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ILLUMINISMO E RIVOLUZIONE FRANCESE

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Nei giorni scorsi è stato recensito un ampio e documentato studio dello storico Jonathan Israelsecondo il quale la grande rivoluzione del 1789 avrebbe avuto origine, più che da ragioni economiche e sociali, dalle idee illuministiche più radicali diffuse tramite giornali e riviste. Per la verità a me non sembra questa una grande novità, dal momento che una tesi simile è stata sostenuta, fin dai primi anni del 900, sia da Salvemini che dallo stesso giovane Gramsci.  fv

La fiaccola dei philosophes
Francesco Benigno

Dopo aver dedicato molti anni alla trattazione dell’Illuminismo, Jonathan Israel, notissimo professore di storia moderna a Princeton, irrompe ora con un libro, La Rivoluzione franceseUna storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre (Einaudi, traduzione di Palma di Nunno e Marco Nanni, pp. 960, euro 42,00) che promette di épater les historiens. Malgrado un paio di secoli di investigazioni, infatti, gli storici non avrebbero capito nulla della Rivoluzione francese, o almeno, della sua natura profonda. Le origini del più grandioso terremoto politico dell’età moderna sono state variamente attribuite: vuoi a una crescita economica dirompente, capace di travolgere un sistema politico fatiscente, vuoi, all’opposto, a una crisi congiunturale, un micidiale cocktail di finanza statale dissestata e di carestia; allo stesso modo, il tormentato ma resiliente percorso della Rivoluzione è stato spiegato facendo riferimento al radicalismo ideologico giacobino, oppure, alternativamente, alle «circostanze», quel trascinamento inesorabile indotto dalla «forza delle cose».
Dopo due secoli e passa d’inesausta eziologia, quasi una ricerca del Sacro Graal, si è ora diffusa – scrive Israel – una certa stanchezza e la tendenza a propendere per una molteplicità di concause, materiali, culturali, sociali; mentre è venuto il momento di affermare con nettezza che la rivoluzione ha una sola vera big cause, e cioè il propagarsi, in una sezione della classe dirigente francese, delle idee dell’Illuminismo radicale. Torna tra queste pagine il sistema di pensiero esposto dallo storico inglese in un precedente e assai discusso volume, Una rivoluzione della mente(Einaudi, 2011). Negli ultimi venti anni Israel, già autore di importanti studi sull’ebraismo europeo – Gli ebrei d’Europa nell’età moderna (Il Mulino 1991) e sull’Olanda – The Dutch Republic (Clarendon Press 1995), si è dedicato a tratteggiare una tradizione di pensiero democratico e critico che fa risalire a Baruch Spinoza. In una serie di poderosi saggi è venuto delineando, così, l’evoluzione secolare delle idee dell’Illuminismo radicale come fondatrici della tolleranza, del laicismo e della democrazia. Proprio queste idee diventano ora la causa causans della Rivoluzione, che dunque non sarebbe tanto – come era parso a molti contemporanei prima ancora che a molti storici – un inatteso e sconvolgente evento, capace di evocare la tempestosa forza della natura (il fortunale, il cataclisma) e di modificare il mondo conosciuto dell’Ancien régime al punto da renderlo irriconoscibile, quanto la mise en scène di un copione già scritto, o almeno di un canovaccio per una recita a soggetto. Le idee, insomma, precedono e rischiarano la strada agli avvenimenti, che, come la salmeria, seguono.
Da Daniel Mornet in poi la storiografia ha lungamente dibattuto il tema delle origini intellettuali della rivoluzione francese, ovvero, per dirla con Roger Chartier, quello delle sue radici culturali. E naturalmente il nesso Illuminismo-rivoluzione, ovvero la questione del legame fra concezioni filosofiche e morali e sovversione politica, è stato al centro di accesi dibattiti. C’è stato anzi chi – tra loro Robert Darnton – ha provato a legare direttamente la diffusione della stampa clandestina, satirica e iconoclasta, alla crisi dell’autorità politica. Mai nessuno, però (se non, con tutt’altri intenti, la pubblicistica reazionaria), aveva collegato tanto strettamente l’affermarsi del ruolo dei philosophes nell’imporre la centralità della ragione illuministica e la disgregazione politica della monarchia dei Borbone.
Ma – e sta qui la principale innovazione proposta da Israel – queste idee, non sono, come tante volte si è affermato genericamente, quelle dell’Illuminismo: sono invece i ragionamenti di una sua specifica sezione, quella radicale, corrispondente ai nomi di Diderot, del barone D’Holbach e di Helvétius: idee perciò democratico-repubblicane, materialiste e atee, le sole capaci di ispirare e attrezzare la leadership rivoluzionaria sia politicamente, sia sul piano filosofico e logico.
Per rendere credibile la sua tesi, Israel deve dimostrare come la pattuglia di intellettuali alla guida della rivoluzione sia stata, sin dal 1788, di orientamento democratico-radicale e repubblicano: ipotesi invero azzardata e, a dirla tutta, malgrado l’inesausta erudizione sfoggiata, priva di sostegni documentari.
Piuttosto che immaginare la rivoluzione come un calderone di esperienze capaci di trasformare gli individui, inducendoli a divenire rivoluzionari, Israel ha bisogno di sostenere che alcuni fra loro, i leader della rivoluzione, lo fossero in qualche modo sin dall’inizio, e che costoro coincidano esattamente con chi si era dotato di «buone» letture. Israel sostiene infatti che la rivoluzione «progressista», quella repubblicana, dell’emancipazione e dei diritti umani, discende direttamente dalle idee dell’Illuminismo radicale e si invera nel filone girondino prima e in quello degli idéologues, poi. Le idee dell’Illuminismo moderato, da Voltaire a Montesquieu, nutriranno invece la corrente «inglese» ovvero monarchico-costituzionale e liberale, mentre da quelle di Mably e di Rousseau originerà il populismo autoritario dei giacobini e in primo luogo di Robespierre.
C’è dunque una corrispondenza precisa e anzi meccanica tra riferimenti intellettuali e scelte politiche, una coincidenza avanzata con l’intenzione esplicita di privilegiare il gruppo degli amici di Brissot, qualificati come gli unici veri democratici perché capaci di attingere al filone ideale «giusto»; mentre a destra come a sinistra scelte politiche errate dipenderebbero da letture filosofiche improprie. Questo eccessivo schematismo, man mano che la trattazione procede, non si attenua, e anzi tende ad accentuarsi.
Liquidata la stagione monarchico-costituzionale come passatista, il panorama che emerge all’indomani del 10 agosto 1792, la journée che segna l’avvento della Repubblica, è quello di un drammatico bivio. Da una parte c’è l’unica rivoluzione che possiamo ancora rivendicare – insinua Israel ammiccando al lettore contemporaneo – quella dei veri philosophes, e con loro dei diritti umani, delle libertà civili, dell’emancipazione degli ebrei, della rivendicazione della cittadinanza femminile e dell’abolizione della schiavitù. Mentre dall’altra c’è la rivoluzione sanguinaria inaugurata coi massacri del successivo settembre e sfociata poi nel Terrore. La prima è l’opera esclusiva di una pattuglia di filosofi e politici idealisti, chiamati brissotins o girondini, sostenitori del cosmopolitismo e dell’uso della ragione in politica, laddove la seconda è il prodotto di una deriva sciovinista, dispotica e demagogica di cui sono responsabili i giacobini, adoratori della volonté générale.
Lo scenario storico che ne discende, malgrado l’enorme mole di fonti mobilitate in quasi mille pagine di testo, suona artificiale, senza sfumature, una sorta di rassicurante film western d’antan in cui tutto il bene sta da una parte e tutto il male dall’altra.
Israel non sembra preoccuparsi troppo dei rischi di anacronismo interni a una simile contrapposizione e anzi arriva al punto di affermare che il populismo autoritario di Robespierre prefigurerebbe «il moderno fascismo». Ora, mettere sulle spalle dell’avvocato di Arras, oltre alle sue personali, indubitabili colpe, anche il gravoso fardello dei mali di ciò che sarebbe divenuto «il socialismo reale», sembra già – all’altezza di questo nostro 2016 – inappropriato; ma aggiungerci quest’ultimo gravoso peso è davvero troppo.
C’è poi un’altra insidia che Israel sceglie intemeratamente di non considerare, ed è la dichiarata approvazione dell’aggressivo imperialismo francese, prima repubblicano e poi napoleonico; l’idea cioè che esso vada non solo capito ma creduto nella sua pretesa di essere indirizzato a donare la fiaccola della ragione a paesi sprofondati nelle tenebre dell’ignoranza e della superstizione religiosa. Israel difende insomma, con convinzione, la diffusione per via militare delle idee rivoluzionarie, facendone una sorta di precorritrice dell’idea attuale dell’esportabilità con la forza della democrazia, e della cosiddetta responsibility to protect. Dunque, non solo approva acriticamente la scelta brissottina di lanciare il paese in una guerra sanguinosa e interminabile – portatrice di infiniti lutti e, in ultima analisi, della trasformazione della prima repubblica in una dittatura militare e poi in una monarchia imperiale – ma accredita la spedizione del generale Bonaparte in Egitto come finalizzata a convertire gli egiziani e le popolazioni arabe confinanti agli ideali dell’Illuminismo. La propaganda bonapartista diviene così canone interpretativo.
Ora, come si sa, il risveglio nazionalistico che infiammò l’Europa nel primo ventennio del XIX secolo non discese soltanto dal nuovo concetto di popolo-nazione ma anche dall’inaudita invasione delle armate napoleoniche in molti paesi del vecchio continente, dove (in Germania, in Tirolo e soprattutto in Spagna) avrebbe dato luogo all’apparizione in grande stile di ciò che i teorici militari settecenteschi chiamavamo «piccola guerra» e che da allora si sarebbe chiamata guerriglia. Meno noto è il fatto che la presenza di truppe straniere produsse effetti simili anche in Egitto. Israel, sulla scia di Napoleone, non nasconde la sua delusione per la scarsa penetrazione in Medio Oriente degli ideali democratico-radicali e per la contrarietà di quelle popolazioni a farsi «illuminare»; e sorvola sul fatto che anche in Egitto i francesi si trovarono a mal partito nel fronteggiare una tenace guerriglia, ispirata dalla «jihad» ordinata dal Califfato e rilanciata dagli ulema.
Già il giorno successivo al suo sbarco, il 2 luglio 1798, in una viuzza di Alessandria Napoleone fu ferito a un piede da un cecchino. Era solo l’inizio: la resistenza politica, ma anche religiosa, dei locali – rafforzati da combattenti giunti dall’Arabia – lo condusse in ottobre a ordinare di bombardare la città e la moschea di El-Akzar, centro spirituale della sollevazione. Tornano alla mente le famose, irreverenti domande di Brecht: «Su chi trionfarono i Cesari?», «chi ne pagò le spese?».

 Da IL MANIFESTO ALIAS   24 gennaio 2016


SULLA POTENZA DEL DENARO

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Quello che tanti fanno finta di non aver capito è che Marx criticava questo stato di cose:

Io sono il mio denaro

Il denaro, poiché possiede la proprietà di comprar tutto, la proprietà di appropriarsi tutti gli oggetti, è così l'oggetto in senso eminente. L'universalità della sua proprietàè l'onnipotenza del suo essere, esso vale quindi come ente onnipotente... Il denaro è il lenone fra il bisogno e l'oggetto, fra la vita e il mezzo di vita dell'uomo. Ma ciò che mi media la mia vita mi media anche l'esistenza degli altri uomini. Questo è l’altro uomo per me. –

Goethe, Faust (Mefistofele):
Che diamine! Certamente mani e piedi e testa e di dietro, questi, sono tuoi! E pure tutto quel di cui frescamente godo è perciò meno mio? Se io posso comprarmi sei stalloni, le loro forze non sono mie? Io ci corro sopra e sono un uomo più in gamba, come se avessi ventiquattro piedi.

Shakespeare, in Timone d’Atene:
Oro? Prezioso, scintillante, rosso oro? No, dei, non è frivola la mia supplica. Tanto di questo fa il nero bianco, il brutto bello, il cattivo buono, il vecchio giovane, il vile valoroso, l’ignobile nobile. Questo stacca… il prete dall’altare; strappa al semiguarito l’origliere; sì, questo rosso schiavo scioglie e annoda i legami sacri; benedice il maledetto; fa la lebbra amabile; onora il ladro e gli dà il rango, le genuflessioni e la influenza nel consiglio dei senatori; questo conduce dei pretendenti alla troppo stagionata vedova; questo ringiovanisce, balsamico, in una gioventù di maggio, colei ch’è respinta con nausea, marcia com’è di ospedale e di pestifere piaghe. Maledetto metallo, comune prostituta degli uomini, che sconvolgi i popoli.

E più avanti:
tu dolce regicida, nobile strumento di discordia fra figlio e padre! Tu brillante profanatore del più puro letto nuziale! valoroso Marte! Eternamente fiorente e teneramente amato amante, il cui rosso splendore fonde la sacra neve del puro grembo di Diana! Visibile deità, che strettamente congiungi gli impossibili, e li costringi a baciarsi! Tu parli in ogni lingua a ogni fine! Tu pietra di paragone dei cuori! Considera: si ribella il tuo schiavo, l’uomo!

Consuma la tua forza a confonderli tutti, che la bestialità diventi padrona di questo mondo!

Shakespeare rappresenta la natura del denaro in guisa eccellente. Per intenderlo cominciamo con la spiegazione del passo goethiano. Ciò ch’è mio mediante il denaro, ciò che io posso, cioè può il denaro, comprare, ciò sono io, il possessore del denaro stesso. Tanto grande la mia forza quanto grande la forza del denaro. Le proprietà del denaro sono mie, di me suo possessore: le sue proprietà e forze essenziali. Ciò che io sono e posso non è, dunque affatto determinato dalla mia individualità. Io sono butto, ma posso comprarmi le più belle donne. Dunque non sono brutto, ché l’effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è annullato dal denaro. Io sono, come individuo, storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono dunque storpio. Io sono un uomo malvagio, infame, senza coscienza, senza ingegno, ma il denaro è onorato, dunque lo è anche il suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono; il denaro mi dispensa della pena di essere disonesto, io sono, dunque, presunto onesto; io sono senza spirito, ma il denaro è lo spirito reale di ogni cosa: come dovrebbe essere senza spirito il suo possessore? Inoltre, questi può comprarsi la gente ricca di spirito, e chi ha potere sulla gente ricca di spirito non è egli più ricco di spirito dell’uomo ricco di spirito? Io, che mediante il denaro posso tutto ciò che un cuore umano desidera, non possiedo io tutti i poteri umani? Il mio denaro non tramuta tutte le mie impotenze nel loro contrario?

Se il denaroè il legame che mi unisce alla vita umana, alla società, alla natura e agli uomini, non è esso il legame dei legami? Non può esso sciogliere e stringere tutti i legami? E non è perciò anche il mezzo generale di separazione? Esso è la vera moneta divisionale, come anche il vero legamento, la forza galvano-chimica della società.

Shakespeare rivela nel denaro particolarmente due proprietà:
  1. - è la visibile deità, il tramutamento di ogni qualità umana e naturale nel suo opposto, la generale confusione e perversione delle cose; la conciliazione delle impossibilità;
  2. - è la universale prostituta, l'universale mezzana di uomini e popoli.
La perversione e la confusione di ogni qualità umana e naturale, la congiunzione delle impossibilità, la possanza divina, del denaro, consistono nella sua essenza di estraniata, spogliantesi e alienantesi esistenza generica degli uomini. Esso è il potere espropriato dell'umanità. Ciò che io non posso come uomo, dunque ciò che non possono tutte le mie sostanziali forze individuali, lo posso mediante il denaro. Il denaro fa così di ognuna di queste forze essenziali qualcosa che essa non è, il suo contrario. Se io desidero un cibo o voglio servirmi della diligenza, perché non sono abbastanza in forze da far la strada a piedi, il denaro mi procura il cibo e la diligenza, cioè trasforma i miei desideri-rappresentazioni, traduce la loro esistenza pensata, rappresentata, voluta, nella loro esistenza sensibile, reale, la rappresentazione in vita, l’essere rappresentato nell'essere reale. In quanto è questa mediazione, esso forza veramente creatrice.


James Ensor, L'intrigo, 1890

La domanda c’è anche da parte di chi non ha denaro, ma la sua domanda è un mero essere rappresentato, che per me, per un terzo, non ha alcun effetto, alcuna esistenza, e resta dunque, anche per me irreale, senza oggetto. La differenza fra la domanda effettiva, basata sul denaro, e quella senza effetto, basata sul mio bisogno, sulla mia passione, il mio desiderio etc., è la differenza fra l’essere e il pensare, fra la mera rappresentazione, in me esistente, e la rappresentazione come reale oggetto fuori di me e per me.

Io, se non ho denaro per viaggiare, non ho alcun bisogno, cioè non ho alcun reale e realizzantesi bisogno di viaggiare. Se ho vocazione allo studio, ma non ho il denaro occorrente, non ho nessuna vocazione allo studio, cioè nessuna vocazione efficace, vera. Per contro, se non ho realmente nessuna vocazione allo studio, ma ho volontà e denaro, ho un’efficace vocazione. Il denaro, in quanto mezzo e potere esterni e generali – non derivanti dall'uomo come uomo, né dalla società umana come società – di far della rappresentazione la realtà e della realtà una mera rappresentazione, tramuta parimente le reali forze sostanziali umane e naturali in rappresentazioni meramente astratte e quindi in imperfezioni e penose chimere; come d'altra parte, tramuta le reali imperfezioni e chimere, le forze sostanziali effettivamente impotenti, esistenti soltanto nell'immaginazione dell'individuo, in reali forze sostanziali e poteri. Già solo per questa caratteristica esso è dunque il generale pervertimento delle individualità: che le rovescia nel loro contrario e aggiunge alle loro qualità delle qualità contraddittorie.

Come tale forza sconvolgente esso appare contro l’individuo e contro i legami sociali etc., che affermano di essere delle entità per sé. Tramuta la fedeltà in infedeltà, l’amore in odio, l’odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, lo schiavo in padrone, il padrone in schiavo, l’idiozia in intelligenza, l’intelligenza in idiozia.

Poiché il denaro, in quanto concetto esistente e attuale del valore, confonde e scambia tutte le cose, esso è così la generale confusione e inversione di ogni cosa, dunque il mondo sovvertito, la confusione e inversione di tutte le qualità naturali e umane.

Chi può comprare la bravura è valoroso, anche se è vile. Poiché il denaro si scambia non contro una qualità determinata, contro una cosa determinata, contro qualcuna delle forze sostanziali umane, ma contro l’intero mondo oggettivo umano e naturale, così esso cambia – considerato dal punto di vista del suo possessore – ogni qualità contro ogni qualità e ogni oggetto anche contraddittorio; è la congiunzione delle impossibilità, costringe i contraddittori a baciarsi.

Ma se supponi l'uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, tu puoi solo scambiare amore con amore, fiducia con fiducia, ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo colto in fatto di arte; se vuoi esercitare un'influenza su altri uomini, devi essere un uomo attivo realmente stimolante e trascinante altri uomini. Ogni tuo rapporto con gli uomini – e con la natura – deve essere un’espressione determinata, corrispondente all'oggetto da te voluto, della tua reale vita individuale. Quando tu ami senza provocare amore reciproco, cioè quando il tuo amore come amore non produce amore reciproco, e attraverso la tua manifestazione di vita, di uomo che ama, non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è una sventura.

Karl Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, pp. 252-256.




 Georg Grosz, dalla serie Hintergrund, 1928

Testo e immagini tratte da  http://www.doppiozero.com/

QUESTA SERA OPERA DEI PUPI A MARINEO

ELSA MORANTE, Prima della classe

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Prima della classe

Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo.
Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: − Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio −. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio.
Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: − Che farai da grande? − sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: − A te che te ne importa?
Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccare col dito.
Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: − Elsa ha l’incubo −. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: − Sì, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, − e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: − Vergogna, disgraziati, − ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. − Com’è? − mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: − Ha un incubo.
Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, così che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano i sorrisi e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me.
La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: − Che bei riccetti che hai.
Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresì me ne offriva. Mi guardava e diceva: − Come sei pulita, − rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia[1].
Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra.

[1] Qui «guancia» è correzione autografa per «faccia».

Elsa Morante, La prima della classe in Racconti dimenticati, a c. di I. Babboni e C. Cecchi, prefazione di C. Garboli, Torino, Einaudi, 2002.

Testo ripreso da   http://poetarumsilva.com/2016/01/30/elsa-morante-prima-della-classe-racconto/

IPOCRISIA, NUDITA' E VERGOGNA

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Nudità e vergogna

di Monica Luongo

Raramente mi sono sentita così offesa dal mio paese nella mia dignità di donna e persona, come dalla decisione di coprire le statue di nudi per la visita del premier iraniano Rouhani in Italia.
Ovviamente non sono la sola voce del coro, per fortuna.
Intanto vorrei sapere subito chi sono stati i responsabili di una decisione primitiva e stupida, poi perché Renzi non ha cancellato la visita al museo, proprio come i francesi hanno deciso di non offrire nessun pasto a Rouhani perché il vino è proibito ai musulmani (ricordiamo anche che i francesi hanno imposto al Vaticano un ambasciatore gay non gradito solo pochi mesi fa). Così come non avrei mai potuto immaginare la scalinata principale del Louvre con la Nike di Samotracia coperta da un lenzuolo.
E sempre dalla Francia mi è venuto un altro ricordo: una bella mostra  di qualche anno fa,  sempre al Louvre, in cui una collezione di foto, sempre mostrava come le opere che i nazisti volevano portare in Germania durante l’occupazione vennero spostate numerose e nascoste nelle ville in campagna di francesi ed ebrei e le immagini  museo così mostrato – quello sì nella sua vera nudità – dal ministro della Cultura a Himmler.
E sono indignata perché ci siamo sbracciati a difendere la distruzione di Ninive e altri siti archeologici per mano dell’ISIS, ma per un accordo commerciale abbiamo messo le mutande a Bernini, Michelangelo, e artisti ignoti di epoca imperiale. Per me, che vivo nel Pakistan più arretrato da questo punto di vista, dove vedo alcune donne addirittura infilare i calzini in presenza di uomini che non sono parte della famiglia, dove la musica non si sente per strada, dove la rappresentazione di un corpo nudo è un crimine punito con la morte (ma non il dilagare del porno), tornare a casa significa respirare, essere libera di comprare una birra e vedere il marmo latteo scolpito dalla mano gentile di Bernini o Canova.
Quei seni e sessi coperti non solo una offesa alla mia cultura, alla mia arte (mia perché sono italiana), ma soprattutto uno sputo sul viso di donne e uomini che si battono per proteggere cultura e diritti, opere d’arte e libertà, anche la mia di essere donna libera.
Non voglio boicottare l’Iran per la scelta idiota di chi governa l’Italia (boicottaggi ed embarghi colpiscono sempre i cittadini più deboli, non dimentichiamolo). Voglio le dimissioni dei responsabili e le scuse del governo.

 28 gennaio 2016 . Articolo tratto da  http://www.donnealtri.it/2016/01/nudita-e-vergogna/

LE DONNE DI SABBIA DI MARICLA DI DIO

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L' amica Giuseppina Bosco continua a proporci ritratti di autrici siciliane che meritano di essere lette e meglio conosciute. fv 


Maricla di Dio Morgano vive a Calascibetta (Enna) e appartiene ad una famiglia di artisti, il padre era attore, scrittore e drammaturgo, la madre, Elisa Contoli, era attrice dell’omonima Compagnia, che rimase attiva fino ai primi Anni ‘60. Maricla più che la recitazione ha amato la scrittura e nonostante i successi teatrali ha preferito dedicarsi alla letteratura.

È autrice di diversi romanzi: “L’ultimo giorno d’estate”, “Il respiro del vento”, “Lena”, “Dalla parte del torto”, “L’isola”, e ha ricevuto numerosi premi letterari. Di notevole successo l’ultimo romanzo del 2015 “La siciliana”, che ha letteralmente conquistato Catena Fiorello. Molte sue opere sono state recensite da personalità di spicco del mondo culturale: Vincenzo Guerrazzi, Sveva Casati Modigliani, Rosa Alberoni, Catena Fiorello e tanti altri.

Con l’ultimo romanzo “Donne di sabbia”, l’autrice ha raggiunto una maturità espressiva analizzando con grande capacità introspettiva i personaggi, mettendo in luce i variegati recessi dell’animo. Ma diamo a Maricla di Dio Morgano la possibilità di parlare del suo nuovo romanzo con questa intervista. (G. B.)



Giuseppina Bosco:

D: Nei romanzi in cui l’io narrante ripercorre le tappe di un dramma personale, incentrato sul rapporto madre-figlia, il coinvolgimento emotivo è inevitabile, soprattutto se chi narra deve fare i conti con il più tragico degli eventi: il coma vegetativo della propria figlia (Carla) a causa di un incidente . È su questa vicenda che si apre il romanzo di Maricla di Dio Morgano, “Donne di sabbia”. Il titolo oltre a sottolineare la diversa dislocazione geografica dei personaggi femminili, i quali hanno vissuto nelle città della costa africana (Egitto) attraversata dal deserto,  potrebbe connotare la fragilità della condizione umana?

Maricla di Dio:
R: La sabbia è sinonimo di aridità. Ma nelle profondità del deserto, scorre acqua. L’apparente aridità è un tema fondamentale in questo romanzo, legato soprattutto al personaggio di Sonia (ma non solo). L’incapacità di esternare emozioni e sentimenti è una prerogativa di questa donna dalla vita non comune ed è la motivazione dalla quale scaturiscono i sensi di colpa che danno spessore all’intero tessuto narrativo.  La pluralità del titolo in “donne” non è uno sterile riferimento a madre e figlia, ma l’estensione all’intero universo femminile e alle sue infinite sfaccettature e problematiche.

G. Bosco:
D:  Il personaggio di Sonia è ben delineato nella sua complessità: è una donna che lotta per mantenere il suo fragile equilibrio, messo a dura prova dalle situazioni della vita e soprattutto dal rapporto problematico con la figlia. Quanto è presente l’autrice nel carattere della protagonista del romanzo?

M. Di Dio
R: Io e Sonia siamo diverse caratterialmente. Mentre le vicissitudini che riguardano il mio personaggio hanno plasmato una donna fragile e insicura, le mie vicissitudini, i grandi dolori della vita, le prove, le delusioni, hanno determinato una certa fermezza. In Sonia ho trasferito comunque cenni di un personale disagio subito in seguito a un capovolgimento del mio vissuto, scaturito nel momento in cui ho dovuto identificarmi con un luogo fissodi residenza. L’angoscia del senso di Appartenenzae Identità che tormenta Sonia e ne determina tutta la complessità del suo essere donna, ha riferimenti personali.  Il mio felice mondo infantile e adolescenziale si è svolto nel cerchio di una straordinaria e inconsueta famiglia (provengo da intere generazioni di attori che con le loro Compagnie di prosa, giravano tutto l’anno in lungo e in largo l’Italia). Nessuna origine territoriale ha disciplinato la prima parte della mia di vita. Ero (eravamo) totalmente estranei a qualunque concezione di appartenenza.   Solo mio padre vantava origini “normali”, provenendo da una famiglia siciliana di piccoli tenutari da cui fuggì, lasciando gli studi, per rincorrere un ambizioso obiettivo: diventare un attore. L’incontro con la Compagnia di prosa di mia nonna, fu fatale. Raggiunse i suoi sogni e si innamorò di mia madre (donna di straordinaria bellezza e bravura). Quando mia madre in seguito a dolorosi eventi culminati con la morte di mio padre, ha scelto stoicamente di lasciare il teatro e sciogliere la Compagnia interrompendo l’antichissima tradizione artistica e ritirandosi in Sicilia (unico posto in cui esistevano radici e proprietà immobiliari), la nostra vita è stata catapultata in una realtà lontanissima da quella in cui avevamo da sempre vissuto. Non è stato per niente facile inserirsi nella piccola, angusta ed emarginata realtà di un mondo colmo di consuetudini come quello di un piccolo paese del centro Sicilia. Non è stato facile riconoscerne le peculiarità, identificarsi in esso.  Mia madre non ci ha neppure provato, chiudendosi in casa. Noi ragazzi dovevamo tessere la nostra vita cominciando un percorso sconosciuto e astruso. Ci sono voluti anni e anni…
Adesso vivo serenamente in questo arroccato paese. Ho imparato ad amarlo e  ad amare la mia Sicilia e se “l’identificazione” non è mai totalmente avvenuta per complessi misteri genetici, non ha più importanza. Non cambierei questo piccolo paese per nessun altro al mondo.

G. Bosco:
D: La storia narrata fin dalle prime pagine richiama alla mente un altro romanzo: “Paula” di Isabel Allende. Ho riscontrato sul piano psicologico la stessa angoscia di una madre che tenta di comunicare con la figlia in coma per una incurabile malattia, ricordando i momenti più intensi della loro vita e sperando in un miracoloso risveglio. Anche se in Paula l’autrice unisce il dolore per la malattia della figlia ad un’altrettanto dolorosa esperienza: il colpo di stato di Pinochet del 1973 e l’uccisione di Salvator Allende, che ne segnano la vita. Un’altra differenza consiste nel genere narrativo. Se il romanzo dell’Allende è costruito come un diario autobiografico, “Donne di sabbia” rivela la struttura di un giallo. Il lettore deve cogliere alcuni  indizi nei vari capitoli del libro per trovare il filo che unisce la storia. Condivide tali parallelismi?


M. Di Dio:
R: Ho letto Paula tanti anni fa e non ho voluto rileggerlo durante la stesura del romanzo, (come non ho voluto leggere altri testi che trattavano la stessa amara realtà (come quello recente su Eluana Englaro), per non essere troppo coinvolta e influenzata da sensazioni ed emozioni realmente vissute sulla pelle degli autori.  “Donne di sabbia” è pura invenzione. Nulla, dal punto di vista prettamente “umano”, che possa confrontarsi alla straziante partecipazione della Allende e del padre della giovane Eluana. 
La struttura narrativa di Paula- per quanto io possa ricordare- è sicuramente molto diversa. Il mio romanzo come Lei ben dice, a differenza del testo della Allende, non è un diario. E’ stato concepito come un percorso storico-esistenziale che elabora le tipiche caratteristiche del racconto. Non mi sorprende del tutto il riferimento alla struttura di un giallo. Anche il prof. Grimaldi ha iniziato la premessa del romanzo con la frase: “Si legge come un thriller.” Forse è insito, nel romanzo, una logica giallistica che riconduce un passo dopo l’altro - in percorsi necessari e strutturati-  a verità e conclusioni ineluttabili, seppure in un contesto narrativo lontano dal classicismo giallo. Il tutto, comunque, non è una scelta programmata, ma casuale (per quanto possa essere “casuale” un indirizzo narrativo).


G. Bosco:
D: Alla base dei conflitti tra Sonia e Carla vi è senza dubbio la loro distanza generazionale: quest’ultima non ha mai accettato la duplicità della madre, divisa tra l’atavica rassegnazione delle donne meridionali,  la mancanza di volontà nelle situazioni e la dinamicità di una donna moderna. Sonia, in realtà, ha avuto l’esempio di una madre forte e determinata come quelle del Sud Italia: lei era nata a Locri, in Calabria, terra intrisa di cultura greca e araba al contempo. Sonia nasce ,invece,nella casa colonica di Gars Garabulli, un villaggio libico, insieme ai suoi fratelli, sostenuti dalle  forti braccia materne e dipendenti dalla sua saggezza.  È forse la determinazione materna ad indurre i propri figli ad accettare di vivere in quella terra straniera, in funzione di un futuro migliore, poco comprensibile ad una generazione come quella di Carla?

M. Di Dio:
R: Credo che ogni generazione abbia conflittualità in famiglia. E’ inevitabile. Ma la figura di Anna Greco, madre di Sonia, è del tutto diversa da Sonia stessa e diverse sono le dinamiche educative.  Mentre   Anna   è la roccia alla quale tutta la famiglia si aggrappa, Sonia vive un ruolo condizionato dagli eventi senza la forza e la determinazione propria della madre. L’educazione che cercherà di impartire a Carla è plagiata dalla conflittualità e dalla nebulosa consapevolezza del proprio “io” nel quale non riesce a scindere i ruoli che la vita stessa impone: donna-madre-moglie. La sua incapacità scaturisce sempre dalla confusa “appartenenza” (origine italiana-nascita e infanzia in Libia dove assimila e subisce il fascino del Nord Africa- trasferimento in Egitto in seguito agli eventi bellici del ‘47 e infine –già donna e madre- l’approdo in Italia). “Ero senza un’identità precisa……”

G. Bosco:
D: Le descrizioni dei luoghi vissuti si traducono in immagini di potente realismo, con uno stile lirico ed evocativo di atmosfere, soprattutto quando la protagonista descrive  la città del Cairo, dove si trasferisce: <<L’Egitto aveva qualcosa della Libia, gli stessi odori, gli stessi tramonti. Scoprimmo un po’ alla volta tra stenti, fame, stracci, baracche, suk, fogne a cielo aperto, urla di bambini cenciosi, piaghe di malati e puzze, le infinite meraviglie di una terra colma di misteri.>> .Questo modo di scrivere  ha come modello Cesare Pavese de “La casa in collina” o di “Paesi tuoi”? Si nota anche l’essenzialità e la semplicità della sintassi, con periodi breve e molto fluidi nella forma. È  una particolarità della sua scrittura?


M. Di Dio:
R:  Amo Pavese. Sono cresciuta con “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” che ha innestato in me il profondo interesse per la poesia e ho letto infinite volte “Prima che il gallo canti” “La luna e i falò” e altre opere del grande e sfortunato scrittore. Restano tra le più care letture giovanili che hanno lasciato in me il fascino della scrittura e l’incanto del “racconto” ma non ho mai avuto un modello che abbia determinato il mio stile. Condivido però il pavesiano simbolismo della campagna, la ricerca di radici, il mito della solitudine. La mia scrittura è piuttosto l’esito di un’infanzia trascorsa tra testi teatrali e letteratura. Una caotica, affascinante miscela di storie e personaggi in un vortice di sensazioni imbrigliate nella conoscenza. Da ogni autore ho attinto qualcosa, da ogni opera ho inconsciamente conservato embrionali essenze.


G. Bosco:
D: Sonia è una donna che matura la sua affettività dopo il matrimonio con un archeologo italiano, che sposa perché è un’opportunità da non perdere. La personalità dell’uomo viene analizzata attraverso il filo della memoria, a cui lei si aggrappa per comunicare con la figlia, sperando in un suo risveglio. In questa sequenza del romanzo Sonia rievoca le lunghe assenze di lui come quella volta in cui mancò per più di un mese dopo l’incarico ricevuto per la salvaguardia del tempio di Ambu Simbel dall’inondazione della diga di Aswan. Quanto la professione del padre condizionerà le scelte lavorative della figlia, sempre in viaggio per il mondo, e la sua instabilità psichica?

M. Di Dio:
R:  La figura del padre, per Carla, (al di là di architetture edipiche freudiane), colma le lacune del rapporto madre-figlia. La professione avventurosa e per certi versi misteriosa dell’uomo, esercita un fascino inevitabile sulla complessa personalità   di Carla che-in ogni caso- soffre enormemente per le eccessive assenze del padre.  L’amore per l’archeologia della bambina finirà quando questa provocherà la morte dell’uomo, ma resta in lei l’ossessivo interesse per la conoscenza del mondo. L’instabilità psichica scaturisce dall’infanzia inquieta, carente di riferimenti affettivi e si acuisce con la brutalità degli eventi propri della professione scelta: corrispondente di guerra.

G. Bosco:
D: Il tempo storico nella narrazione parte da quello del regime fascista in Italia e della colonizzazione della Libia del 1934, con riferimenti alla guerra del ‘43, fino ai nostri giorni. Anche la perdita delle colonie italiane del 1947 s’intreccia con le vicende dei personaggi e vi sono anche accenni alla rivoluzione del 1959, quando Gheddafi prese il potere e rese indipendente la Libia. Perché invece il riferimento al presente non è molto contestualizzato?

M. Di Dio:
R: Le vicende politiche italiane non coinvolgono Sonia e non ne condizionano la vita. La scoperta dell’Italia è un fattore emozionale puramente estetico. L’identità territoriale di Sonia non si rivela come aveva sperato, con il suo arrivo nel suolo di origine. A differenza degli eventi vissuti in Libia che hanno determinato la stessa esistenza della famiglia, l’Italia non porta sconvolgimenti. Lei non ne interiorizza gli eventi socio-politici, non segue le dinamiche di un territorio che in effetti non sente totalmente suo. Continua a   il suo vivere “in superficie, nella schiuma delle cose”.

G. Bosco:
D: Molti personaggi secondari, dai beduini del deserto, ai pastori, alle donne dei villaggi, con i quali Sonia e Carla si relazionano, fanno parte di un mondo diverso, con tradizioni, rituali, cultura, lontani da quelli occidentali. Ad esempio Zira è una contadina in cui è contenuta tutta la saggezza e al contempo tutta la rassegnazione delle donne arabe, considerate alla stregua delle bestie, schiavizzate prima dal padre e poi dal marito; condizione inaccettabile per una mentalità emancipata e moderna come quella della protagonista. La figura di Zira però è quella di una grande donna, dotata di un’incommensurabile forza morale, il cui ricordo costituisce un arricchimento interiore e un insegnamento di vita. Nel costruire questo personaggio, si è ispirata  ad esperienze personali?

M. Di Dio:
R:  Amo l’Africa e ho visitato molti suoi Paesi. Sono una viaggiatrice che “ruba ciò che vede e sente. Mi intrufolo nella vita degli altri, cerco di carpirne i desideri, le speranze, le difficoltà e le gioie. Questo mi è molto servito nell’elaborare romanzi e novelle anche se la mia esigenza non è professionale, ma puramente istintiva.
 -Ho conosciuto diverse donne che potrebbero assimilarsi a Zina. Rappresenta  l’anima della donna araba. Ne incarna tutta la fragilità e la forza, in un    chiaroscuro di difficile comprensione per la nostra civiltà, ma di profondo spessore seduttivo.


G. Bosco:
D: A proposito della narrativa dei grandi scrittori siciliani, quali Pirandello, Tomasi di Lampedusa e altri, Sciascia ha introdotto la categoria di “sicilianità”, che si rivela nella problematicità dei personaggi descritti, sempre alla ricerca di un “altrove” o di una possibile identità. In un passo del romanzo, e precisamente in uno dei tanti soliloqui di Sonia, c’è questa  amara riflessione: <<Ero senza un’identità precisa: italiana, libica, egiziana […] io non ero una, ma tante, nessuna.>> In che modo la sicilianità è presente nella scrittura di Maricla di Dio Morgano?


M. Di Dio:
R: Tra i moltissimi autori con i quali ho condiviso infanzia e adolescenza, Pirandello era il mio idolo. La sicilianità è sicuramente presente in molti testi ambientati in Sicilia (Lena, L’Isola, La Siciliana, La coda del diavolo, Donne… e una moltitudine di novelle.) In “donne di sabbia” l’ambientazione e i profili dei vari personaggi sono molto lontani da quella che potrebbe essere la mia ormai dichiarata sicilianità, ma se ne riscontra la presenza proprio nel nucleo del racconto, ovvero, il tema dell’altrove nel paradosso fuga-ricerca esistenziale, ed è infine, dichiaratamente pirandelliana, la sintesi finale: l’allontanamento dalla realtà e il progressivo accostamento alla follia.

G. Bosco:
D: La conclusione del romanzo sembra aprire le porte alla speranza e rimanda ad un “altrove” come luogo non definito, in cui finalmente Sonia e Carla possano incontrarsi e restare per sempre insieme. Quale messaggio in realtà l’autrice ha voluto trasmettere ai suoi lettori?

M. Di Dio:
R: Vi sono dolori che la fragilità umana non supera e non trovano via d’uscita se non in quella sfera (maledetta o sublime), detta follia. La follia potrebbe essere il luogo dove rifugiarsi e ritrovarsi quando ogni altra speranza è vana. Un’opzione alla morte fisica (che Sonia rifiuta per la figlia, non accettando la possibilità dell’eutanasia). Cosa resta, quindi, se non   la follia   che già serpeggia nella povera mente di questa madre stremata da una inutile speranza, da anni d’insonnia, dall’abbandono di se stessa?  Follia come unico, estremo rifugio. Il mondo estraneo a ogni realtà nel quale portare con sé la sua creatura “ti porterò in un posto colmo di luce. E’ una strada facile. Dritta...  Ecco il cerchio magico dove tutto è possibile. Anche trovare un’assurda, impossibile felicità.








 

G. DE CARO SUL NEOREALISMO

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Gaspare De Caro: neorealismo e rimozione

Il Neorealismo è stato un momento testimoniale di autoriflessione della società italiana che usciva dalle macerie del fascismo e della seconda guerra mondiale o un “marchio” identitario finalizzato a una rifondazione degli italiani sulla base di una complessiva rimozione? Gaspare De Caro, mancato a Roma il 6 ottobre 2015, nel suo ultimo libro Rifondare gli italiani? Il cinema del neorealismo ci ha lasciato in eredità questa domanda, insieme, ovviamente, a un’articolata e pessimistica risposta.

Storico del rinascimento e dell’età contemporanea, De Caro è stato uno dei protagonisti della stagione operaista (Toni Negri parla del suo contributo ai Quaderni Rossi come di “un’introduzione alla metodologia storiografica legata all’impegno politico” che ha fatto scuola per una generazione di intellettuali) con studi e interventi che hanno saputo attraversare con lucidità gli ultimi decenni della vita italiana, offrendo riflessioni circostanziate sulla società, il capitale, la composizione di classe, la cultura.
Nella sua “controstoria” De Caro ribadisce la continuità fra il neorealismo e la cinematografia italiana dei secondi anni ’30. L’esigenza di un cinema della testimonianza capace di illuminare la quotidianità delle condizioni sociali era stata preparata già durante il fascismo: il regime aveva un ventre culturale mobile, in grado di digerire e fare coesistere diverse istanze, come l’evasione dei telefoni bianchi, i non troppo convinti film di propaganda ideologica ma anche l’esigenza di rinnovamento elaborata in riviste come Cinema, diretta da Vittorio Mussolini, in cui intellettuali e registi prefiguravano un cinema che mettesse la macchina da presa nelle strade piuttosto che nei salotti della borghesia. Un primo tentativo di praticare quest’ultima istanza di realismo e una prima avvisaglia dell’incrinarsi del patto sociale fra regime fascista e cinema si ebbe nella cosiddetta “trilogia della rottura”, con tre film girati fra 1942 e 1943 (Quattro passi fra le nuvole di Blasetti, I bambini ci guardano di De Sica e Ossessione di Visconti) che corrodono da ottiche diverse un’istituzione fondamentale come la famiglia, aprendo squarci inediti su una società che stava ansiosamente immergendosi nella catastrofe. Queste premesse vengono sviluppate nei grandi film in presa diretta degli anni ’40 di Rossellini e De Sica, in cui assistiamo all’irruzione traumatica di un reale dove l’incanto si interrompe secondo il programma di Vittorio Sica (“vogliamo liberarci del peso dei nostri errori, guardarci in faccia e dirci la verità, scoprire quello che eravamo veramente”) che ci lascia con Ladri di biciclette l’immagine di una sconfitta senza appello, di interruzione del patto generazionale che vede il padre vergognarsi di quello che è diventato dinanzi al figlio.

Ma la poetica del pedinamento del reale viene immediatamente catturata da un discorso che lascia spazio a un’altra verità, sostanziata di “miti, amnesie” e “travisamenti assolutori e autoassolutori di ogni responsabilità passata”, in cui “l’intellighentia cinefila esorcizzò e addomesticò gli inferni evocati da De Sica e Rossellini, sbiadì il pessimismo radicale ignominiosamente ridotto a populismo e sentimentalismo”. Il neorealismo sarebbe dunque innanzitutto il discorso dei volgarizzatori e degli epigoni, dei registi, degli sceneggiatori, dei politici e dei teorici che hanno lavorato per una conciliante visione della memoria storica, aggiornando il proprio linguaggio cinematografico. “A Roma mica è successo gnente, tutto in piedi”, inizia emblematicamente il film di Mattoli La vita ricomincia del 1945, archetipo di un cinema impegnato nell’affabulazione smemorata e consolatoria. Di qui, la rassegna di De Caro si immerge in una cinematografia che ha per lo più eluso i temi del fascismo e della Resistenza, ogni evocazione di guerra civile, mentre nella descrizione della ricostruzione post-bellica i registri del grottesco e del melodrammatico hanno finito per normalizzare il disincanto degli innovatori. Sotto il sole di Roma di Castellani (1948) è un altro monumento alla deresponsabilizzazione della società e della cultura italiana: l’ambientazione è la stessa Roma popolare alla fine della guerra raccontata da De Sica e Rossellini, ma non è la stessa storia, gli sbandati adolescenti che si muovono nel film non sono toccati dalle bombe, dai rastrellamenti, dalle epurazioni e dopo lo sbandamento nella microcriminalità il giovane protagonista diventa guardia notturna e rientra nell’ordine assumendo il ruolo civico del padre.

Il fascismo rimase nella rappresentazione neorealista per lo più assente, sicuramente perché i soggetti erano ambientati nel presente e non nel passato prossimo, ma anche per la volontà politica di non parlarne: l’operazione culturale di rifondazione di un’identità collettiva aveva in fondo bisogno non di storiografi, ma di mitografi. Il motore di questa elaborazione mitologica nel nome dell’unità nazionale e della rifondazione degli italiani è per De Caro la naturalis oboedientia, una formula di Bottai sulla presunta natura passiva e conservatrice degli italiani, che nel discorso neorealista si è presentata come un’autocensura che ha limitato i possibili filmici con soluzioni in fondo innocue in nome del paradigma del fascismo subito più che prodotto dagli italiani. Un film in qualche modo più scomodo come Anni difficili (1948) di Luigi Zampa, fu invece criticato da destra e da sinistra come “apertamente diffamatorio di qualsiasi valore morale” perché aveva semplicemente raccontato una vicenda di trasformismo dall’apparato fascista a quello del nuovo stato democratico: era in fondo questo il nervo più scoperto dei nuovi poteri, la continuità delle risorse umane nella Pubblica Amministrazione negli anni della transizione di regime.

Ma al di là degli episodi di trasformismo degli stessi registi che passarono dalle commedie a basso voltaggio dei telefoni bianchi alla moda dei film della miseria negli anni ’40, è stato proprio “l’italo-marxismo” a esibire i miti della Ricostruzione al servizio dello stato, trasformando sostanzialmente la Resistenza in guerra patriottica, in secondo Risorgimento. È il caso di film finanziati direttamente dall’ANPI come Il sole sorge ancora (1946) per la regia di Aldo Vergano, di Caccia Tragica di Giuseppe De Santis (1947) finanziato dalla Lega delle Cooperative, ma anche, seppure con un’impostazione più problematica, di Achtung! Banditi di Carlo Lizzani (1951) prodotto dalla Cooperativa Spettatori e Produttori Cinematografici. In queste opere che hanno come autori e sceneggiatori i reduci dal proto-realismo della rivista Cinema, per De Caro il conflitto sociale viene eluso, il tema disertato: gli operai e i contadini non si scontrano con il capitalista o il latifondista, che rimangono sempre fuori campo, ma si armano al più contro i tedeschi per salvare patriotticamente la loro fabbrica, restituendo le classi subalterne alla loro storica subalternità.

Fare la storia con quello che non c’è stato ma avrebbe potuto e dovuto esserci rischia di diventare un esercizio retorico e alla fine della lettura il quadro risulta piuttosto apocalittico, non completamente nuovo, a volte ingeneroso e unilaterale, ma in qualcosa di importante colpisce nel segno. Il neorealismo è stato, insieme a molte altre cose, un episodio, tutt’altro che marginale, di quella che De Caro chiama “un’allucinazione collettiva”, una lettura mitografica della storia e una manipolazione della memoria nel segno dell’irresponsabilità (il fascismo, le guerre coloniali, le persecuzioni razziali e la Shoah di cui neanche Rossellini in Germania anno zeroè riuscito a parlare). L’insorgenza anti-istituzionale di Ladri di Biciclette e di Paisà si è spenta in quello che poi è stato chiamato neorealismo, anche se questo ragionamento risulta paradossale e si potrebbe forse ribaltare: non sono forse questi (insieme a pochi altri) i film che rimangono di quegli anni, che riescono ancora a entrare nella nostra attualità, mentre tutto il resto lentamente si dimentica? Forse dunque questo esorcismo non è completamente riuscito ma mentre veniva eseguito ha contribuito a modellare l’immagine che un popolo aveva di se stesso.

Testo tratto da  http://www.doppiozero.com/

DIRITTI CIVILI, POTERE E MITO

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Il negativo del potere: i diritti civili e il mito.


di Sandro Vero


«[...] là dove c'è potere c'è resistenza e (che) tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere.»
Michel Foucault

***

Non c'è materia che non si renda disponibile per la forma-discorso del potere, una forma che dà al mito una declinazione speciale, globalmente al servizio degli uffici di cattura del capitale, che prolunga indefinitamente il suo nastro generativo dei comportamenti allineabili alle necessità del consumo. Come una poderosa Macchina di Turing, dispositivo elementare ma capace di infinito[1], il capitalismo ha da tempo superato la fase dei limiti - etici, antropologici - e svolge le sue annessioni continue tracimando ogni tipo di barriera e dilagando in ogni territorio.
L'immagine simbolica della t-shirt marchiata con la faccia di Che Guevara è solo uno dei possibili modi di un refrain minimale che usa la fungibilità semiotica come una clava da calare sulla creatività del linguaggio.
Il meccanismo semiotico del mito è stato spiegato da Roland Barthes con chiarezza sin dal suo saggio di chiusura dei Miti d'oggi[2]:
Il rapporto che lega (e separa) il significante al significato[3] si struttura in un doppio meta-livello, secondo le diverse direzioni del metalinguaggio e del mito. Nel primo, l'intera coppia significante/significato è presa nel gioco semiotico di rango superiore come significato su cui esercita la sua forma un significante altro, più comprensivo, che funge, appunto, da meta-strumento formativo. L'analisi semiotica di un testo ideologico è un esempio di metalinguaggio, come può esserlo la contro-analisi ideologica della critica semiotica, e questo a riprova della natura ricorsiva del meccanismo meta-espressivo[4].

Nel mito, la coppia originaria significante/significato acquisisce un carico funzionale diverso: diviene il significante del meta-livello, rispetto al quale il significato mitico è come sovraimposto, carico più di valori connotativi che di elementi denotativi[5]. Contrariamente a quanto accade nell'ambito metalinguistico, nella catena semiotica del mito non è possibile prolungare indefinitamente gli effetti del meccanismo formativo, pena un'inesorabile perdita di efficacia performativa.
Il mito esaurisce il suo potere manipolativo dopo il suo primo passaggio, anche se è teoricamente possibile un suo prolungamento strutturale. Ciò si può esprimere in termini di inscatolamento linguistico: mentre abbiamo visto che il rapporto meta-semiotico che può intercorrere fra ideologia e critica semiotica può svolgersi indefinitamente e ad ogni passaggio successivo funzionare come un vero e proprio scambio di posto, nel mito, una volta sussunto un linguaggio nella forma del suo metalinguaggio mitico, l'eventuale ri-mitizzazione successiva di grado n della mitizzazione precedente di grado n-1 perde quasi immediatamente la sua carica semiotica dovendo svolgersi nel passaggio dal mito al mito del mito, e così via. In questo secondo caso solo il ritiro, mediante una critica analitica del meccanismo mitopoietico, dall'ingranaggio semiotico e la piena attuazione nella prassi (politica, sociale) può garantire il ripristino dell'integrità del linguaggio primo.
La musica dei Beatles, il libretto rosso di Mao, le immagini del Vietnam, i cortei femministi degli anni 70, tutti insieme o a sottoinsiemi cangianti - ognuno di essi appartenente ad una precisa, contestualizzata "grammatica" reale, ognuno con un "peso" reale diverso - acquisiscono il significato, sovraimpresso, di "rivoluzione", appaiandosi - senza alcuna remora estetica ed etica - a linguaggi di natura lontana come il logo della Apple, icone raffiguranti il web o realtà civili contemporanee come i matrimoni gay.

Quest'ultima annotazione chiama in causa il posto che le rivendicazioni civili hanno nel mondo contemporaneo, caratterizzato da forme eterogenee di connessione, presumibilmente riconducibili a un livello profondo in cui la politica è contenuta dai processi di produzione del valore economico e non viceversa.
Le battaglie per i diritti civili hanno avuto un'impronta marcatamente anticapitalistica fino al momento in cui i valori della cultura borghese si è ritenuto che si sovrapponessero allo sfondo etico-politico nel quale il capitalismo affondava le sue radici "ideologiche": Dio, patria, famiglia e denaro. A partire da un certo momento è avvenuto uno scollamento fra quello sfondo e i capisaldi del mondo borghese, nel senso che il capitale (figura antropomorfica utile per economizzare il discorso) ha progressivamente inteso porsi rispetto a quei capisaldi in una posizione inedita: il negativo ha cominciato a fare gola, con il suo indubbio aplomb rispetto ai programmi di estensione indefinita dello spazio consumistico.
Un inesauribile patrimonio di figure, di rotture, di spazi, di sfumature si rendeva disponibile per un crescente marketing dell'esistente, interamente centrato sulla valorizzazione dell'impensabile, che nei programmi di vendita e di televendita pianificati diviene sempre più pensabile, ma solo in quanto consumabile. Ecco ciò che potrebbe dirsi del negativo del potere: pensabile in quanto consumabile, e dunque se consumabile allora assimilabile.
Ogni critica sull'uso smodato che il potere favorisce dei discorsi sui diritti civili ha il dovere di chiarire la differenza fra discorso (politico) degli stessi e meta-discorso (mitico), che se ne appropria per farne materia commestibile.
C'è però anche un altro orizzonte di riferimento cui accennare: la mitizzazione delle battaglie civili non serve solo a far quattrini triturando nel mixer delle televendite Guevara, Cristo, Marx e i gay, ha la sua finalità più incisiva, si direbbe ficcante, nella trasformazione dell'esistente in una sorta di tabula rasa secondaria, in cui la decimazione di ogni valore (borghese o meno) semina contestualmente una coscienza del possibile come doppia negazione: niente è impossibile, ovvero non è possibile che sia impossibile! Tranne, ovviamente, la critica della presunta necessità dell'ordine capitalistico!
In realtà, non c'è traccia di un tertium non datur fra battaglie civili e battaglie politiche. La contraddizione (apparente) è invece fra politica (nel senso più ampio e "globale" del termine) e mitologia dei diritti civili, quando questi si sono già trasformati in elementi divisivi, perfettamente funzionali alle logiche depistanti del potere.
C'è la possibilità di un'analisi disincantata del rapporto che il capitale intrattiene con i contenuti che circolano nei discorsi che si propongano come "avversi" al suo dominio: il potere li fagocita e li ricicla per i suoi scopi.
C'è un primo momento, originario (anche se non nel senso "cronologico"), in cui la battaglia dei diritti civili è allocata nella società, nei suoi rivoli "desideranti", ai suoi bordi rappresentativi, frontalmente alle istanze istituzionali del potere. E' il momento in cui le rivendicazioni della società civile si propongono in tutta la loro forza dirompente come rappresentative del possibile.
C'è un secondo step, intermedio, in cui la battaglia dei diritti civili assume il linguaggio istituzionale di uno stato che legifera,rendondosi disponibile a un principio disciplinante tutto interno al potere, reclamando la sua sussumibilità nel diritto e spingendosi verso le fauci del potere.
C'è infine un terzo step, in cui il potere si appropria della battaglia, usandone la richiesta di mobilitazione per legittimare il momento pervasivo della trasformazione di ogni cosa in merce (simbolica). È il momento in cui si " spettacolarizza" tutto, anche il negativo del potere[6].

Note:
[1] Per il concetto di "macchina di Turing" si veda Lo Piparo (1974), pp. 25-35. Per l'utilizzo della nozione di "macchina di Turing" all'interno di una cornice culturale particolare come l'accelerazionismo, si veda Pasquinelli (2014).
[2] Barthes (1966), pp. 191-238.
[3] Riformulabile nella sintassi linguistica di Hjelmlev come rapporto fra "espressione" e "contenuto": vedi Hjelmslev (1968), pp. 52-65.
[4] Sul concetto di ricorsività si veda Lo Piparo (1974), pp.49-55.
[5] Non a caso il concetto strutturale di "mito", come lo abbiamo introdotto in questa sede seguendo il linguaggio barthesiano, è corrispondente al concetto di Hjelmslev di "semiotica connotativa". Vedi Hjelmslev, cit., pp. 122-134.
[6] Un ragionamento che non è riconducibile solo a Debord (2008) ma anche a Baudrillard (2009), nella misura in cui la spettacolarizzazione si traduce nella sostituzione della realtà da parte di una "cosa" virtuale che propone, attraverso l'immagine, l'uccisione della realtà medesima.

Riferimenti bibliografici:
BARTHES Roland (1966): Elementi di semiologia, tr.it. Einaudi, Torino.
BAUDRILLARD Jean (2009): La scomparsa della realtà, tr.it. Lupetti, Bologna.
DEBORD Guy (2008): La società dello spettacolo, tr.it. Baldini Castoldi Dalai, Milano.
HJELMLEV Luis (1968): I fondamenti della teoria del linguaggio, tr.it. Einaudi, Torino.
LO PIPARO Franco (1974): Linguaggi, macchine e formalizzazione, Il Mulino, Bologna.
PASQUINELLI Matteo (a cura di) (2014): Gli algoritmi del capitale, Ombre Corte, Verona.

(2 agosto 2015)

Testo tratto da http://megachip.globalist.it/

SOCRATE, un paradosso infinito.

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Forse non esiste nella storia un caso simile: non conosco un altro autore su cui è stato scritto tanto come su Socrate che, come dovrebbe essere noto, non ha lasciato scritto nulla! Tutto quello che sappiamo di Socrate si deve ad altri autori. Non esiste, infatti, un suo testo scritto, neppure un appunto, un frammento. Socrate amava parlare, non scrivere. Anche perchè sapeva che la scrittura è incapace di cogliere la verità delle cose che sono sempre in movimento. Mentre la scrittura ha la pretesa di fissare sulla carta verità sempre sfuggenti. 

Su questo paradosso, ancora oggi, si continua a discutere e a scrivere. fv

La scoperta di Socrate

Socrate non ha buona stampa, nemmeno presso i suoi “allievi”, come si esprime Maria Michela Sassi. Non possedeva altra scienza tranne quella di contraddire (Montaigne). Praticava “un gioco infinitamente leggero col nulla” (Kierkegaard). Aveva pancia prominente, faccia da bifolco, aria bovina, naso schiacciato e moccicoso (Erasmo).  Aveva qualcosa di divino nel senso del demoniaco (“Apologia di Socrate”). Ne ebbe anche di incondizionati, attesta Sassi, storica dell’antichità, filologa del pensiero scientifico: Diderot, che tradusse a memoria l’“Apologia” mentre era in prigione, lo stesso Erasmo (“Sancte Socrates, ora pro nobis”), il neoplatonismo cristiano di Coluccio Salutati e Marsilio Ficino, gli Atti degli Apostoli, che lo assomigliano al Cristo. E ne ebbe anche nel senso che Hannah Arendt ha individuato sessant’anni fa: che fu il primo a portare la filosofia dal cielo in terra, dall’astratto al concreto, dalla verità all’agire pratico o politico: Cicerone, e la stessa “Apologia”, come Sassi bene illustra. Ma senza effetto: Platone, cui Socrate deve la vita, l’ha soffocato.
Atopia
Una sorta di atopia Sassi delinea. Di cui già in Platone, nel “Simposio” che Alcibiade introduce: come essere fuori posto, tra bizzarria e disagio. Un tipo strano, in vita e in morte. Nella decisione di non opporsi ala sentenza di morte, e nell’insegnamento rigorosamente orale, e programmaticamente elementare, ma forse esoterico, buono per Platone e per i Cinici. Segnato da Aristofane, che avviò li il processo che porterà alla morte: anche se per ridere, il commediografo denunciava le lezioni dietro compenso, per un insegnamento ozioso e a volte violento, contro la morale.
Altro l’approccio di Hannah Arendt in questo corso all’università americana di Notre Dame nel 1954, breve - il libro si compone anche di contributi ampi di Adriana Cavarero (“Arendt non interpreta Socrate,  in veste di storica della filosofia… bensì decide di pensare con Socrate e mediante Socrate”) e Simona Forti (Socrate e Eichmann, Arendt e Foucault, il “socratismo eretico” – platonismo – di Jan Patočka), con l’introduzione e le note della curatrice, Ilaria Possenti. La novità del suo “Socrate” è che la Grecia escludeva la filosofia dall’agire pratico, dal sapere politico. Socrate si applicò ad appianare questo contrasto, e finì male, i politici non tolleravano la sapienza. Platone allora affermerà il contrario, che solo il filosofo è buon cittadino e buon politico, ha le chiavi della saggezza pratica – ma lo affermerà all’accademia e non al foro, e nessuno lo importunerà. 
Due-in-uno
 “L’abisso tra filosofia e politica si apre storicamente con il processo e la condanna di Socrate”: Arendt va giù subito netta e diretta, questo “Socrate” ha avuto una lunga gestazione, come confidava al maestro e amico Jaspers: “Un punto di svolta analogo a quello del processo e della condanna d Gesù nella storia della religione.” Il che è certamente vero. Per l’umanità forse no, per gli studi sì: “La nostra tradizione di pensiero politico ha inizio quando, con la morte di Socrate, Platone perde ogni speranza nella vita della polis”, riproponendosi di supplirla con le idee, anche se stravolgeva così l’esperienza di Socrate.
 “Socrate aveva scoperto la coscienza, ma non le aveva ancora dato un nome” – questo farà Platone. “Così”, annota la curatrice, “solo una ventina di anni dopo la dissertazione di dottorato discussa con Jaspers nel 1929, Arendt torna a leggere Platone, i Greci, la filosofia”. Dopo cioè vent’anni di impegno contro Hitler e per la sopravvivenza, tra vessazioni e imprigionamenti, con espatri clandestini, fughe, ripartenze, e le ricerche e la scrittura delle “Origini del totalitarismo”. Nel tentativo di forzare, sottolinea Possenti, l’impassepolitico della concezione platonica – ideale - della politica. Socrate H. Arendt risuscita come alternativa allo “smantellamento della metafisica”: la majeutica del dialogo, dell’interazione. Sia pure con se stessi, il “due-in-uno”, il dialogo anche solo “tra me e me”, piuttosto che l’arrampicata sugli specchi della verità assoluta. Una “ripartenza” necessitata dalla memoria, In forma di nostalgia, davanti a un cumulo di rovine. 
Platonico Marx
Non un “che cosa ha detto Socrate”, che Platone gli ha fatto dire. Oppure sì, anzi proprio questo: Platone ha tradito Socrate, che filosofava la politica nella politica, in piazza, discutendone, non per scoprire la verità ma per accrescerla, moltiplicarla, anche semplicemente aggiungerle qualcosa. Dividendo la filosofia - la ricerca della retta verità – dalla politica – l’agire pratico – e questa relegando alla buona amministrazione. Un tradimento a nessun fine, anzi d’impatto negativo:  “L’inumano stato ideale di Platone” è rimasto ideale. E la filosofia non ha avuto più alcuna influenza sulla politica già in età moderna: “Gli scritti di Machiavelli sono l primo segno di tale svuotamento, mentre in Hobbes troviamo, per la prima volta, una filosofia che non sa cose farsene della filosofia”. A parte  Marx, l’ultimo platonizzante.
Le scoperte sono molte di Hannah Arendt con Socrate, che poi l’accompagnerà per il resto della sua propria opera. Un peregrinare non confuso, e non incerto già in questo primo approccio: “Noi che abbiamo fatto esperienza delle organizzazioni totalitarie di massa, il cui primo interesse è eliminare qualunque possibilità di solitudine – eccetto la forma inumana del confino – possiamo testimoniare come non solo le forme secolari di coscienza, ma anche quelle religiose vengono eliminate quando  non è più garantito lo stare un po’ da soli con se stessi”.
Essere è apparire
Il principio di non contraddizione di Aristotele, “con cui Aristotele fonda la logica occidentale” riconducendo “a questa fondamentale scoperta di Socrate: essendo uno io non mi contraddirò, e al tempo stesso potrò contraddirmi”. Per un altro più fondamentale fondamento: “che la vita insieme agli altri comincia con la vita insieme a se stessi”. Riconoscere se stessi si rende manifesto nella polistramite l’apparire: per essere bisogna “apparire” – “intendiamo per polisuna sfera pubblico-politica in cui gli uomini conseguono la piena umanità, la loro piena realtà di uomini, non solo perché esistono, come la dimensione privata della sfera domestica, ma anche perché appaiono”.
Ma Socrate è in realtà anche il primo a occuparsi principalmente della verità. Interrogativa e non apodittica ma non per questo meno veritiera. Il primo filosofo: Arendt lo dice nella prima versione della lezione, che Ilaria Possenti qui recupera in nota. La verità di Socrate, per cui ha voluto morire, è che la Grecia escludeva la filosofia dal sapere pratico: accetta per questo la morte. Platone si rivarrà argomentando che solo il filosofo è buon politico, ha le chiavi della saggezza pratica. Ma finirà a Siracusa, dal tiranno di Siracusa. Se c’è una morale, è che bisogna ridare autonomia al politico.

Questo, però, sessant’anni fa. Quando già Heidegger opinava senza incertezze, sui “Quaderni neri” che ora si pubblicano: “La politica non ha più nulla a che fare con la polis”. Non più nel “planetarismo”, diceva, che poi sarà detto globalizzazione.
Hannah Arendt, Socrate, Cortina, pp. 123 € 11
Maria Michela Sassi, Indagine su Socrate. Persona, filosofo, cittadino, Einaudi, pp. 242 € 23
 

L' INVENZIONE DELLA SICILIA SECONDO MATTEO DI GESU'

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Giovedì 4 febbraio 2016, alle ore 18, nella Libreria Feltrinelli di Palermo verrà presentato l'ultimo libro di Matteo Di Gesù. Con l'autore interverranno Clotilde Bertoni e Tommaso Baris

La letteratura moderna ha documentato assai efficacemente il lungo e conflittuale processo di assimilazione della Sicilia alla nazione italiana: un’integrazione culturale e sociale, prima ancora che politica, disarmonica e per molti aspetti ancora incompiuta. Ma la letteratura, specie la narrativa di autori siciliani, è stata interpretata, sovente in maniera forzosa e ideologicamente tendenziosa, come repertorio di una presunta identità siciliana immutabile, di un’ontologia metastorica per la quale perfino la mafia sarebbe un carattere antropologico piuttosto che un fenomeno criminale. Il libro rivisita alcuni momenti della fondazione letteraria dell’ambigua nozione di identità siciliana moderna: dalla breve stagione dell’illuminismo isolano alla comparsa della tematica mafiosa nella narrativa del secondo Ottocento, fino alle riscritture romanzesche dell’impresa risorgimentale. Una rilettura suffragata dall’idea che sia giunto il tempo di rivedere criticamente alcuni dispositivi discorsivi che riguardano la cosiddetta “letteratura siciliana”, nonché da una fedeltà irrinunciabile, per quanto problematica, al magistero di Leonardo Sciascia.

Matteo Di Gesù è ricercatore di Letteratura italiana all’Università di Palermo. Ha scritto, tra l’altro: Una nazione di carta. Tradizione letteraria e identità italiana (Carocci, 2013) Il carattere degli italiani, 2 voll. (doppiozero, 2012-14), I paralleli (Edizioni di passaggio, 2009), Dispatrie lettere (Aracne, 2005), Palinsesti del moderno (FrancoAngeli, 2005), La tradizione del postmoderno (FrancoAngeli, 2003), Letteratura, identità, nazione (a cura di; :duepunti, 2009). Collabora con il domenicale di “Il Sole 24 ore” e con altre testate cartacee e on line.

L' ULIVO E IL SUO OLIO NELLA STORIA

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Un vecchio articolo di Marino Niola sull'ulivo, dai miti greci alla Bibbia al centro della storia del Mediterraneo.

Marino Niola

Quell'albero carico di simboli caduto dal giardino dell'Eden

Ci voleva una vergine per darci l’extravergine. Così almeno la pensavano i Greci che attribuivano la nascita dell’ulivo alla dea Atena, l’illibatissima figlia di Zeus. La divina guerriera si contendeva con lo zio Poseidone il diritto di dare il nome alla città più importante dell’Ellade. Ciascuno dei due offrì un dono prezioso per mostrarsi degno del titolo. Ad aprire la gara fu lo zio che colpì la terra col tridente facendo scaturire una pozza d’acqua salata. La sua offerta consisteva dunque nel dominio dei mari.

Agli effetti speciali del suo rivale l’astuta vergine rispose con una pensata geniale. Fece spuntare il primo ulivo della storia. davanti a quell’albero carico di frutti verdissimi, la giuria popolare, a maggioranza femminile, non ebbe dubbi e plebiscitò Atena. Che legò per sempre il suo nome ad Atene, la città simbolo della democrazia occidentale. Il mito attribuisce dunque all’ulivo e all’olio un valore dietetico e insieme politico. Simbolo del Mediterraneo nelle arti della cucina come in quelle del governo.

E se la Grecia sacralizza l’invenzione dell’olivicoltura, le altre cività mediterranee non sono da meno. Nella tradizione ebraica il primo seme dell’ulivo sarebbe addirittura caduto dal paradiso terrestre e atterrato sulla tomba di Adamo. Un regalo di Dio al primo uomo. Come dire che la storia di questo albero e quella dell’umanità sono la stessa cosa.

Questi miti in realtà raccontano in modo favoloso una storia che ha trovato recenti conferme scientifiche nell’archeologia preistorica che fa risalire la cultura dell’olio addirittura all’età del bronzo, quando i nostri nerboruti antenati usavano pietre pesantissime per la spremitura delle olive. A freddo, of course.

E che il commercio oleario venga da molto lontano lo prova il codice babilonese di Hammurabi che ben duemilacinquecento anni prima di Cristo ne regola la produzione e la vendita costituendo, di fatto, il primo disciplinare dell’extravergine.

Il cristianesimo riprende la tradizione ebraica e quella greca, facendo dell’ulivo uno dei suoi simboli centrali. Segno di pace soprattutto, in ricordo del ramoscello che secondo l’Antico Testamento la colomba porta a Noè alla fine del diluvio universale per suggellare la cessazione delle ostilità tra Dio e gli uomini.

Dalle antiche civiltà mediterranee il cristianesimo attinge anche pratiche come l’unzione per consacrare i sacerdoti, i re e tutti coloro che vengono prescelti dall’alto, gli "unti del Signore". Come Cristo, che significa proprio l’unto, e che non a caso per prepararsi al sacrificio prega nell’uliveto dei Getsemani. E non per nulla ogni cristiano, prima di presentarsi al cospetto del suo dio, riceve il sacramento dell’unzione.

In realtà a spiegare la fortuna simbolica dell’ulivo in tutte le culture mediterranee sono, oltre alle ragioni della dieta e del gusto, le stesse caratteristiche fisiche dell’olio. In particolare la sua capacità di articolare relazioni tra le cose, e in senso figurato fra le persone. Lega e al tempo stesso impedisce agli ingredienti di attaccarsi e di confondersi. Unisce e insieme divide. Sembra una grande astrazione e invece è l’esperienza quotidiana di chi olia una teglia o unge un ingrediente per farlo scivolare meglio. L’olio è dunque un potentissimo connettivo, materiale e simbolico. Congiunge e disgiunge. Proprio perchè unge.


La repubblica – 5 novembre 2006

C. CHAPLIN & A. EINSTEIN

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Quando Charlie Chaplin e Albert Einstein si conobbero, Einstein disse:
“Quello che più ammiro nella vostra arte, è la sua universalità. Non dite una parola, e nonostante ciò tutto il mondo vi comprende.”
“È vero,” rispose Chaplin “ma la vostra gloria è ancora maggiore: il mondo intero vi ammira, anche se nessuno vi capisce”

CINEMA E NEUROSCIENZE

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Il reale nelle/delle immagini. La simulazione incarnata

 di Gioacchino Toni



Il saggio, scritto da un neuroscienziato ed un teorico del cinema, indaga la relazione che lega lo spettatore alle immagini cinematografiche, il tipo di rapporto intersoggettivo che si instaura tra gli spettatori ed i mondi possibili della finzione prodotti dal cinema. Le neuroscienze hanno da tempo evidenziato quanto l’intelligenza umana sia legata alla corporeità degli individui e come quest’ultima si realizzi pienamente attraverso l’esperienza. Il corpo ha un ruolo centrale nelle pratiche di simulazione che gli individui mettono in campo tanto nella vita quotidiana, quanto nelle esperienze estetiche e mediate. La risonanza motoria che il linguaggio cinematografico è capace di generare nello spettatore è un tema scarsamente affrontato dagli studi sul cinema, in questo saggio viene proposto un approccio al cinema caratterizzato come “estetica sperimentale”, intendendo con estetica la percezione multimodale del mondo attraverso il corpo.
Forti dell’idea che le neuroscienze possano contribuire a comprendere il funzionamento del cinema ed il suo rapporto con gli spettatori, gli autori si propongono di articolare un nuovo modello di percezione e dell’iniziale comprensione del mondo da essa generata che possa essere applicato tanto all’esperienza della vita reale, quanto a quella del mondo della finzione cinematografica. Da ciò la definizione della teoria della “simulazione incarnata” (embodied simulation) che, sostengono gli autori, costituisce un «meccanismo di funzionamento di base del sistema cervello-corpo dei primati, uomo incluso» (p. 15). Grazie a ciò, affermano Gallese e Guerra, risulta possibile instaurare una relazione diretta non-linguistica con lo spazio, gli oggetti, le azioni e le sensazioni altrui attraverso l’attivazione di rappresentazioni sensori-motorie e viscero-motorie del cervello del fruitore. Una delle ipotesi del saggio ritiene che tale meccanismo sia coinvolto nella generazione delle capacità immaginative umane. «La simulazione incarnata […] costruisce sulle evidenze neurofisiologiche un modello integrato ed empiricamente fondato della relazione con le immagini e coi film», tale teoria tenta di chiarire «importanti aspetti della costruzione del film, della sua ricezione e della sua specificità estetica» (p. 15).
Gli autori intendono ricavare dalle neuroscienze un contributo alla percezione delle immagini e costruzione delle relazioni tra individuo e realtà e tra individuo ed altri suoi simili. L’approccio neuroscientifico al cinema proposto dal saggio sottolinea la volontà di dialogare con altri approcci e discipline ed intende darsi come obiettivo «il sapere coniugare in maniera proficua la dimensione esperienziale e in prima persona con la ricerca dei sottostanti processi e meccanismi sub-personali espressi dal cervello e dai neuroni che lo compongono» (p. 16).
Gallese e Guerra sono convinti che vedere il mondo significa sempre anche guardarlo per capirlo; «l’esperienza visiva del mondo è il risultato di processi di integrazione multimodale, di cui il sistema motorio è un attore principale» (p. 16). L’integrazione multimodale di ciò che viene percepito avviene sulla base delle potenzialità d’azione (intenzionali) espresse dal corpo (inserito in un mondo abitato da simili). Attraverso la simulazione incarnata si costruiscono le rappresentazioni non verbali dello spazio e ci si rapporta in modo altrettanto non verbale alle cose ed agli altri esseri umani. La simulazione incarnata descrive, da un punto di vista funzionale, meccanismi neurali che mettono l’individuo in risonanza col mondo dando luogo ad una relazione dialettica tra corpo e mente, soggetto ed oggetto, io e tu. I due studiosi sottolineano che, pur avendo tratti in comune con l’empatia, la simulazione incarnata non può essere identificata con essa avendo un’applicazione assai più diversificata e vasta. Nel saggio viene delineato anche il concetto di “simulazione liberata”, una particolare espressione della simulazione incarnata che consente di comprendere meglio «la particolarità e insularità estetica dell’esperienza della […] finzione narrativa cinematografica» (p. 17), mostrando affinità e differenze rispetto all’esperienza di ciò che viene definito “mondo reale”.
Il saggio inizia (Primo capitolo) definendo le basi epistemologiche e neuroscientifiche poi applicate nei capitoli seguenti, di seguito (Secondo capitolo) vengono esaminate le forme della soggettività dispiegate dal cinema, indagando come esso abbia tentato di «creare una sovrapposizione credibile tra lo sguardo della macchina da presa ed il punto di vista dello spettatore, delegando alla macchina la responsabilità di simulare l’immanenza di un corpo umano entro lo spazio dell’inquadratura» (p. 18). Successivamente (Terzo capitolo) vengono analizzati i diversi movimenti di macchina ed i tipi di risonanza motoria che questi inducono nel pubblico e (Quarto capitolo) vengono indagati i diversi tipi di montaggio analizzandone le ricadute sullo spettatore. Nell’ultima parte del testo (Quinto capitolo) si riflette sul primo piano e sulla texture dell’immagine cinematografica ed, infine, (Sesto capitolo) si ragiona sul cinema del futuro a partire dalle tecnologie che ne rivoluzioneranno le capacità di coinvolgimento.
Uno dei due studiosi, Vittorio Gallese, ha fatto parte del gruppo che nei primi anni ’90 ha individuato i “neuroni specchio” e da tale ricerca è emerso come si attivino i medesimi neuroni nel presiedere e controllare un movimento tanto in chi lo compie, quanto in chi lo guarda compiere. Ciò ha evidentemente aperto numerose riflessioni circa le modalità di apprendimento e l’empatia.
Dal punto di vista cinematografico, l’obiettivo di ogni regista è, per certi versi, quello di coinvolgere lo spettatore sino a portarlo “dentro” al film. Lo spettatore, pur seduto in poltrona al cinema, quando osserva un film è capace di “simularsi in azione” all’interno di quello spazio bidimensionale che è lo schermo. A partire dalla teoria della simulazione incarnata, legata alla scoperta dei neuroni specchio, gli studiosi tentano di capire in che modo il cinema favorisca tale tipo di immedesimazione.

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Tra i diversi esempi riportati dal saggio, vale la pena soffermarsi su una sequenza di Notorius(di Alfred Hitchcock, 1946), realizzata attraverso un movimento di macchina che riflette l’immedesimazione dello spettatore. Si tratta della sequenza in cui la protagonista, Alicia, interpretata da Ingrid Bergman, deve rubare la chiave al marito per accedere alla cantina in cui si trovano alcune pericolose bottiglie di uranio. Hitchcock avverte lo spettatore dei pericoli che la donna corre mostrando l’ombra dell’uomo oltre la vicina porta del bagno socchiusa. Il regista inglese è un maestro nel giocare con la suspense dello spettatore (vero obiettivo del film, essendo la trama narrata in realtà molto esile e pretestuosa) ed in questa scena decide di ricorre ad un movimento di macchina che è una “falsa soggettiva” cioè, ad un certo punto, la macchina da presa inizia a muoversi in avanti attraverso un «movimento complesso, che piega lievemente verso sinistra e man mano che procede si abbassa verso la superficie del tavolo fino a enfatizzare il dettaglio del mazzo di chiavi. Proprio nel momento in cui il mazzo è, per così dire, a portata di mano, un taglio di montaggio ci mostra Alicia, in figura intera, ancora ferma sulla soglia della stanza» (p. 95). Lo spettatore carica quel movimento di un significato corporeo, cioè “si muove” convinto che la protagonista si stia avvicinando al tavolo, poi il regista mette a fuoco le chiavi stimolando nello spettatore la simulazione del gesto dell’afferrare, cioè attivando quei neuroni canonici che stimolano tale tipo di funzione. In quel momento lo spettatore ritiene che la missione della donna sia andata a buon fine, che le chiavi siano ormai state prese, mentre, improvvisamente, scopre che la donna è restata ferma sulla soglia. Tale forma di proiezione dello spettatore all’interno dello spazio del film, fino alle chiavi, è stata solo una forma di simulazione, dunque il film, giocando con la capacità proiettiva dello spettatore, lo ha portato a muoversi in quello spazio, perché, fino a quel momento, ad essersi mosso è lo spettatore cinematografico, mentre a non averlo fatto è la protagonista che restata ferma.
«La simulazione motoria ci ha a tal punto trascinati nel vivo della sequenza che quando Hitchcock ci mette di fronte all’irrealtà di quel movimento (che è stato soltanto una proiezione mentale del personaggio, e nostra) siamo come frustrati: Alicia non si è affatto avvicinata alle chiavi, è ancora ferma sulla soglia, lo scarico di tensione che si era consumato nel momento del dettaglio sul mazzo di chiavi viene annullato, e la suspense rilanciata con potenza ancora maggiore» (p. 98).
silence of the lamb 01Nell’indagare come i diversi tipi di montaggio abbiano ricadute sullo spettatore, tra gli altri, il saggio ricostruisce la celebre sequenza tratta da Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, di Jonathan Demme, 1991) in cui gli agenti, credendo di aver individuato il luogo in cui si nasconde il serial killer, finiscono con il fare irruzione nell’abitazione sbagliata mentre, altrove, nel medesimo momento, l’agente Sterling, interpretata da Jodie Foster, si trova, sola, alla porta del pericoloso assassino. Il film mostra alternativamente l’esterno dell’abitazione del serial killer, ove la polizia sta circondando la casa, e l’interno ove l’uomo tiene prigioniera la nuova vittima.
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La sequenza si protrae facendo credere all’osservatore che si tratti del medesimo luogo ed al suonare del campanello da parte di un agente sotto copertura (si finge un fiorista che deve consegnare un pacco) l’uomo si appresta, dopo essersi ricomposto, ad aprire la porta e, solo in quel momento, si apprende che si tratta di due luoghi differenti: la polizia fa irruzione in un’abitazione disabitata mentre il serial killer, altrove, apre la porta alla solitaria Sterling che indaga autonomamente. In questo caso, scrivono gli autori del saggio, «la suspense non è gestita attraverso movimenti di macchina particolari, o attraverso pratiche di sovrapposizione di sguardi, ma si fonda su un impiego magistrale e ingannevole del cosiddetto montaggio continuo, prendendo in contropiede la piena fiducia che lo spettatore ripone in questa diffusissima tecnica narrativa. Il montaggio continuo caratterizza la stragrande maggioranza dei film, dei video […] questa tecnica […] si è dimostrata nel tempo la più capace di farci accedere con naturalezza alla dimensione della finzione narrativa» (p. 175).
Secondo Gallese e Guerra tali modalità narrative intendono creare sequenze di inquadrature che agli occhi dello spettatore devono essere percepite come “oggettive”, capaci di rendere intelligibili i rapporti di intersoggettività e le situazioni in cui si vengono a trovare i personaggi e quando tale “oggettività” viene meno, ciò viene esplicitato da un cambio di prospettiva, come nel caso delle inquadrature in soggettiva. Neuroscienziati e psicologi della visione hanno recentemente osservato come «le convenzioni formali su cui si fonda questo tipo di montaggio (che viene etichettato come “hollywoodiano”, ma è diffuso in tutte le produzioni) sono compatibili con le dinamiche naturali dell’attenzione e delle nostre aspettative sulla continuità di spazio, tempo e azione e i modi in cui siamo in grado di soprassedere alle differenze tra i film e la realtà ci offrono un’ottima prospettiva di studio anche su come utilizziamo quotidianamente i medesimi processi fisici e cognitivi impiegati al cinema nel percepire la continuità del mondo reale» (pp. 175-176)
Il film, sappiamo, è costruito attraverso una concatenazione di immagini raccordate il più delle volte attraverso un montaggio continuo. In un film hollywoodiano contemporaneo si trovano circa un migliaio di diverse inquadrature, nel caso di un film d’azione possono tranquillamente essere anche il doppio. L’unità spazio-temporale e causale tra le diverse sequenze viene percepita tale nonostante il flusso percettivo sia in realtà dato da una lunga successione discontinua di immagini. Si tenga presente, sottolineano gli autori, che le immagini che raggiungono i nostri occhi sono continuamente interrotte dall’abbassarsi delle palpebre che interrompono per circa 150 millisecondi il flusso visivo dieci/quindi volte al minuto, dunque da ogni minuto di visione della realtà vengono a mancare 1,5 – 2,2 secondi di immagini. Inoltre, ogni minuto, i nostri occhi compiono tra i 2 ed i 5 movimenti saccadici (rapidi movimenti degli occhi eseguiti per portare la zona di interesse a coincidere con la fovea) che determinano un momento di cecità della medesima lunghezza di quello indotto dagli ammiccamenti. Da tale punto di vista, sostengono gli autori, occorre dire che la visione della realtà e la visione di un film hanno in comune una condizione di discontinuità. Il montaggio ha pertanto saputo trarre vantaggio dalla natura della visione sfruttandone le caratteristiche al fine di potenziare il senso di continuità che consente allo spettatore di immergersi nella narrazione cinematografica.
Diversi studi empirici hanno dimostrato che una narrazione per immagini che sfrutta il montaggio continuo viene compresa facilmente anche da chi non ha avuto contatti precedenti con il linguaggio cinematografico. Inoltre, altre ricerche hanno dimostrato che durante la visione di un film lo spettatore adatta ammiccamenti e movimenti saccadici a quanto sta osservando sullo schermo; gli intervalli fisiologici dell’occhio tendono a concentrarsi maggiormente nei momenti in cui l’attenzione per quanto viene proiettato diminuisce (es. durante un’interruzione tra un evento e l’altro). Quando il taglio del montaggio coincide con i momenti di ridotta attenzione, questo viene meno percepito dal pubblico. «L’efficacia delle tecniche di montaggio continuo dipende moltissimo dalla tipologia di immagini che si succedono prima e dopo il taglio» (p. 195).
Nella normale visione quotidiana i momenti di pausa visiva o di movimento degli occhi non compromettono l’esperienza soggettiva dell’individuo di una visione continua e coerente col mondo e ciò è dovuto alla capacità di anticipare l’esistenza, la localizzazione spaziale e i contenuti di ciò che si osserva grazie alle precedenti esperienze visive. Il montaggio continuo si basa sul rapporto tra anticipazione predittiva di ciò che verrà visto successivamente e percezione continua degli eventi narrati. Nel cinema si parla a proposito di ciò di “regola dei 180°”, cioè lo spazio in cui si filma deve essere pensato come diviso a metà da un asse ai cui antipodi prendono posto la macchina da presa e lo spazio profilmico (spazio ove si svolge l’azione da riprendere). Quando il montaggio non rispetta la “regola dei 180°” (“scavalcamento di campo”) viene fortemente notato dal pubblico; l’infrazione della regola determinerebbe un montaggio discontinuo in cui l’inquadratura successiva al taglio è ripresa da una posizione della macchina da presa che oltrepassa la linea dell’asse. Gli autori sottolineano come uno scavalcamento di campo comporti un’inversione speculare di quanto ripreso prima del taglio e lo spettatore si trova a sperimentare un’inversione della prospettiva egocentrica, perciò, «la seconda inquadratura montata violando la regola dei 180° non rappresenta soltanto un’incongruenza da un punto di vista visivo, ma si caratterizza anche per una profonda incongruenza sensori-motoria, causando una temporanea sospensione della simulazione incarnata mediante cui ci immergiamo nella scena [favorendo così] la focalizzazione della nostra attenzione sul taglio più che sul contenuto dell’azione filmata» (pp. 197-198). La dissonanza percettiva causata dall’assistere ad una sequenza montata violando al regola dei 180° viola le «aspettative sensori-motorie generate dalla nostra esperienza di interazione corporea e fattuale col mondo [ed interferisce] con il funzionamento dei meccanismi cerebrali che normalmente presiedono alla nostra produzione di azioni e alla loro osservazione quando eseguite da altri» (p. 198).

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A partire dall’incipit di Persona(di Ingmar Bergman, 1966) Gallese e Guerra analizzano la valenza tattile e apatica determinata dalla visione di volti, mani, corpi od oggetti in primo piano, riprodotti decisamente fuori scala. L’opera del regista svedese rappresenta sicuramente uno dei film maggiormente legati all’espressività fisica del corpo, mostrato soprattutto attraverso il volto e le mani, e della materialità degli oggetti e della natura. Con tale opera Bergman «riesce a fare della visione il centro espressivo della psicologia dei personaggi e della loro ambigua ricezione da parte degli spettatori, incastonando il tutto in una riflessione metacinematografica sul rapporto tra realtà e rappresentazione, tra ruolo pubblico (di attrice, di infermiera, di madre mancata) e indefinibile identità personale, tra narrazione esplicita di sé e la sottotraccia delle pulsioni e delle memorie implicite che ne scindono la coerenza e ne modificano l’equilibrio, tra dialogo e monologo» (p. 211).
L’ipotesi che intendono verificare i due studiosi è che «il primo piano esalti le qualità riguardanti il dettaglio anatomico, la tessitura, trama e consistenza fisico-materiale dell’immagine, in modo da privilegiare una risonanza tattile e aptica da parte dello spettatore nei confronti delle stesse immagini, grazie all’evocazione potenziata della simulazione incarnata» (p. 217)
L’identificazione immersiva e la partecipazione da essa generata rispetto alle immagini cinematografiche passa attraverso una risonanza motoria con movimenti, azioni ed espressioni dei diversi personaggi, che non richiederebbe il ricorso all’ingrandimento dell’immagine. Il primo piano invece, sostengono gli studiosi, «esalta e focalizza la visione dello spettatore sugli aspetti più materici degli oggetti ripresi, siano essi volti, mani, paesaggi o costruzioni e oggetti prodotti dalla mano umana» (p. 217). A suffragare tale ipotesi concorrono alcune recenti scoperte relative alla «neurofisiologia del sistema somatosensoriale che ne hanno messo in luce la natura multimodale: […] il sistema corticale che mappa le sensazioni tattili, infatti, non si attiva solo quando esprimiamo un contatto sul nostro corpo, ma anche quando lo vediamo esperire a qualcun altro» (p. 217).
Lo schermo empatico si rivela un valido contributo al dibattito circa il nuovo il rapporto tra immagini e reale che, ormai da qualche tempo, viene indagato da diverse angolature. Il fatto che le modalità di fruire le immagini audiovisive siano per molti versi analoghe alle modalità con cui si fruisce il mondo reale offre spunti di riflessione importanti anche al fine di comprendere meglio quello che sembra essere ormai una sorta di groviglio inestricabile in cui risulta sempre più complicato discernere tra reale e finzionale. Il saggio si chiude in un interessante riflessione sul cinema del futuro a partire dalle tecnologie che ne rivoluzioneranno le capacità di coinvolgimento dello spettatore.

 Vittorio Gallese, Michele Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 318 pagine, € 25,00

POESIA, POLITICA E FIORI

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Un critico letterario racconta un imprenditore e la sua fabbrica in tredici scritti d’occasione. L’imprenditore è Adriano Olivetti e il critico è Geno Pampaloni, che con sguardo penetrante e poetico restituisce un’immagine del mondo olivettiano tanto suggestiva quanto concreta, confermando in ogni pagina la fedeltà e il senso di un’esperienza né tradita né dimenticata.

“Per Olivetti la giustizia sociale era l’unica forma di progresso ammissibile e implicava la possibilità per tutti di fruire della bellezza. Mai eredità ideale così ricca fu abbandonata in modo altrettanto totale”

GENO PAMPALONI (1918-2001) Considerato tra i maggiori intellettuali e critici letterari del dopoguerra, Geno Pampaloni fu per dodici anni responsabile dei servizi culturali alla Olivetti e segretario personale di Adriano. Alla sua vastissima produzione di saggistica letteraria affiancò la collaborazione con i principali quotidiani e riviste italiane.

IL FUOCO NON HA RIDOTTO IN CENERE GIORDANO BRUNO

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"TREMATE VOI O GIUDICI A PROFFERIR LA MIA SENTENZA  CHE NON IO NELL'ASCOLTARLA"
La tragica vicenda di Giordano Bruno testimonia di come la libertà dei moderni per affermarsi abbia dovuto lottare contro l’arbitrio della Chiesa. Una vicenda che attraversa i secoli fino all’edificazione della statua in Campo dei fiori a Roma che la Chiesa cercò di ostacolare in tutti i modi. La spuntò l'Italia laica, ma erano altri tempi. Oggi forse i vescovi avrebbero avuto partita vinta in nome del superamento delle ideologie e del politicamente corretto.

Andrea Comincini

Un rogo che ha illuminato la Storia

È il 9 giugno 1889 quando un grande telo bianco viene rimosso, e la statua di Giordano Bruno, il filosofo nolano bruciato in Campo de’ fiori il 17 febbraio del 1600, viene accolta da una platea numerosissima e festante. Alla base della scultura, otto effigi, raffiguranti altri «martiri del libero pensiero»: Hus, Wycliff, Serveto, Aonio Paleario, Vanini, Ramus, Campanella e P. Sarpi.

Una scritta riassume non solo la tragica vicenda, ma diventa sintomatica del clima di quegli anni, e sarà premonitrice del futuro: «A Bruno, il secolo da lui divinato».

In Giordano Bruno, edito dal Mulino (pp. 110, euro 9), Anna Foa racconta la vita in pellegrinaggio del pensatore, le disavventure processuali, e definisce in maniera limpida la grande questione che lo vide suo malgrado fare da spartiacque: tracciare il confine ideale tra la libertà dei moderni e l’autorità della Chiesa.

Il testo si apre con il resoconto delle vicende che riguardano l’erezione di una delle statue più famose d’Italia, e dimostra come la fiamma che si elevò nel 1600 non era stata ancora dimenticata, da entrambe le parti. Da un lato il Vaticano, dall’altra liberali, massoni, socialisti, e anticlericali. I giornali cattolici definirono «orgia satanica» il grande raduno inaugurale, e il soglio pontificio intero si scatenò con una collera di rara intensità.

Il Papa, ci racconta la studiosa, non solo temette per la sua persona, ma si ritirò l’intero giorno in digiuno, prostrato davanti la statua di San Pietro. L’aristocrazia nera abbandonò la città: i giornali parlarono di pericolo rivoluzionario, condannando senza appello l’evento, come fece pochi anni prima Mons. Pietro Balan, in uno scritto commissionato dai Comitati Cattolici, in cui esprimeva il proprio disgusto per la propaganda bruniana, bollata perché espressione di «atei, ebrei, stranieri e massoni».

Questo attacco così frontale, ricorda la Foa, arrivò a picchi esilaranti, tragicomici, quando si iniziò a sostenere che l’inaugurazione aveva portato inondazioni, frane e uragani.

Un testo particolare dunque, dove si raccontano aspetti meno noti ma altrettanto significativi. La risposta del mondo anticlericale fu fortissima, e visti i risultati, vincente: la statua venne collocata a Campo de’ fiori e non nel cortile della Sapienza, (alcuni moderati avrebbero preferito cedere al compromesso), e le manifestazioni nelle piazze forgiarono un clima in cui nessuno avrebbe osato veramente sfidare il mondo laico. Un mondo che vide la raccolta di firme prestigiose, sia italiane sia internazionali, «divinatrici» anch’esse del secolo a venire.

Una epoca di scontri, non risolti nemmeno successivamente. È Antonio Labriola, in una introduzione scritta nel 1910 a proposito del Nolano, a affermare: «Noi non abbiamo ancora vendicato il martirio di Bruno perché non abbiamo ancora condotta la saggezza in mezzo al popolo, e per esso può sembrare ancora necessaria la morale ecclesiastica».

Anna Foa approfondisce l’aspetto sociologico della figura di Bruno partendo da questo insanabile conflitto, e spiega come la sua immagine simbolica sia servita a sostenere una battaglia politica e culturale, nell’Italia appena unita e appesa a un filo. Anche grazie a Bruno sorge una tradizione (il procedimento ricorda quanto Benedict Anderson, nel famoso Comunità immaginate, segnala a proposito della nascita delle Nazioni), una storia del libero pensiero, di cui il Nolano fu uno dei grandi protagonisti. Filosofo, certamente, ma non solo. Mago e ribelle parimenti, e per questo costretto a un continuo peregrinare per le corti d’Europa, per insegnare e concentrarsi sulla «eroica» dottrina.

Nella parte centrale del libro, ovviamente, si riflette intorno le cause del processo, e le accuse. La ricostruzione precisa e coinvolgente accompagna la lettura e restituisce una visione d’insieme delle vicende di rara sistematicità.

Giordano Bruno, al di là delle interpretazioni o del ruolo storico, e della sua volontà, si trova a rappresentare lo scontro fra le istanze della modernità ed un potere, la Chiesa, tenacemente opposto: un contrasto, viste ancora oggi le continue tensioni in ambito politico e sociale, non ancora sanato o concluso.


il manifesto – 28 gennaio 2016

SESSO E POTERE 1

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Ideologie del corpo. Sesso, Genere e Potere (1/2)


di Raùl Zecca Castel

 
1 –Mito
È parte costitutiva di un thesaurus mitografico pressoché universale l’idea che alle origini del creato, in un tempo coevo o immediatamente successivo all’atto cosmogonico, la natura umana fosse sessualmente indifferenziata, o, almeno, che oltre al maschile e al femminile, esistesse un essere qualitativamente androgino, che partecipasse dunque sia del carattere maschile che di quello femminile. A titolo esemplificativo, nel quadro di uno tra i vari miti d’origine fondativi dell’immaginario occidentale, si pensi al racconto che Platone affida ad Aristofane nel Simposio, dove il celebre commediografo greco narra di primordiali tipi umani dotati di quattro braccia, quattro gambe, due volti, due organi sessuali, e così via lungo la descrizione di un essere morfologicamente bisessuale, successivamente diviso in due metà complementari a colpi di saetta da Zeus, preoccupato da quella che considerava una potenziale minaccia alla superiorità sua e degli dèi tutti.


Altrettanto diffusa nel mito, inoltre, sembra essere quella che Gabriella D’Agostino ha definito “una situazione di diseguaglianza a favore del femminile ribaltatasi successivamente a causa di un comportamento scorretto o incapace da parte delle donne”[1]. Si ha qui l’irrompere sulla scena mitografica del tema della colpa [2]– e del conseguente castigo – quale espediente ideologico per legittimare la Storia: allo stesso tempo giustificazione ancestrale di una gerarchia sociale fondata sulla subordinazione del femminile al maschile e sorta di esorcismo nei confronti della paura che accompagna il pensiero di un originario assetto ginecocratico della società.
Relativamente a quest’ultimo aspetto, un altro mito classico, poi declinato in diversi ambiti geografici e storici, accorre in nostro aiuto. Si tratta del mito delle Amazzoni, donne guerriere che sia Omero che Erodoto collocano ai margini delle terre civilizzate, oltre i confini del mondo greco, “figure – afferma D. Bigalli – che abitano le zone liminari, si insediano nei confini, denunciano la ambiguità della frontiera, insieme baluardo, gesto di esclusione, e il luogo dell’attraversamento, del passaggio”[3]; attraversamento e passaggio che non si realizzano esclusivamente lungo i confini di mondi territoriali diversi e contrapposti, ma che interessano soprattutto i confini rassicuranti delle identità di genere. Ecco che l’amazzone esita su questa soglia pericolosa a metà strada tra il maschile ed il femminile: priva di un seno (a-mazós), ella si dedica al virile mestiere bellico, stretta in un’armatura da guerra che ne cela, annullandola, l’identificazione sessuale. L’amazzone rappresenta il simbolo di una sfida che costantemente rievoca e rinnova “la consapevolezza della presenza di un arcaico femminile, terribile soprattutto perché si esprime nell’assunzione, da parte delle donne, di una funzione squisitamente maschile, quella guerriera; questa presenza, che muove dagli abissi del tempo, è venuta delineando il quadro dell’Ecumene classica, nella quale l’espansione ellenica assume insieme i contorni di un processo di civilizzazione e di un processo di sostituzione del regime maschile, patriarcale, a quello matriarcale, dove l’amazzonismo, giusta la interpretazione bachofeniana, si vuole la forma estrema della ginecocrazia”[4].
Allo stesso modo, la trasposizione del mito amazzonico in terra d’America associa la figura autorevole e minacciosa della donna combattente ad un luogo ostile e in-definito come quello della foresta pluviale – foresta amazzonica, per l’appunto -, densa di pericoli e misteri insondabili che assumono da un lato le sembianze orrorifiche di una fauna mostruosa dedita a pratiche antropofaghe, ma che dall’altro alimentano la leggenda di El Dorado, l’ambita città d’oro e diamanti. Ancora una volta, dunque, la figura sfuggente e ambigua della donna-uomo che sovverte le presunte identità di ruolo stimola l’immaginario umano – maschile – evocando allo stesso tempo le paure e i desideri più reconditi. Per quanto la maggior parte delle volte il femminile venga associato esclusivamente al polo negativo di ogni formulazione dicotomica, tale ambivalenza trova ad ogni modo una sua spiegazione nel fatto significativo per cui “nell’immaginario classico la figura del popolo amazzonico si venisse a inserire in una costellazione di coppie oppositive, a partire da quella fondamentale maschile/femminile, per coniugarsi ad altre, quali giorno/notte, barbarie/civiltà, stabilità dell’insediamento umano/nomadismo”[5]. A tal proposito risulterà proficuo il riferimento al saggio del 1974 di Sharry Ortner dall’eloquente titolo Is Female to Male as Nature is to Culture?[6]. In questo scritto, difatti, l’autrice osserva come sia comune a tutte le culture l’idea per cui la donna è ritenuta più vicina alla natura di quanto lo sia l’uomo. Ciò a causa delle funzioni riproduttive proprie della fisiologia femminile che avrebbero imposto alla donna ruoli sociali di ambito esclusivamente domestico, lasciando agli uomini la possibilità di occuparsi della politica, qui intesa nella sua accezione più ampia di res publica. Ecco allora che la varietà delle coppie oppositive più sopra menzionate può ricondursi alla dicotomia fondamentale tra natura e cultura. Sempre lungo tale prospettiva si colloca dunque anche il discorso di M. Rosaldo[7] che si esprime nella divisione tra privato e pubblico, dove il primo definirebbe evidentemente il raggio d’azione delle donne ed il secondo quello degli uomini. È a partire dalla constatazione di tale universale associazione della donna alla natura e dell’uomo alla cultura, infine, che secondo entrambe le autrici avrebbe origine la gerarchizzazione dei sessi.
Un altro aspetto significativo per il discorso che si viene qui delineando rispetto all’amazzone, ma più in generale rispetto all’immagine simbolica di un corpo monosessuato, androgino o sessualmente ambiguo, riguarda il tema del travestimento. Per un verso, la pratica di abbigliarsi secondo i canoni di riferimento del sesso opposto, in particolar modo per le donne, ha storicamente assunto un valore che si potrebbe definire di tipo politico in quanto costituiva ed organizzava un’occasione eversiva nei confronti del nomos. Le donne andavano così ad occupare “uno spazio altro, quello della liberazione e della fuga. La foresta, il mare, il deserto, il monastero, la città, la corte, i luoghi della separazione conclamata o del contratto, della solitudine o del consorzio civile, assecondano questo processo di metamorfosi mutando anch’essi insieme all’identità in movimento delle foemine masculiate”[8]. Si rende di nuovo evidente, così, il forte nesso che unisce l’ambiguità sessuale, ora espressa attraverso il sovvertimento delle regole d’abbigliamento relative all’identità di genere, all’immagine del transito, del passaggio, anche geografico. Introducendo una distinzione tra il fenomeno del travestitismo temporaneo e quello permanente, G. D’Agostino ha rilevato come nel primo, caratteristico di particolari situazioni rituali, si attui una “sospensione circoscritta al tempo del rito, dell’ordine biologico, sociale e culturale su cui una comunità fonda il proprio equilibrio, che finisce con il ribadire l’identità tra fatto biologico e fatto sociale”[9]. Così, l’assumere provvisoriamente le sembianze del sesso opposto indossandone gli abiti ed accettandone il significato, costituirebbe in questo caso un espediente sociale teso a confermare e rafforzare la propria vera identità sessuale, oltre che a ribadire l’ordine complessivo dell’esistente.  Di contro, nel travestitismo permanente, tale dimensione sospensoria dell’ordine biologico e cosmico si traduce in una condizione definitiva che trova il suo scopo nell’affermazione di una nuova identità personale e che, parallelamente, attua una sovversione dell’ordine politico prestabilito.
Per altro verso, il travestitismo rimanda a quella concezione mitico-religiosa del corpo ermafrodito tipica delle speculazioni cosmogoniche cui si faceva più sopra riferimento e che evoca la dimensione del divino quale perfezione assoluta, intesa etimologicamente nei termini di ciò-che-è-compiuto, completato, o meglio, che ha raggiunto il suo scopo: in questo caso la presunta unione primordiale del maschile e del femminile, quell’unione così idealmente pericolosa agli occhi di Zeus. Rispetto alle diverse forme di travestimento rituale, dunque temporaneo, lo storico delle religioni Mircea Eliade ha scritto che la loro funzione consiste infatti nel “ripristinare una situazione originaria, trans-umana e trans-storica perché anteriore alla costituzione della società umana […] onde restaurare, anche per un solo istante, la totalità iniziale, la sorgente intatta della sacralità e della potenza”[10]. Non a caso, simbolo per eccellenza del travestimento, è la maschera. Questa, lungi dal ridursi semplicemente all’accezione negativa del termine quale sinonimo di nascondere ed occultare, esprime invece, come ha avuto modo di osservare Károly Kerényi, il segno arcaico della soglia tra natura e cultura: evocando il pre-umano evoca il divino[11].
All’interno del quadro concettuale del travestitismo e più in generale dell’ambiguità androgina quale indizio della perduta unità divina può essere significativo anticipare ora come nella tradizione indigena nordamericana la figura del travestito omosessuale (berdache) goda di uno status sociale particolarmente beneficiato in quanto la sua condizione ambivalente – maschile e femminile – è ritenuta espressione di un’umanità superiore, più vicina all’essenza degli dèi[12].
Ciò che preme qui mostrare, infine, è che l’idea di una sessualità umana ambigua, difficilmente riconducibile al paradigma binario del maschile e del femminile, ha attraversato i tempi e le culture, incarnandosi non solo nei più diversi miti d’origine e nelle varie leggende storiografiche, ma anche nel pensiero scientifico, specialmente in campo medico, e, ben più concretamente, in alcuni resoconti etnografici divenuti ormai celebri per aver dato luogo ad accesi dibattiti tra e biologi ed antropologi.
1.1 – Scienza
Hermaphroditos_anasyromenos_statuette 
In un noto saggio di Thomas Laqueur dato alle stampe nel 1990 e intitolato Making Sex: Body and Gender from Greeks to Freud[13], il sessuologo americano ha inteso ripercorre la storia relativa al mutamento della rappresentazione del corpo e della sessualità in Occidente a partire dalla Grecia antica sino al diciottesimo secolo, quando, a tal proposito, si sarebbe verificato un radicale cambiamento di paradigma: se fino a questo momento vigeva difatti una concezione del corpo che Laqueur ha definito come one-sex model, vale a dire come di un corpo anatomicamente monosessuato, che trovava le sue radici teoriche da un lato nella filosofia aristotelica e dall’altro nella medicina galenica, ora si imponeva invece la nuova visione di un corpo bisessuale – two-sex model -, che si appropriava della teoria dimorfistica come di un’arma ideologico-clinica contro le deviazioni della presunta natura umana. Si veda qui l’indagine circa la figura dell’ermafrodita condotta da Foucault rispetto proprio all’avvento di una scienza del corpo quale dispositivo politico-giuridico: “gli ermafroditi furono dei criminali, o dei figli del crimine, poiché la loro disposizione anatomica, il loro stesso essere confondeva la legge che distingueva i sessi e prescriveva la loro unione”[14]. Come dimostrano le strane confessioni di Herculine Barbin, le conseguenze di tale prospettiva sono inevitabilmente traumatiche e talvolta anche drammatiche, tanto da trovare, in questo caso, i loro ultimi effetti in un tragico suicidio. Sempre Foucault ha notato come solo una lettura mitica del proprio destino abbia in qualche modo consolato la tormentata adolescenza di Herculine per oscillare continuamente “tra uno stato di immedicabile scoramento e l’orgogliosa affermazione della preminenza connessa a una duplice e perciò più ricca e privilegiata natura. […] diversità che è al tempo stesso destino e elezione […], oscura reminiscenza della sferica perfezione dell’essere primordiale che, riunendo in sé i caratteri e le facoltà dell’uomo e della donna, aveva nel cosmo una posizione di semindivina autorità e potenza”[15].
Nel merito del discorso circa il valore ideologico che sottende qualsivoglia espressione concettuale (sapere-potere), è significativo notare come già con Galeno (129 – 216), nonostante l’idea di un corpo sostanzialmente monosessuato, fosse comunque in atto una forte discriminazione gerarchica tra il maschile ed il femminile. Si fa riferimento qui alla tesi per cui la donna fosse un uomo mancato, vale a dire un corpo imperfetto. Sulla scorta della teoria tetraumorale formulata da Ippocrate, Galeno postulò che fosse una minore presenza di calore vitale la causa della non fuoriuscita del pene nelle donne. Questo perché l’anatomia umana era intesa in termini di unicità sessuale, dunque la differenza tra il corpo femminile e quello maschile consisteva unicamente nel fatto che il primo era il rovescio, l’inversione, del secondo. Di qui la logica possibilità per le donne che per via di qualche movimento eccessivamente energico o calorico si verificasse l’insorgenza dei genitali maschili. Possibilità avvalorata peraltro da due testimoni d’eccellenza come il chirurgo Ambroise Paré e il filosofo Michel de Montaigne, i quali riportano – quest’ultimo nel suo Journal de voyage– il caso di tale Marie improvvisamente divenuta Manuel. Ancora in epoca tardo-rinascimentale, dunque, vigeva una rappresentazione sessuale del corpo di tipo unitaria, ma soprattutto, come dimostra l’esempio appena accennato, si riteneva che il genere potesse agire un forte influsso sul sesso, tanto che agli uomini e alle donne era richiesto di prestare molta attenzione alle proprie attitudini e al proprio stile di vita, al fine che si conformassero il più possibile con quelli che erano ritenuti i rispettivi codici di comportamento ideale previsti dalla società del tempo. A ragione Massimo Rizzardini scrive che “di fronte al rischio di un’identità in perenne movimento, almeno fino al 1600 era fondamentale esercitare un controllo sul genere a garanzia del mantenimento di un ordine sociale prestabilito. La politica dei ruoli investiva di conseguenza la sfera della sessualità”[16].
È perciò ancora una volta evidente come non solo il mito, ma anche il pensiero filosofico-scientifico, facciano parte di un più vasto sistema ideologico funzionale alla Storia, teso a legittimarne, più o meno implicitamente, l’ordine arbitrariamente gerarchico e discriminatorio che, fino ad oggi, ne ha scandito il ritmo e il destino.
1.2 –Etnografia
Che la rappresentazione del corpo e della sessualità risulti variabile e mutevole a seconda dei diversi contesti culturali è un concetto antropologico ormai acquisito, anche se comunemente ancora troppo spesso trascurato, almeno per quanto riguarda le implicazioni filosofiche che ne procura l’emergenza e che inviterebbero a riflessioni molto più profonde e problematiche sia rispetto al tema generale dell’adeguatezza e della validità dei vari metodi relativi all’indagine gnoseologica, dunque riguardo alla questione circa la condizione di possibilità della stessa, che rispetto alla tema particolare, nonché qui di nostro interesse, dell’assenza di un universale umano, di una natura umana data. Come hanno documentato i casi etnografici che ci apprestiamo a menzionare, il significato che il corpo e la sessualità rivestono, o hanno rivestito, al di fuori della cultura occidentale sono estremamente rivelativi a proposito della riflessione qui in corso.
È così che tra gli Inuit dell’Artico vige la credenza per cui ogni nuovo nato è la reincarnazione dell’anima di un progenitore. Spetta allo sciamano il compito di annunciarne pubblicamente l’identità affinché l’individuo sia allevato in conformità a tale rivelazione. Non è cosa insolita dunque che un bambino anatomicamente maschio venga vestito con abiti femminili ed educato a comportarsi secondo i principi ed i valori che sono ritenuti propri delle donne. Viceversa per una bambina la cui anima si crede appartenga ad un antenato maschio. È dunque evidente come in tale sistema culturale non sia la biologia a determinare l’identità di genere dell’individuo quanto piuttosto una concezione della metempsicosi significativamente profonda ed incisiva. Il fatto che una volta raggiunta l’età puberale gli individui debbano provvedere ad assecondare il loro sesso biologico riadattando il proprio ruolo di genere alla ritrovata identità anatomica, non toglie che la questione del rapporto sesso-genere, così come vissuta tra gli Inuit, stimoli una più ampia riflessione sui temi della natura e della cultura. A maggior ragione se si tiene conto, come dimostrato dalle ricerche condotte da Bernard Saladin d’Anglure presso le popolazioni Inuit, che taluni individui, detti sipinik, non accetteranno di riadeguare il proprio stile di vita al sesso biologico che è loro peculiare e continueranno così la loro esistenza nei panni del progenitore reincarnato.
inuit child 1927A parte il caso dei sipinik, tuttavia, l’omosessualità non è pratica comune tra gli Inuit. Al contrario: “il sesso biologico è associato alla riproduzione e al matrimonio, e pertanto all’eterosessualità”[17]. Non è così invece per molte popolazioni indigene che abitano le diverse isole della Melanesia. Qui, infatti, è diffusa la credenza che la responsabilità del sesso, del genere e del carattere degli individui sia da ascrivere a una serie di sostanze corporee quali soprattutto il sangue e lo sperma. Così, tra i Bimin-Kuskusmin della Nuova Guinea, “lo sperma maschile, i fluidi fertili femminili e il sangue mestruale formano gli elementi basilari con cui si costruisce l’essenziale natura psicobiologica della persona. Il genere è una parte invariabile di questa costruzione. La natura dei maschi e delle femmine si differenzia non soltanto in relazione alle caratteristiche morfologiche, ma anche in relazione alle capacità di ricevere, trasformare e trasmettere le sostanze stesse che li formano, così come di raggiungere equilibri distinti tra queste sostanze”[18]. Lo sperma in particolare è ritenuto veicolo privilegiato al fine di trasmettere la virilità alle generazioni più giovani da parte di quelle più anziane. Il ricorso alla fellatio omosessuale e la successiva inseminazione orale, dunque, è una consuetudine tesa a sancire la formazione della mascolinità. Per tale motivo, l’età più propizia è considerata quella che va dalla tarda infanzia sino alla pubertà. Tra i Sambia, popolazione papuense studiata da G. Herdt, la pratica dell’inseminazione orale ha inizio intorno ai sette anni e si protrae fino ai quattordici-quindici, età che segna il passaggio alla vita adulta. Da questo momento, i maggiori di quindici anni, ormai uomini, potranno a loro volta dedicarsi ad iniziare alla mascolinità i più giovani; almeno finché non prenderanno moglie ed avranno dei figli. Dopodiché le relazioni omosessuali saranno loro interdette. Alla stregua dei sipinik inuit, tuttavia, alcuni individui continueranno a prediligere i giovani maschi alle donne[19].
Per concludere, innumerevoli comunità indigene del Nord America hanno contato – e in alcuni casi continuano a contare ancora oggi – sulla presenza di una figura dall’ambigua identità di genere che è stata sommariamente definita con il termine di berdache, dal francese bardache (omosessuale passivo). Nota anche come due-spiriti o uomini-donna, si tratta, nella maggior parte dei casi[20], di individui che dal punto di vista anatomico dovrebbero appartenere alla categoria maschile, ma che, assecondando una diversa inclinazione psicologica, indossano abiti femminili e, con sufficiente approssimazione, svolgono mansioni che ad essi si confanno. Con sufficiente approssimazione, si diceva, poiché molto spesso, in realtà, la figura del berdacheè interpretata quale espressione di uno status privilegiato: se per un verso non è né uomo né donna, per un altro è qualcosa di più sia dell’uno che dell’altra. Viene a configurarsi così per il berdache la peculiarità di riunire in sé qualità e virtù che gli consentono di accedere a ruoli straordinari e di grande prestigio[21] preclusi al resto degli individui della comunità.
I tre casi qui passati in rassegna, per quanto rappresentino validi esempi etnografici circa il carattere di costruzione socio-culturale dell’identità di genere, screditando così l’assunto principe del determinismo biologico per il quale il genere non sarebbe altro che una diretta conseguenza del sesso anatomico, lasciano tuttavia integra la teoria del dimorfismo sessuale. Resiste ancora, in qualche modo, l’idea che effettivamente viga una natura binaria del sesso anatomico. Paradossalmente, le specificità culturali appena sopra menzionate, ne costituirebbero in ultima analisi un’ulteriore prova, confermandone la verità. La nozione di “terzo sesso”, utilizzata di frequente per riferirsi ai trasgressori di genere[22], ed impiegata anche in riferimento al caso degli Inuit così come a quello del berdache indigeno nordamericano, non risulta perciò del tutto corretta. Ciò proprio per il fatto che il discorso è relativo al genere e non al presunto dato biologico, il sesso anatomico, che invece non viene messo in discussione. A titolo esemplificativo valgano qui le parole con cui H. Whitehead si è espressa rispetto a tale questione in merito al berdache nordamericano: “Nella maggior parte del continente, non si riteneva che il ‘parte-uomo, parte-donna’ fosse donna nelle ‘parti’ fisiologiche né che fosse costretto a fingerlo. Era sufficiente che facesse ciò che facevano le donne riguardo a occupazione, abbigliamento e contegno. Ciò determinava la componente femminile della sua identità proprio come l’anatomia determinava quella maschile e la mescolanza delle due dimensioni dava origine al suo status speciale”[23].

La seconda parte di questo articolo sarà pubblicata il prossimo 6 febbraio

Testo ripreso da  http://www.carmillaonline.com/2016/02/03/ideologie-del-corpo-sesso-genere-e-potere/

Note
[1] D’AGOSTINO, G., Introduzione, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, Sesso e genere. L’identità maschile e femminile, Sellerio, Palermo, 2000, p. 13.
[2] Sul tema generale dell’individuazione nei termini di colpa cfr. CARBONE, M. et al., Divenire innocente, Mimesis, Milano, 2006.
[3] BIGALLI, D. et al., Amazzoni, sante, ninfe. Variazioni di storia delle idee dall’antichità al Rinascimento, Cortina, Milano, 2006, p. 4.
[4] Ivi, p. 6
[5] Ivi, p. 7
[6] ORTNER, S., “Is female to male as nature is to culture?”, in ROSALDO, M. Z. et al., Woman, Culture and Society, Stanford University Press, Stanford, 1972, pp. 67-87.
[7] ROSALDO, M. Z., “Woman, Culture and Society: a Theoretical Overview”. In ROSALDO, M. Z. et al., Woman, Culture and Society, Stanford University Press, Stanford, 1972.
[8] RIZZARDINI, M., “Dietro la maschera. Simbolo e metafora della donna mascoliata”, in BIGALLI, D. et al., op. cit., p. 121.
[9] D’AGOSTINO. G, Introduzione, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 16.
[10] ELIADE, M., Mefistofele e l’androgine, Mediterranee, Roma, 1989, p. 103.
[11] Cfr. KERÉNYI, K., Miti e maschere, Einaudi, Torino, 1950.
[12] Vedi paragrafo 1.3.
[13] LAQUEUR, T., L’identità sessuale dai Greci a Freud, Laterza, Bari, 1992.
[14] FOUCAULT, M., Storia della sessualità. Vol. 1: La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 38.
[15] FOUCAULT, M., Nota introduttiva, HERCULINE, B., Una strane confessione. Memorie di un ermafrodito presentate da Michel Foucault, Einaudi, Torino, 2007, pp. XI-XII.
[16] RIZZARDINI, M., “Dietro la maschera. Simbolo e metafora della donna mascoliata”, in op. cit., p. 125.
[17] BUSONI, M., Genere, sesso, cultura. Uno sguardo antropologico, Carocci, Roma, 2000, p. 23.
[18] POOLE, F. J. P., “La trasformazione della donna ‘naturale’. I capi rituali femminili e l’ideologia di genere presso i Bimin-Kuskusmin”, in  ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 251.
[19] Cfr. HERDT, G. & STOLLER. R. J., Intimate communications: erotics and the study of culture, New York, Columbia University Press, 1990.
[20] In realtà non è una questione di statistica, quanto di status: “In gran parte del Nord America, non vi era una controparte femminile riconosciuta del berdache maschio. Eppure non sembra che le donne disposte e capaci di attraversare i confini sessuali siano state di numero limitato”, WHITEHEAD, H., “L’arco e la cinghia del fardello. Uno sguardo sulla omosessualità istituzionalizzata nel Nord America indigeno”, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 187.
[21]“[…] come mediatore matrimoniale, mago in affari d’amore o guaritore di malattie veneree […] capo della sua casa natale, dal momento che la famiglia nutriva l’idea che la sua presenza garantisse loro ricchezza […] Si riferisce anche di funzioni rituali specializzate, come il taglio di un particolare palo di tenda rituale (Crow), o officiare alle danze degli scalpi (Papago e Cheyenne)”, ivi, p.185.
[22] Nell’accezione etimologica di “passare” e “attraversare” il genere cui fa riferimento H. Whitehead, dunque priva di connotazione morale. Cfr. ivi, p. 178.
[23] Ivi, p. 187.

LO SCIOPERO ALLA ROVESCIA DI DANILO DOLCI 60 ANNI FA

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Abbiamo parlato più volte, anche in questo blog, dello "sciopero alla rovescia"ideato da Danilo Dolci negli anni cinquanta e realizzato, insieme alla Camera del Lavoro di Partinico, il 2 febbraio 1956. Ci siamo anche chiesti più volte perchè, malgrado la crescente disoccupazione, non si fanno più scioperi come quello. fv


Sessant’anni fa ‘lo sciopero
alla rovescia’ di Danilo Dolci


Il 2 febbraio del 1956 si è svolto tra Partinico e Trappeto il celebre “sciopero alla rovescia” ideato da Danilo Dolci e messo in atto insieme alla Camera del Lavoro di Partinico.
Per celebrare l’anniversario ieri a Partinico, si è tenuta un’iniziativa nell’aula magna dell’istituto comprensivo “Ninni Cassarà” sul tema “La nostra memoria e il nostro futuro” organizzata da Cgil, Uil, Osservatorio per lo sviluppo e la legalità, associazione “Danilo Dolci nuovo futuro” e dal Comune.
Hanno partecipato i figli di Danilo Dolci, dirigenti sindacali, docenti, associazioni, amministratori locali e testimoni dello sciopero alla rovescia, come Gaetano Ferrante, ex direttore del dipartimento di Fisica dell’Università di Palermo: è oggi l’unico ancora in vita dei sette arrestati del 2 febbraio ’56, allora aveva vent’anni.
Il 2 febbraio 1956 il sociologo triestino Danilo Dolci, trasferito in Sicilia già da 4 anni, veniva arrestato mentre guidava un gruppo di braccianti, edili, allevatori, pescatori, organizzato dalla Camera del Lavoro di Partinico, a lavorare nella Trazzera vecchia, una regia trazzera borbonica che attraversava le campagne di Partinico.
Un strada abbandonata, ma fondamentale per raggiungere il paese, che Danilo Dolci, col contributo della Cgil, decide di riattivare per restituirla alla fruizione e nel contempo dare lavoro ai disoccupati in un territorio dall’economia depressa.
Al commissario di polizia che era intervenuto per interrompere quello «sciopero alla rovescia», come venne chiamato, Dolci rispose che «il lavoro non è solo un diritto, ma per l’articolo 4 della Costituzione un dovere: che sarebbe stato un assassinio non garantire alle persone il lavoro, secondo lo spirito della Costituzione». L’accusa era di occupazione di suolo pubblico e resistenza a pubblico ufficiale e a Dolci e ai suoi venne negata la libertà provvisoria.
Furono arrestate, assieme a Dolci, 7 persone: Salvatore “Turiddu” Termine, segretario della Camera del lavoro di Partinico, l’attivista sindacale e comunista Ignazio Speciale, i giovani attivisti sindacali Carlo Zanini, Francesco Abbate e Gaetano Ferrante, e Domenico Macaluso, sindacalista della Confederterra. In 13 furono denunciati a piede libero. Restarono circa due mesi in carcere: il processo iniziò il 24 marzo.
L’opinione pubblica allora si mobilitò, deputati e senatori intervennero con interrogazioni parlamentari, le voci più influenti del paese si schierarono a fianco di Dolci e dei sindacalisti e attivisti arrestati. Ciò che avvenne intorno allo sciopero alla rovescia di Trazzera vecchia, fu lo scontro sui modi opposti di considerare la legalità in Italia: la Costituzione, come regola vivente dei cittadini, contro la pratica dell’autoritarismo gerarchico, eredità fascista.
All’iniziativa interverranno il segretario Uil Palermo Giovanni Borrelli, il presidente dell’osservatorio legalità di Partinico Claudio Burgio, il segretario Uil di Partinico Piero Caleca, il segretario della Cgil Palermo Enzo Campo, lo storico e sociologo Salvatore Costantino, Toti Costanzo, insegnante, Vincenzo Di Dia, testimone dello sciopero, Vincenzo Fedele, cognato di Ignazio Speciale, uno degli arrestati. E ancora: il segretario Cgil Partinico Pino Gagliano, Marco La Fata, insegnante, Agostino La Franca, un altro dei testimoni, Salvo Lo Biundo, sindaco di Partinico, il presidente del centro studi Pio La Torre Vito Lo Monaco, Giuseppe Nobile, funzionario regionale, di Partinico.
“Alla base dello sciopero alla rovescia, per rendere transitabile la Trazzera Vecchia, c’era un’idea, ritornata d’attualità tra le forme di mobilitazione della Cgil, che è quella di protestare in maniera alternativa e produttiva, lavorando, per dare una risposta occupazionale a chi il lavoro non ce l’ha, e promuovere lo sviluppo del territorio– dichiara il segretario Cgil Enzo Campo – Così, allora, fecero quelle centinaia e centinaia di disoccupati che videro protagonista la Camera del Lavoro di Partinico: furono reclutati in gran parte edili, per riattivare una strada comunale in stato di abbandono. Ma i lavori vennero fermati dalla polizia. Dolci con altre persone, tra cui il segretario della Camera del Lavoro Turiddu Termine, fu arrestato e successivamente scagionato dopo un processo che ebbe enorme risalto. A difendere Dolci fu il grande giurista Piero Calamandrei. Nel collegio di difesa c’era anche un giovane avvocato, Antonino Sorgi”. Gli Atti del processo vennero pubblicati nell’agosto dello stesso anno 1956 da Einaudi con il titolo PROCESSO ALL' ART. 4.

Dalla Redazione  di  http://palermo.blogsicilia.it/sessantanni-fa-lo-sciopero-alla-rovescia-di-danilo-dolci/

 Ecco la recensione di PROCESSO ALL'ART. 4  pubblicata all'indomani della ristampa del libro:
 http://cesim-marineo.blogspot.it/2011/08/attualita-di-un-libro.html

 

GRAMSCI IN CONFINO A USTICA

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Ripropongo l'articolo dell'amica Amelia Crisantino pubblicato sulle pagine palermitane di Repubblica lo scorso 23 gennaio, in occasione della proiezione in anteprima del film documentario GRAMSCI 44 di cui abbiamo parlato in un precedente post   http://cesim-marineo.blogspot.it/2016/01/un-docu-film-su-gramsci-e-bordiga-ustica.html
Dispiace notare che tutti sembrano aver dimenticato che la sceneggiatura di questo film deve tanto a Giuliana Saladino che, in due articoli pubblicati da L' Ora nell'aprile del 1967, aveva per prima ricordato i 44 giorni passati da Gramsci a Ustica.  fv

Gramsci a Ustica una rivoluzione lunga 44 giorni che segnò l'isola

  di AMELIA CRISANTINO

Quarantaquattro giorni a Ustica da confinato, dal 7 dicembre 1926 al 20 gennaio 1927, che diventano l'ultimo periodo sereno della sua vita: al soggiorno usticese di Antonio Gramsci viene adesso dedicato "Gramsci 44", docu-film prodotto dalla Ram Film con la regia di Emiliano Barbucci, proiettato alle 20.30 in anteprima con ingresso gratuito alla sala De Seta dei Cantieri culturali della Zisa.
Emiliano Barbucci, giovane calabrese laureato al Dams di Cosenza, si imbatte in Gramsci quasi per caso. Era il 2008, lui lavorava nelle isole minori con un gruppo di antropologi. Intervistando i pescatori di Ustica nota i frequenti riferimenti ai "compagni": basta qualche domanda per scoprire la tradizione di sinistra degli isolani, il loro legame con una vicenda ancora portatrice di un messaggio eticamente forte. Per Barbucci, la decisione di affidare a un film una memoria storica dall'alto valore sociale è immediata. Poi sono arrivate le collaborazioni con l'Istituto Gramsci siciliano, con il Comune e il Centro Studi di Ustica; la scrittura della sceneggiatura con Emanuele Milasi; l'accesso al cofinanziamento della regionale Sicilia Film Commission e finalmente le riprese a Ustica durate tre settimane, il lavoro con gli attori – per tutti, ricordiamo Peppino Mazzotta (l'ispettore Fazio del Montalbano televisivo) nella parte di Gramsci – e i tecnici, fra cui Daniele Ciprì per la fotografia e Maria Adele Cipolla per i costumi. Una lunga gestazione e un profilo low-budget per un'opera ibrida come il docu-film, che fonde il linguaggio della finzione scenica con quello della ricerca storica.
"Gramsci 44" racconta di un riscatto attraverso la cultura. Nel 1926 Antonio Gramsci ha 35 anni ed è il principale esponente del Partito comunista: sarebbe bastata una sua decisione per mettersi al riparo in uno dei centri che il partito aveva organizzato all'estero. Ma prende sempre tempo, c'è sempre qualcosa di più urgente da fare. Due anni prima era stato eletto deputato nella circoscrizione del Veneto, alla sua compagna Giulia ha scritto: «Quando penso che sotto il controllo dei bastoni tremila operai e contadini hanno scritto il mio nome, giudico che una volta tanto l'essere deputato ha un valore e un significato».
In Italia si sta completando l'edificio dello stato totalitario: il 6 novembre 1926 vengono approvate leggi "fascistissime" che prevedono il confino per gli oppositori. Gramsci ha deciso di essere presente alla seduta della Camera prevista per il 9 novembre per denunciare le leggi liberticide. Viene però arrestato la sera dell'8 novembre, è portato a Regina Coeli dove resta in isolamento per sedici giorni. Gli viene comunicata la condanna a cinque anni di confino, la destinazione è ancora ignota. Comincia il viaggio verso Sud, su un treno accelerato e con le manette ai polsi, legato con una catena agli altri condannati. A Palermo lo portano «in un cameroncino molto pulito e arieggiato con una bellissima vista sul monte Pellegrino », apprende che la sua destinazione è Ustica: la parte più difficile è la traversata, coi condannati sempre ammanettati e legati l'uno all'altro, col vaporetto che non resiste al mare agitato e per quattro volte torna indietro.
A Ustica, Gramsci trova casa assieme ad altri cinque confinati, individua subito l'unico obiettivo possibile: «Non abbrutirsi e giovare agli altri». L'isola ha 1.600 abitanti, sono persone gentili ed è permesso avere contatti con loro. Ma la più evidente delle caratteristiche isolane è la colonia penale con i suoi seicento coatti, criminali comuni che hanno subìto più condanne: ricevono quattro lire al giorno dal governo, vivono denutriti e in ozio forzato, molti sono alcolizzati. I trenta confinati politici sono l'élite della popolazione carceraria e Gramsci ha parole di grande pena per i coatti «presi in un girone infernale che dura all'infinito».
A Pietro Sraffa, suo grande amico sempre pronto ad aiutarlo, Gramsci scrive che il soggiorno a Ustica è abbastanza piacevole: l'unico mezzo di locomozione è l'asino, l'inverno è mite e lui fa lunghe passeggiate fra «paesaggi amenissimi e visioni marine». Si sente bene, vuole continuare a lavorare. Fra gli altri confinati politici ha ritrovato il napoletano Amedeo Bordiga, lo coinvolge nell'organizzazione di una scuola pensata per i confinati ma aperta a tutti: Sraffa fornisce i libri, Bordiga dirige la sezione scientifica e Gramsci quella storico-letteraria trasformandosi in alunno per i corsi di tedesco.
Il 2 gennaio scrive che la scuola viene frequentata con grande diligenza e attenzione anche da alcuni funzionari e abitanti dell'isola, ed è una scuola in piena regola, con corsi di livello elementare e di approfondimento.
L'arrivo dei confinati ha modificato la vita isolana. Gramsci ha capovolto l'assenza di libertà determinata dal regime creando una comunità che è quasi un esperimento utopico dove cultura e politica sono inseparabili. Fra i confinati ci sono dei tecnici, in una delle sue lettere Gramsci scrive: «Si sta combinando per impiantare la luce elettrica». E l'orologio del campanile, fermo da sei mesi, viene riattivato in due giorni. Poi, il 14 gennaio 1927 il Tribunale di Milano spicca un mandato di cattura e di nuovo Gramsci viene arrestato per essere trasferito nel carcere milanese di San Vittore. Prelevato dai carabinieri inizia un terribile viaggio in "traduzione ordinaria": incatenato e febbricitante, per diciannove giorni va da Palermo a Milano con fermate in ogni carcere. Ha ancora la forza di tentare di strappare un sorriso alla moglie e alla cognata, scrive: «Immaginate che da Palermo a Milano si snodi un immenso verme, che si compone e decompone continuamente, lasciando in ogni carcere una parte dei suoi anelli, ricostruendone di nuovi, vibrando a destra e a sinistra…». Iniziava un decennio di sofferenze nelle carceri fasciste, che si sarebbe concluso con la morte nel 1937.

Articolo di Amelia Crisantino pubblicato su Repubblica Palermo del 23 gennaio 2016

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SCUOLA E VITA

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«Se questa è vita»: scuola e università

di Clotilde Bertoni

1. La scuola raccontata 

«Ora io mi chiedo se questa è vita. È tutto distorto… Ah, buon Dio, se l’istituto volesse liberarci dal suo amoroso abbraccio!»: nei Buddenbrook l’adolescente Kai si lascia andare a questo sfogo mentre passeggia con l’amico Hanno durante l’intervallo tra una lezione e l’altra: i due sono gli eccentrici, gli artisti in erba della classe, peraltro diversissimi, il primo scrittore volitivo, smanioso di affrontare la realtà, il secondo musicista fragile, tendente invece a rifuggirla; ma per entrambi, come per i rudi borghesi loro compagni, la scuola è una prigionia soffocante, gli insegnanti zimbelli ridicoli, i programmi di studio un’inutile zavorra, non stimolo ma intralcio alle aspirazioni che li animano.
Se si allarga lo sguardo, le cose non cambiano molto. Dai foschi collegi dickensiani, a quello militare dei Turbamenti del giovane Törless, dall’istituto Benjamenta dell’Jakob von Gunten di Walser che inibisce anziché guidare la formazione, agli istituti religiosi del Dedalus joyciano (teatro di punizioni corporali e sermoni morali ancor più traumatizzanti), fino ai licei descritti da Sartre, Beauvoir, Vittorini, Bassani, malgrado le tante variazioni dei contesti, malgrado le tinte più forti o più sfumate, il Leit-Motiv non cambia: la visione della scuola resta sempre negativa.
Beninteso, a livelli diversi di complessità. Ad esempio, la critica si fa lancinante nei cosiddetti “romanzi dell’adolescente”, in cui il racconto delle transizioni all’età adulta filtra quello di altrettanto delicate transizioni storiche: davanti all’inquieta precocità e alle divaricazioni sociali o razziali dei ragazzi diUn anno di scuola di Stuparich minacciati dalla grande guerra, di quelli del Garofano rosso di Vittorini affascinati dal fascismo agli albori, di quelli della Trilogia del ritorno di Uhlman stretti nella morsa del nazismo, l’istituzione scolastica risulta vistosamente scricchiolante, drammaticamente inefficace. Ma anche in opere di tutt’altro, ben più accomodante tenore, il quadro non è tanto più armonico: persino gli amenissimi o edificanti classici per l’infanzia riservano parecchie sorprese.
La tetralogia iniziata con Piccole donne di Louisa Alcott prende le distanze dal sapere istituzionale, non solo con il terzo e il quarto volume, che mettono in scena un collegio dai metodi innovativi, ma ancor più con i primi due, in cui le quattro sorelle coltivano un rapporto tutto autonomo e gioioso con la lettura e con le arti. Nel Gianburrasca di Bertelli/Vamba né la famiglia, né il collegio riescono a domare il ragazzino che smaschera sistematicamente le ipocrisie della neonata società unitaria, e la loro unica risorsa è chiuderlo in una casa di correzione. E la connivenza con l’ingiustizia sociale della scuola di Cuore– in cui gli alunni poveri siedono accanto ai ricchi ma senza godere dello stesso trattamento, e il terribile Franti proviene da una realtà di terribile miseria –, prima di essere derisa da Umberto Eco, è forse già avvertita dallo scafato e poliedrico De Amicis, che se qui la ammanta di retorica melensa, la raffigura più direttamente in altre opere: ad esempio La maestrina degli operai, che ha come protagonista maschile una specie di Franti cresciuto, un giovane fuorilegge per cui la scuola serale sarà inutile quanto quella elementare per il suo omologo bambino.
Si dirà che d’altronde la finzione artistica esalta spesso il valore della didattica, e non solo con omaggi celeberrimi come quello di Dante a Brunetto Latini, ma con le stesse opere moderne di ambientazione scolastica, in cui non mancano figure di buoni maestri; maestri che però non attenuano la durezza del quadro d’insieme (trasversale a culture e a concezioni dell’istruzione disparatissime), e semmai contribuiscono a complicarlo. Intanto – dall’illuminata Miss Temple di Jane Eyre fino agli affascinanti docenti di film di successo (da Goodbye Mr. Chips a Good morning Miss Dove, a quello che più si è impresso nel nostro immaginario, L’attimo fuggente) – sono personaggi carismatici ma isolati, che non bastano a modificare le istituzioni in cui agiscono; inoltre, come gli esempi citati già evidenziano, sono appannaggio di una produzione ancora fondata su valori morali netti, incarnano una visione più o meno consolatoria della realtà.
continua su Between


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TRAGEDIA E FARSA NELLA STORIA

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Esce in nuova edizione “Il 18 brumaio” capolavoro dell'analisi politica di Marx. Un’analisi della degenerazione della democrazia parlamentare ottocentesca utile anche per indagare i fenomeni politici contemporanei.

Francesco Marchianò
In tragedia e in farsa, la storia che raddoppia e non conclude



Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (Editori Riuniti, pp. 248, euro 18,00) è, certamente, uno dei testi più originali di Marx nel quale l’analisi materialistica della storia è connessa a quella politica. In quest’opera, dedicata agli avvenimenti che dal 1848 al 1851 modificarono il sistema politico francese e lo fecero transitare da una repubblica all’impero, dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, Marx si distinse per essere un attento studioso delle dinamiche giuridiche, politiche, economiche e sociali, compiendo una precisa analisi sistemica.
Scritto dal dicembre 1851 al marzo 1852, inizialmente per il settimanale Die Revolution, edito a New York dall’amico editore Weydemeyer, l’opera subì diverse vicissitudini e solo nel 1869 comparve ad Amburgo una seconda edizione europea, dopo che in passato in tentativi di darne diffusione nel continente erano falliti.

In Italia è da poco comparsa per Editori Riuniti una nuova edizione affidata alla cura di Michele Prospero che, in una densa e raffinata introduzione, non solo offre le necessarie chiavi di lettura per comprendere meglio l’opera, ma ne attualizza in maniera impeccabile la portata. Ne escono, così, fuori due testi in uno che è molto fruttuoso leggere insieme.

Il testo di Marx brilla da diversi punti di vista, non ultimo per lo stile letterario e la coniazione di alcune frasi rimaste poi celebri, come quella della storia che si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa, con la quale si apre il volume. Oppure per il «cretinismo parlamentare», malattia diagnostica ai difensori della repubblica che abusando dei trucchi e delle imboscate in aula non facevano altro che screditare il parlamento che volevano difendere.
L’aspetto essenziale che caratterizza l’opera, tuttavia, è l’analisi contestuale che indaga tutti i fattori che intervengono in un cambio di regime o, diremmo oggi con un lessico più moderno, in una transizione. È cioè la spiegazione di come la repubblica, non riuscendo a trovare gli ancoraggi necessari al suo consolidamento nella società francese, produsse come esito il successo di una leadership personale che portò a un’altra forma di dominio politico.

Nella lettura compiuta da Marx si colgono perfettamente le cause di questo passaggio che non sono da attribuire al magismo del capo, al suo carisma, ma al concatenarsi di elementi esterni. Come spiega Prospero, «esistono condizioni politiche e sociali di fondo il cui degrado spiega anche l’emergere di tendenze carismatiche pronte a sfruttare le fragilità del sistema sottoposto allo stress della partecipazione politica di milioni di elettori».

Marx mette in luce tutti gli elementi essenziali che intervengono in questa dinamica. A cominciare da quelli giuridico-politici, dati dalle contraddizioni della costituzione, dal carattere limitativo della legge ordinaria rispetto ai diritti enunciati in essa, dal conflitto potenziale tra l’assemblea e il presidente della repubblica. In questa situazione di perenne incertezza veniva meno un elemento essenziale dato dalla legittimità che richiedeva il sistema, specialmente dopo l’allargamento del suffragio. Occorreva cioè trovare nel sociale la base di sostegno del politico.

È ciò che è mancato alla repubblica che finì per non includere affatto le masse. Anzi, proprio questa «asimmetria tra forte apparato statale e debolezza della società civile», secondo Prospero, è l’espressione peculiare del bonapartismo.
Luigi Bonaparte, invece, lungi dal non avere un radicamento sociale, si manifesta, secondo le parole di Marx, come il rappresentante di «una classe, anzi della classe più numerosa della società francese, i contadini piccoli proprietari», una «classe a metà» i cui appartenenti sono tra loro isolati, ma condividono situazioni di forte miseria che li mettono contro le altre classi sociali. Non avendo la capacità di far valere i propri interessi, essi hanno bisogno di farsi rappresentare da qualcuno che appare loro come un «padrone», «come un potere governativo illimitato, che li difende dalle altre classi»; ne consegue che «l’influenza politica del contadino piccolo proprietario trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subordina la società a se stesso».

L’analisi contenuta nel 18 brumaio rimane perennemente attuale per indagare i fenomeni politici contemporanei poiché fornisce tutte le categorie necessarie per comprendere cosa succede nei momenti di debolezza del sistema politico. Essa può essere utile anche per interpretare le dinamiche che coinvolgono il nostro Paese dove il continuo tentativo di riforma della costituzione, l’incertezza del sistema, la scarsa legittimazione sua e dei suoi attori, il consolidarsi di interessi e forze private, può sempre consentire, volendo usare le parole di Marx, «a un personaggio mediocre e grottesco di fare la parte dell’eroe».

il manifesto – 30 gennaio 2016




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