirlo, scriveva ancora Gramsci qualche riga prima nella citazione sopra riportata. Non è forse questo il messaggio che compare tra le righe de Le ceneri di Gramsci, scritto in una lingua che fortemente richiama quello sperimentalismo linguistico dantesco? E che cos’è La Divina Mimesis se non il racconto impossibile di un viaggio agli Inferi?

IV
Realismo figurale. Se la ricezione del plurilinguismo di Dante ha avuto luogo in un momento storico-culturale in cui Pasolini credeva che la cultura potesse essere rinnovata attraverso la letteratura, la sua appropriazione della “contaminazione degli stili” — un concetto chiave della lettura di Auerbach della Divina Commediaè stato il pretesto per guardare oltre la letteratura. Nel 1956 Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur veniva finalmente tradotto in italiano [Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale] e pubblicato da Einaudi, e solo alcuni mesi dopo troviamo già i primi riferimenti alla sua terminologia e l’uso di espressioni come sermo humilis, sermo piscatorius, e, appunto, “contaminazione degli stili”. Il saggio “La confusione degli stili” (1957) di Pasolini, per esempio, risulta già un tentativo di applicare la nozione di Auerbach alla tradizione letteraria italiana per verificarne il grado di contaminazione culturale. Ma è soprattutto nel cinema che Pasolini ottiene i migliori risultati di appropriazione del realismo figurale di Auerbach. Uno dei primi e più significativi riferimenti si trova nella ‘Nota su Le notti’ (1957), scritto dopo la sua collaborazione con Fellini a Le notti di Cabiria:Fellini mi raccontava, trascinandomi in quella campagna perduta in un miele di suprema dolcezza stagionale, la trama delle Notti. Io, gattino peruviano accanto al gattone siamese, ascoltavo con in tasca Auerbach”. I concetti di “contaminazione degli stili” e di “realismo figurale” sono quanto Pasolini trova di più utile per concepire il suo stile cinematografico in quelle sue prime esperienze accanto a Fellini. Nel suo cosiddetto cinema “nazional-popolare”, Pasolini di fatto traduce la contaminazione degli stili in una forma di ibridazione di media artistici (pittura, musica, letteratura e cinema), usando il concetto di figura per creare interconnessioni semiotiche tra i protagonisti dei suoi film (Accattone, Ettore, Stracci, e Gesù Cristo) e la figura Christi. La contaminazione degli stili viene infatti usata come strategia estetica per redifinire i confini gerarchici della rappresentazione sociale. Nello specifico, il primo cinema pasoliniano risulta come un’approssimazione figurale progressiva alla figura di Cristo, prima solo suggerita attraverso associazioni simboliche musicali (per esempio, attraverso la musica di Bach), pittura (si pensi al Cristo morto di Mantegna o alla Deposizione di Pomtorno), e sculture (la figura dell’angelo e la croce in Accattone), fino alla totale identificazione con Cristo in persona ne Il Vangelo secondo Matteo. Non solo Cristo è la parola che si fa carne, ma anche il soggetto ‘sacrificale’ per eccellenza. Ed è proprio in questa combinazione di rappresentazioni figurali della realtà altamente intellettuali  e rappresentazioni fisiche, più immediate di corpi, che Pasolini raggiunge un realismo creaturale di grande portata. Salvare, attraverso la morte, i suoi “poveri Cristi” da una società che minacciava la scomparsa della loro differenza culturale all’inizio degli anni Sessanta segna quel passaggio fondamentale, nella carriera di Pasolini, dalla fiducia in un “buon Inferno” di diversità linguistica e culturale, quello delle borgate degli anni Cinquanta, alla speranza di una salvezza al di fuori dell’“universo orrendo” nei primi anni Sessanta e poi la definitiva perdita di ogni fede al realizzarsi dei due Paradisi, quello capitalistico/consumistico e quello comunista – che in entrambi i casi rappresentavano per Pasolini, come scrive ne La Divina Mimesis, due forme di omologazione linguistica e culturale, la Lingua dell’Odio.  A quest’altezza, per Pasolini, sacralità è sinonimo di esclusione: auto-esclusione come salvezza dall’omologazione culturale. Giorgio Agamben, non a caso personaggio de Il Vangelo, ne avrebbe scritto in Homo Sacer.

V
1965. Centenario dantesco. In occasione dei 700 anni dalla nascita di Dante, Pasolini aveva rilasciato un’intervista radio la cui trascrizione è rimasta inedita fino al 1999 e poi finalmente pubblicata nell’edizione Meridiani Mondadori dei Saggi sulla letteratura e sull’arte. Questo testo, “Dante e i poeti contemporanei”, aiuta a ricostruire quelle interconnessioni, rimaste invisibili per oltre quarant’anni, tra La Divina Mimesis, la sua attività poetica, narrativa  e saggistica degli anni Cinquanta (in particolare, le antologie Poesia dialettale del Novecento, La poesia popolare italiana, Ragazzi di vita, Le Ceneri di Gramsci, il lavoro di Officina, “In morte del realismo”), il suo cinema “nazional-popolare” (Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo) e gli scritti coevi sulla lingua. Tutti questi documenti hanno in comune un continuo dialogo con Dante sulla rappresentazione, attraverso il quale, come anticipato sopra, Pasolini ha tentato di dare nuovo significato alla nozione di “plurilinguismo” prima, e “contaminazione degli stili”, poi, due concetti dai confini spesso evanescenti, alla base del suo progetto di radicale contaminazione tra “cultura alta” e “cultura bassa”. Dichiarava Pasolini in quell’occasione:
C’è stata negli anni Cinquanta, presso un gruppo di addetti ai lavori, molto impegnati in questo, sulla scorta di un ormai famoso saggio di Contini, una specie di assunzione di Dante a simbolo. Il suo plurilinguismo, le sue tecniche poetiche e narrative, erano forme di un realismo che si opponeva, ancora una volta, alla Letteratura. Sicché io, nel mio operare di quegli anni, avevo in mente Dante come una specie di guida, la cui lezione, misconosciuta o mistificata nei secoli, era ricominciata ad essere operante con la Resistenza. Ora quell’idea di realismo degli anni Cinquanta pare ed è superata e con essa si stinge l’interpretazione dantesca della ‘compagnia picciola’ che dicevo. (Pier Paolo Pasolini, ‘Dante e i poeti contemporanei’, 1965)
Il testo critico a cui Pasolini fa riferimento è “Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951); il gruppo di addetti ai lavori – la cosiddetta “compagnia picciola” – erano gli scrittori gravitanti intorno ad Officina, nonché Sanguineti e Fortini; ed è evidente, dalle parole di Pasolini, che Dante era stato preso come modello linguistico, stilistico, ma anche ideologico di un certo modo di fare letteratura sperimentale, decisamente in opposizione all’“istituzione letteraria” (la “Letteratura”). Lo sguardo di Pasolini è tuttavia retrospettivo: come afferma in conclusione, quell’idea di realismo è superata e con essa una certa lettura dantesca.
Sempre in occasione del centenario dantesco, Pasolini era stato invitato da Anna Banti, direttrice insieme al marito Roberto Longhi della rivista Paragone, a contribuire ad un numero speciale in occasione del centenario. Pasolini avrebbe inviato un articolo, “La volontà di Dante “a” essere poeta” (1965), che metteva infatti in discussione proprio quell’interpretazione di Dante che tanto formativa era stata per lui negli anni Cinquanta, come dichiarato nell’intervista radio sopra riportata. In sintesi, svelando per la prima volta l’archeologia di quel modello formativo, Pasolini rileggeva il plurilinguismo dantesco mettendo fondamentalmente in discussione i limiti del medium letterario e il ruolo dell’auctor. Inutile dire che il saggio avrebbe fatto infuriare dantisti e filologi della portata di Cesare Segre e Cesare Garboli, che leggevano il testo pasoliniano come un’incursione militante nella critica accademica, un intervento intellettuale inappropriato e fuori luogo — “una danza astratta sulla superficie di qualche “auctoritas” con le carte in regola” (Segre) —, e persino irritante. Scriveva infatti Garboli: “questo tipo di critica oracolare, divineggiante, eccitatissima, rabdomatica, tutta sui nervi, sempre affannata dalla smania di arrivare in tempo, eternamente sul punto di scoprire l’America, magari prendendo per nuove rive territori marcatissimi su mappe correnti, mobilita tutta la mia più profonda repulsione”. Pasolini rispose alle critiche ricevute e, di fatto, la polemica si estese per diversi articoli pubblicati su Paragone, ma, come emerge dalla scena del convegno del “1° Convegno internazionale di Dentisti Dantisti” di Uccellacci e uccellini (1966), ne era rimasto profondamente toccato. La sua riscrittura della Divina Commedia venne di fatto interrotta nel 1965 — le aggiunte successive hanno lo scopo di giustificare formalmente quella serie di frammenti in risposta alla polemica con il Gruppo ’63 (“Per una “Nota all’editore”, 1966), all’uscita di Letteratura italiana dell’Otto-Novecento di Contini (1974) e infine dare forma definitiva al progetto incompiuto con la Prefazione (1975). Oggi risulta chiaro che Segre e Garboli, e come loro molti altri critici, non potevano cogliere in pieno il senso dell’appropriazione di Dante nell’opera pasoliniana, non fosse altro perché La Divina Mimesis giaceva ancora in un cassetto e i riferimenti al realismo dantesco figuravano sparsi qua e là in vari documenti artistici e saggistici degli anni Cinquanta. Risulta invece chiaro oggi che “La volontà di Dante “a” essere poeta” non era che un frammento di un grande intertesto.

VI
 1975. “La Divina Mimesis”. Molteplici connotazioni racchiude la parola “mimesi” nel rapporto Dante-Pasolini, ma il concetto emerge finalmente in modo inequivocabile nel titolo dell’opera pasoliana più dantesca, La Divina Mimesis (1975), dove la parola “mimesis” del titolo richiama la doppia accezione di “imitazione della Commedia” e di “imitazione della realtà, degli altri”. Il senso che Pasolini attribuiva a La Divina Mimesis è tuttavia ancora più specifico. “Divina mimesis”, imitazione divina, indicava quella vocazione poetica di diversità linguistica e culturale che aveva animato il progetto ideologico dell’autore per tutti gli anni Cinquanta e che Pasolini vedeva gravemente compromesso a causa di quella che chiamava l’“omologazione culturale e linguistica” dei primi anni Sessanta. “Divina mimesis” corrispondeva ad un mito poetico associato alla figura materna, equiparabile al paradiso, scrive l’autore nella Nota 2 (1964) posta in appendice della sua riscrittura della Commedia: ““La Divina Mimesis” o “Mammona” (o “Paradiso”) si presenta miticamente come l’ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale, l’italiano che serba viventi ed allineate in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della storia”. Questo ed altri frammenti de La Divina Mimesis sono chiaramente in dialogo con Nuove questioni linguistiche (1964), il saggio pasoliniano che aveva avviato il dibattito sulla “nuova questione della lingua”, presentato alla conferenza dell’Associazione Culturale Italiana a Torino il 27 novembre 1964. Se, come argomentava Pasolini in quell’intervento, la lingua nazionale che si era formata in quegli anni era una lingua creata dall’alto, dai mass-media e dal potere economico, diametralmente opposto era invece il progetto linguistico-culturale a cui Pasolini aveva fortemente creduto nel decennio precedente, ovvero quello di una lingua “lievitante dagli strati bassi”, mimetica del mondo popolare, della realtà quotidiana. Almeno nelle prime intenzioni, dunque, La Divina Mimesis avrebbe dovuto seguire la linea di Ragazzi di vita (1955), come lasciava intendere anche il racconto La Mortaccia (1959), un primo abbozzo di riscrittura della discesa infernale di Dante, impersonato da una prostituta che si avventurava per le borgate romane. Eppure, la riscrittura pasoliniananon si presenta come l’“ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale”. I frammenti che Pasolini ha dato alle stampe “come un “documento”” si limitano a raccogliere testimonianze ed intenzioni di un progetto lasciato volutamente incompiuto. Nel suo stato documentaristico, La Divina Mimesis rappresenta piuttosto la morte del realismo dantesco — una morte che Pasolini aveva già ufficialmente anticipato in quel celebre componimento letto alla presentazione dei finalisti del Premio Strega nel 1960, “In morte del realismo” — e il passaggio ad un nuovo ideale mimetico in poesia e nel cinema. “Bisogna cambiare strada”, diceva il Pasolini ‘60/Virgilio al Pasolini ‘50/Dante pellegrino, alla fine del I Canto de La Divina Mimesis.
“Non ho da scegliere […] vengo con te”.

 

RILEGGERE MONTALE

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Questa mattina riprendo dal sito http://www.leparoleelecose.it/  questo invito a rileggere l'opera del grande poeta ligure:

Cosa accade se rileggo Montale

di Paolo Febbraro
a Matteo Marchesini

Da giovanissimo, Eugenio Montale è un rampollo della operosa borghesia ligure, ma è in contrasto col padre, vorrebbe lavorare solo per un obbligo morale e sente che il mondo gli sfugge.
In una sua prosa del 1943, intitolata Ricordo di una spiaggia e poi Una spiaggia in Liguria (ora in Prose e racconti, Mondadori 1995, pp. 657-661), il maturo scrittore rievoca un episodio della giovinezza che parla di una battuta di pesca notturna con due compagni più esperti, e del suo esito poco esaltante:
Sporgendomi dal bordo inclinato reggevo la lanterna ad acetilene e dissimulavo tra uno sbadiglio e l’altro le prime insidie del mal di mare. […] Tugnin mi aveva condotto con sé perché faceva gran conto della mia facoltà di scimmia urlatrice; ma delle mie attitudini nautiche si fidava assai meno e non c’era da illudersi che gli sfuggissero i miei sintomatici sbadigli. La pesca durava già da un paio d’ore e prima avevamo calato i palàmiti di là dal Mesco. All’alba si sarebbe dovuto doppiare ancora il promontorio per salparli […]. Ma che farsene ormai di un aiutante della mia forza? E con qual mezzo rimandarmi a casa? Tugnin e il Gresta si immersero in un lungo colloquio indecifrabile, ficcandomi ogni tanto la lanterna in faccia.. Poi, come gli ultimi sugheri erano ormai venuti su, Tugnin con una rapida palata arenò il gozzetto tra i ciottoli della spiaggia e mi aiutò a scendere. Sudavo a grosse gocce.
Ecco il ragazzo Eugenio rifiutato dal vastissimo seno accogliente, «scimmia urlatrice» che aiuta a terrorizzare i pesci e a spingerli verso la rete, disposta «come si deve, senza varchi o buchi», ma incapace di reggere «ventiquattro ore fra cielo, scogli e mare». Ecco il leggero osso di seppia che viene sputato dalla distesa di metallo liquido e diviene un residuo alienato ma duraceo. Ed ecco anche – in figura, come in ogni autobiografia – il proprio destino: Eugenio cattura i pesci con la propria voce, li accoglie in una rete perfetta, ben disposta, astuta. Ma non chiedetegli di prendere il largo. Più avanti, rimasto sulla proda per tutta la notte, e con un buon fucile in dotazione, incorre in un altro atto mancato. Decide di sparare a qualche uccello, ma sopraggiunge un altro sparo, rivolto a un tasso che a un tratto gli appare di fronte:
Mi-ange, mi-bête, con le mani (o le zampe?) appoggiate a un lastrone, un essere mai veduto mi guardava con occhi umani, incerto sul da farsi. Un uomo non era davvero: aveva piuttosto dell’orso, del porco e del gatto. Alzai il fucile con molta lentezza, gli misi il mirino tra gli occhi, esitai un istante, poi con improvviso proposito, premendo il grilletto (l’animale continuava a guardarmi), scartai la canna in alto per sbagliare il bersaglio. La spallata mi buttò indietro due passi e il fumo della polvere nera mi oscurò per un momento la vista.
Qui dalla voce si passa alla vista: e non si riesce a offendere chi ti guarda con occhi umani ed è incerto sul da farsi. Il grazioso animale, metà angelo e metà bestia, torna a sparire nel folto della vegetazione: è bastato rimandare uno sguardo di fraterna incertezza per salvarsi dalla schioppettata. Al vero cacciatore che aveva sparato, Eugenio mente dicendo di aver «tirato in mare, a un martin pescatore, senza prenderlo», e non alla «bestiaccia» che lui sta cercando: «Possibile non l’avessi vista? Che diavolo facevo là?».
Non c’è che dire, i brani autobiografici sono sempre un messaggio al proprio lettore ipocrita: quello capace di intendere e inseguire la verità all’indietro, fin nelle sue origini remote. Comprendiamo bene, così, perché quel ragazzo si metterà a studiare canto, a leggere i decadenti francesi, a cercare un riscatto nell’Arte musicale dei simbolisti, affannandosi sulla via di una propria carriera mondana, senza riuscire a imboccarla. Persino le fauci infuocate della Grande Guerra non lo ingoiano, lo assaporano appena. Per questo, conserva degli slanci panici e dannunziani nei confronti della natura, vorrebbe fondersi nell’abbraccio (o “accordo”) con il mondo per sfuggire alle detestate angustie borghesi. È attento lettore di Verlaine, di Nietzsche e di Palazzeschi. Progetta di “sparire”, come Perelà, di sciogliersi in qualcosa che oscilli tra la rinuncia e la gloria dionisiaca, innominata. Scrive ventenne nel Quaderno genovese:
Sono certo che tanto il mio nome, quanto la mia opera precipiteranno nell’oblio più assoluto. […] Non mi dispiace affondar nell’ignoto; solo l’ignoto è grande e fecondo e vero; solo esso è tragico e umano (Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Mondadori 1996, p. 1337).
Eppure, nel convulso primo dopoguerra, il nostro giovane indeciso ha il sano istinto di non cadere nelle trappole ideologiche del biennio rosso né tantomeno in quelle giovanilistiche e attivistiche del fascismo. Ha un’intelligenza vigile, cauta, scettica, delusa, e anche un certo bisogno di ritrovarla in altri (come diranno le tante allocuzioni: «Ascoltami, i poeti laureati…»; «Non chiederci la parola…»). Sceglie Piero Gobetti, la rivista «Primo tempo», Giacomo Debenedetti e Sergio Solmi, con un po’ dello spirito rondista e restauratore alla Emilio Cecchi. Dal 1920 prende a scrivere poesie sul serio: se il mondo conserva il proprio segreto noumenico, Montale crede di doverlo stanare con un gran concerto di bassi, di stridori e di fischi, con lunghe serie enumerative, aiutato in questo dal dantismo pascoliano e dalla enumeración caótica alla Govoni, che Montale stima assai. Iscrivendosi di diritto alla grande scuola moderna dei vedovi della Realtà (ovvero di tutti i realisti volenterosi e di tutti i decadenti sdegnosi, due facce della stessa medaglia), Montale cerca e cercherà a lungo il varco, l’«anello che non tiene» nella catena o nel muro del mondo, che fin dalla prima giovinezza gli appare ispido, armato, spalto inaggirabile che si sottrae all’esplorazione. La poesia diventa lo strumento robusto e vicario per tentare un’espugnazione che pure sa impossibile, se non per epifanie puntuali, spesso legate al sopravvenire di tracce memoriali, e dunque fatalmente legate all’elegia, al canto della perdita. Folto e incisivo, il verseggiare degli Ossi di seppia (intitolati dapprima Rottami) è al tempo stesso solenne e disincantato: pur denunciando le false altezze dei «poeti laureati», non cade nella trasandatezza quotidiana di certi crepuscolari. Dice benissimo Luperini: «È vero tuttavia che il fermo richiamo a una dimensione chiusa e tradizionale del metro, che veniva da Pianissimo di Sbarbaro, permette ora al giovane poeta di calare la tematica moderna (ed “europea”) dell’uomo fallito, spaesato ed esiliato in accenti di una perentorietà cristallina. All’“indecisione” del carattere corrisponderà, di qui in avanti, la “decisione” dello stile» (Storia di Montale, Laterza 1986, pp. 16-17).
Troppo filosofo per credere che la realtà esista e sia permeabile al suo povero Io moderno, e troppo carico viceversa di doveri compensatori en artiste, Montale diventa uno stilnovista roccioso, un Cavalcanti eliotiano che davanti al muro del mare, della donna o di altri misteri universali eseguirà copiosi spartiti musicali, mescolando abilmente arie operistiche ottocentesche e stridori avanguardistici non troppo gesticolati, in omaggio a una misura appunto borghese, a una vigilanza arguta e dignitosa. Gli capiterà, occasionalmente, di celebrare brevi vittorie. Negli Ossi il miracolo quotidiano avviene, ma scavato in un presente imploso, a colpi di piccone o col frinire di una lima. «Arremba su la strinata proda»; «A vortice s’abbatte / sul mio capo reclinato / un suono d’agri lazzi»; «O rabido ventare di scirocco / che l’arsiccio terreno gialloverde / bruci»; «Aggotti, e già la barca si sbilancia / e il cristallo dell’acqua si smeriglia»: in Montale sembra che, rimbalzando scoraggiato dal Mondo inaccessibile, il moto dell’Io lasci spesse tracce sonore sulla cronaca verbale del tentativo infruttuoso: versi rigati, rumorosi, di un’eleganza dissonante, segno di una seduzione esibita proprio nel suo fallimento amoroso.
Insomma, Montale è della «razza / di chi rimane a terra», a registrare incaponito i graffi e i gracchi del proprio lavorìo.
(Fra parentesi: anche Caproni batterà inutilmente contro il muro della terra, da poeta assai più montaliano che sabiano, come invece è stato detto. Ma Caproni intonerà le sue canzonette portando all’estremo quanto di operistico è già in Montale, e avrà una vecchiaia più brillante, una metafisica concreta, una dissociazione più storica e dunque più narrativa, una lingua al tempo stesso più luminosa e molata, scegliendo l’essenziale).
Negli incipit che ho citato, tutto avviene al presente: la bocca del cantore esplode di inarcati stupori e sonanti scoppiettii, che vorrebbero corteggiare l’esperienza mimandola, ripossederla e insieme misurarne in decibel il moto intransitivo e respingente. Tuttavia, se il presente è una testuggine refrattaria, e se «alberi case colli» non sono che proiezioni su uno schermo, allora Montale può capitalizzare poeticamente sia la fragranza dell’ora sia la tradizionale postura dell’elegia. È il massimo che si può ottenere! Il mar ligure ti affronta, ti scuce da dosso i suoni prodotti dalle sue percosse; ma già non è più, è cieca essenza, nucleo d’atomo incommensurabile. Ecco appunto la lunga seduzione timbrica, ecco la sintassi tentacolare e ricomposta, ecco lo spumeggiare frastornante delle sensazioni immediatamente approfondite dalla loro seriosa insensatezza. Arsenio (questo Eugenio riarso) seguita «un ritornello di castagnette» come fosse «il segno d’un’altra orbita», approdando purtroppo al «cenno d’una / vita strozzata» e alla «cenere degli astri»: ma è certo che una parte della materia bruciata era costituita da incensi dannunziani, accesi un po’ ad arte, quasi che la fiamma, in sé, fosse bella.
E la donna, allora? È l’occasione per eccellenza. Sempre letterariamente trasfigurata, sempre accuratamente recintata da un soprannome (Clizia, Volpe, Mosca), sempre rifiutata preventivamente nella sua falsa vivibilità, la donna gli concederà visitazioni, plananti discese, perigliosi e momentanei atterraggi, epigrammatiche elegie “latine”. Ma va conservata nella sua intonsa alterità: è impossibile raggiungere in piroscafo Irma Brandeis senza abbandonare posture stilistiche e nicchie conquistate nel museo della più alta convenzionalità. L’Ermetismo di Montale è stato in buona parte il tentativo di occultare l’oggetto amoroso “per purissima cortesia”.
Ecco perché Montale ha avuto così straordinaria fortuna accademica e in generale critica. È l’Eliot italiano, che eleva a sistema l’irresolutezza o inettitudine sveviana, con il ricorso massiccio al nesso di Stile e tradizione (così il titolo di un saggio del 1925), che può trasformare l’atteggiamento decadente, la sprezzatura avanguardistica e ribellistica in struttura. Montale ha l’abilità di presentarsi come il culmine novecentesco di una lunga storia letteraria, che potrei mettere sotto il titolo generale dell’Amore e l’Occidente, per alludere a Denis de Rougemont. Le tessere citazionistiche, sempre immerse nella densa concretezza nominale di un Pascoli prosciugato, ligure, contribuiscono a fare di Montale l’alfiere di una tradizione diroccata e allusa, terreno di coltura per innumerevoli esercizi di lettura continiani, per sondaggi soddisfatti dalla gemma del ritrovamento, seppure ogni reperto sia stato correttamente distorto dalla intervenuta disarmonia storica. Montale non getta via né parodizza scapigliatamente la tradizione (anzi, la Tradizione con la maiuscola, quella occidentale della perdita platonizzante, dello iato fra noumeno e fenomeno), ma saggiamente la porta con sé, come bagaglio risonante, schioccante, che si avverte a distanza come una sonagliera. La forza di Montale è proprio nel non cadere nell’illusionismo astratto del Grande Simbolismo: la sua poesia è seria, cospicua, corrugata: il male di vivere s’incontra per strada, le ombre tanto amate dai decadenti si stampano su un muro scalcinato, e lui riesce a cantare in rime ricche e nascostamente sovrabbondanti persino quando gli oggetti, tutto intorno, “ragliano” la loro chimica estraneità di abbaglio, muraglia, bottiglia. La lettura di Pascoli (che forse molti francesizzanti mallarmeani non hanno compiuto davvero) gli ha infoltito e insieme raffinato i mezzi di rappresentazione del reale: anche se l’essere rimasto al di qua del muro che lo separa dall’esperienza ha inaridito in lui la lacrima che Pascoli ha sempre pronta sul ciglio, giustificando filosoficamente in Montale un congenito, bramoso sdegno per il poverume o la buona ingenuità («Ah l’uomo che se ne va sicuro…»). Lì è intervenuto Gozzano, con la sua sovrana, arsiccia ironia: lo stesso amore per il canto lirico induce Montale a coltivare sornionamente la grazia goffa e incredibile, ma rigogliosa, della parola ottocentesca, con un sarcasmo un po’ più turbato e partecipe, rispetto al poeta di Torino (che muore nel 1916 di Meriggiare).
Alla lunga, tuttavia il poeta fa fatica a portare questo basto, che gli pesa sempre più sulle spalle fino a diventare troppo gravoso: e questo esattamente dopo il 1956, quando neorealismo e seconda avanguardia prendono a prosaicizzare, abbassare, rinnegare apertamente la sua compensatoria “struttura”. In un’intervista televisiva del 1959 concessa a Leone Piccioni, Montale si fa riprendere sulla terrazza del proprio appartamento milanese mentre dipinge su cartone un vaso di fiori. E afferma: «Io ho cercato dipingendo di ritrovare una certa ingenuità primitivistica dentro di me che naturalmente avevo perduto scrivendo versi, credo di averla trovata, ecco, mi diverto più a dipingere che a scrivere, ma se insistessi molto forse non mi divertirei più nemmeno a dipingere». La stanchezza è infatti, molto presto, la sua musa: stanchezza di dover architettare quella struttura artificiosa, quell’articolata dissimulazione del proprio semplice eccesso emotivo, di dover dimostrare ardua coerenza nei confronti di un immaginario presto emblematico e infine astringente, con la sua rigogliosa negatività. Cerco di immedesimarmi in Montale e di capirlo fraternamente: dal 1925 in poi è stato assunto rapidamente nel cielo della poesia comme il faut, aggredito da una critica entusiasta e demanding, indagato, forzato come una porta blindata a metà, preso a misura. Cosa avrà pensato il Montale poco più che quarantenne leggendo queste e altre simili frasi dell’agguerrito filologo che già anni prima, ventenne, gli aveva dedicato un saggio e che altri gliene dedicherà, nella sua lunga fedeltà?
Il nucleo della lirica di Montale è pertanto un’immagine tipica, un’immagine essenzialmente non irrelata: sia pure poi di difficile o disperata interpretazione; nell’alone poetico di quell’immagine è involto il possibile significato, tutto il travaglio esegetico. Nell’ultima testimonianza-limite codesta forma eccezionale di conoscenza è accettata, si può dire, quasi una nuova convenzione. (Gianfranco Contini, Dagli «Ossi» alle «Occasioni», 1938, in Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Einaudi 1974, p. 36)
Come non sentirsi vezzeggiato, quasi imbonito, ma anche scassinato e ricattato, dall’acerrimo Gianfranco Contini, lo stesso che pochi anni prima, nel 1933, aveva scritto (in Introduzione a Eugenio Montale):
Già, il nominare e nominare le cose, un vero delirio di nominare; quell’impressione di gremito che non nasce tanto dai luoghi singolari quanto da intero il libro, corrispondono a una velleità di esercitare la conoscenza del mondo; a una presa di possesso dolorante, perciò ancora virtuale. (Una lunga fedeltà, pp. 11-12)
Non c’è dubbio: essere il frontman della nuova poesia ha i suoi oneri. E onerosa, appunto, mi sembra essere tutta la produzione poetica del “grande Montale”, così come la sua gestione pubblica. Di qui, dicevo, la stanchezza: che tuttavia non si traduce nel silenzio, ma piuttosto (e finalmente) nel suo contrario. Bisogna ricordarsi delle letture palazzeschiane dell’irriverente Montale: «Il poeta si diverte / pazzamente / smisuratamente…». Dopo alcuni anni di scritture in prosa e di repulsiva mutazione, Montale si libera. Alla produzione modernistica (tre soli libri in sessant’anni di vita, per un totale di 260 pagine di poesia: contando da un’età di vent’anni, sono 6 pagine di poesia all’anno), che giocava appunto fra la corposità degli esiti e la ritrosa rarefazione delle apparizioni, fa riscontro quella pletorica degli ultimi venti (Satura, Diario del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni, Altri versi, per un totale di 440 pagine circa).
Montale ha compreso, a un tratto, che la sua stessa poetica stava avallando operazioni terminali. Il gioco non poteva perpetuarsi: i nuovi realismi, il dibattito su letteratura e industria, la cultura di massa e la lingua televisiva, l’emergere dei Laborintus, ovvero dei “laboratori labirintici” dei nuovi linguaggi dello sconquasso e della deriva, stavano per così dire eseguendo la sentenza che in lui era rimasta allo stadio di alta formulazione giuridica, di stilnovistico trobar clus. In più, sul piano della lirica pura, ecco Zanzotto, con il disturbo psico-motorio della sua lingua, la sua radicale nostalgia senza più oggetto plausibile. Nel 1969 Montale legge La beltà e in una celebre recensione decreta perfidamente che la poesia del futuro è in quella disperata schizofrenia: dichiarazione di morte del più grande medico legale.
A lui non rimane che gettare la maschera. Ora che la moglie è morta, può essere assunta nel cielo ribassato della sua poesia, come prima altre figure rigorosamente mancanti. Ecco gli Xenia. Per il resto, il poeta si scatena, si disarticola, e quell’abbassamento è il suo sollievo. Ha dettato i tempi della poesia italiana per decenni, è riuscito a vincere la lunga guerra contro Ungaretti sul suo stesso terreno, quello del post-simbolismo e dell’Ermetismo. E questo grazie alla sua musa più complicata e nutrita, più scandita e severa. È stato evasivo, sfiduciato, scettico, inetto al mondo, lontano dalla politica, deraciné: ma in maniera astutissima, da ricco possidente verbale. Ora però il suo caratteristico “rigoglio negativo” sta andando fuori corso.
A questo punto smetti
dice l’ombra.
[…]
Se ora mi stacco
da te non avrai pena, sarai lieve
più delle foglie, mobile come il vento.
Devo alzare la maschera, io sono il tuo pensiero,
sono il tuo in-necessario, l’inutile tua scorza. […]
T’ho ingannato
ma ora ti dico a questo punto smetti […].
C’è poco di più chiaro: la soma della Poesia, di Clizia, del Negativo, del Moderno, del suo roccioso provenzalismo ligure è ormai insopportabile e si stacca dal poeta, come un’ombra, un inganno. Nelle centinaia di versi che si appresta a produrre ancora nel suo ultimo decennio di vita, Montale fa passare per poesia una prosa sentenziosa e tagliata con esattezza, con secca autoparodia: in lui c’è come una nuova leggerezza e insieme un’esasperazione sorda nei confronti dei propri lettori autorevoli, che quell’ombra, quell’inganno hanno preso sul serio, costruendo sistemi e carriere per sé e per altri. Tutto spinge Montale, ora, ad annoverare i propri emblemi sminuiti, ripuliti d’ogni unguento magico o d’ogni responsabilità platonica. Alleviato d’ogni pesante velatura, Montale esprime la sua verbosa, felice delusione, ci ammannisce i propri shorts amari e domestici con l’aria di chi voglia rifornire i filologi degli ultimi enigmi quotidiani, retrattili e autodenigratori, insieme stufi e compiaciuti della propria ripetitiva banalità.
Da sempre allocutiva, fin da quando voleva denunciare gli altrui «bossi, ligustri o acanti», la tarda poesia di Montale smette di metterci sull’attenti, a origliare gli effetti sonori della sua bufera di simboli, e ci chiama dentro una villa ormai gozzanianamente spogliata «da gli antiquari». C’è poco thè nella teiera o nelle tazze spaiate, poche zollette nella zuccheriera e la conversazione di salotto è fatta di vecchi aforismi mondani ben conservati nella credenza o tirati fuori dalle tasche, scritti su fogli a quadretti, per zittire gli ingenui, i creduloni (ovvero i critici accademici) e soprattutto (guai!) gli altri poeti, pensando ai quali neanche adesso Montale riesce a sentirsi secondo. Ormai è un vecchio maestro che ogni santo giorno o quasi ripete a pappagallo che la scuola è finita: «non esistono più i grandi uomini / ne restano inattendibili biografie / nessuno certo scriverà la mia» (da Soliloquio, Quaderno di quattro anni). O ancora, riferendosi alla «tediosa bisava, l’Ispirazione»: «troppe volte ha mentito, ora può scendere / sulla pagina il buio il vuoto il niente» (Il fuoco e il buio, sempre dal Quaderno). Svestito il grave manto della finzione, il nichilismo diventa fastidio, liquidazione, quasi gestaccio (dal Diario del ‘71):
Non mi stanco di dire al mio allenatore
getta la spugna
ma lui non sente nulla perché sul ring o anche fuori
non s’è mai visto.
Forse, a suo modo, cerca di salvarmi
dal disonore. Che abbia tanta cura
di me, l’idiota, o io sia il suo buffone
tiene in bilico tra la gratitudine
e il furore.
E ancora, in termini definitivi (dal Quaderno):
Mezzo secolo fa
sono apparsi i cuttlefishbones
mi dice uno straniero addottorato
che intende gratularmi.
Vorrei mandarlo al diavolo. Non amo
essere conficcato nella storia
per quattro versi o poco più. Non amo
chi sono, ciò che sembro. È stato tutto
un qui pro quo. E ora chi n’esce fuori?
Ho seguito, ancora recentemente grazie a un convegno appositamente dedicatole, la questione dell’autenticità o meno del Diario postumo. Certo stabilirla è interessante: ma lo è molto di più riflettere perché un simile libro sia stato anche soltanto attribuibile a Montale. In questo senso, dev’essersi trattato di un vero e postremo scherzo di Montale ai critici: scrivere un libro (o non scriverlo, ma è uguale) che potrebbero, ormai, scrivere tutti. Sabotaggio di una poesia già sabotata dalla sua stessa insostenibile poetica.
E proprio per questo: come immaginare il Novecento italiano senza Montale? Apparirebbe come una bella casa di vetro e mattoni rossi, ma priva dell’anima di cemento. L’unica vera ripartenza dopo il sommesso abbattimento crepuscolare sarebbe stata quella di Ungaretti, troppo legato al modernismo lirico e soprattutto a uno stanco equivoco petrarchesco-leopardiano per poter durare davvero. E saremmo rimasti con Saba e Penna, grandissimi, ma talmente classici, talmente sovrani di sé stessi da risultare inimitabili, e soprattutto poco influenti, poco spendibili fuori dai nostri confini, poco scalabili, poco esemplari. Montale ci ha salvato agli occhi del mondo: ci ha dato (come Pirandello) quella seria modernità locale-globale che è sempre sfuggita al nostro regionalismo e alle nostre estenuazioni cortigiane o accademiche. Quella modernità non avanguardistica che ci ha iscritto al corso avanzato di letteratura mondiale e ha firmato il libretto delle giustificazioni per la nostra lunga assenza.
Quanto a me, se dovessi fare un’antologia montaliana, prenderei molto dagli Ossi di seppia, molto meno da Occasioni e Bufera, e sorprendentemente parecchio dai libri finali. Oggi, dei versi come questi del terzo tempo di Notizie dall’Amiata
Questa rissa cristiana che non ha
se non parole d’ombra e di lamento
che ti porta di me? Meno di quanto
t’ha rapito la gora che s’interra
dolce nella sua chiusa di cemento.
Una ruota di mola, un vecchio tronco,
confini ultimi al mondo. Si disfà
un cumulo di strame: e tardi usciti
a unire la mia veglia al tuo profondo
sonno che li riceve, i porcospini
s’abbeverano a un filo di pietà.
destano in me un misto di fastidio e di sorridente ammirazione per il grande stratega, o forse il grande tattico, che Montale è stato. La «rissa cristiana» è metafora ben trovata, sprezzante e distaccata, superiore; e subito – dopo l’ombra e il lamento di prammatica – l’interrogativo patetico fa appena in tempo a porsi che viene riassorbito dal supermontaliano emblema della «gora che s’interra». Se il lamento accennava a una lacrima, il cemento la chiude in rima con virile, disillusa asciuttezza. Montale è puntiglioso nell’onorare la missione di maestro “sliricato”, con tutto ciò che di ancora “lirico” la maestria comporta. Aggiunge immagini («una ruota di mola, un vecchio tronco», «un cumulo di strame») alla propria galleria naturistico-zoologica, spendendo persino la moneta finto-realistica dei porcospini; ma la loro macchia di colore, il loro grumo biologico sono immediatamente revocati dalla grigia funzione simbolica che rivestono. Come al solito, Montale è bravissimo a costruire con materiali di risulta, a reggerli insieme in architetture compatte, di ferma e chiusa eco, sempre un po’ anaerobiche, fino a farne l’ennesima versione del proprio stemma araldico. Se il “tu” è lontano, l’assieparsi degli oggetti è forse schermo e amuleto, ma di certo specchio diroccato del Sé indigente e sottratto alla pienezza.
Eppure, non si avverte nessuna mortificazione, nessun understatement: il meccanismo è ormai un po’ frusto, ma si tratta sempre di “poesia maggiore”, di un dire che sa di essere al centro del proprio tempo; la mola e il tronco sono sì materia aliena da ogni reale dialettica o manipolabilità umana, ma rappresentano pur sempre i «confini ultimi al mondo». Insomma, ancora una volta non occorrono «bossi, ligustri e acanti» a chi riesce a costruire la torre di Babele con umili mattoni. Quelli degli Ossi sembravano appena usciti dal forno che li aveva cotti, questi sono già di repertorio: sono già la «maschera», o «l’ombra» da cui Montale si sente pedinato, falsificato.
Meglio quell’ultimo Montale, allora. Chi non tira un sospiro di sollievo, oggi, passando da «Oh come là nella corrusca / distesa che s’inarca verso i colli», o da «Il rumore degli émbrici distrutti / dalla bufera / nell’aria dilatata che non s’incrina» (primo e terzo incipit della sequenza Tempi di Bellosguardo, in Le occasioni) a «Ascoltare era il solo tuo mondo di vedere. / Il conto del telefono s’è ridotto a ben poco», quasi un’antonomasia di Satura? Come non riscontrare più libertà, più abbandono, ovvero una più sottile, più onesta letteratura?
Come poeta, ai miei inizi, ho dovuto risalire – come la bellissima anguilla montaliana – alle potenti sculture sonore degli Ossi, che mi hanno aiutato a trovare il tono giusto, a lavorare di taglio, a ispessire le sonde interiori. Attorno a me c’erano i guasti procurati dal Montale prosastico, liquidatorio e vendicativo, ovvero i vari “poeti dispersi” degli anni Settanta. Montale dava ancora l’impressione di scrivere sul risvolto dei propri versi “maggiori”, mentre il cronachismo dei più giovani, nati negli anni Quaranta, non aveva quel background. Quasi peggiori mi apparivano i pasolinismi e le postreme accensioni vitalistico-mortuarie; e impraticabile, perché in cattiva fede, l’avanguardismo. Insomma, i miei padri immediati, o fratelli primogeniti, avevano combinato un sacco di guai: a rappresentarli, piccola bandiera da poco vento, potrei chiamare Magrelli e il tono da colloquio scientifico con cui perimetrava i suoi pensieri sbiaditi. Il Montale degli Ossi– ma dopo Caproni e il Sereni degli Strumenti umani– è stato un rimedio, la possibilità di riattingere una struttura. In tanta deriva, gli Ossi soprattutto sembravano una punta di diamante capace di trapassare il vetro (e il veto) dell’attualità, senza troppe gesticolazioni; e ancora la dura cote su cui affilare le mie lame.
Mi chiedo se Montale abbia avuto sulla mia poesia un’influenza pari a quella esercitata dal poeta che più amo, che è proprio il già citato Umberto Saba: autore più intero e integrato (a dispetto del cuore «in due scisso»), onesto dall’inizio alla fine, prosatore affascinante e pungente, maestro di canto e di brevità, fin troppo impudico per me, che ho ancora da imparare da lui, dal suo coraggio, dal suo cuore.
(luglio-agosto 2015)

G. CARAMORE, Contro tutti gli idoli

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Paolo Uccello, Il Diluvio e la recessione delle acque, 1425-30, Firenze, Chiostro Verde in Santa Maria Novella,

Addomesticare Dio

“Non ti farai idolo, né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sotto la terra. 5 Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai [...] Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio” (Es 20, 4-5.7). È una indicazione fortissima, perentoria e sottile, ma nello stesso tempo tra le più misconosciute e trascurate, quella che ci viene da questi versetti delle dieci “parole”, dei dieci comandamenti: mettono nelle nostre mani il compito, delicato e ardito, di accostarci alla parola “Dio”, per comprenderlo senza circoscriverlo, per alludervi senza afferrarlo. L’imperativo è di non farsi idoli, neppure, e soprattutto, di Dio stesso. Non pronunciare vanamente (o “a vuoto”, o “falsamente”) il suo nome. Eppure sono questi, forse, i comandamenti più disattesi. Il volto di Dio è quello che ha subito più caricature, il suo nome quello pronunciato più distortamente nelle tradizioni religiose che si sono costruite intorno a quei testi.

È facile confondersi, naturalmente. Nello scorrere dei testi sacri sono molte, poi, le figure con cui si cerca di simbolizzare il volto di Dio. Molte e diverse le immagini con cui si racconta Dio, molti i nomi per chiamarlo, per invocarlo, per renderlo presente. Ma proprio il fatto – per restare in ambito biblico – che ci sia un Dio che crea e un Dio che salva e che libera, un Dio che punisce e un Dio che perdona, un Dio lontano “nei cieli” come in Qohélet, e un Dio cosmico e beffardo come in Giobbe, un Dio paterno e compassionevole, ma che tuttavia “abbandona”, come nei Vangeli, dovrebbe rendere impossibile fissare una sola di queste figure, e renderci invece consapevoli dell’immenso carico simbolico accumulato intorno alla parola “Dio”. Nella nostra epoca, che si vorrebbe del disincanto, questo dovrebbe esonerarci dalla pretesa e dalla tentazione di dirci “credenti”. “Credenti” in che cosa? In un ammasso di significati stratificato nel tempo, intersecato da mille contaminazioni, depositato nel magmatico movimento della storia?
Mi sembra di una certa evidenza che la parola “Dio” rappresenti il nome con cui diverse culture, civiltà, tradizioni hanno voluto indicare una grandezza infinitamente superiore alla misura umana, l’enigma stesso delle esistenze, l’oggetto di uno scrutare al di là dei confini terrestri, e al di qua del profilo stesso della vita. Gli esseri umani si sono sempre interrogati sul mistero di ciò che li circonda, sul grande arcano del tempo e dello spazio, sulla presenza di mondi inconoscibili, sulle loro imperscrutabili leggi. Si sono sempre affacciati al di là del proprio limite, hanno sempre cercato di penetrare l’indecifrabile vastità dei mondi e la piccolezza delle escrescenze umane sulla terra. All’oggetto di questo interrogare l’uomo, in alcune culture, ha dato il nome di Dio. In altre c’è qualcosa che si chiama nirvana, ad esempio, in altre ancora altri nomi. Direi che nelle nostre civiltà, nelle civiltà che si sono modellate intorno alle tre grandi religioni monoteistiche, si è “trovato” questo nome, il nome di Dio per indicare una grandezza incommensurabile, l’oscuro segreto della vita, il mondo che sta prima del mondo, o alla fine del mondo.

Ma vi è un altro elemento propulsore, oltre a quello interrogativo, che ha contribuito al “concepimento” della parola “Dio”, e, intorno a questa parola, a creare, forgiare, far nascere le religioni, i loro testi, le loro Scritture, le loro aggregazioni, le loro storie: il desiderio di alleviare le sofferenze di uomini e donne, di dare un senso al dolore, qualora non lo si possa estinguere del tutto, di contenere le forze distruttive che abitano il cuore dell’uomo, di individuare una via di giustizia per l’umanità, di poter sperare che qualcosa, nella vita umana, sopravviva alla sua conclusione terrestre.

In altre parole, il desiderio di fare comunità, di fare società, di costruire convivenza, di rinvenire un senso. Di qui le norme, gli insegnamenti, le leggi, i precetti, i culti, le preghiere... Ma ciò che fa di una religione una religione – cioè un insieme di credenze, di riti, di tradizioni, di dettami morali – sono congiunture accadute nella storia: non sono frutto dell’assoluto. E in quanto tali soggette a trasformazioni, elaborazioni, crisi, mutamenti. Ed è per questo che non può esistere una religione incondizionata e incontaminata, né una religione più vera di un’altra. Tutte sono espressioni di una ricerca umana, frutti della storia dell’umanità.

Solo il perverso accanimento idolatrico degli uomini ha potuto far sì che di quel Dio di cui si narra nei testi sacri si facesse un oggetto filosofico o dottrinale, con dei contorni predisposti come in una sinopia graffita sul muro di una caverna, nell’illusione di poterlo circoscrivere in un profilo, dimenticando, o volendo ignorare, che la luce vera è fuori dal recinto di ristretti pensieri e di orizzonti soffocati. La luce vera si muove là, nell’aperto, fuori della caverna, sul cui fondo può proiettare solo ombre e illusioni.

Questo significa che la parola “Dio” è una parola vuota, senza significato, da relegare tra i cascami del passato, inutile al nostro presente, o eventualmente dannosa, perché si può sempre trovare qualcuno disposto a brandirla come una spada o un coltello, come fanno i terroristi di Daesh quando gridano Allah akbar? O perché si può sempre trovare qualcuno – più di qualcuno! – convinto di poter occultare dietro la parola “Dio” l’arroganza di una presunta superiorità o un lasciapassare per assoggettare il mondo al proprio potere economico o politico o individuale?

Direi esattamente il contrario. La parola “Dio”, e tutte le narrazioni, i pensieri, i vissuti che l’hanno accompagnata, continua a tener aperta una domanda: sulla possibilità di conoscenza, sul destino di esistere, sull’infinito vortice dei mondi, sulla possibilità di una vita giusta e misericordiosa su questa terra. Se vi è una costante del profilo di Dio nelle narrazioni bibliche, essa consiste nel suo stare dalla parte del debole, dello schiavo, del piccolo, dalla parte di chi tutto ha perduto, in un esercizio di giustizia e misericordia, in cui la misericordia trabocca però sulla misura della giustizia.

Ciò che è in questione, allora, non è tanto la parola “Dio”, quanto la nostra credulità, il nostro bisogno di addomesticare Dio, di circoscriverlo in qualcosa che sia a portata di mano, pronto all’uso, alla misura del nostro pensiero, dei nostri bisogni, delle proiezioni che ci siamo fatti. In questo senso, invece di aggirare il problema, o di esiliarlo tra gli scarti del pensiero, serve una esegesi più severa, più accorta, più accurata, che faccia anche i conti con una – parallela – esegesi della storia.

Potremmo trovarci, alla fine, d’accordo con il grande “eretico” Baruch Spinoza, per il quale, tutto sommato, “la dottrina della Scrittura non contiene sublimi speculazioni o questioni filosofiche, ma soltanto cose semplicissime, che possono essere comprese anche dalle menti più lente”. E cioè, alla fine, ciò che conta è praticare la giustizia, essere amorevoli con il prossimo, coltivare la misericordia: “Perché chi ama il prossimo ha adempiuto alla legge” (Rm 13,8). E questo dovrebbe bastare.

Potremmo anche – azzardo – non affannarci tanto a chiederci se siamo o no “credenti”. Quanto piuttosto mettere a verifica – con timore e tremore – se davvero riusciamo a stabilire coerenza tra ciò che crediamo di aver capito dei testi sacri e la nostra vita zoppicante; se abbiamo davvero imparato “a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola dei sofferenti” (Dietrich Bonhoeffer); e se, in questi tempi difficili e dai minacciosi orizzonti, riusciamo a mantenere viva la capacità di vivere momenti felici e momenti di dolore, tenendo insieme forza e debolezza, e se, dice ancora Bonhoeffer, “la nostra capacità di vedere la grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera e più incorruttibile, se anzi la sofferenza personale è diventata una buona chiave, un principio fecondo nel rendere il mondo accessibile attraverso la contemplazione e l’azione”.

LA BELLEZZA COMPAGNA DI VITA DI MATISSE

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Henri Matisse fu per tutta la vita un collezionista d'arte. I quadri (suoi e degli altri) lo aiutavano a vivere. Appena sposato comprò il suo primo Cézanne con i soldi della dote della moglie.
Lea Mattarella
Henri e Pablo rivali per gioco ma non troppo
«Matisse possedeva in quei tempi un piccolo Cézanne e un piccolo Gauguin e diceva che tutti e due gli erano necessari. Aveva comprato il Cézanne con la dote di sua moglie e il Gauguin con l'unico gioiello che lei avesse mai posseduto, l'anello. E siccome a Matisse i due quadri erano necessari, erano felici. Il quadro di Cézanne rappresentava dei bagnanti presso una tenda; quello di Gauguin la testa di un ragazzo. Più tardi, passando gli anni, quando Matisse divenne molto ricco, non smise più di comprar quadri. Diceva che lui di quadri s'intendeva e ci aveva fiducia, mentre d'altro non s'intendeva. Così per suo piacere e come l'ottimo dei capitali da lasciare ai suoi figli comprava dei Cézanne».
A donarci questo folgorante ritratto di Matisse collezionista è Gertrude Stein nell'Autobiografia di Alice Toklas che altro non è che il racconto della sua vita. È lei ad aver rivelato anche il gustoso aneddoto che vede Matisse e Picasso scambiarsi due opere e scegliere in dono ognuno il dipinto meno significativo dell'altro. Erano i due grandi del secolo e come tali si sono confrontati. Amandosi, spiandosi, ma anche alimentando una rivalità a colpi di capolavori, «in un botta e risposta tra Gioia di vivere e Demoiselle d'Avignon ». 
    Matisse
Matisse acquista le Tre bagnanti di Cézanne nel 1899 da Ambroise Vollard, il mercante che aveva fatto del pittore di Aix la grande avventura della sua vita, per dirla ancora con la Stein. Il dipinto diventerà il suo portafortuna e se ne priverà solo nel 1936 quando ne farà dono al Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris.
Accanto al Cézanne entra subito agli esordi della collezione, il gesso del Busto di Henri Rochefort di Auguste Rodin che era appartenuto a Manet. Sono anni in cui Matisse lavora alla scultura nello studio di Emile Bourdelle. Dirà più tardi di averlo fatto «come studio complementare, al fine di mettere ordine nel mio cervello». È invece creativamente disordinata la sua raccolta che, d'altra parte, non è quella di una persona qualunque: è un museo soggettivo che suggerisce la profonda natura delle sue scelte artistiche.
Ed è per questo che nelle pareti della casa e dell'atelier possono convivere le opere dei suoi contemporanei, i frammenti dei tessuti copti, insieme alle sculture primitive. Un po' come succede nei suoi interni dipinti dove tutto sta insieme in maniera armonica.

    Matisse, Atelier Rouge (1911)
Se Cézanne è il grande amore dell'inizio, sarà un altro impressionista, Auguste Renoir, a rapirgli lo sguardo in un secondo momento. Ecco come la sua mente critica e speculativa riesce a tenere insieme il rigore severo del primo, con il monumento alla sensualità senza pensieri messo in scena dal secondo: «L'opera di Renoir, dopo quella di Cézanne la cui grande influenza si è subito manifestata presso gli artisti, ci salva dall'astrazione pura. Le regole che si può cercare di stabilire considerando l'opera di questi due maestri appaiono più difficilmente decifrabili in Renoir, che ha maggiormente dissimulato il proprio sforzo… L'aspetto della sua opera ci fa vedere un artista che ha ricevuto i grandi doni e ha saputo rispettarli con riconoscenza».
Insieme a loro, in casa Matisse ci sono i compagni di strada dell'avventura fauve come Derain e Marquet, Gris e Severini, Signac e Seurat. Il piccolo paesaggio di quest'ultimo è accanto a una riproduzione della Lotta di Giacobbe con l'angelo di Delacroix. Matisse confessa all'amico Charles Camoin di aver capito di possedere sia l'animo scientifico e puntiglioso di Seraut che quello romantico di Delacroix. In un perfetto equilibrio.

La repubblica – 12 dicembre 2015

IL PONTE DELLE SPIE: Un altro film da vedere.

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Con «Il ponte delle spie» Spielberg riflette criticamente sul presente americano (e non solo) perchè il film afferma al tempo di Guantanamo e dell'ISIS che la lotta al “nemico” (ieri l'URSS oggi il terrorismo) deve essere condotta nell'assoluta difesa dei valori democratici e dei diritti umani, pena diventare uguali a chi si combatte. Un film rigoroso, senza effetti speciali, girato con tempi e inquadrature tipici della grande stagione hollywoodiana degli anni Cinquanta. Per spettatori non frettolosi. Da vedere.
Giulia D'Agnolo Vallan
Un eroe da Guerra Fredda
Thriller da Guerra fredda alla John Le Carré, un eroe che ricorda le collaborazioni tra Frank Capra e Jimmy Stewart, il gusto per l’assurdo dei fratelli Coen e un finale inscenato come la decostruzione, nella neve, di un duello all’OK Corral. È l’ultimo film di Steven Spielberg . Ai discordanti ingredienti di sopra, il regista di E.T. e Indiana Jones aggiunge la passione per la Storia che, sempre di più, attraversa il suo cinema, da regista (L’impero del sole, Schindler’s List, Il soldato Ryan, Amistad, Munich, War Horse e Lincoln) e non (basta pensare a Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima diretti da Clint Eastwood o alle due serie televisive sulla seconda guerra mondiale, Band of Brothers e The Pacific). Al suo meglio, come per esempio in Lincoln, la Storia vista da Spielberg, è passato per illuminare il presente e questo dialogo con l’attualità è particolarmente vitale in Il ponte delle spie, che è ispirato da fatti e personaggi realmente esistiti.
L’azione - su sceneggiatura dell’inglese Matt Charman poi però rivista e speziata da Joel ed Ethan Coen — si svolge a partire dal 1957. L’esecuzione dei Rosenberg, avvenuta quattro anni prima, è ancora nell’aria quando, in un soleggiato pomeriggio newyorkese, incontriamo Rudolf Abel (l’attore teatrale Mark Rylance), anziano, solitario, signore che passa il tempo libero dipingendo autoritratti e viste del Manhattan Bridge, e che di professione fa la spia per i russi. Alternando a un frenetico pedinamento per le strade e la metropolitana di Brooklyn, alla tranquilla routine di Abel, ripresa con splendido gusto hitchcockiano della suspense, Spielberg suggerisce subito la tensione nell’aria di quel particolare momento storico e l’indiscutibile colpevolezza del vecchio signore.
Quando la Cia irrompe in casa sua e lo arresta senza troppi convenevoli, ma anche senza trovare nulla per incriminarlo, il pubblico sa che Rudolf Abel non è un malcapitato innocente. L’eventualità della sua innocenza non entra nemmeno nel discorso quando i vertici della Cia si rivolgono a uno studio legale newyorkese perché assegni uno dei suoi migliori avvocati alla difesa di Abel.
L’idea è di un processo veloce, che salvi la apparenze del sistema legale di un paese democratico, e trovi il suo lieto fine con l’imputato sulla sedia elettrica. Ma la scelta del difensore cade su James B. Donovan (Tom Hanks), specializzato in polizze assicurative, che non è entusiasta dell’incarico ma crede nei diritti civili del suo cliente. «Un uomo di principio» dice di lui — in russo e con sarcasmo — il signor Abel. Spia o non spia, l’imputato ha diritto alla migliore difesa possibile, sostiene Donovan, citando la costituzione americana ma alienandosi colleghi, superiori, tutta l’opinione pubblica e persino la famiglia. E le cose non migliorano — quando, una volta che Abel viene decretato colpevole– riesce ad evitargli la condanna a morte.
Cosa che poi però torna utile quando l’agente russo diventa merce di scambio per un giovane soldato americano, Francis Gary Powers, precipitato su suolo sovietico con il segretissimo prototipo di un aereo spia U2. Da New York, a Washington fino a una Berlino di rovine, in cui si stanno mettendo gli ultimi mattoni al muro che la dividerà per quasi quarant’anni, Donovan — inviato informalmente e a suo rischio e pericolo per negoziare lo scambio — è il libero battitore in un intrigo diplomatico/thriller di scarti continui, burocrati inaffidabili e priorità sbagliatissime. Equivoci avvocati che trattano per conto della Germania dell’est, insidiosi rappresentanti dei Cremlino, agenti Cia che sono quasi peggio di entrambi, ai posti di blocco militari tedeschi ancora aleggianti di nazismo, un’automobile sportiva bianca che sfreccia tra le strade innevate, un gruppo di persone che tenta di scavalcare «il» muro e viene falciato al suolo.
Sullo sfondo insidioso dell’Europa del dopoguerra, Hanks dà al suo paladino della costituzione (nella tradizione dei personaggi di Stewart e Gary Cooper o dell’avvocato Atticus Finch nel classico antirazzista To Kill a Mockinbird ovvero Il buio oltre la siepe) un piglio, uno humor e un’ostinazione palpabili. Spielberg, che era un teen ager negli anni in cui è ambientato il film, ha detto in parecchie interviste di averlo fatto in omaggio a suo padre, che visitò l’Unione Sovietica quando i rottami dell’aereo spia di Powers erano esposti sulla Piazza rossa, a riprova dell’ostilità americana.
Ma è difficile, in questa finestra aperta sul passato, non vedere (anche) la guerra solo un po’ meno fredda con la Russia di Putin, gli errori enormi, anticostituzionali, fatti nel nome della guerra al terrore, i passi falsi della politica estera americana di oggi e il loro riflettersi sull’opinione pubblica del paese.
In Il ponte delle spie James Donovan (che Kennedy avrebbe poi mandato a Cuba a trattare il rilascio di prigionieri americani dopo la Baia dei porci) non è un eroe delle Guerra fredda, ma dei nostri tempi.

Il manifesto – 17 dicembre 2015

FRANCA VIOLA, la ragazza siciliana che ha cambiato il codice penale italiano

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Franca Viola, ieri






Franca oggi

UNA DONNA SICILIANA CHE
HA CAMBIATO LA STORIA


Molti hanno dimenticato Franca Viola, la ragazza di Alcamo (TP) rapita  e stuprata  nel 1965, che coraggiosamente rifiutò il cosiddetto matrimonio riparatore , previsto ancora in quegli anni dal Codice Penale italiano. 
Riproponiamo di seguito la scheda di Paola Busolo, pubblicata da  http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/franca-viola/ , ricca di dettagli che mostrano come le scelte delle singole persone possano talora cambiare la storia di un Paese.
 fv



Franca Viola nasce nel 1947 ad Alcamo (TP) da una modesta famiglia di mezzadri; sono gli anni in cui la riforma agraria provoca un gran fermento in Sicilia, con la scomparsa dei feudi e la nascita di un ceto di piccoli proprietari. All’età di quindici anni, con il consenso dei genitori, Franca si fidanza con Filippo Melodia, nipote di un noto mafioso locale e membro di una famiglia benestante. Dato che Filippo viene accusato di furto e appartenenza a banda mafiosa, il padre di Franca decide di rompere il fidanzamento. Il giovane emigra in Germania e appena rientra, dopo un breve periodo di reclusione, torna alla carica a casa di Viola. Le sue minacce di tipo puramente mafioso sono comunque rivolte al padre, al quale viene bruciata la casetta di campagna, distrutto il vigneto, portato un gregge di pecore a pascolare nel campo di pomodori… Bernardo Viola viene persino minacciato con una pistola, ma nessuno di questi strumenti lo spaventa abbastanza da fargli “mollare” la custodia della figlia. Il 26 dicembre 1965 il Melodia, con la sua banda di amici, si ripresenta a casa Viola e, dopo aver distrutto tutto e gravemente malmenato la madre, si porta via Franca e il fratellino che le si è aggrappato alle gambe nel tentativo di proteggerla. Il fratellino viene rispedito a casa, Franca viene tenuta prigioniera prima in un caseggiato isolato e poi in casa della sorella del Melodia, ad Alcamo stessa. “Rimasi digiuna per giorni e giorni. Lui mi dileggiava e provocava. Dopo una settimana abusò di me. Ero a letto, in stato di semi-incoscienza”, racconterà Franca. Il 6 gennaio 1966 la polizia rintraccia il rifugio e riesce in maniera rocambolesca a liberare la giovane. Il Melodia viene arrestato con i suoi complici, ma conta evidentemente sul matrimonio “riparatore” che, come prevedeva la legge italiana, scagionava il rapitore che sposava la propria vittima.
Franca però rifiuta di sposarsi dando quindi avvio al processo, che si svolge nel dicembre del 1966. Il padre Bernardo decide di costituirsi parte civile malgrado le pressioni esercitate per dissuaderlo. L’attenzione di tutta la stampa locale e nazionale è altissima, sia perché è la prima volta che una donna sceglie di dichiararsi “svergognata” e sfidare le arcaiche regole di un “onore” presunto e patriarcale, sia perché in questa vicenda si ravvisa l’occasione di intaccare, almeno in parte, il potere della mafia. Il prezzo da pagare era altissimo: minacce, ricatti, l’opinione pubblica ostile, insomma una clausura stretta, con polizia fuori da casa giorno e notte e nessuna possibilità di lavoro per il padre. Ma la chiarezza della posizione di Franca risuonava come un monito a una società in movimento: “Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce”.
Franca, già duramente provata dalla violenza del rapimento e dalla vita di clausura che stava conducendo, è pure costretta a cambiare legale, avendo incontrato nello studio del proprio patrocinante il parente di uno dei rapitori, cosa che le pare un tradimento, un’offesa intollerabile.
Trasportata da Alcamo a Trapani da una camionetta della polizia, Franca presenzia con grande coraggio a tutte le udienze. Il Melodia tenta di infangarla ulteriormente, raccontando che i loro primi rapporti risalivano al luglio del ”63, epoca del loro fidanzamento, ed erano stati consumati nella casa dei genitori di lei approfittando delle temporanee assenze dei familiari. Dai legali del Melodia viene persino avanzata richiesta – fortunatamente respinta – di una perizia per accertare quando fosse avvenuta la deflorazione della ragazza.Il processo si conclude con la condanna ad 11 anni per il Melodia ed i suoi complici.
“Non ho mai avuto paura, non ho mai camminato voltandomi indietro a guardarmi le spalle. È una grazia vera, perché se non hai paura di morire muori una volta sola.”
L’attesa vendetta delle famiglie dei condannati, per fortuna, non arriva. L’arciprete di Alcamo predica che tutto quel baccano farà restare Franca “zitella”. Invece Franca si sposa il 4 dicembre del 1968 con Giuseppe Ruisi. Durante il processo il Melodia l’aveva minacciata, dicendole che se avesse sposato quell’uomo lo avrebbe ammazzato. Loro si sposano lo stesso: la cerimonia è annunciata per le 10. Franca vuole un matrimonio in piena regola, le partecipazioni, l’abito bianco, i fiori in chiesa, il ricevimento… Davanti e dentro alla chiesa moltissimi fotografi e curiosi, tutti gabbati, perché la cerimonia si è già svolta alle 7 del mattino, alla presenza solo di familiari e testimoni. Arrivano gli auguri di Saragat, Presidente della Repubblica, di Leone, Presidente del Consiglio; Scalfaro, Ministro dei Trasporti, regala un biglietto ferroviario valido per un mese su tutta la rete ferroviaria italiana. Paolo VI la riceve in udienza: “Le persone a volte sbagliano senza sapere quello che fanno”.
Sulla sua storia così esemplare è stato persino girato un film, La moglie più bella. Il suo ruolo è interpretato da una giovane Ornella Muti.
Oggi Franca vive ancora ad Alcamo, ha avuto tre figli. “È arrivato il momento in cui ho dovuto dirglielo. Sergio era in prima media. La sua insegnante un giorno disse in classe ‘Fra qualche anno nelle antologie ci sarà anche la storia della mamma di Sergio’”.
Filippo Melodia è morto, ucciso vicino a Modena. Alcuni dei suoi complici vivono ancora ad Alcamo. “Li incontro ogni tanto. Preferisco evitarli, ma se non riesco li saluto e loro mi salutano, quasi sempre abbassano gli occhi. Magari anche loro sono stati ingannati, magari quello lì gli aveva detto quello che poi ha detto al processo, che io ero d’accordo a sposarlo ma mio padre no”.
Ma nonostante il coraggio di Franca abbia fatto da apripista a molte analoghe denunce, affinché il “matrimonio riparatore”, insieme con il “delitto d’onore”, escano dal codice civile come argomenti che legittimano di fatto la violenza su donne, fidanzate, mogli, si dovrà aspettare il 1981: l’altro ieri.

Fonti, risorse bibliografiche, siti

Elena Doni - Manuela Fugenzi, Il secolo delle donne, Roma, Laterza 2001
Maria Pia Di Bella, «Le cas Franca Viola: la ragazza che disse di no», in Les Annales ESC, numero 4, luglio-agosto 1983
Liliana Madeo, «Franca Viola, la rivincita della “svergognata”», La Stampa, 15 agosto 1992
Film
La moglie più bella, di Damiano Damiani, 1970

UNGARETTI. Le Città, la memoria e la carne

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Augusto Benemeglio
Le città di Ungaretti, la memoria e la carne

Giuseppe Ungaretti significa Alessandria d’Egitto dove nacque l’8 febbraio 1888 (“ Era burrasca, pioveva a dirotto/ in quella notte/ e festa gli Sciiti / facevano laggiù/ alla Luna detta degli amuleti”) e lì visse tutta la sua giovinezza, fino a ventiquattro anni. Il padre, Antonio, “che era un toro con i baffoni folti come Stalin”, vi era emigrato per i lavori al canale di Suez e zappando il fango del Mar Rosso contrasse una grave forma di idropisia che lo condusse alla morte a soli ventotto anni, “senza più un urlo, quando non gli rimaneva neanche quella forza”. La moglie, Maria Lunardini, una contadina analfabeta umile, coraggiosa e forte, piena di fede, energia e concretezza seppe far fronte alla drammatica situazione, allevando i due figli (Costantino, di dieci anni e il piccolissimo Giuseppe, di appena due) e gestendo, da sola, il forno che il marito aveva appena aperto alla periferia della città, vicino al deserto, “colla tenda del beduino a quattro passi di casa, una baracca con la corte e le galline, l’orto e tre piante di fichi fatte venire dalla campagna di Lucca”.
Le loro origini erano di poveri contadini lucchesi: “A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitato il rosario, mia madre ci parlava di quei posti” , posti che vedrà per la prima volta a trentuno anni suonati e dirà: “In queste mura non ci si sta che di passaggio. Qui la meta è partire”.
Ad Alessandria aveva scoperto i classici italiani e i più nuovi poeti e scrittori francesi. Sino dai banchi della scuola aveva scoperto Leopardi e Baudelaire , Mallarmè e Nietzsche. “Non dico che capissi allora Mallarmè. Ma la sua poesia è così piena del segreto umano dell’essere, che chiunque può sentirsene musicalmente attratto, anche quando ancora non ne sappia che malamente decifrare il segreto letterario. A diciotto anni io avevo già afferrato il primo segreto dell’arte”. Più in là conosce Enrico Pea, Costantino Kavafis e il Porto sepolto dell’antica isola di Faros della sua prima raccolta di versi ( “Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde// di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto”).
Ma Ungaretti significa anche Roma, dov’è la sua tomba, e quella della moglie Jeanne, presso il cimitero del Verano, e dove il poeta visse a lungo, a più riprese, a partire dal 1922, dapprima come impiegato al ministero degli Esteri, in condizioni estremamente difficili ( in sei anni di residenza cambiò almeno otto abitazioni, spesso camere d’affitto in cui c’era da combattere contro pulci e pidocchi), e poi dal 1942 in poi, per moltissimi anni, – tranne un periodo in cui fu sottoposto a procedimenti di epurazione e venne sospeso per aver aderito al fascismo, ma poi reintegrato dal ministro Gonella – come professore universitario di letteratura moderna.
Ma anche Milano è una delle città ungarettiane, in cui il poeta visse negli anni che precedettero la prima guerra mondiale (1914-1915), e dove morì nella notte tra il 1° e 2 giugno 1970, a seguito di una broncopolmonite contratta a New York, dove si era recato per ritirare un premio.
E come non ricordare Parigi, dove aveva studiato alla Sorbona ( “Ah, le lezioni di Bergson tutto di nero vestito che incessantemente, su un colletto duro e alto, moveva il capo come la lancetta dei secondi”), e aveva conosciuto il fior fiore di artisti e poeti d’avanguardia, da Apollinaire a Fort, da Cendrars a Jacob, Picasso, Léger, De Chirico, Modigliani, Proust, Soffici , Carrà e Palazzeschi; e lì aveva visto morire il suo amico arabo Mohamed Sceab , “discendente di emiri di nomadi, suicida perché non aveva più Patria, “// L’ho accompagnato/ insieme alla padrona dell’albergo dove abitavamo, a Parigi, dal numero 5 della rue des Carmes, appassito vicolo in discesa. Riposa nel camposanto d’Ivry, sobborgo che pare sempre in una giornata di una decomposta fiera”.
E i cinque anni vissuti a San Paolo del Brasile, dove insegnò lingua e letteratura italiana all’Università dal 1937 al 1942, e scoprì la cultura popolare negra, i rituali religiosi e la musica; e naturalmente il carnevale di Rio (“per le strade gremite, sui predellini del tramvai, non c’è più nulla che non balli, sia cosa, sia bestia, sia gente, giorno e notte, e notte e giorno, essendo carnevale”), dove visse momenti intensamente vivi, drammatici e tragici, come la morte del fratello Costantino ( “Se tu mi rivenissi incontro vivo/ con la mano tesa/ ancora potrei, di nuovo in uno slancio d’oblio/stringere, fratello, una mano”) e quella del figlioletto, Antonetto, che aveva solo nove anni (“Alzavi le braccia come ali/ e ridavi nascita al vento/ correndo nel peso d’aria immota// Nessuno mai vide posare / il tuo lieve piede di danza”), che morì per un appendicite mal curata.
Forse il vecchio “Ungà”, come lo chiamavano gli amici, che si era fatto crescere un barbone all’Hemingway, significherà qualcosa anche per la città di New York, che gli aveva assegnato un premio prestigioso e lo aveva invitato a tenere un ciclo di lezioni alla Columbia University, nel 1964. Lui aveva sostato sul ponte di Brooklyn e aveva provato l’impressione , all’ingresso di Manhattan, di ritrovare antiche memorie del deserto, di entrare “in un regno da Mille notti e una, con i grattacieli che drizzano rivolti a lontananze, a uno a uno isolandosi nel buio, la loro statura di minareti esagerati”.

Ungaretti e la TV
All’inizio degli anni ’60 Giuseppe Ungaretti cominciò ad entrare nelle nostre case, grazie al piccolo schermo, quella TV semplice, ruspante e anche provinciale, se vogliamo, che però sapeva educare e fare anche cultura di grande spessore, come nel caso de L’ Odissea di Franco Rossi, un genio della regìa, un vero artista dello schermo che chissà perché non gli hanno fatto fare praticamente null’altro, a parte Un bambino di nome Gesù, due film-tv capolavori, due modelli tuttora insuperati. Lui, il grande vecchio della nostra letteratura pubblica, aveva curato la traduzione di alcuni brani dell’Odissea dal greco e li recitava lui stesso, con quella voce che sembrava provenire dal passato più remoto, dalle tombe egizie, o dagli harem di cui gli aveva parlato la sua balia delle Bocche di Cattaro, voce piena di anfratti, cavernosità, enfasi e ira. In quella voce allucinata che esasperava le consonanti e variava continuamente il timbro, c’erano Nestore, Calcante e le grida dei troiani massacrati, c’era il naufragio di Ulisse e la cantilena del beduino nel deserto fatta di una sola parola iterata all’infinito ( Uahed!), sotto il silenzio della luna altissima , “dopo il crepuscolo ondeggiante come per sempre sulla sabbia”, una malinconia dolcissima, e il tutto ti franava addosso come qualcosa che non t’aspetti da un vecchio curvo e ingiallito, ti correva addosso come se da anni ti stesse cercando. Praticamente non si capiva una parola di quel che diceva, ma esercitava un fascino, una magìa, un viaggio nel mistero, la storia dai suoi albori, la poesia epica, violenta e sensuale, disperata, fatale che ti incastrava nella tua sedia come un prigioniero per quei pochi secondi ( non durava più di tre minuti l’intervento del vecchio poeta ). E anche noi, allora ragazzini, lo ricordiamo bene quel volto di gran vecchio, antico profeta, (ma a tratti anche con un ghigno mefistofelico), la barba candida, lo sguardo ammiccante, che sperava in una chiamata definitiva dell’Accademia svedese ( fu inserito per ben tre volte nel novero dei candidati ) per il sospirato Nobel, che non ebbe, ma riuscì a conquistarsi ( stranamente, direi, trattandosi di un poeta ) le simpatie degli italiani, che in realtà non compresero mai veramente, parlo naturalmente delle grandi masse, l’arte della sua poesia ermetica, soprattutto quella del Sentimento del tempo, col suo potere di suggestione, la verticalità, “il desiderio aggressivo di conquista del trascendente”, ma provarono rispetto e tenerezza per quel vecchio volto che riassumeva in modo emblematico il senso di tutta la sua esperienza di nomade, di zingaro, girovago, figlio del deserto ( in lui c’era il deserto, la vita nel deserto) in cerca d’identità, pellegrino in viaggio perenne verso la “ terra promessa” ( “In nessuna parte mi posso accasare”// Cerco un paese innocente”).

La sensualità
Quando una giovane e molto attraente Iva Zanicchi ( La riva bianca e la riva nera) gli dedicò una canzone ( Caro vecchio mio ), anticipando le video-canzoni che oggi imperano dovunque, e s’avvicinava al poeta, lo carezzava, lo blandiva, un po’ come avrebbe fatto con suo nonno, si rivide, nello sguardo del vecchio, l’antico beduino che pratica una religione i cui precetti aderiscono alla sensualità, Allah gode con il musulmano anche nella soddisfazione e nella manifestazione dei sensi; si rivide il vecchio satiro che bramava ancora l’amore fisico, nonostante gli anni fossero molti, ottanta. E ricordò la donna amata ad Alessandria d’Egitto, colei che “approdava come una colomba / agli abbandonati giardini. Quando mi risveglierò /nel tuo corpo / che si modula come la voce dell’usignolo”. Un’esperienza di forsennata lussuria a soli sedici anni, che poteva essere anche “colpevole”( era la moglie di un amico, o forse anche di più, la madre di un amico?). C’era in quell’ amare con furore – dirà lui stesso – il clima di Alessandria , l’erotismo furente che non può non travolgere chi ci viva. “E’ come una frustata nel nulla del deserto che dalla pianta dei piedi vi scioglie il sangue in una canzone… entra nel sangue come l’esperienza di questa luce assoluta che si logora sull’aridità. Amore che subito si biforcò ambivalente: sulla strada della tenerezza, del sogno incontaminato… e strada satanica dell’inferno, la strada che vi divora. E queste due nature sono in me, sono contrastanti”. Questa feroce sensualità, questo erotismo sfrenato, che non riuscirà mai ad appagarsi in lui, Ungaretti se la porterà a Parigi, quando vi arrivò nel 1914 coi libri di Baudelaire, Mallarmè, Rimbaud, Nietzsche, e il più amato di tutti, Leopardi, ma soprattutto con la vivida memoria e nostalgia della sua città, Alessandria, il deserto, la notte, il nulla, i miraggi, la nudità immaginaria che innamora perdutamente. Città friabile, senza monumenti, quasi priva di passato, dove tutto è precario, e il tempo la porta sempre via, in ogni tempo. “ Il sole rapisce la città/ non si vede più/ Neanche le tombe resistono molto”.
A Parigi, solo, esule, incapace di mai accasarsi, “ in uno stato inesorabile e irrimediabile di strappo “, il poeta comincia a cantare: la poesia gli fa irruzione, gli esplode dentro, gli fa sentire che solo in quella regione si può cercare e trovare la libertà. Prima d’allora non aveva scritto ancora una poesia vera e propria ( qualche tentativo giovanile di cui non v’è traccia); lì, a Parigi, istituisce il miraggio di una nuova innocenza, la terra promessa. Chi vive fin dall’infanzia, come lui, ai margini del deserto, acquista consuetudine con il miraggio, illusione-delusione, lo scherzo sadico della luce, l’abbaglio di un immagine, la scoperta meravigliata del proprio esistere, ma lì avverte anche la sua schiavitù carnale tutta araba. E “sempre – dirà Leone Piccioni – lo scatto dei sensi sarà in lui un segno incancellabile, con una capacità d’impeto di sangue e d’amore, quella capacità propria della gente di colore, di certi negri nord o sudamericani, ad esempio, di sentire in gioia e letizia anche la carne e il sangue e lo spirito religioso.”

La guerra
Dirà lui stesso di essere stato nutrito con latte negro che mette nel sangue stimolo per certe fantasie, certe magie, certe disperazioni, certe irruenze sensuali, quel latte che regala a chi se ne nutre uno stato di innocenza nei rapporti con gli altri. “Sono un uomo solo, separato, avulso, espulso, vissuto in prossimità del deserto, un nulla sterminato, una monotonia estrema, una schiavitù carnale”, che assurdamente ricorderà quando si trova sul fronte del Carso, nella prima guerra mondiale, e ogni giorno, ogni momento, rischia la morte, e ogni giorno scopre il valore della fraternità degli uomini nella sofferenza, con “l’aria crivellata come una trina dalle schioppettate degli uomini ritratti nelle trincee come le lumache nel loro guscio” . Ricorderà come a Parigi , sulla Senna ( “in quel suo torbido/ mi sono rimescolato / e mi sono conosciuto” ) avesse conosciuto “ La ragazza tenue”, amante di Apollinaire, e ci avrebbe quasi subito fatto l’amore, forsennatamente (“ Su Parigi s’addensa un oscuro colore di pianto. In un canto di ponte contemplo l’illimitato silenzio di una ragazza tenue. Le nostre malattie si fondono. E come portati via si rimane.”) Anche in questo caso si trattava di un amore “colpevole” , perché la “ragazza tenue” era l’amante di Apollinaire, ch’era divenuto il suo amico più caro durante il soggiorno parigino, ma Guillame non è arabo e si contenterà di buon grado di dividere con lui la sua donna.

Dunja
Ma egli fu schiavo della carne fino a ottantun anni suonati, se è vero, come è vero, che ebbe dei rapporti sessuali con una giovane croata trentenne, che aveva lo stesso nome della sua balia ad Alessandria d’Egitto, ch’era stata in un harem e gli aveva raccontato storie di meravigliata incredulità, Dunja, che significa universo. Da lei gli erano venuti “delle specie di lampi di tenerezza e d’invenzione fantastica, stupore di sogni, dove appariva un Oriente lontano, una civiltà diversa, piena di colore, piena di spasimi e piena non di magia, ma di fatalità”. Tutto ciò gli aveva invaso il cuore di “un segreto inviolabile, per sempre fonte di grazia e miracoli”. Ed ecco che il miracolo ( senza ausilio di Viagra o altri additivi) s’avvera. “Si volge verso l’est l’ultimo amore e m’abbuia da là il sangue / con tenebra degli occhi della cerva// L’ultimo amore più degli altri strazia/ certo lo va nutrendo/ crudele il ricordare// Capricciosa croata notte lucida/ di me vai facendo/ uno schiavo ed un re”.
Questa straordinaria vitalità non deve sorprendere più di tanto in un uomo come Ungà, perché nella sua faccia invecchiata – come disse lui – c’era contenuta la sua faccia da giovane e la sua faccia da bimbo. “Il tempo le ha allontanate dentro le rughe, la stanchezza e la saggezza, le delusioni e i crucci, ma se sapessi guardare dentro di me stesso, le vedrei bene, e in ogni caso le porto con me tutte quelle facce, le porto sino al dissolvimento nella tomba”.
Questa era la fede nella memoria di un poeta costretto da un precoce sentimento del tempo e dalla sua condizione di sradicato alla ricapitolazione e ai consuntivi: “Ho ripassato / le epoche/ della mia vita; E oggi alcune soste ho ricordato/ del mio lungo soggiorno sulla terra”.
Negli ultimi anni della sua vita, dopo la morte della moglie Jeanne, avvenuta il 24 maggio 1959, il vecchio Ungà si era legato a Jone Graziani, una sua ex allieva, giovane letterata e traduttrice. Fu un amore discreto, noto solo agli amici, che gli rinnovò quella carica di vitalità e sensualità di cui aveva esigenza, anche se, a settanta anni passati, “ L’amore più non è quella tempesta / che nel notturno abbaglio/ ancora m’avvinceva poco fa/ tra l’insonnia e le smanie”. Questo rapporto lo fece tornare al deserto, al beduino che c’era in lui, al miraggio, allo stato d’aria febbricitante, “in cui s’imbroglia di più ogni nostra idea di distanze”. E al deserto-vita riconduce il sentimento della catastrofe, il sentimento del nulla, e l’orrore del vuoto, l’inutile errare alla ricerca delusa della terra promessa ( “Ma alla mia vita accadrà di vedere espandersi il deserto sino a farle mancare anche la carità feroce del ricordo?” ) Ma l’ultima poesia del “vecchissimo ossesso”, scritta a Roma tra la notte del 31 dicembre 1969 e l’alba del 1° gennaio 1970, parla ancora d’amore e di Dunja L’impietrito e il velluto, che si chiude con “Il velluto dello sguardo di Dunja / fulmineo torna presente pietà”, che è forse un messaggio di speranza.

Augusto Benemeglio,  Roma, 22.12.2015 . Articolo ripreso da   https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2015/12/27/ungaretti-le-citta-la-memoria-e-la-carne/

SENZA GIOIA NON SI VIVE

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Natale 2015 a Mondello (Palermo)



" Signore, facci ricordare che il tuo primo miracolo, alle nozze di Cana, lo facesti per aiutare alcuni esseri umani a far festa. Facci ricordare che chi ama gli esseri umani, ama anche la loro gioia, perché senza gioia non si può vivere."

F. Dostoevskij

CONTRO LA MAFIA SEMPRE MA CON GIUSTIZIA!

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Copertina del libro L' INFERNO DI PIANOSA


Il libro di Rosario Enzo Indelicato,  curato da Cetta Brancato, pubblicato dalla coraggiosa casa editrice Sensibili alle foglie, verrà presentato questo pomeriggio a Palermo, nella Sala delle Conferenze della Regione Siciliana, Via Generale Magliocco.

B. MALINOWSKI SUL CARATTERE RIVOLUZIONARIO DEL DONO

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Cent’anni fa l’antropologo Malinowski scoprì una società aborigena fondata sulla generosità. Per noi una grande utopia: il dono, o se vogliamo l'atto gratuito privo di ogni motivazione utilitaristica, come scardinamento della società delle merci e del profitto. Non a a caso Debord e i giovani lettristi rivoluzionari chiamarono Potlatch il loro foglio di battaglia.
Marino Niola

Quando il dono diventò la base dell’economia


Chi fa regali alla fine ci guadagna sempre. E non solo in gratitudine. Perché il dono è un investimento sul futuro. Un contratto a lungo termine. E a insegnarcelo non è stato nessun guru dell’economia ma gli aborigeni delle isole Trobriand, che del dare a piene mani hanno fatto un’arte della convivenza, nonché la base della loro dottrina politica. Anticipando, e di fatto ispirando, le teorie contemporanee del convivialismo e dell’antiutilitarismo.
A scoprire i segreti di questa economia della generosità è stato, giusto un secolo fa, Bronislaw Malinowski, il celebre antropologo polacco, professore alla London School of Economics. Che, per uno scherzo del destino, si trovava in Australia per studiare gli aborigeni, quando scoppiò la prima guerra mondiale. Come suddito dell’impero austroungarico, e quindi cittadino di un paese nemico, gli sarebbe toccato l’internamento in un campo.
Ma il giovane Bronislaw riuscì a convincere le autorità australiane a confinarlo nell’arcipelago delle Trobriand, oggi isole Kiriwina, dal quale non c’era pericolo che fuggisse. Ma in compenso avrebbe potuto continuare le sue ricerche sugli usi e costumi delle tribù di questi atolli corallini che si trovano nel Pacifico occidentale, tra la Nuova Guinea e le isole Salomone.

Il 1915 fu un annus horribilis per l’Europa, ma per l’antropologia fu un anno fortunato. Perché appena mise piede su quelle spiagge, dove il vento mormora tra le palme, Malinowski fu subito colpito da un’usanza che ai suoi occhi di occidentale nutrito di economia politica, sembrava priva di qualsiasi logica. Gli indigeni affrontavano traversate oceaniche lunghissime e piene di pericoli a bordo delle loro piroghe per portare doni agli abitanti di isole lontane. Una generosità incomprensibile e un coraggio ai limiti dell’incoscienza, visto che a viaggiare su quelle acque tempestose e infestate di squali era una bigiotteria senza valore. Collane e braccialetti di conchiglia.
Cose futili e non beni necessari. E, come se non bastasse, questi monili da poveri venivano regolarmente rigirati da coloro che li avevano ricevuti agli abitanti dell’isola più vicina. Che a loro volta li indossavano un po’ di tempo per farsi belli e poi prendevano il mare per andare a farne omaggio agli abitanti di altre terre. Creando così un circuito di scambi che chiamavano kula.
Apparentemente un circolo vizioso per cui il cadeau, prima o poi, finiva per tornare nelle mani del primo proprietario. Un po’ come certi regali, riciclati di Natale in Natale, che alla fine tornano al mittente come un boomerang. Ma per i Trobriandesi questa sorta di sbolognamento sistematico era un valore aggiunto. Perché ogni passaggio di mano in mano caricava il dono di prestigio. Per dirla con parole nostre, ne impreziosiva il pedigree. Che stava in buona parte in un plusvalore relazionale. Come certi diamanti leggendari di cui si sciorina sistematicamente la cronologia di coloro che li hanno posseduti.

Il caso trobriandese, raccontato da Malinowski nel suo capolavoro Gli argonauti del Pacifico occidentale, divenne subito un rompicapo per gli economisti che non riuscivano a trovare senso in un comportamento tanto irrazionale. Così alla fine molti esponenti di questa scienza che noi moderni ci ostiniamo a ritenere esatta – e che i Greci, con maggior prudenza, definivano semplicemente “governo della casa” (da oikos abitazione e nomia regola) – conclusero che si trattava di un’assurdità. 
Un comportamento da tribù primitiva, economicamente immatura che, incapace di calcolare costi e benefici, sprecava il tempo a fare regali, per di più senza guadagnarci nulla. Ma l’imperturbabile polacco non fece una piega e restituì colpo su colpo, sbattendo in faccia agli scettici la soluzione del rebus, l’algoritmo segreto che governava quella strana giostra di regali e regalini. In realtà la ragione di quella fatica, apparentemente inutile, non stava nel valore d’uso degli oggetti, bensì nel loro valore di scambio. Che si fondava soprattutto sulle alleanze e partnership prodotte da quel circuito di reciprocità.
Il dono insomma funzionava come un contratto sociale, facendo di tante popolazioni straniere, lontane e potenzialmente nemiche, un vero e proprio sistema. Ordinato e coordinato. Una federazione che metteva in moto una rete di relazioni sovralocale. Dalla quale non si usciva mai. Infatti i Trobriandesi dicevano con orgoglio che «l’appartenenza al kula è per sempre».

Questa sorta di mercato globale primitivo era insomma capace di connettere genti e paesi separati da migliaia chilometri di mare, a dispetto dei loro fragili mezzi. Basti pensare che nelle capanne dei cacciatori di teste della Nuova Guinea indonesiana e delle isole Molucche sono state trovate preziose porcellane cinesi d’epoca Ming. Insomma lo scambio di doni era una pensata geniale per fare uscire quelle isole dal loro isolamento e farne un solo grande arcipelago.

Il che in fondo vale anche per noi, utilitaristi disincantati, quelli che “nessuno ti regala niente per niente”. E si vede chiaramente in momenti come il Natale. Con la sua girandola di doni e controdoni, che non a caso gli americani chiamano big swap, il grande scambio. Un circuito cerimoniale che tiene in equilibrio reciprocità e gratuità, generosità e socialità, obbligo e piacere.Col risultato di riaffermare il principio dell’utile, ma proiettandolo su un piano più generale, e soprattutto meno egocentrico.
Perché quel che regaliamo oggi ci verrà restituito in qualche modo con gli interessi. E non necessariamente da chi ha ricevuto. Come dire che il dono è la forma più sottilmente disinteressata del profitto, perché è l’origine stessa del legame sociale, il gesto primario, incondizionato e gratuito che fa uscire l’individuo da se stesso e lo lega agli altri in una rete che assicura scambio protezione, solidarietà. E di conseguenza anche guadagno.
Non è un caso che le religioni nascano tutte da un dono fatto al dio. E che il dio ricambia. Ecco perché, perfino il nostro Natale consumistico, continua ad essere animato da quell’energia collettiva messa in moto dallo spirito del dono. Che anche se per pochi giorni all’anno, fa di quelle isole che noi siamo un solo arcipelago.
La Repubblica – 17 dicembre 2015

L'AMORE DI PASOLINI PER MARX

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Ti scrivo. Quell'amore per Marx

Caro Pier Paolo,
dopo quarant’anni posso dirti finalmente cosa mi indusse, circa dieci anni dopo la tua morte violenta (la violenza pura, sadica, ritualizzata del branco anonimo e sicuro della sua impunità, scatenata su chi dava solo “scandalo di mitezza”, e per questo ancora più assurda), ad incontrarti e a non staccarmi più da te. A divorare, in quell’estate di trent’anni fa, l’insuperabile biografia scritta da Enzo Siciliano, che ti rincorre con amorevole empatia in tutte le tue inquietudini e palpitazioni creative, a lasciarmi rapire dalle sonorità delle Ceneri di Gramsci, a passare ai tuoi film e al tuo teatro, aulico ed “estremo”, come poi sarà, inguardabilmente, anche Salò. Momenti scanditi nella mia memoria, perché ogni volta era come scoprire il genere stesso della poesia, del cinema, del teatro, di cui il tuo nome diventava inconsciamente per me una metonimia indelebile. Ora, lo posso dire. A causa di quelle asincronie proprie del tempo storico, di cui parla Ernst Bloch, a metà anni Ottanta, studente di liceo, mi trovavo giovane in una zona marginale di quella Basilicata che, col Vangelo secondo Matteo, facesti assurgere a Palestina del ventesimo secolo: un limbo ancora sospeso nell’attesa indefinita e indifferente del progresso o dello sviluppo, mentre tu, negli articoli “corsari”, avevi già denunciato la devastante assimilazione in corso del primo al secondo. In questa parte periferica dell’Italia, ancora per metà scampata al genocidio culturale che ti angosciava (forse una di quelle eccezioni e resistenze al fenomeno, di cui ammettevi l’esistenza nella replica a Calvino che ti accusava di rimpiangere l’Italietta), crescevo a fianco delle sopravvivenze più corpose del “mistero contadino”, come lo chiamasti nei versi de La religione del mio tempo del 1958, ripensando al Friuli della giovinezza. Qui, leggere di te e leggerti, ha significato letteralmente vivere un’identificazione proiettiva con la vicenda del passaggio da Cristo a Marx, che tu hai vissuto a Casarsa e che ha segnato la mia adolescenza. Avrei conosciuto, certo, poi, le mie revisioni, i miei dubbi, il cedimento alle sirene nichiliste, il mio disamore per l’utopia, forse, quella che, da fustigatore “luterano”del nuovo conformismo giovanile, avresti considerato la resa alle spinte omologatrici. Ma anche le volte che rinunciai a Marx, non rinunciai mai a te. In fondo, è stato il tuo amore intellettuale e poetico per Marx ad affascinarmi, o, come dicevi, il tuo scegliere gli amori poetici “sotto il segno primario di Marx” (Progetto di opere future). Amore intellettuale, perché amare qualcosa significa conoscerla, e conoscerla veramente significa imparare ad amarla. E solo l’amare, solo il conoscere conta, non è vero? Anche per me, come per te, furono prima Marx e, a seguire, Freud, a fornire la chiave di accesso alla realtà, ai suoi strati duri, necessari, vitali, corporei, a quella realtà, che, nel tuo apprendistato ermetico e simbolista giovanile, ti illudevi di risolvere tutta nella lingua. Amore intellettuale di Marx come era amore intellettuale di Dio (del Dio-Natura-Vita) quello di Spinoza, che, non a caso, in Porcile convochi ad abiurare da quel razionalismo che, se in un primo tempo prometteva di liberare dall’oscurantismo e dal fanatismo, non avrebbe fatto altro che rivelarsi in seguito l’arma fondamentale della borghesia per annegare ogni impulso ideale, eroico, nell’“acqua gelida del calcolo egoistico”, come si dice nel Manifestodel Partito Comunista di Marx: un testo di riferimento centrale per i tuoi scritti corsari, ancor più dei libri di Marcuse. È dal Manifesto che hai dovuto riapprendere dolorosamente il carattere demoniaco della borghesia che, con le sue costanti innovazioni, travolge ogni tradizione, profana ogni cosa sacra, che sa essere più “rivoluzionaria” della Rivoluzione, perché dotata di un cinismo più sottile, quello di saper non essere cinica al momento opportuno, come dici, sempre con passione e ideologia, nella tua bella opera teatrale, allegorica e autobiografica, Bestia da stile, finita di scrivere un anno prima di morire.
Tu non sei stato un marxista eretico. Hai scelto il marxismo come la migliore eresia del cristianesimo, anzi, dell’escatologia cristiana. Ecco perché, per te, la religiosità non poteva ridursi all’anestetico della sofferenza reale che la generava, da “negare” politicamente e ideologicamente con la coscienza di classe, ma rinviava al fondo sacro della vita. Con sofferenza, a Casarsa, imparasti alla maniera hegeliana a distinguere tra la religione positiva, collusa col Potere, e la religione naturale del cuore, del corpo. Io imparai da te che ciò che vi è di più irreligioso è la viltà, il soffocare per viltà la passione. Ecco perché, inoltre, arrivato a Roma, amasti quel sottoproletariato di cui il Manifesto diffida. Sì lo eri “più moderno di ogni moderno”, perché già negli anni del boom economico, prima che l’apocalisse della società dei consumi ti si mostrasse chiaramente e inequivocabilmente, ti sentivi orfano di quella Storia, che l’interpretazione moderna, non solo marxista, ma soprattutto marxista, offriva alle coscienze come lo spazio secolarizzato della speranza e della redenzione umana e sociale, e, sempre nelle Poesie mondane (il diario poetico scritto mentre giravi il tuo secondo film nelle borgate romane, Mamma Roma), annunciavi l’inizio del tuo spaesamento, l’avvento della Dopostoria, che appunto la filosofia e le estetiche del postmodernismo avrebbero cominciato a salutare e incensare, negli anni immediatamente successivi alla tua morte, presumendo di smascherare finalmente gli inganni dei grands récits della Storia. E allora, caro Pier Paolo, non mi va di assecondare la frustrazione, il cipiglio e il cupio dissolvi dei tuoi ultimi scritti polemici, che pure tanto anticipano, in particolare, del degrado attuale del nostro Paese, o la deriva che alla fine ti rese prigioniero del fantasma dell’origine perduta, come osserva acutamente di te lo psicanalista Massimo Recalcati, ma voglio ereditare proprio il tuo desiderio di modernità. Voglio credere che sia questo il tuo insegnamento fondamentale, più prezioso: nello smarrire completamente il rapporto con la Storia e con la riflessione sul senso della Storia, o meglio con la Storia come progetto dell’uomo che aspira ad umanizzarsi (il vero “sogno” moderno), consiste il pericolo più grave, il pericolo di una società totalmente alienata. Ma voglio credere, come diceva un altro poeta, che dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva. E l’ampliamento degli orizzonti culturali che la globalizzazione e la comunicazione digitale (questi due fenomeni che non hai potuto commentare) consentono, possono agevolare una ricontestualizzazione di questa Storia sui tempi più lunghi dell’ominazione, della vita, della terra, capace di generare nuova coscienza, nuove volontà morali, nuove appartenenze. Quanto ci sarebbe utile ricordare, oggi, ad esempio, a dispetto dell’ideologia sviluppista, da te ereticamente stigmatizzata già quarant’anni fa, e come pure ammoniva Marx nel Capitale, che il valore della nostra ricchezza non dipende solo dal lavoro umano, ma anche dalla terra, dalla natura? Già voglio ricordarti così e salutarti con le parole, anzi i versi non tuoi, ma di Karl Marx, scritti nell’ultimo numero della Gazzetta renana, su cui si era abbattuta nel gennaio 1843 la mannaia della censura prussiana: “Ci rivedremo un giorno su una nuova riva:/ quando tutto cade, indomito il coraggio resta”. Grazie, Pier Paolo.

Testo ripreso da http://www.doppiozero.com/
Questo testo fa parte del contributo che doppiozero ha scelto di realizzare, articolato in tre parti - interviste, poesie, lettere - in occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato.

LA POESIA E' VIVA ANCHE A CIMINNA (PA)

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Ciminna (PA)



 Domani 30 dicembre 2015, alle ore 20.30,  a Ciminna presentazione di un libro di poesie illustrato da bellissime foto.
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