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Channel: CESIM - Centro Studi e Iniziative di Marineo
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Anna Achmatova, Il miele selvatico

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Pittura rupestre



Il miele selvatico sa di libertà
la polvere del raggio di sole,
la bocca verginale di viola,
e l’oro di nulla.

La reseda sa d’acqua,
e l’amore di mela,
ma noi abbiamo appreso per sempre
che il sangue sa solo di sangue...

Invano il procuratore romano,
tra gridi sinistri della plebe,
lavò davanti al popolo le mani,
e invano la regina di Scozia
tergeva da rossi schizzi
le palme affusolate, nell’afosa
oscurità del palazzo reale...

Anna Achmatova


AMOS OZ: L'occupazione violenta della Palestina fa male anche a Israele.

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Lo scorso 12 novembre ho ricordato la coraggiosa presa di posizione di Pasolini, negli anni sessanta del secolo scorso, a favore dello Stato d ' Israele. Oggi ripropongo un breve articolo dello scrittore israeliano Amos Oz che esorta i governanti del suo Paese ad avere più rispetto del popolo palestinese  per convivere in pace  nello stesso territorio.
Un popolo che ne opprime un altro non sarà mai un popolo libero”. Lo ha scritto Marx a proposito dell'occupazione inglese dell'Irlanda. Da amico del popolo ebraico  penso che la stessa cosa valga per la Palestina di oggi.

Amos Oz

“L’occupazione fa male a Israele. Fermiamo la violenza per il nostro futuro”

L’occupazione quest’anno compie già 49 anni. Sono certo che debba finire al più presto per il futuro dello Stato di Israele, un futuro a cui dedico il mio impegno profondo. In considerazione delle politiche sempre più estreme del governo israeliano, chiaramente intenzionato a controllare i territori occupati espropriandoli alla popolazione locale palestinese, ho appena deciso di non partecipare più ad alcuna iniziativa in mio onore delle ambasciate israeliane del mondo. Non è stata una decisione facile bensì molto dolorosa. Ma l’attuale oppressione e le espropriazioni nei territori occupati, gli incitamenti contro gli oppositori delle politiche del governo, e la tensione legislativa per ridurre la libertà di espressione e minare il potere giudiziario — mi hanno spinto nel loro insieme verso questa decisione.

Da anni faccio parte del B’Tselem’s Public Council. Rinuncerei volentieri a questo onore se l’occupazione fosse un ricordo del passato. Ma finché non sarà tale — come sarà — sono fiero del lavoro coraggioso svolto da B’Tselem: dai ricercatori sul campo a Gaza e nella Sponda occidentale allo staff della sede di Gerusalemme e ai suoi volontari. B’Tselem non solo documenta in modo attendibile e meticoloso le violazioni dei diritti umani nei territori occupati, ma offre anche uno specchio alla politica di Israele, rivelando la sua dubbia maschera di legalità con cui da 50 anni Israele prevale sui palestinesi, opprimendoli e confiscando la loro terra.

Il 2014 è stato uno degli anni più insanguinati per Israele e la Palestina dal 1967 a questa parte. Purtroppo anche il 2015 è stato segnato da numerose settimane di violenza. Io contesto ogni forma di violenza contro persone innocenti. Ma rifiuto anche il tentativo di far passare i recenti eventi esclusivamente come istigazioni o manifestazioni “anti-semitiche”, sottovalutando il regime di occupazione con le sue annose violenze quotidiane contro milioni di palestinesi privati dei loro diritti.

Queste sono alcune delle ragioni per cui scelgo di far parte del B’Tselem’s Public Council e di sostenere questa organizzazione. Ed è anche il motivo per cui vi scrivo, per chiedervi di unirvi a me nel rendere più forte B’Tselem dimostrando chiaramente il vostro sostegno a favore dei diritti umani e contro l’occupazione. Solo la sua fine può portare a un futuro gravido di giustizia, libertà e dignità per chi vive qui. B’Tselem — la principale organizzazione israeliana per i diritti umani, che vede l’occupazione per quello che è, la documenta, ne spiega le implicazioni e vi si oppone fermamente.

(Testo scritto a sostegno dell’Ong israeliana B’Tselem, fondata nel 1989 come “ Centro d’informazione israeliano per i diritti umani nei Territori occupati”)

La Repubblica – 27 dicembre 2015

TRADIZIONE TRA CENERE E FUOCO

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La tradizione è la custodia del fuoco, non l'adorazione della cenere.

Gustav Mahler

CARO, CARO SANCHO PANZA...

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"Non muoia, signor padrone, non muoia.
Accetti il mio consiglio, e viva molti anni, perché la maggior pazzia che possa fare un uomo in questa vita è quella di lasciarsi morir così senza un motivo, senza che nessuno lo ammazzi, sfinito dai dispiaceri e dall'avvilimento. Su, non faccia il pigro, si alzi da questo letto, e andiamocene in campagna vestiti da pastori come s'è fissato, e chi sa che dietro a qualche siepe non si trovi la signora Dulcinea disincantata, che sia una meraviglia a vedersi."

Miguel De Cervantes, Don Chisciotte de la Mancha

GLOBAL MINDS: riflessioni sul pensiero olistico

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Ballando nudi nel campo tra le discipline – alcune riflessioni su “100 Global Minds” di Gianluigi Ricuperati


– La transdisciplinarità è complementare all’approccio disciplinare; fa emergere nuovi dati dall’incontro tra discipline, che fanno da snodo fra di esse; ci offre una nuova visione della realtà. La transdisciplinarità non punta al dominio su più discipline, ma alla loro apertura a ciò che le accomuna e a ciò che sta oltre di esse.
– La chiave di volta della transdisciplinarità risiede nell’unificazione semantica e fattuale dei significati che attraversano le discipline e stanno oltre di esse. Essa presuppone il riesame delle nozioni di “definizione” e “oggettività”. Un eccesso di formalismo e la pretesa di un’oggettività assoluta che comporti l’esclusione del soggetto possono solo avere effetti inaridenti.

– La visione transdisciplinare supera il campo delle scienze esatte e chiede loro dialogo e riconciliazione con discipline umanistiche e scienze sociali, così come con l’arte, la letteratura, la poesia e l’esperienza spirituale.
Articoli 3, 4 e 5 del Manifesto della Transdisciplinarità 
(L. de Freitas, E. Morin, B. Nicolescu)
~
Una delle prime volte in cui mi è capitato di parlare di libri con Gianluigi Ricuperati siamo finiti ben presto, ed entrambi, su un nome, quello dell’inglese Tom McCarthy. Entrambi avevamo una considerevole ammirazione per l’autore di Reminder, C., Tin tin e il segreto della letteratura e il recente Satin island. Di lui ci piaceva la freschezza strutturale, il rapporto spigliato ma coinvolto con la metafisica e la sua abilità nel muoversi tra letteratura e arte contemporanea (caso o sincronicità vogliono, del resto, che i suoi due omonimi più celebri siano lo scrittore Cormac e l’artista visuale Paul), anzi una vocazione alla transdisciplinarità* che andava oltre il suo impegno su tale doppio fronte: nei suoi libri vengono sempre, e programmaticamente, lanciati raggi conoscitivi attraverso le discipline – in Satin island, ad esempio, l’intera suggestione prende le mosse dall’antropologia e dalla figura di Claude Lévy-Strauss. ecc5f-beckbooks003Ma c’è di più: per un puro caso, dovuto alla sordità che a volte l’editoria mostra rispetto a ciò che è troppo nuovo, il suo Remainder– in Italia uscito come Déjà-vu per ISBN – inizialmente rifiutato da tutti gli editori e rimasto nel limbo per quattro anni, è uscito per Metronome, un editore no-profit di libri d’artista, in una tiratura di 750 copie distribuite nei bookshop dei musei di arte contemporanea. Da lì è emerso lentamente, costruendosi un piccolo seguito di qualità, fino a diventare un classico contemporaneo (addirittura la BBC lo ha messo al 35° posto tra i romanzi inglesi di tutti i tempi, sopra a Swift, Carroll e Sterne – hype, certo, se non proprio deliberata volontà di sparigliare, ma comunque ennesimo segno del fatto che si tratta di un libro destinato a rimanere).
Incrociare le discipline, ci insegna la vicenda McCarthy, non è solo questione tematica, ma a volte diventa anche strutturale. Fare un libro non significa solo scriverlo, ma anche inserirlo in determinati percorsi produttivi, distributivi e di lettura, e praticare qualunque disciplina significa anche collocarsi in un determinato punto della storia della medesima e del suo dialogo con le altre.
Proprio parlando con Tom McCarthy, nel corso di un incontro svoltosi nell’ambito del festival Von Rezzori, emerse la questione del rapporto tra produzione artistica e valore economico, molto diverso nell’arte contemporanea e nella letteratura. Se in quest’ultima, governata oggi dal sistema editoriale, il venduto è l’unico fattore a definire le entrate dell’autore, e quindi per certi versi il ‘valore’ grezzo della sua produzione almeno sul breve e medio periodo, il sistema dell’arte contemporanea ha saputo creare, sia pure con sue proprie storture, dispositivi di attribuzione di valore indipendenti dalla risposta del pubblico di massa. Di fronte a un campo editoriale in cui l’aggettivo ‘letterario’ è divenuto quasi indicatore di un problema, e quindi al rischio di trovarsi in futuro in cui la fiction con qualche ambizione sarà relegata, nei cataloghi e nelle librerie, allo spazio che ha oggi la poesia, non suonerà strano chiedersi se il mondo letterario non debba provare a guardare a quello dell’arte per creare dispositivi di emersione della qualità assoluta, e di sostentamento di chi ne produce, svincolati dal mercato di massa. calasso
È solo una delle tante suggestioni che emergono sfogliando 100 Global Minds, il singolare volume curato da Ricuperati per l’irlandese Roads Publishing (con i disegni di David Johnson), sorta di repertorio di pensatori globali, selezionati in quanto cross-disciplinari nell’approccio o nell’influenza del loro lavoro. Il fatto che si tratti di un coffee-table book, ovvero di un librone grosso, quasi quadrato, rilegato fuori e patinato dentro, oltre che interamente illustrato, può sembrare una scelta vezzosa ma visto il tema è, viceversa, completamente aderente all’obiettivo. Invece di guardare dipinti lowbrow o mappe d’epoca o fotografie di oggetti di design (se non proprio di tavolini da caffè, come nelCoffee table coffee table book di Payne e Zemaitis), qui si guardano ritratti di pensatori (realizzati a pennino, come in trasparenza, con macchie acquarellate di vari colori ampiamente fuoriuscenti dal contorno di ogni volto, a rimandare all’ibridazione, ma anche alle macchie di Rorschach, come a suggerire il tracciamento di un subconscio rizomatico del mondo attuale), affiancati da una frase del personaggio a cui è dedicata la pagina e dalla sua biografia: il risultato è che riflettendo sul loro percorso, ci si trova a riflettere sul nostro.
Una possibile obiezione: ma le informazioni su questa gente le posso trovare in qualunque momento su Internet. Vero. Ma le cercherei? Le ho cercate? Oggi più che mai lo scopo dei libri è fungere da filtro, aggregatore, modello di relazione tra aspetti della realtà. Vale per un libro come 100 Global Minds ma anche per i romanzi. La letteratura sta cambiando, e non nel senso ristretto annunciato dai profeti dell’e-book e del self-publishing: scrivere romanzi nell’epoca della massima e istantanea disponibilità di dati significa, appunto, e ancor più di prima, assumersi la responsabilità di scomporre, ricomporre, fornire mappe coerenti e flessibili della realtà, all’interno del singolo libro e tra più libri.
A volte, per via anche di storture recenti ma in fin dei conti già superate di un mercato che vorrebbe appiattire a prodotto anche l’autore, pare che non si possa neanche essere multidisciplinari all’interno della letteratura: il fatto che qualcuno possa scrivere, oltre a romanzi per così dire ‘letterari’, romanzi di genere, romanzi a più mani e romanzi ibridi (come se tutti i romanzi non fossero già ibridi per definizione) pare ancora qualcosa in grado di gettare nello stupore una parte degli addetti ai lavori, quasi che fosse intrinsecamente impossibile – allo stesso modo in cui, in epoca precedente solo all’affermazione, ma anche all’inevitabilità, del lavoro cross-, multi-, inter- e trans- disciplinare, lo sembrava l’ibridare nel proprio lavoro antropologia e arte, design e sociologia, musica e programmazione e architettura… neri_oxman
100 Global Mindsè di fatto un catalogo: l’invito che porge il volume è a scoprire ciascuno dei personaggi ivi presentati per poi approfondirlo per contro proprio, ma anche a prendere coscienza delle barriere rotte da ciascuno di loro, così da aprire alla possibilità di simili e ulteriori rotture. Un catalogo, e un prisma: la selezione e la giustapposizione di questi nomi e volti suggerisce infatti una determinata visione del mondo attuale e di quello a venire. La scelta effettuata non segue infatti parametri scientifici o anche solo quantitativi (per quanto a margine del libro si trovi la rappresentazione grafica dei risultati dell’algoritmo progettato da Roberto Vaccarino per misurare la presenza del nome di ciascun pensatore in ambiti diversi dal proprio, che ha fornito un primo asse intorno a cui lavorare): al di là dei nudi dati, Ricuperati procede allo stesso modo in cui si procede scrivendo un romanzo, ovvero per suggestioni scelte sopra le altre in base all’autorità del flusso autoriale.
In 100 Global Minds troviamo Julia Kristeva e Enzo Mari, Ai Weiwei e Giorgio Agamben, Laurie Anderson, Wes Anderson e Paul Thomas Anderson, visionari di ieri come Bruce Sterling e di oggi come Neri Oxman, e ancora Roberto Calasso e Brian Eno (interdisciplinare anche nelle soluzioni ai problemi: le sue oblique cards, piccolo I-Ching per artisti, sono utili tanto quando si compone musica quando si scrive un romanzo), Žižek e Picketty e molti (87) altri, tra cui ovviamente lo stesso McCarthy e svariati altri scrittori.
Perché tanti scrittori? chiede lo stesso Ricuperati nell’introduzione al volume. Perché nel mondo post-letterario scrittori e umanisti, solo apparentemente meno rilevanti, avranno un ruolo anche più significativo di un tempo, dato che il loro compito sarà proprio quello di stare in prima linea a tradurre e fungere da ponte, nodo e collegamento tra una disciplina e l’altra. Un compito che oggi già esplorano col loro lavoro molti esponenti dell’arte contemporanea, altra disciplina che vanta infatti molte presenze in 100 Global Minds.
La libertà di materiali, approcci, temi, uso dello spazio e del tempo raggiunta dalle arti visuali non può non destare l’interesse e l’ammirazione di chiunque lavori con qualunque medium, in qualunque disciplina: anche di chi, come molti dei grandi inclusi nel libro, resta convinto che la letteratura – e in particolare il romanzo, inteso nel senso più ampio possibile – sia ancora lo strumento più potente per rappresentare, interpretare e definire la realtà. Se lo è, ciò avviene anzitutto perché, come aveva a scrivere Georgi Gospodinov, non è ariano: il romanzo nasce e prospera nel meticciato, e fin dalle origini ha svolto, più o meno consapevolmente, tale funzione di ponte tra nozioni, impressioni e aspetti della realtà. Per queste ragioni, l’incontro tra letteratura e arte contemporanea può rappresentare, come è il caso di McCarthy, un primo e più diretto passo verso uno sfondamento di barriere che deve però diffondersi in tutte le direzioni – alcune delle quali sono efficacemente indicate dagli altri esempi portati da 100 Global Minds – e non soltanto all’interno delle opere ma anche nel loro contesto di fruizione.
* vale la pena ricordare che per crossdisciplinare si intende l’approccio a una disciplina con le categorie di un’altra; per multidisciplinare l’uso di più discipline; per interdisciplinare la sintesi e l’uso integrato di più discipline; per transdisciplinare una interdisciplinarità che trascende anche le barriere tra discipline. Per quanto nella stessa dicitura del libro curato da Ricuperati si parli di ‘world’s most daring cross-disciplinary’ thinkers, è evidente che tale capacità di ‘osare’ non è altro che una naturale tensione alla transdisciplinarità.

LA DELUSIONE DELLA MOGLIE DI MARINETTI

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In una biografia-romanzo Simona Weller racconta la storia della pittrice che rimase delusa dall'adesione del marito al fascismo.

Daria Galateria

L'audacia di Benedetta donna futurista e moglie di Marinetti
A casa del pittore Balla si entrava dalla finestra, da un aereo ballatoio. A Roma per fondare i fasci futuristi, il 3 febbraio 1918, saltando nello studio di Balla, Marinetti non pensava di precipitare nel più passatista dei colpi di fulmine. Mandano a chiamare infatti — abita giusto a fianco — Benedetta Cappa, che è pittrice, e più futurista di tutti, assicura il fratello. Benedetta non ha vent'anni, treccia e occhi neri, una bellezza. È il romanzo del loro amore

Marinetti amore mio di Simona Weller (Marlin Editore). La Weller è anche, a sua volta, pittrice; e così la vita di Benedetta — in una stagione storica movimentata, raccontata da un'inedita e rivelatoria angolazione privata — ritrae anche, tra risvolti tecnici e sensibilità pittorica, la sua avventura artistica, tra le più grandi del Futurismo.

Benedetta Cappa ha una madre valdese e una famiglia di grande libertà intellettuale. Affronta Marinetti, che ha ventidue anni più di lei, una fama immensa e tante amanti, con l'ironia. Gli spedisce per lettera un capolavoro di tavola parolibera (le parole "senza fili" futuriste): un filo che cinque spille fissano a stella, attorno al nucleo della parola "vuoto".

L'audacia, l'indipendenza, il genio di Benedetta si impongono sul "disprezzo della donna" proclamato da Marinetti dieci anni prima nel Manifesto del futurismo; e sopraggiunge nel maggio del '20 l'amore en plein air, in un campo dietro la basilica di S.Agnese fuori le mura. A seguire, un matrimonio che è un modello di confronto e rispetto e due figlie partorite in casa. Intanto Benedetta assiste all'amicizia indefessa di "Tom" con Mussolini, dall'epoca della parola d'ordine "svaticanamento" giù fino all'interventismo e alle guerre — e allora, la donna scrive i versi del suo vigoroso scoraggiamento: «Una tristezza di quaranta chili / un cono di volontà / stati d'animo disegnati e disegni di forze». Il futurismo al femminile, nella biografia-romanzo di Simona Weller, inanella le sue figure maggiori, sempre irretite nello spettro della sensibilità di Betty: Roughena Zatkova, l'artista "cinetica" compagna del fratello Arturo — il fratello socialista che, preso di mira dagli squadristi, "Tom" fa riparare in Francia; o Valentine de Saint-Point, l'inquieta autrice del Manifesto della lussuria.

Epico e specialistico è il racconto del capolavoro di Benedetta: le immense tele murali dipinte nel 1933-34 per il Palazzo delle Poste di Palermo. Inaspettatamente, il finale del racconto è pirotecnico. Al di là della scomparsa dell'inimitabile Tom, Weller racconta, grazie alle conversazioni con Ala Marinetti, gli interrogatori subiti da Benedetta, la fuga delle figlie, il salvataggio delle opere futuriste di casa. E la mostra a Parigi, nel 1951; Peggy Guggenheim riceve Benedetta nel suo appartamento e le presenta lo scultore Calder: che, per l'entusiasmo, la prende in braccio e la lancia in aria come una bambola di pezza.


La repubblica – 12 dicembre 2015

A MARINEO SI TORNA A PARLARE DEI FASCI

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Domenica 3 gennaio 2016, alle ore 19, al Castello di Marineo si torna a parlare della tragica storia dei Fasci siciliani

IL SOGNO NEGATO DELLA LIBERTA'
I Fasci siciliani e l'emancipazione dei lavoratori
di Carmelo Botta e Francesca Lo Nigro
Prefazione di Michelangelo Ingrassia

Dal 1891 al 1894 contadini, operai, minatori e artigiani siciliani insorsero contro il governo. Il movimento fu sedato nel sangue da Crispi nel 1894.
Questa è la storia dei Fasci siciliani, raccontata in un testo agevole, indicato anche per gli studenti.

Gli autori, entrambi docenti negli istituti superiori di Palermo, raccontano in queste pagine la storia dei Fasci siciliani dei lavoratori, partendo dall’Unità di Italia. Ricostruendo la scena politica, sociale ed economica dell'Italia post-unitaria delineano l'emergere del conflitto sociale nell'isola; analizzando i modi e i nodi della partecipazione della Sicilia alla costruzione dello Stato unitario italiano, svelano caratteri, difficoltà e responsabilità del processo d'integrazione nazionale e del suo esito.
Il saggio permette quindi di comprendere cosa e perché è accaduto in Sicilia in quegli anni, ad esempio perché, come ha rivelato Francesco Renda, la rivoluzione del 1860 fu compiuta con il sostegno dei braccianti siciliani, diversamente da quanto era avvenuto nel resto della penisola, che avevano già partecipato alle rivoluzioni del 1820 e del 1860; o perché l'epopea dei Fasci siciliani dei lavoratori abbiano contribuito alla formazione del sindacalismo agricolo italiano che ebbe risonanza ben più forte che negli altri Paesi europei.

Gli autori: Carmelo Botta è docente di Filosofia e Storia nei licei. Ha realizzato importanti progetti didattico-educativi nell’ambito della tutela dei diritti umani e della lotta per la legalità. Ha orientato prevalentemente il suo studio nel settore della didattica della storia. È consigliere dell’associazione “Scuola e cultura antimafia”. Collabora per le attività di studio, documentazione e ricerca con il Centro per la Ricerca, lo Studio e la Documentazione delle Società di Mutuo Soccorso istituito dal Coordinamento Regionale Siciliano delle Società Operaie di Mutuo Soccorso.

Francesca Lo Nigro vive e lavora a Palermo dove è Dirigente Scolastica. Ha sempre lavorato in scuole collocate in aree a rischio, impegnandosi in percorsi formativi su diritti umani, recupero del disagio adolescenziale, legalità, utilizzando spesso la drammatizzazione come strumento didattico. È consigliere dell'associazione "Scuola e cultura antimafia". Ha pubblicato articoli e saggi d'inchiesta e scritto per il teatro.

LOTTA CONTINUA E POESIA

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Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d’aver visto

la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita. 


Pablo Neruda

MITI NORDICI

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Ritratto del dio nordico, famoso per i suoi inganni, legato per punizione alle rocce come il Prometeo dei Greci.

Alessandro Zironi

Il nemico di Odino astuto e un po’ codardo che partorì un cavallo
Oramai alle soglie della fine del periodo aureo della cultura islandese, nel XIII secolo, un erudito dell’isola dei ghiacci, Snorri Sturluson, pensa che sia giunto il tempo di salvare la memoria del passato pagano. Scrive un’opera, Edda , per gli studiosi Edda in prosa . È una sorta di manuale per decodificare metri poetici, ma anche un’esemplificazione di miti e metafore che fanno riferimento a un patrimonio culturale la cui conoscenza, alla metà del secolo XIII, stava tramontando. Per noi, lettori del XXI secolo, l’ Edda di Snorri è diventata la guida per poter decifrare una cultura immensa, sepolta dal tempo.

Qui troviamo raccolti i racconti mitologici con protagoniste le divinità nordiche, fra cui Loki. Ad esempio, Hár, nome con cui si cela Odino, spiega al suo interlocutore chi è Loki: un dio che infama, ordisce inganni, vergogna di dèi e uomini; forte, bello, ma di carattere malvagio, incostante, astuto e ingannatore; mette in difficoltà gli altri dèi, però sa anche trarli d’impiccio. Certo, diremmo noi, un ritratto non proprio lusinghiero, ma allo stesso tempo ambivalente: di bell’aspetto e vigoroso, ma parimenti perfido e con un’arguzia votata al male.

Loki è un dio difficilmente imprigionabile in un mondo in cui gli esseri divini hanno solitamente precise e nette caratteristiche. Già a partire dal suo nome, di etimologia incerta: forse rinvia all’antico nordico log , «fiamma», oppure potrebbe essere una variante di Loptr/Loftr, nome con cui viene anche nominato. Loptr è legato a lopt , «aria», oppure Loki rimanda alla forma svedese medievale locke , «ragno».

Tutte queste proposte hanno in sé un po’ di verità, ma nessuna permette di ingabbiare il dio. Forse a maggiore aiuto giungono le kenningar , forme metaforiche proprie della poesia medievale antico nordica, in cui due nomi, appartenenti a campi semantici differenti, sono uniti per offrirne un altro quale soluzione. Ad esempio Loki è la soluzione della kenning «padre della cinghia dell’oceano», ovvero padre di Miðgarðsormr, alla lettera «il serpente della terra di mezzo», il terribile rettile che giace negli abissi abbracciando con le sue spire tutta la Terra.
Loki è detto anche il «padre del lupo», cioè del mostruoso lupo Fenrir, che alla fine dei tempi ingoierà Odino; o ancora «il fardello delle braccia di Sigyn» ovverosia «marito di Sigyn», una liaison che è stata molto rappresentata anche nella pittura ottocentesca e ha offerto spunto a numerose riscritture contemporanee, specie fumetti e manga.

Proprio il rapporto fra Loki e Sigyn permette di decifrare con maggior facilità alcuni aspetti del dio. Loki viene legato a tre massi di pietra con le viscere dei suoi due figli generati con la moglie: sopra di lui viene posto un serpente che gocciola veleno sul suo capo; la moglie Sigyn regge un catino per raccogliere il siero letale, ma quando il bacile è colmo ed ella si allontana per svuotarlo, gocce di veleno cadono sul volto di Loki e questi si scuote provocando terremoti. Questa la pena di Loki sino ai Ragnarök, «destini degli dèi», cioè la fine dei tempi.

Quello di Loki prigioniero è uno dei miti più recenti riferiti al dio che, al pari di altre narrazioni mitologiche nordiche, è forse influenzato dalla cultura classica (vedi il mito di Prometeo) e, ancor più, dal cristianesimo. Il dio legato non è episodio conosciuto al paganesimo germanico, ma deriva probabilmente da racconti cristiani in cui l’Anticristo è incatenato negli inferi, ove spezzerà le sue catene ai tempi del Giudizio Universale. Anche la motivazione della pena rispecchia vicende legate alla vita di Cristo: il dio Baldr, figlio di Odino, viene fatto uccidere da Loki (da qui discende la sua punizione eterna), mentre Baldr tornerà dal regno dei morti a reggere il mondo nuovo, sorto dopo i Ragnarök.

Il nostro Loki è pertanto un dio perfido, ingannatore, in continuo contrasto con gli altri dèi, verso i quali usa parole di scherno nel componimento poetico che porta il suo nome, la Lokasenna «l’invettiva di Loki», in cui ingiuria tutte le divinità, ma è a sua volta accusato da Odino di bisessualità avendo partorito figli. Tutti ricorderanno che anche Zeus genera Atena, ma Loki si spinge oltre, mettendo al mondo streghe, restando gravido dopo aver mangiato il cuore di una donna maligna; partorisce anche il cavallo a otto zampe, Sleipnir, che sarà poi di Odino, dopo essersi trasformato in giumenta e aver attratto uno stallone nei boschi. Con la gigantessa Angrboða darà alla luce il lupo Fenrir, il serpente cosmico Midgarðsorm e la dea Hel, custode del regno dei morti.

La doppia sessualità del dio rispecchia una ritualità religiosa pagana germanica piuttosto arcaica, già ricordata nel I secolo d. C. da Tacito nell’opera Germania , ove cita sacerdoti in abiti femminili. Nel mondo nordico tale pratica prende forma nel seiðr , rito dapprima religioso, poi magico-stregonesco, in cui uomini si cimentano in pose sessuali spiccatamente femminili. Da attività rituale (si dice che Odino stesso abbia praticato tali costumi) l’inversione sessuale e l’omosessualità divengono oggetto di repulsione in una società sempre più cristiana e perciò sono connesse a Loki, il dio malvagio.

Loki appartiene al Pantheon nordico sin da tempi remoti; radici profonde, in correlazione anche coi suoi natali: è figlio di un gigante, di una stirpe ctonia e malvagia, con cui egli si allea alla fine dei tempi partecipando allo scontro insieme ai giganti e a tutti gli esseri demoniaci contro gli dei. Morirà, Loki, nello scontro finale, nella lotta con il dio Heimdallr, il guardiano dell’ordine cosmico.

Denuncia la sua presenza antica l’appartenenza a una triade divina che novera Odino e Hoenir: ce ne resta traccia nel Haustlöng , uno dei poemi più antichi che fanno riferimento al dio, composto dal poeta Þjóðólf di Hvín, forse addirittura del IX secolo. Si tratta di un tipo di componimenti tipici dell’epoca, ovverosia la descrizione di scene riportate sbalzate su uno scudo. In una di queste Loki, insieme agli atri due dei, trafigge con un palo un gigante trasformatosi in aquila. Rimasto attaccato al palo, Loki, atterrito, è trascinato in volo.

È il primo di tanti esempi in cui egli è in preda alla paura. Le testimonianze più tarde lo vedranno infatti protagonista di scene e avventure buffonesche; al medesimo tempo è il primo esempio di Loki in associazione con mutazioni in animali di cui egli stesso farà gran uso (in giumenta, come detto, ma anche in pulce, mosca, falco, salmone ecc.).

Loki appartiene a più mondi, quello dei giganti, degli dèi, degli animali; reca danno, ma allo stesso tempo aiuta le divinità; possiede un’astuzia votata per lo più al male, ma allo stesso tempo è codardo. Sono tutti aspetti necessari all’ordine cosmico, in cui il bene non può sussistere senza il male. Loki è perciò un dio essenziale della mitologia nordica: anche se non è mai stato venerato e non ci sono luoghi che ricordino il suo nome, ha sempre goduto di grande fortuna, sia nei miti medievali che nelle riletture contemporanee. 


Il Corriere della sera – 27 dicembre 2015

LA MAGIA NELL' ANTICHITA'

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Un saggio di Giulio Guidorizzi indaga sul ruolo e sull’importanza che le pratiche magiche avevano nel mondo antico. In età classica c’era la convinzione che dietro la realtà vi fosse una trama segreta fatta di affinità e di corrispondenze.

Maurizio Bettini

Quegli incantesimi che interpretano l’universo

Plinio il Vecchio non fu solo il grande erudito della “Naturalis historia” e lo scienziato coraggioso che morì per osservare da vicino l’eruzione del 79 d. C.: fu anche un uomo di grande saggezza. Dobbiamo a lui infatti una delle osservazioni più interessanti che siano state fatte a proposito della magia: «Presi uno a uno, i più dotti rifiutano di credere al potere degli incantesimi e delle parole potenti: ma la vita presa nel suo complesso ad ogni momento vi presta fede, e non se ne accorge».

Da un lato dunque sta il pensiero razionale, il quale rifiuta la possibilità che formule, scongiuri o gesti rituali possano produrre effetti sulla realtà che ci circonda; dall’altro sta invece la “vita” – di cui anche gli stessi “dotti” partecipano – la quale continua a prestar fede a cose del genere anche e soprattutto quando “non se ne accorge”.

Per venire all’oggi, della credenza sulla magia partecipano tanto la ragazza che telefona al mago televisivo perché riporti a lei l’innamorato, quanto il broker di borsa che al mattino sfoglia l’oroscopo. E che dire di quel celebre fisico che teneva un ferro di cavallo in laboratorio? Di fronte allo stupore di un collega, commentò così: «Mi dicono che funziona anche se non ci si crede». È la vita, che “crede” e non se ne accorge.

Nel mondo antico, comunque, la vitalità della magia fu particolarmente vasta e pervasiva. Documenti della sua presenza li troviamo un po’ ovunque: se la poesia greca e romana parla di filtri e incantamenti d’amore, le Metamorfosi di Apuleio e il Satyricon di Petronio offrono percorsi perturbanti attraverso gli spazi, reali ma anche mentali, della magia: uomini sgozzati eppure tenuti in vita dalle arti malefiche, streghe-donnole che rubano i lineamenti ai cadaveri prima del funerale, lupi mannari che orinano attorno alle tombe, donne che si ungono di misteriose pomate ed escono volando dalla finestra, come uccelli.

Anche i trattati di agricoltura contengono sorprese interessanti. Vi si incontra per esempio l’incantesimo usato per sanare le lussazioni, che prevedeva l’applicazione all’arto di una canna tagliata in due e, soprattutto, l’ossessiva ripetizione di queste misteriose parole: «Moetas vaeta daries dardaries asiadarides una petes». Oppure il rimedio usato contro la grandine, quando «contrapponendo alla nube uno specchio se ne raccoglie l’immagine e in questo modo, sia che la nube si veda brutta, sia che si ritragga di fronte a ciò che crede un’altra nube, si riesce a scacciarla».

Ma la magia antica non sta solo nella letteratura. Nelle tombe, nelle fondamenta degli edifici, nei pozzi, si sono trovate laminette di piombo – chiamate tabellae defixionis, letteralmente “tavolette di inchiodamento” – che scagliano maledizioni contro rivali in amore, ladri, avversari in tribunale, persino competitori nelle gare sportive.

«Come il morto che è qui sepolto non può né parlare, né dissertare, così Rhodine che (è) con Marco Licinio Fausto, morta sia, né possa parlare né dissertare», sentenzia una defixio amatoria del I secolo a. C. Opera di una donna che contendeva a Rhodine l’amore di Fausto. Possiamo persino penetrare nei laboratori della magia, in particolare quella di tradizione ellenistica, per carpire i suoi segreti. Nel 1852, infatti, Jean D’Anastasi, console svedese al Cairo, comprò un’intera raccolta di papiri magici trovati (o almeno così fu detto) in una tomba vicino a Tebe. Con tutta probabilità essi costituivano la biblioteca di lavoro di un mago, una raccolta di formule che fu sepolta con lui per assicurargli (forse) la possibilità di esercitare anche nell’aldilà. La lettura di questi testi è davvero impressionante. Vi si dettagliano parole, ingredienti, rituali propri di ciascun processo magico a seconda dei diversi scopi che esso si prefigge: l’unico spazio lasciato in bianco (alla maniera di un modulo prestampato ad uso burocratico) è quello destinato a contenere il nome della malcapitata vittima.

Come orientarsi in un universo così vasto e complesso? Il lettore appassionato di credenze magiche e di storia della cultura, oggi ha a disposizione il bel volume di Giulio Guidorizzi, La trama segreta del mondo. La magia nel mondo antico, edito dal Mulino. La lettura di questo libro è appassionante, perché combina limpide pagine teoriche — e si sa bene quanto provocatorie siano, sul piano intellettuale, le credenze magiche — con una straordinaria sequenza di racconti, vicende, pratiche, aneddoti, che tutti in definitiva fanno capo a questa convinzione: che l’universo sia retto da una segreta trama di affinità e corrispondenze.

Per questo il mago, che ne conosce l’esistenza e soprattutto possiede l’arte di manipolarla, può produrre effetti mirabolanti sulla realtà che lo circonda. «In linea generale», scrive l’autore nell’Introduzione, «la magia presuppone che in certi momenti, e sotto l’influsso di certi riti, il flusso dell’esperienza ordinaria si sfilacci per dare spazio a un altro piano di realtà: è la fessura attraverso la quale si penetra in un universo parallelo ma occulto».

Il pensiero positivo, se così vogliamo chiamarlo, ha tentato più volte di categorizzare l’esperienza magica per distinguerla, in primo luogo, dalla religione: impresa ardua, come ben mostra la sintesi di Guidorizzi, perché in questo campo le distinzioni sono legate a ciò che si intende per religione e, soprattutto, a quale tipo di soprannaturale si vuole riservare questa più nobile denominazione. Per gli antichi Egizi, ad esempio, la pratica della magia faceva strettamente parte della religione, così come è difficile negare che in Grecia l’intervento di divinità quali Afrodite o Hermes venga talora invocato in contesti che a noi appaiono decisamente magici. Né possiamo dimenticare che, se i cristiani definivano “maghi” taumaturghi come il noto Simone o Apollonio di Tiana — capace di guarire ciechi, storpi e paralitici, e persino di resuscitare i morti — anche Gesù fu ritenuto un “mago” da coloro che lo avversavano.

Ma infine, si può identificare il principio elementare, basilare, secondo cui agiscono i processi magici?

Se gli antichi ne individuavano la ragione nella “trama segreta” che teneva assieme l’universo, che cosa hanno detto i moderni rappresentanti del pensiero positivo? La descrizione più semplice, ma anche più comprensiva, di come funziona la magia, l’ha data George James Frazer, permettendo così ad altri studiosi di articolarla ulteriormente. Secondo questa interpretazione, la magia agisce secondo due assi principali: similarità da un lato, contatto dall’altro. Trafiggere con un ago la bambolina che “somiglia” al nemico da abbattere, opera attraverso la similarità: si costruisce infatti una “metafora” della vittima, e agendo su di essa, si pretende di annientarla.

Al contrario, gettare nel fuoco un ricciolo del nemico, perché anche lui possa ardere allo stesso modo, significa ricorrere al contatto, perché il ricciolo è parte del nemico, lo rappresenta per “metonimia”. Ecco che in questo modo la trama segreta del mondo sconfina nelle figure della retorica: a riprova del fatto che nell’universo, almeno in quello intellettuale, tutto si tiene.

La Repubblica – 29 dicembre 2015
Giulio Guidorizzi
La trama segreta del mondo. La magia nell’antichità
Il Mulino, 2015
euro 16

THE THUNDER PERFECT MIND

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Devo all'amica Mariarosaria Rega la scoperta di questo straordinario documento:



Questa poesia misteriosa fu scoperta fra i manoscritti gnostici di Nag Hammadi ed è narrata da un divino rivelatore di natura femminile.
'The Thunder Perfect Mind'– Il Tuono, Mente Perfetta è una poesia meravigliosa, ma anche un po' strana. Ricca di figure retoriche come paradossi ed antitesi di influenza ellenica, parla nel nome di un Potere divino femminile, un Uno che riunisce tutti gli opposti. Uno che non parla solo alle Donne, ma a tutte le persone. Uno che parla non solo ai cittadini di una patria, ma anche agli stranieri, ai poveri ed ai ricchi. E' una poesia che scorge l'irradiamento del Divino in tutti gli aspetti della vita umana, dagli umili bassifondi del Cairo, o di Alessandria, dove forse si trovava chi l'ha scritta, alle persone di più elevato ceto sociale, dai padroni agli schiavi.
In questa poesia, il divino appare in tante e spesso inaspettate forme.
'The Thunder Perfect Mind'– Il Tuono, Mente Perfetta potrebbe essere stato scritto in Egitto da qualcuno che probabilmente conosceva la Tradizione di Iside, ma non è un canto a lei dedicato, come erroneamente taluni ritengono.
Chi lo ha scritto conosceva anche le tradizioni ebraiche. Era parte di un movimento in cui tradizioni Ebraiche, Egizie, Greche, Romane e proto-Cristiane si mescolavano ed erano patrimonio di un determinato numero di persone colte.
Bentley Layton ha ipotizzato che il paradossale e spesso eccessivo ricorso a termini antitetici presenti nelle affermazioni del Tuono possa essere letto come un complesso enigma/indovinello da risolvere ad opera di un lettore consapevole o 'gnostico'.
Allo stesso tempo, l'attenzione alle varie caratteristiche del testo nel suo complesso suggerisce che non c'è solo il mistero dell'identità del narrante, ma anche il rapporto fra la divinità che sta parlando e gli ascoltatori di natura umana, forma il nodo esegetico del testo.

La traduzione che abbiamo curato deriva da una trascrizione inglese dal copto di George W. MacRae S. J. così come pubblicata in un libro edito da James M. Robinson, The Nag Hammadi Library, HarperCollins, San Francisco, 1990.


Il Tuono, Mente Perfetta

Io fui mandata avanti dal potere,
ed Io sono venuta presso coloro che riflettono su di me,
ed Io sono stata trovata tra quelli che mi cercano.
Cercatemi, voi che meditate su di me, e voi uditori, ascoltatemi.
Voi che mi state aspettando, portatemi a voi.
E non allontanatemi dalla vostra vista.
E non fate in modo che la vostra voce mi possa odiare, e neppure il vostro ascolto.
Non ignoratemi, ovunque ed in ogni tempo. State in guardia!
Non ignoratemi.
Perché Io sono la prima e l’ultima.
Io sono l'onorata e la disprezzata.
Io sono la prostituta e la santa.
Io sono la sposa e la vergine.
Io sono la madre e la figlia.
Io sono le membra di mia madre.
Io sono la sterile
E molti sono i miei figli.
Io sono colei il cui matrimonio è grande, eppure Io non ho marito.
Io sono la levatrice e colei che non partorisce.
Io sono il conforto dei miei dolori del parto.
Io sono la sposa e lo sposo,
ed è mio marito che mi generò.
Io sono la madre di mio padre
e la sorella di mio marito
Ed egli è la mia progenie.
Io sono la schiava di lui, il quale mi istruì.
Io sono il sovrano della mia progenie.
Ma egli è colui il quale mi generò prima del tempo, nel giorno della nascita.
Ed egli è la mia progenie, a suo tempo, ed il mio potere proviene da lui.
Io sono l'appoggio del suo potere nella sua giovinezza, ed egli il sostegno della mia vecchiaia.
E qualsiasi cosa egli voglia, mi succede.
Io sono il silenzio che è incomprensibile,
e l'idea il cui ricordo è costante.
Io sono la voce il cui suono è multiforme
e la parola la cui apparizione è molteplice.
Io sono la pronuncia del mio nome.
Perché, voi che mi odiate, mi amate,
ed odiate quelli che mi amano?
Voi che mi rinnegate, mi riconoscete,
e voi che mi riconoscete, mi rifiutate.
Voi che dite la verità su di me, mentite su di me,
e voi che avete mentito su di me, dite la verità.
Voi che mi conoscete, ignoratemi,
e quelli che non mi hanno conosciuta,
lasciate che mi conoscano.
Perché Io sono il sapere e l’ignoranza.
Io sono la vergogna e l’impudenza.
Io sono la svergognata; Io sono colei che si vergogna.
Io sono la forza e la paura.
Io sono la guerra e la pace.
Prestatemi attenzione.
Io sono la disonorata e la grande.
Prestate attenzione alla mia povertà e alla mia ricchezza.
Non siate arroganti con me quando Io sono gettata fuori sulla terra,
e voi mi troverete in quelli che stanno per giungere.
E non cercatemi nel mucchio di letame
Non andate lasciandomi esiliata fuori,
e voi mi troverete nei regni.
E non cercatemi quando sono gettata fuori
tra coloro che sono disgraziati e nei luoghi più miseri.
Non ridete di me.
E non lasciatemi fuori tra quelli che sono uccisi nella violenza.
Ma Io, Io sono compassionevole ed Io sono crudele.
State in guardia!
Non odiate la mia obbedienza
E non amate il mio auto controllo.
Nella mia debolezza, non abbandonatemi,
e non siate spaventati del mio potere.
Perché voi disprezzate la mia paura
E maledite la mia gloria?
Ma Io sono colei che esiste in tutti i timori
E la forza nel tremare.
Io sono quella che è debole,
ed Io sto bene in un luogo piacevole.
Io sono la dissennata ed Io sono la saggia.
Perché mi avete odiata nelle vostre deliberazioni?
Perché Io dovrò essere silenziosa tra quelli che sono silenziosi,
ed Io dovrò apparire e parlare,
Perché quindi mi avete odiata, voi Greci?
Perché Io sono una barbara tra i barbari?
Perché Io sono la saggezza dei Greci
Ed il sapere dei Barbari.
Io sono il giudizio dei Greci e dei barbari.
Io sono quella la cui immagine è grande in Egitto
e quella che non ha immagine tra i barbari.
Io sono quella che è stata odiata ovunque
e quella che è stata amata in ogni luogo.
Io sono quella che essi chiamano Vita,
e che voi avete chiamato Morte.
Io sono quella che essi chiamano Legge,
e voi avete chiamato Illegalità.
Io sono quella che voi avete inseguito,
ed Io sono colei che avete afferrato.
Io sono quella che avete dispersa,
eppure mi avete raccolta insieme.
Io sono quella di cui prima vi siete vergognati,
e voi siete stati svergognati verso di me.
Io sono colei che non riceve festeggiamenti,
ed Io sono quella le cui celebrazioni sono molte.
Io, Io sono senza Dio,
ed Io sono quella il cui Dio è grande.
Io sono quella sui cui avete meditato,
eppure voi mi avete disprezzata.
Io sono incolta,
ed essi imparano da me.
Io sono quella che voi avete disprezzata,
eppure riflettete su di me.
Io sono quella dalla quale vi siete nascosti,
eppure voi apparite a me.
Ma se mai vi nascondeste,
Io stessa apparirò.
Perché se mai voi appariste,
Io stessa mi nasconderò da voi.
Quelli che hanno(…) ad esso (…) insensibilmente.
Prendetemi ( …conoscenza ) dal dolore
Ed accoglietemi
Da ciò che è conoscenza e dolore.
Ed accoglietemi dai luoghi che sono brutti e in rovina,
e sottratti da quelli che sono buoni
anche se in bruttezza.
Fuori dalla vergogna, portatemi a voi sfacciatamente,
e fuori dalla sfrontatezza e dalla vergogna,
riprendete le mie membra in voi.
E venite a promuovermi, voi che mi conoscete
E voi che conoscete le mie membra,
e stabilite la Grande tra le prime piccole creature.
Venite ad appoggiarmi presso l’infanzia,
e non disprezzatela perché è piccola e piccina.
E non distaccate le grandezze in diverse parti dalle piccolezze,
perché le piccolezze sono conosciute dalle grandezze.
Perché mi maledite e mi venerate?
Voi avete recato offesa e voi avete avuto misericordia.
Non separatemi dai primi che avete conosciuto.
E non allontanate, né scacciate alcuno
[...] scacciare voi e [...conoscer] lo per niente.
[...].
Ciò che è mio [...].
Conosco quelli che vennero per primi e quelli dopo di loro conoscono me.
Ma Io sono la Mente [Perfetta] ed il riposo di [...].
Io sono la conoscenza della mia domanda,
E la scoperta di quelli che aspirano a me,
e il comando di quelli che di me domandano,
e il potere dei poteri nella mia scienza
degli angeli, che sono stati mandati al mio ordine,
e degli dei nelle loro ere dal mio consiglio,
e degli spiriti di ogni uomo che esiste con me,
e delle donne che dimorano dentro di me.
Io sono quella che è venerata, e che è pregata,
e che è disprezzata sdegnosamente.
Io sono la pace,
e la guerra è venuta per causa mia.
E Io sono uno straniero e un compatriota.
Io sono la sostanza e quello che non ha sostanza.
Quelli che sono senza unione con me sono ignari di me,
e quelli che sono nella mia sostanza sono quelli che conoscono me.
Quelli che sono vicini a me sono stati ignari di me,
e quelli che sono distanti da me sono quelli che mi hanno conosciuto.
Nel giorno in cui Io sono vicino a te, tu sei distante da me,
e nel giorno in cui Io sono distante da te, Io sono vicino a te.
[Io sono ...] dentro.
[Io sono ...] delle nature.
Io sono [...] della creazione degli spiriti.
[...] preghiera delle anime.
Io sono il controllo e l'incontrollabile.
Io sono l'unione e la dissoluzione.
Io sono ciò che è perenne ed Io sono la dissoluzione della materia.
Io sono quella sotto,
ed essi vengono sopra di me.
Io sono il giudizio e l'assoluzione.
Io, Io sono senza peccato,
e la radice del peccato deriva da me.
Io bramo avidamente l'apparenza esteriore,
e il proprio controllo interiore esiste dentro di me.
Io sono l'ascolto accessibile a tutti
E il discorso che non può essere capito.
Io sono un muto che proprio non parla,
e grande è la moltitudine delle mie parole.
Ascoltatemi in grazia, e imparate di me con approssimazione.
Io sono colei che urla,
e Io sono rigettata sopra la faccia della terra.
Io preparo il pane e la mia mente dentro.
Io sono la conoscenza del mio nome.
Io sono quella che grida,
ed Io ascolto.
Io appaio e [... ] cammino in [... ] sigillo del mio [... ].
Io sono [... ] la difesa [... ].
Io sono quella che è chiamata Verità e ingiustizia [... ].
Voi mi onorate [... ] e voi mormorate contro di me.
Voi che siete conquistati, giudicate chi conquista voi
prima che essi esprimano sentenza contro di voi,
perché il giudizio e la parzialità risiedono in voi.
Se voi siete condannati da questo, chi vi affrancherà?
Oppure, se voi sarete liberati da questo,
chi sarà in grado di tenervi in custodia?
Perché ciò che è dentro di voi è quello che a voi è fuori,
e quello che vi avvolge all’esterno
è quello che dà la forma all’interno di voi.
E quello che voi vedete fuori di voi, voi lo vedete dentro di voi;
esso è evidente ed è il vostro vestito.
Ascoltatemi, voi che mi udite,
e imparate le mie parole, voi che mi conoscete.
Io sono la conoscenza che è accessibile a chiunque:
Io sono il discorso che non può essere compreso.
Io sono il nome del suono
e il suono del nome.
Io sono il segno della lettera
e la destinazione della separazione
Ed Io [...].(3 linee mancanti)
[...] luce [...].
[...] ascoltatori [...] a voi
[...] il grande potere.
E [...] non rimuoverà il nome.
[...] all’entità che mi ha creato.
E Io dirò il suo nome.
Fate attenzione allora alle sue parole
e a tutte le scritture che sono state composte.
Prestate attenzione allora, voi che ascoltate
ed anche voi, gli angeli e quelli che sono stati inviati,
e voi spiriti che vi siete levati dai morti.
Perché Io sono quella che da sola esiste,
ed Io non ho alcuno che mi giudicherà.
Perché sono molti i gradevoli aspetti che esistono
in numerosi peccati
e smoderatezze
e passioni scandalose
e piaceri momentanei
che (gli uomini) assaporano finché non diventano equilibrati
e salgono al loro luogo di riposo.
E loro mi troveranno lì
ed essi vivranno
ed essi non moriranno di nuovo.

IL DESIDERIO E' SOVVERSIVO

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" Il desiderio è sovversivo "
Gilles Deleuze

Appunti di Italo Calvino

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Viaggio nella biblioteca di Italo Calvino alla ricerca di appunti e note di lettura. Una miniera da scavare.

Simonetta Fiori

Le note a margine scritte da Italo Calvino

Tutte le biblioteche private custodiscono un alfabeto segreto. Negli accostamenti fisici e nelle lontananze. Nei pieni e nei vuoti. Nei volumi a portata di mano e in quelli inaccessibili. La biblioteca di Italo Calvino conserva un segreto ancora più profondo che è il libro inedito delle sue note a margine. Frammenti di discorso appuntati negli spazi bianchi delle pagine, immenso puzzle che copre mezzo secolo di letture, percorsi immaginari e fili del pensiero infine riannodati nel grande cantiere delle Lezioni americane.

E sembra un gioco tipicamente calviniano questo libro scritto sui libri degli altri, dagli scherzi infantili sui testi scolastici — lo slogan “fesso chi legge” annotato sul Fedone di Platone, meraviglioso contrappasso — ai cinque cartoncini ritrovati tra le pagine di Lucrezio, il poeta della materia che smaterializza il mondo.

È una importante officina di lavoro quella scoperta da Laura Di Nicola, italianista dell’Università La Sapienza, tra i 7.650 volumi di casa Calvino, in piazza Campo Marzio, a Roma.

Un archivio sotterraneo di note critiche, citazioni, sottolineature a cui la studiosa lavora da tempo, unica ammessa nello scacchiere di carta dello scrittore che è anche proiezione dei desideri e biblioteca mentale. Ed è dalle parole silenziose trascritte sui libri che emerge un affascinante gioco di specchi tra lettura e scrittura, tra l’elogio della brevità del giovane Calvino critico e la pratica delle short stories del Calvino scrittore. Una trama di suggestioni che si arricchisce nell’ultimo tratto di vita nell’intreccio tra la collaborazione a Repubblica e la preparazione delle Lectures per l’Università di Harvard dove “leggerezza”, “molteplicità”, “esattezza” e “rapidità” sono esemplificate per larga parte sugli autori recensiti per il giornale, dalla Dickinson a Kundera, da Gadda a Perec, da Ponge a De Santillana. E forse non è casuale che il cantiere sui “valori letterari da conservare nel prossimo millennio” — il suo commiato dal mondo — sia stato idealmente aperto sulle pagine del quotidiano diretto da Eugenio Scalfari, l’amico con cui Calvino al liceo aveva cominciato il viaggio nella conoscenza.

Dalle note scolastiche occorre ripartire — soprattutto disegni, ritratti di creature omeriche, il profilo somigliantissimo di “Calvinus” accanto a quello di “Vergilius” — per coglierne l’inclinazione al fantasticare sempre pervasa dal sorriso. Lo schermo trasparente dell’ironia è il filo conduttore degli appunti giovanili, nel costante chiaroscuro di ombra e luce, malinconia e ilarità, saturnino e mercuriale (“Sono un saturnino che sogna di essere mercuriale”, avrebbe detto di sé). È “l’umorismo triste e colorato” che appena ventenne lo trafigge dalle pagine di Buzzati, ma è soprattutto la “vendetta allegra” di Lee Masters, il “contrappasso burlesco” e “la grazia triste del cippo funerario” enfatizzati in quegli stessi anni sotto le poesie di Spoon River. Con lo scrittore americano, con la sua capacità di condensare “drammi e romanzi aggrovigliati” in poche righe, scatta un vero innamoramento (ma Lee Masters sparirà dai suoi riferimenti nelle Lezioni americane).

E ai commenti sull’architettura del testo s’accompagnano riflessioni sull’amore (“insieme alla poesia una delle vie di riscatto”), sull’erotismo come “principale movente delle azioni umane”, sull’anticonformismo in lotta con il puritanesimo corrotto, sulla centralità della memoria, sulla polemica anticlericale e antimilitarista. «Il Calvino ventenne che compulsa i versi di Spoon River è anche il ragazzo che sta per lanciarsi nell’avventura della Resistenza», fa notare Di Nicola, che su questi preziosi materiali sta preparando un saggio. È l’inizio di un’altra storia, quella che segna l’ingresso nell’età adulta.

Dopo il 1944 cala il silenzio sulle note a margine. I copiosi appunti che invadevano gli spazi bianchi sono sostituiti da un numero di pagina, un richiamo, una parola appena, in un’accresciuta riverenza verso l’oggetto libro. Solo negli anni Ottanta, con il trasferimento a Roma e dunque la definitiva sistemazione della biblioteca, Calvino torna alle antiche abitudini, in un rapporto meno discreto con i suoi scaffali sempre più rispondenti a un ordine interiore. Una rete di note copre la prima pagina del Dialogo dei massimi sistemi di Galileo, altro architrave delle lezioni di Harvard sulla rapidità. Ed è la velocità della mente di Calvino che galoppa in questi fogli anticipatori, dove “il discorrere” è paragonato al “correre” (citazione dal Saggiatore) nell’agilità dei ragionamenti e nell’economia degli argomenti.

Ma la velocità calviniana è molto diversa da quella mediatica che incalza proprio in quel passaggio d’epoca, non è trasmissione “appiattita in crosta uniforme” ma “comunicazione di ciò che è diverso in quanto è diverso”, che è poi “la funzione della letteratura che esalta la differenza”. Con la sua grafia regolare, negli spazi bianchi del Dialogo dei massimi sistemi, Calvino enfatizza la più grande invenzione umana celebrata dal personaggio di Sagredo: l’alfabeto, “i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta”. Che cosa c’è di più di eversivo di quell’arte “combinatoria” che mette in contatto “ogni cosa esistente e possibile”? Contro “la peste” che avanza, come ultimo baluardo resta solo la scrittura.

Il filo dell’alfabeto ci conduce tra le pagine della versione francese di Lucrèce, De la nature, dove sono nascosti cinque cartoncini annotati sul retro. Qui lo scrittore si concentra sulle metafore della sostanza pulviscolare che alleggerisce le cose. Ma per Lucrezio anche “le lettere sono atomi in movimento che creano le parole e i suoni più diversi”. La leggerezza è un modo di vedere il mondo, uno stile, un modo di rappresentarlo nella scrittura. Nessuno meglio del poeta latino, il poeta dell’invisibile e del nulla, può inaugurare le sue conferenze americane. Il peso della materia, il peso del vivere. Anche in questo zigzagare tra uno scaffale e l’altro, tra geografie mentali distanti, Calvino cerca la sua via di fuga. “Nella vita tutto quello che apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna”. Lo scrive a proposito di Kundera ma sembra parlare di sé.


La repubblica – 13 dicembre 2015


AL CINEMA LE RICETTE DELLA SIGNORA TOKU

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Ciliegi in fiore tra palazzoni grigi e odore di frittelle. Forse non tutto è perso nella grande città se si è ancora capaci di trovare nell'altro (e nelle piccole cose) il rimedio alla propria solitudine. Un film poetico e commovente. Da vedere.

Stefania Ulivi

I dorayaki e le ricette della signora Toku

«Il segreto dei dorayaki? Che ogni cosa, come ogni persona, ha bisogno delle altre. Nessuno può vivere da solo». Quei piccoli pancake ripieni di salsa dolce di azuki, resi popolari in occidente dal manga Doraemon, la regista giapponese Naomi Kawase li conosce molto bene. A fare la differenza è la riuscita del ripieno. Che non è esattamente una marmellata, né una crema, né una vellutata. Bastano una parola di due lettere, an, per definirla. Un’alchimia frutto di conoscenze antiche e molta, molta pazienza.

Toku, l’anziana e un po’ misteriosa protagonista del film che la regista ha tratto dal romanzo di Durian Sekagawa, (An in originale, da noi Cinema lo ha distribuito con il titolo Le ricette della signora Toku) la vuole condividere e insegnare a Sentaro, il gestore del piccolo locale che utilizza barattoloni di asettico anindustriale. «Dobbiamo accoglierli con cura» dice Toku. «I clienti?» domanda l’uomo. «No. I fagioli» spiega lei che dietro al candore nasconde un segreto drammatico. 

«È stato questo l’aspetto che mi ha conquistato del libro: la capacità di descrivere ciò che è invisibile all’occhio». Come i sapori. «Sono anche quelli più difficili da rendere sullo schermo ma è anche ciò che credo mi riesca meglio con il mio cinema» spiega Kawase che per il film ha chiesto ai suoi due interpreti — la deliziosa Kirin Kiki, la donna che sussurrava ai fagioli («Dobbiamo ascoltare le storie che raccontano») e Magatoshi Nagase — di passare molto tempo a imparare a cucinare alla perfezione i dorayaki. «Sì, ho voluto che vivessero e lavorassero nel negozio di dorayaki e alla fine la gente che non sapeva che fosse per un film pensava fosse vero e entrava a comprarli».

Quarantasei anni, habituée del festival di Cannes dove ha vinto la Camera d’oro nel 1997 e il Grand Prix speciale della Giuria nel 2007, fondatrice del Nara International Film Festival con l’obbiettivo di aiutare i giovani filmmakers, Kawase è maestra nel trasformare in cinema le piccole cose quotidiane, renderle uniche. «Prendo ispirazione da quello che mi circonda, le idee mi vengono camminando per strada». Fondamentale, racconta, è il rispetto per il passato. «I ricordi sono insostituibili: i film possono catturarli. Proprio come accade con la cucina».

Il cibo, racconta, è un’estensione della natura. In perfetta sintonia con i concetti cari alla cultura giapponese di armonia e gratitudine. «La mia estensione preferita. Adoro mangiare. Il cibo ci rende felici e ci riempie la mente di meraviglia. Non credo che nessuno possa sentirsi arrabbiato mentre mangia qualcosa di delizioso».

Attraverso il cibo e la sua lavorazione, sostiene Kawase, impariamo a conoscerci. Anche senza parlare. «Niente è più importante della fiducia: bisogna passare tempo insieme per capire cosa c’è nella testa dell’altro». Vale anche, insegna la signora Toku, per gli azuki.

E per i ciliegi, simbolo della cultura giapponese, che popolano il film. «Rappresentano la vita e la morte, il ciclo della vita. Noi conosciamo il significato di fine e inizio, amiamo i ciliegi perché sono effimeri». Potenza di un dorayaki.


http://cucina.corriere.it/notizie/15_dicembre_22/i-dorayaki-ricette-signora-toku_f11b9424-a8e6-11e5-8cb6-cc689478293e.shtml

UNA GRANDE MOSTRA A CAGLIARI SULLE ORIGINI DELLA NOSTRA CULTURA

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A Cagliari una grande mostra documenta la vita delle civiltà tra il V e I millennio a.C. Centinaia i reperti esposti provenienti dai musei della Sardegna e dall'Ermitage. Dal Caucaso alla Sardegna nuragica mondi lontani per la prima volta a confronto.

Mario Niola

Eurasia. Quelle civiltà che diedero origine alla storia.

La conoscenza poetica del mondo precede la conoscenza razionale degli oggetti. In quella lunga notte in cui cominciano a spuntare le prime luci della storia, i nostri lontani progenitori vivevano in un paesaggio sconfinato dove la natura la faceva da padrona. E la caccia e la raccolta erano le sole arti della sopravvivenza. Eppure l'ingegno, la fantasia e la curiosità di quegli uomini e di quelle donne li hanno fatti uscire dall'età della pietra, dando inizio a una straordinaria rivoluzione culturale. Nascono allevamento, agricoltura, sedentarizzazione, lavorazione dei metalli, tessitura. Nasce l'idea stessa di casa, che non è un semplice riparo ma una dimora. Come dire che habitat, abiti e abitudini arrivano insieme. E che coltura e cultura avanzano in parallelo. Facendo uscire dal loro isolamento i figli di quei bestioni primitivi di cui parla Giambattista Vico nella Scienza Nuova. Di qui scambi, commerci e merci. Viaggi e non più vagabondaggi.

È un punto di non ritorno che cambia il destino della specie. A questa transizione è dedicata la bellissima mostra Eurasia, fino alle soglie della storia. Capolavori dal Museo Ermitage e dai Musei della Sardegna.

Curata da Anna Maria Montaldo, direttore dei Musei Civici di Cagliari, insieme a Yuri Piotrovsky e Marco Edoardo Minoja, l'esposizione (da oggi al 10 aprile 2016) documenta la vita di questi uomini che, intorno al quinto millennio prima di Cristo, stavano sperimentando la più grande delle mutazioni antropologiche.

Una soglia temporale ma anche una start up immaginativa. Da allora, infatti, le società umane cominciano a raccontarsi e a descriversi. In forma di parole e in forma di oggetti. Cose e rappresentazioni che fanno da monumento-documento di un tornante decisivo del cammino dell'umanità. I curatori della mostra hanno sintetizzato questo cammino nella parola Eurasia. Una sorta di ellissi con due fuochi. La Sardegna e il Caucaso. Mondi così lontani e così vicini, divisi da una distanza incalcolabile e uniti da una domanda di senso che accorcia le distanze. Disseminando il percorso di oggetti eloquenti. Pugnali di rame, anfore kurgan, vasi di Ozieri, statuine femminili di alabastro, monili d'oro e d'argento. E poi gli strumenti prodotti dalle arti della metallurgia. Incudini e martelli che hanno plasmato rame, bronzo, ferro e oro consegnando la fabbrica del fuoco, che muove i suoi primi passi, prima al mito e poi alla storia.

Non a caso Prometeo, l'uomo che ruba la scintilla agli dei della folgore e la dona ai mortali, è l'eroe eponimo della civiltà. Il personaggio simbolo della techne, cioè la capacità tutta umana di trasformare la natura con il lavoro. "Sudate o fuochi a preparar metalli", dicevano i poeti barocchi che di questo tornante sono stati i più geniali esploratori. Perché lo hanno detto in poesia e dipinto in immagini esonerandosi dal tentativo, peraltro vano, di spiegarlo in concetti. Come dire che hanno usato le lenti potentissime della metafora alata, che sorvola spazi e tempi.

Ed è quel che fanno i curatori della mostra spingendo il visitatore verso un autentico volo pindarico che avvicina lembi estremi della storia e della geografia. E perfino la parola Eurasia, più che un semplice titolo, è un programma. Un ponte fra mondi lontani ma soprattutto una password di questo progetto nato nell'alveo della candidatura di Cagliari a capitale europea della cultura per il 2019. E che si è concretizzato in questa bellissima esposizione. Eurasia, infatti è anche un acronimo. Ciascuna lettera fornisce una chiave di lettura.

E, come Ermitage, il prestigioso museo di San Pietroburgo che ha prestato le sue preziose collezioni archeologiche. U come unione di culture. R come la rivoluzione neolitica che ha mutato le sorti dell'umanità. A come antropologia, la disciplina che studia le diverse dimensioni del pianeta-uomo. S come Sardegna, l'isola-continente che con la sua storia millenaria e con la cultura nuragica diventa un paradigma del Mediterraneo. I come immaginazione, la facoltà che apre la scatola nera dell'umano e ritrova i fili nascosti che costituiscono il tessuto comune della storia. A come archeo-logia, che indaga le profondità del passato e ce lo rende di nuovo contemporaneo. E in questa Eurasia del quinto millennio avanti Cristo ritroviamo le tracce di noi stessi, le premesse di quel che siamo diventati. Il nostro Oriente. Quella dimensione aurorale che da Erodoto in poi ha fatto del Caucaso, dell'Indo e della Mezzaluna Fertile le regioni dell'anima di un Occidente in cerca di orientamento e di origine.

Parole che non per nulla hanno la stessa etimologia. E anche quando l'origine è svanita nelle nebbie del tempo ne restano le tracce e le connessioni. Consegnate, come dice Pietro Clemente, in un bellissimo testo che arricchisce il catalogo, al mondo delle cose, alla cultura materiale, agli oggetti del lavoro contadino, agli strumenti del mondo nuragico o caucasico. Dove è possibile riconoscere forme, stabilire nessi, tra modi di vita apparentemente lontani e incomunicanti. È in questo mare, dove è facile naufragare, che è bello navigare oscillando tra lo stupore della differenza e la fascinazione della somiglianza.

Come quando il visitatore si trova davanti le perturbanti statue sarde di Monte Prama, grande attrattiva del Palazzo di Città. Cui i curatori, con felice scelta espositiva, hanno accostato i Kurgan di Majkop, straordinari monumenti funerari della Repubblica russa di Adigezia. Con i loro scheletri colorati che affiorano da millenni anni di storia in tutta la loro carica engmatica. Amplificata da uno straordinario corredo di leoni rampanti, di anelli preziosi, di monili principeschi, di placche ornamentali. Chili di oro e d'argento che dovevano accompagnarli nell'ultimo viaggio. Entrambi eroi, i giganti sardi e i simulacri russi, hanno bucato la barriera del tempo e si ripresentano ai nostri occhi come emergenze del senso. Pieni di una ulteriorità onirica che ci invita ad addentrarci in quella foresta di simboli che separa e unisce il nostro Oriente e il nostro Occidente.


La Repubblica – 22 dicembre 2015

IL TESTAMENTO DI G. DELEUZE

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Vent'anni fà moriva Gilles Deleuze, forse il filosofo che più ha saputo esprimere lo spirito profondo del '68.


Antonio Gnoli

"Cambio, dunque sono" Il testamento di Deleuze

Deleuze è morto vent'anni fa. Riverso su un marciapiede che lo accolse dopo un volo di trenta metri. Nessun biglietto per i posteri che ne giustificasse il senso. La fece finita con se stesso. Dopotutto, se l'Esserci era gettato nel mondo, secondo la celebre dicitura heideggeriana, Deleuze gettò se stesso dalla finestra. Non so quanto se ne possa ricavare dal confronto tra i due pensatori. Coglie perfettamente Giorgio Agamben, nel testo "L'esausto": Heidegger fu una sua bestia nera. ("L'esausto" esce ora per Nottetempo con una bella introduzione di Ginevra Bompiani e un testo appunto di Agamben).

Capitava che Deleuze scrivesse commenti a testi letterari: Kafka, Melville, Proust, Carroll. Ne L'esausto riversa l'attenzione su Beckett. Colpisce questa frase enigmatica: «I personaggi di Beckett giocano con il possibile senza attuarlo, hanno troppo da fare con un possibile sempre più ristretto nel suo genere, per preoccuparsi di quello che potrà accadere». Verrebbe da commentare che i personaggi di Beckett sono talmente impegnati sul nulla da restarne stremati. Si muovono entro geometrie rigorose e astruse (quelle di Riemann) con una feroce e bizzarra dissoluzione del loro repertorio umano.

Deleuze distingue tra esser stanco e esausto. La stanchezza può ancora trovare nuove energie. Essa non rinuncia ai bisogni, alle preferenze, agli scopi, ai significati, come invece fa l'esausto. Quest'ultimo mette fine al possibile. Si potrebbe in qualche modo riassumere così: la stanchezza è una categoria del tempo sociale che si rigenera. L'esausto è una categoria del tempo filosofico che muore.

Ma a quale filosofia si richiama Deleuze? Non c'è nulla, o quasi, nel suo pensiero che riconduca all'esperienza ordinaria (di qui la concettualità spesso paradossale ed enigmatica). Il compito dello storico della filosofia — ammesso che sia ancora una figura spendibile — non è di inanellare, come una narrazione ininterrotta, un'epoca dietro l'altra. «Lo storico — osserva opportunamente Rocco Ronchi (in Gilles Deleuze , Feltrinelli) — non racconta la filosofia, ma ne riattiva ogni volta la dimensione problematica e agonistica».

Si è sostenuto che il pensiero di Deleuze sia stato la più adeguata e interessante forma filosofica riconducibile al Sessantotto. Un testo come L'anti- Edipo — pubblicato nel 1972, in collaborazione con Felix Guattari — è stato, pur dentro i sofisticati intrecci psicoanalitici, il tentativo di cogliere la grandiosa empiria di quella stagione. L'impossibile che si rendeva possibile. Contro l'idea che l'assoluto si potesse porre solo all'esterno del reale, Deleuze immaginò un'assolutizzazione dell'esperienza. Ai suoi occhi, la metafisica non aveva mai creduto nella realtà. La divorò senza mai digerirla.

Deleuze, da empirista estremo, vide dunque nel reale (nel suo caos e disordine, nella sua vocazione anti-istituzionale) una via di uscita alle difficoltà della vecchia filosofia. Ma il reale non è una somma di fatti interpretabili che di volta in volta si isolano, o si mettono in relazione. Come ad esempio crede il pensiero scientifico. Il reale è un insieme di processi, di atti che compongono il tessuto stesso dell'esperienza. Noi, dice Deleuze, siamo dentro questa esperienza, ne prendiamo parte non già come soggetto che la costruisce, la orienta, la guida e infine ne ricava una sintesi conoscitiva. Esperienza è semplicemente divenire delle cose e di coloro che vi sono immersi. È un flusso (pensò lo stato liquido molto prima di Bauman) Il divenire ci precede e resiste a ogni tentativo di ingabbiamento o di codifica. È l'idea che Deleuze ebbe dell'immanenza.

Si potrà obiettare che in questa maniera Deleuze rinunciò alla condizione con cui l'Occidente ha guardato alla conoscenza. Ossia alla costruzione di un sapere che si serve dell'esperienza, ma in qualche modo la trascende. Ma se non potrò conoscere per quella via praticata da larga parte della filosofia, come posso dispormi di fronte al grande tema della verità? Chi sarò mai io rispetto al mondo? Deleuze avrebbe potuto replicare che non c'è una grande verità (non sarebbe il primo a dichiararlo). Ciò che questo filosofo complicato, difficile, sovente astruso ci dice è che la conoscenza non è il risultato di un superamento tra due opposte realtà. Non si nega la realtà per poi riassumerla in un contesto più nobile. La filosofia non procede per opposizione ma per variazione.

Mi pare anche qui utile il richiamo che Ronchi fa a Glenn Gould e alle Variazioni Goldberg. Secondo il grande interprete di Bach le variazioni seguono un movimento radiale e non lineare, percorrono una circonferenza e non una retta. Non c'è una successione secondo un prima e un dopo, del tipo: accade un fatto e lo racconto. Il filosofo non è lo storico che parla dell'accaduto. Il filosofo è colui che è nell'accadere. Lo storico segue la linearità dell'accaduto ( causa ed effetto); il filosofo, per Deleuze, si colloca nell'evento. Non ha un inizio né una fine. Sta nel mezzo di qualcosa che è già stato detto e che si può solo ripetere.

Cos'è che si può ripetere? Conosciamo l'espressione: è stato detto tutto. Ma come si fa a essere originali su qualcosa che è già stato detto? L'interprete della vita, secondo Deleuze, non deve pensare secondo scansioni temporali (per fasi successive) ma come se si muovesse su dei piani. Il concetto di "piano" riveste un'importanza cruciale. Il piano non è una linea, non è una successione di fatti, ma una contemporaneità, un campo di forze, un'immanenza che coinvolge le più diverse esperienze vitali: dalla filosofia alla letteratura, dal cinema al teatro.

Deleuze ha letto il pensiero filosofico ad altezze spesso vertiginose. Ne ha imitato, più che interpretato, la voce. Platone, Spinoza, Leibnitz, Nietzsche, Bergson e Marx (al quale da ultimo stava lavorando) sono stati alcuni snodi del suo cammino.

Come pure appaiono fondamentali i confronti con Hyppolite, Blanchot, Foucault, Klossowski, Lacan. E sul piano teatrale quello con Artaud e poi Carmelo Bene. Se c'è un filo che tiene insieme questo orizzonte di pensiero è la rivendicazione di un punto di vista "minore". Si potrebbe dire che una tale scelta operi in funzione della marginalizzazione di un pensiero che non offre mai un'ultima parola, bensì sempre la penultima. Per Deleuze tutte le lingue e i pensieri "maggiori"— i grandi sistemi filosofici per esempio — hanno cercato un approdo definitivo.

Una parola ultima. Ma in realtà non c'è lingua o pensiero che non sia straniero (non a caso privilegiò il significante sul significato). È come se ogni volta il filosofo — che non è più la coscienza del mondo — debba nuovamente imparare a parlare una lingua che non conosce più. Balbetta. Borbotta. Bofonchia. Come i personaggi di Beckett. Creature "minori". Sorprese a vivere sui bordi della Storia, quando la Storia è già tramontata.

La repubblica – 3 novembre 2015


Gilles Deleuze
L'esausto
Nottetempo, 2015
euro 7

I NUDI DI EGON SCHIELE

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Il nudo radicale di Egon Schiele


di Stefano Jossa

Due donne si abbracciano, il volto dell’una nascosto da quello dell’altra, i loro muscoli tutti plasticamente in risalto, dalla spalla destra della donna a sinistra fino alla natica sinistra della donna a destra: una composizione perfetta, a suo modo classica, eppure smembrabile in tutti gli elementi che la costituiscono (il ventre in rilievo, la scapola alata, la fusione dei corpi nel contatto) e assolutamente irrealistica nelle sue scelte coloristiche (col rosso fuoco di labbra e capezzoli, macchie di verde per le venature e grigio per i muscoli). E’ uno dei nudi di Egon Schiele in mostra alla Courtauld Gallery di Londra (Egon Schiele: The Radical Nude, fino al 18 gennaio 2015; £8.50; catalogo a cura di Barnaby Wright, Peter Vergo e Gemma Blackshaw, 144 pp., £25.00): il più composto forse, certamente uno dei pochi a contenere più di una figura (il massimo è due). Pur essendo quasi classico nella compostezza della posa e nell’equilibrio delle forme, il disegno è un capolavoro di tensione, allusività e inquietudine. L’abbraccio è affettuoso, consolatorio o amoroso? I corpi s’incontrano o si specchiano? La rappresentazione è realistica o allegorica? Una sottile direzione mistica li pervade, come se il corpo, tutto, nel suo insieme e nei suoi particolari, volesse dire di più, la sua storia e la sua sorte, le sue emozioni e i suoi desideri, le sue paure e le sue fragilità. E’ il centro di tutto, infatti, il corpo, che porta sempre con sé la sua gloria e la sua miseria, l’esaltazione del sesso e la sua abiezione, il vitalismo delle giunture e l’inesorabile destino di morte.
Somasema, diceva Platone nel Cratilo, il corpo è segno dell’anima, sua manifestazione, ma anche sua tomba e suo custode, soffocamento e preservazione assieme: per Schiele è proprio così e il corpo contiene il mistero della vita e della morte. I suoi nudi, perciò, anche quando morbosi, inquietanti, provocatori, sono sempre mistici: lì è l’uomo, ma lì è anche dio, la presa di coscienza che lì è tutto e non c’è altro al di fuori. Non compare mai, infatti, alcuno sfondo; le figure sono spesso senza testa o col volto girato o parzialmente mutile; l’eventuale elemento esterno che ne determina la posizione (il piano su cui sono stesi, la sedia su cui sono seduti, la colonna cui sono appoggiati) sparisce; i limiti del foglio escludono e includono, come se il taglio fosse sempre necessario. Fu davvero sciocco considerare pornografici questi disegni, anche se quella era l’epoca della circolazione delle prime foto porno e della nascita della psicoanalisi: non solo perché in essi c’è più la paura che la gioia del sesso, ma soprattutto perché sono una continua esplorazione dei confini fra realtà e finzione, da una lato, e fra desiderio e possessione, dall’altro lato, con lo sguardo rivolto sempre al superamento delle opposizioni. Però è probabilmente proprio qui la ragione per cui Schiele è quasi assente dai musei britannici e questa è la prima mostra organica a lui dedicata nel Regno Unito. Era stato del resto il carcere – dove Schiele fu rinchiuso nel 1912 a seguito dell’accusa di aver traviato una minorenne, a costituire la premessa biografica della maggior parte dei suoi nudi, prodotti proprio dopo quell’esperienza, durante la quale il pittore si mise a dipingere con la saliva sulle macchie d’intonaco “per non impazzire del tutto”: “poi osservavo, scriveva nel diario dal carcere, il loro lento asciugarsi fino a impallidire e sparire nella profondità del muro, come fatti sparire dall’invisibile potenza di una mano incantata”.
In questione è sempre il rapporto tra finito e infinito, il primo destinato inesorabilmente a soccombere, a corrompersi e perdersi, ma col secondo costantemente in agguato, strumento di salvezza di ciò che è stato creato, redimendolo dalla sconfitta che incombe: s’impone così una rinegoziazione dei legami e i confini tra l’alto e il basso, il divino e l’umano, si spostano. Lo spiegava qualche anno fa Agamben con le sue riflessioni sulla nudità: il nudo è veste di ciò che è dentro o sotto il corpo, fino a imporre il passaggio, assolutamente necessario, dalla natura alla grazia. Veicolo di verità, insomma, perché il corpo è glorioso, portatore di gloria, di stupore e di conoscenza: non magnificazione del corpo nella sua agilità e bellezza, ma apertura di potenzialità infinite e ricchezza significante. Anziché generato, il corpo genera: tensione, movimento, desiderio e senso. Di questi disegni si potrà dire ciò che del loro autore disse il critico e collezionista Heinrich Benesch: a rischio di serietà, ma non la serietà malinconica e lugubre, bensì quella di chi è dominato da una missione spirituale.
La mostra, piccola (solo due stanze e solo disegni) ma straordinaria, costituisce un vero e proprio ingresso nel laboratorio di un artista che fin dall’inizio rifiuta le pose classiche (anche quando studiava all’Accademia: i suoi torsi erano di spalle e accovacciati), esplora le nervature, i muscoli e le ossa con la pennellata e il colore, instilla un senso di forza e fragilità, scatto e perdizione, bisogno di vita e paura di non afferrarla, la vita, in tutti i suoi ritratti. “Sono convinto che i più grandi pittori abbiano rappresentato figure”, diceva Schiele nel 1911, ma lui voleva dipingere “la luce che emana da tutti i corpi”; perché “le opere d’arte erotiche sono anche sacre”. Il classico binomio di eros e thanatos si arricchisce di ieron, un elemento di sacralità, perché Schiele ha la capacità di rendere metafisiche le sue pose, come se nel gesto fosse racchiuso, una volta per sempre, il senso, assoluto, impenetrabile, indicibile, eppure lì, di fronte a noi, in presa diretta e a portata di mano. Hanno fame, quei corpi, perché sono emaciati, snodati o addirittura prosciugati, ma soprattutto affamano, perché costringono a interrogarsi sui meccanismi del proprio desiderio erotico.
George Bataille era ancora a venire, con la sua idea che la nudità sia “uno stato di comunicazione” alla ricerca di un incontro possibile al di là del ripiegamento del soggetto su di sé, ma l’ipotesi che il nudo contenga insieme desiderio e crudeltà, attrazione fatale e ferita mortale, era già tutta in potenza nei nudi di Schiele: lo scandalo dell’oscenità, insisteva Bataille, era dato dall’apertura dei corpi alla continuità, disturbando lo stato della “possessione di sé”, dell’“individualità durevole e affermata”, a favore, appunto, di un’occasione d’incontro, contatto e scambio. E negli stessi anni e nella stessa Vienna in cui Schiele disegnava i suoi nudi Freud e Schnitzler mettevano in guardia dal rovescio bifronte, dall’attacco che i processi primari, l’amore e la morte, ci possono portare attraverso la metamorfosi dell’uno nell’altro: il nudo non è mai semplice e diretto, perché nella sua esposizione esibisce la propria vulnerabilità, ma esercita anche un indiscusso potere. Figura di confine, ambigua e contraddittoria, che impone sempre il passaggio dal nudo alla nudità, dalla fisicità che esplode alla forma che costringe, dal desiderio suscitato alla violenza subita: passaggio impercettibile, e nondimeno straziante, spiegava Georges Didi-Huberman qualche anno fa nel saggio Aprire Venere, in cui l’essere toccati e conturbati dai tratti dei corpi rappresentati, subire l’attrazione e la seduzione delle immagini, diviene essere colpiti e feriti, ovvero essere aperti dal negativo che appartiene a quelle stesse immagini. Allora nudità viene a coincidere con desiderio, ma anche e soprattutto con crudeltà. Didi-Huberman dimostrava come fosse proprio la perfezione classica (col suo campione nella Venere del Botticelli) a contenere l’ineludibile carica di violenza che ogni perfezione porta con sé nella forma della riemersione del represso. Il corpo apre una ferita: su se stesso, perché si esibisce, si espone, si dà, ma anche sullo spettatore, che non può più ignorarlo, né sfuggirgli. E’ violabile, ma insieme violenta. Si aprono, del resto, i nudi di Schiele, non solo nell’ovvia e persino banale profferta vaginale, ma soprattutto dove la ferita taglia e scopre, come quando le vertebre si ritagliano delle nicchie su una schiena distesa e nodosa.
Sono solo otto anni quelli che la mostra esplora, dal 1910, quando Schiele, su pressione di Klimt, lasciò l’Accademia, al 1918, quando morì, travolto dalla Grande Influenza, all’età di 28 anni, ma la profondità di un’esperienza estetica si dispiega tutta in queste due stanze, dove il corpo riconquista la sua anima, straordinaria esperienza di contatto con ciò che non si vede ma forse, molto probabilmente, fiduciosamente, c’è.

[Questo articolo è uscito su «Alias – il manifesto»].

STORIA DI ERNEST HEMINGWAY

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In mostra a New York fotografie e appunti di Ernest Hemingway. Ne emerge l'immagine di uno scrittore puntiglioso, attentissimo ad ogni dettaglio e pieno di dubbi sulla qualità della sua scrittura.
Emanuela Audisio
Officina Hemingway
Ernest non buttava via niente: vecchi biglietti di corride, documenti d’identità scaduti, moduli del telegrafo. Era un accumulatore seriale. Come se quelle cose fossero pezzi sempre validi della sua esistenza. E soprattutto scriveva ovunque, su ogni foglio che gli capitava, della Croce Rossa, di un albergo, di una nave. Spesso a matita. «Perché così hai un terzo di possibilità di miglioramento».
La sua urgenza era quella: correggeva, cancellava, riscriveva. Dava voti alla sua prosa: accettabile, abbastanza buona, perfettibile. Decideva esattamente la scaletta dei racconti: quale prima e quale dopo. E sceglieva anche il titolo, sempre con molti dubbi, visto che per arrivare a Addio alle Armi, che non poté essere pubblicato in Italia fino al 1948 perché ritenuto lesivo dell’onore delle forze armate dal regime fascista, fece quarantacinque tentativi.
E per decidere il finale, ne scartò altri quarantasette, prima di fermarsi su quello suggerito con una lettera di nove pagine da Francis Scott Fitzgerald. Il titolo In Our Time lo prese da una preghiera: « Give us peace in our time ».


Ernest sapeva scrivere in fretta: a ventisei anni a Madrid finì in appena nove settimane Il sole sorgerà ancora, e altrettanto in fretta rivedeva: senza innamorarsi troppo dei vocaboli. Tagliò quarantamila parole, zac, via, less is more, non dovevano spiegarlo a lui e infatti scese da centotrentamila a novantamila. Eliminava, scartava, senza pietà. Sosteneva che dai telegrammi si impara, soprattutto dai dispacci che costano un dollaro e un quarto a parola.
Le parole hanno un prezzo, se lo impari, è una buona economia. Insisteva: bisogna essere interessanti, altrimenti è giusto che vi licenzino. Ernest Hemingway sulle parole non faceva sconti, tanto meno a se stesso. Era difficile da accontentare. Se buttava giù qualcosa (di scritto), ci ripensava più di Amleto, e si domandava: «Non è che Il vecchio e il mare sarà scambiato per un libro di pesca?».
Se credete che il segreto per vincere il Nobel della letteratura sia quello di disperdere belle parole al vento, rassegnatevi perché Hemingway dimostra che scrivere in realtà è come stare in un’officina: con macchie di grasso (sbagli), con brutti rumori del motore (ritmo), con cambi che grattano (musicalità). Bisogna fare i meccanici per far correre il motore di un romanzo.
Non c’è parola che abbia un diritto divino di esistere, va testata e ritestata, avvitata, bullonata, deve convincervi, non illudervi. E mentre va avanti la trama, va avanti anche l’esistenza, c’è da fare la benzina, la spesa, da calcolare i soldi, giorno per giorno, lo si può fare sulla copertina del taccuino, tutto si mischia, sulle pagine dove sta prendendo corpo il romanzo cadono non solo le fantasie, ma anche i dolori, le rivalità, i complessi.

    Hemingway e Fitzgerald
Tenera è la notte, ma non le invidie. Hemingway quando scrive, si confronta sempre. Sempre sullo stesso bloc-notes. Le annotazioni non riguardano solo i personaggi, ma anche gli amici, con cui però sotto sotto c’era attrito: con Fitzgerald si frequentarono, si consigliarono, si ammirarono.
Scott divenne il suo benefattore, ma Hemingway non rivelò mai troppo quanto doveva alle sforbiciate dell’altro, soprattutto in Fiesta. A Ernest non piaceva essere in debito, si sbarazzò presto della riconoscenza, la rivalità fece il resto. Sul bordo della pagina infatti scrive: «Bacia il mio sedere, Francis Scott». E sì, la quotidianità si mischia all’arte, a ricordare che la vita, come il whiskey and soda, presenta i suoi costi.
Dietro ogni parola c’è fatica. Il genio letterario sgorga puro, ma poi va sempre setacciato e rilavato. Non sono scarabocchi quelli di Hemingway alla Morgan, ma piuttosto graffiti di uno scrittore prepotente, che sa dove andare, e che ferma ogni pensiero. Per cui non sgridate vostro figlio per la sua calligrafia trasversale, se prende appunti sui bordi, sulla copertina dei quaderni, perdonatevi anche voi, se a volte pasticciate le urgenze del cuore sopra il primo pezzo di carta che trovate.
E anzi se siete a New York andate a vedere la mostra Ernest Hemingway tra due guerre alla Morgan Library & Museum (fino al 31 gennaio). La prima importante sul grande scrittore americano, ottenuta con i documenti della Biblioteca John F. Kennedy di Boston, che detiene molto materiale, visto che dopo la morte di Hemingway, nel ’61, il presidente Kennedy, che era un suo fan, aiutò la vedova, Mary, a far ritornare in patria da Cuba molte delle sue proprietà, bauli e altro.

Ci sono fotografie, quella famosa di lui soldato con le grucce, all’ospedale di Milano, dove festeggia i diciannove anni e dove viene curato per le 227 schegge, ricordo dell’attacco del mortaio austriaco, che gli varranno la Croce al merito di guerra. Ci sono le lettere, anche quella dolorosa, della vera infermiera Agnes von Kurowsky, che inizia con « Dear old kid », anche se lei aveva sette anni più di lui, e gli dice, rompendo il fidanzamento: «Sei solo un ragazzo». Ci sono le pagine dei romanzi, le prove d’autore, ma c’è soprattutto Hemingway prima che diventasse Hemingway.
Lo studente, che gli altri compagni giudicano «egoista, bravo nello sport, ma non eccelso», che scrive per il giornale della scuola The Tabula, sul numero 22, del febbraio 1916, il racconto The Judgment of Manitou, storia di due cacciatori che finisce in tragedia con un’uccisione e un suicidio, temi che non lo abbandoneranno mai. Anche perché nella sua famiglia (lui compreso) saranno in sette a togliersi la vita.
E, sì, nelle lettere che scrive agli amici c’è il rimpianto per una natura che cambia, e non è più selvaggia come piace a lui, né in Idaho né alla Bahamas. C’è tanta Italia, dove ha un’infezione agli occhi, che a Padova gli viene curata con la penicillina, ma che come scrive a Peter Viertel, non gli impedisce la caccia; anatre, quaglie e starne. C’è l’assenza (straordinaria) di neve a Cortina, ma purtroppo non nevica nemmeno a Sun Valley, quasi che il meteo (invernale) servisse a far rabbrividire le parole, a estinguere il loro bisogno di una fisicità all’aria aperta.

    Gertrude Stein a Parigi
E c’è la Parigi della generazione perduta. Termine che Gertrude Stein prese in prestito dal meccanico del suo garage che si lamentava di come ci fosse poco da fidarsi dei ragazzi contemporanei. Hemingway non buttò mai via la lettera di presentazione che Sherwood Anderson scrisse a mano per introdurre Ernest. A Hemingway casa Stein piaceva perché aveva una bella camera calda, con caminetto, e c’erano sempre buone cose da mangiare.
All’inizio quando lui le fa leggere il suo materiale, Gertrude insiste: «Ricominci e si riconcentri». E nel ’22 giudica uno dei suoi primi racconti, Up in Michigan, impubblicabile, « inaccrochable », infatti non lo sarà fino al ’38. Troppo brutale nel suo realismo. Solo Maurice Darantiere, che aveva stampato l’Ulisse di Joyce, ne fece uscire in Francia trecento copie private, quattro ne diede a Hemingway, che riuscì a mandarne una al critico Edmund Wilson (a cui piacque).
Ernest doveva spiegare la sua letteratura anche in famiglia, dove certi racconti non piacevano e allora lui scrive a papà Clarence che si deve fare vedere anche la parte brutta (« bad and ugly ») della vita perché se tutto è sempre bello non ci credi. La tensione alla sincerità è una cosa che le parole non dovrebbero mai tradire.
A Parigi c’è la stima per Ezra Pound che lo ospita, senza chiedergli nulla, e dopo la guerra Hemingway si batterà non solo per far uscire il poeta americano dal manicomio criminale, ma lo sosterrà inviandogli assegni da mille dollari a salire, che Pound conservò, facendoli cristallizzare nel vetro e usandoli come fermacarte. Non li incasserà mai e dietro ognuno scriverà: da riscuotere in cielo.

    Hemingway a Pamplona nel 1925
Hem anticipò anche le classifiche (o top list come si chiamano ora) dei dieci migliori libri da leggere, anzi nel ’34 al giovane Arnold Samuelson che in piena Grande depressione era andato a Key West a conoscerlo, ne consigliò sedici, tra i quali Madame Bovary, Anna Karenina, I fratelli Karamazov. 
Durante la guerra gli scrive a macchina anche un soldato, che in un ospedale a Norimberga sta curando il suo esaurimento nervoso dopo 299 giorni di fronte. «Mi piacerebbe che mi mandassi due righe, se ci riesci. Lontano dalla scena, è molto più facile pensare chiaramente.
Con il tuo lavoro, voglio dire. La prossima volta che sarai a New York, spero di essere in giro e riuscire a vederti, se avrai tempo. I discorsi che abbiamo fatto qui sono stati gli unici momenti di speranza in tutta la faccenda. Sinceramente, Jerry Salinger». Già, il giovane Holden, ammiratore sfegatato, con il dubbio di dove vanno le anatre d’inverno a Central Park. Hemingway non se lo sarebbe mai chiesto, ma avrebbe accumulato cartucce.

La Repubblica – 27 dicembre 2015

L' IMPERO VIRTUALE SECONDO RENATO CURCIO

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«L’impero virtuale» di Renato Curcio per Sensibili alle foglie, Una lucida analisi dei meccanismi della rete. 
Alessandro Barile

Un decalogo in quattro punti per gli apprendisti stregoni dell’immaginario
«La materia più preziosa al mondo non è il petrolio, né l’oro e neppure l’energia. No, più prezioso di ogni altra cosa, come aveva già intuito il Papato ai tempi delle prime Crociate, è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di questa appropriazione». Renato Curcio, attraverso questa breve ricerca sociologica (L’impero virtuale, Sensibili alle foglie, 15 euro), punta a demolire punto per punto alcuni dei miti e stereotipi legati alla Rete, alla sua presunta orizzontalità, trasparenza e «sociabilità», che da diversi anni operano una vera e propria colonizzazione dell’immaginario volta al controllo sociale.
La novità epocale di questa colonizzazione è che se storicamente si presenta in opposizione alle popolazioni colonizzate, conquistate ma non pacificate, oggi avviene con l’esplicito consenso delle stesse popolazioni, protagoniste di un processo di sottomissione volontaria a forme di controllo sociale invasive e restrittive, che stanno progressivamente riducendo il concetto di libertà, anche intesa in senso liberale.
La Rete è tutto fuorché un territorio neutro e orizzontale dove a primeggiare sono le competenze e lo scambio sociale. Al contrario, è un mercato dominato da poche grandi aziende private che ne determinano gli stili, le potenzialità, i margini di libertà, i profitti e i limiti: in altre parole, questa aziende definiscono quell’immaginario successivamente moltiplicato dall’adesione volontaria della popolazione subalterna.
Facebook, Twitter, Google e Amazon. Nessun altro mercato vede una concentrazione così elevata di potere, profitto e capacità di orientamento delle scelte individuali e collettive della popolazione. E questo perché tali aziende hanno attivato quattro dispositivi di attrazione: il mito della trasparenza; la realtà aumentata; l’espansione della sociabilità; l’attrazione della gratuità. Quattro miti, appunto, non corrispondenti alla realtà dei fatti ma veicolati ideologicamente in ogni contesto in cui prende forma il nostro immaginario sociale. Quattro dispositivi capaci di attivare una forma di controllo sociale preventivo in grado di ribaltare il modello panottico di Jeremy Bentham: se questi aveva progettato il modello in modo che i controllati, sapendo di essere sorvegliati, si auto-censurassero, il «panottico digitale» è fatto in modo che i controllati ignorino in che misura sono controllati, in modo che si espongano inconsapevolmente a eventuali punizioni. All’autocensura si è andata sostituendo l’illusione di libertà.
Ma non è solo il controllo sociale il risultato finale del processo di colonizzazione dell’immaginario. Ben più concretamente, Internet e l’ideologia della Rete hanno costruito nel tempo la nuova figura del lavoratore-consumatore, soggetto che opera volontariamente per un’azienda produttiva senza percepire alcun salario, che produce con il suo lavoro valore, ma lo fa gratuitamente, volontariamente, e nella maggior parte dei casi senza neppure esserne consapevole.
Una nuova forma di lavoro gratuito prodotto dalla sudditanza culturale a forme di colonizzazione per lo più inconsapevoli, e che infatti vengono riprodotte e reiterate anche da chi politicamente vorrebbe combatterle. La soluzione non è però quella di rifiutare il piano dell’evoluzione tecnologica. Si tratta, leggendo le conclusioni a cui giunge Curcio, di operare una decolonizzazione dell’immaginario attraverso una diversa idea di società, a cui inevitabilmente corrisponderebbe una diversa idea di Rete e di sfruttamento delle risorse tecnologiche. Un processo sia individuale che politico, che passa dallo smascheramento e della demolizione costante dei falsi miti di cui si compone il racconto mediatizzato della rete e delle sue presunte virtù progressive.

Il manifesto – 30 dicembre 2015

LA VOGLIA DI VIVERE DI F. DOSTOEVSKIJ

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" Si ha voglia di vivere e io vivo anche a dispetto della logica
Posso magari non credere nell’ordine delle cose, ma le foglioline vischiose che spuntano a primavera mi sono care, mi è caro il cielo azzurro e mi sono care certe persone, che a volte – lo crederesti? – non si sa neppure perché si amino, e mi sono care certe conquiste umane, nelle quali, forse, ho smesso di credere da un pezzo , ma che si continuano a venerare col cuore , come i vecchi ricordi...".

Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamàzov.
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