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IN PRINCIPIO ERA LA FIABA...

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Due interessanti articoli pubblicati ieri nella pagina culturale de LA REPUBBLICA aiutano a comprendere l'origine del pensiero magico:


Marino Niola 
“I sogni atavici che vincono su ogni principio di realtà”


“In principio era la fiaba. Lo diceva Paul Valéry condensando in un geniale lampo poetico, secoli di teoria sull’origine di questi racconti pieni d’incanto e di magia. Adesso anche la ricerca linguistica conferma che le fiabe sono antiche quanto il mondo. Perché, da quando hanno preso la parola, gli umani non hanno più smesso di raccontare storie di re e draghi, principesse e sortilegi, animali parlanti e piante pensanti. Lo dice la parola stessa, fabula, che deriva dal verbo latino fari, cioè parlare. E dunque quelle storie che abbiamo tanto amato da bambini – e che riassaporiamo con un pizzico di nostalgia grazie al cinema e alla letteratura – non sono invenzioni recenti. Quei personaggi fatati, le loro azioni e le loro funzioni non sono una cosa libresca. Sono figlie della tradizione orale. Volano di bocca in bocca da millenni, molto prima che gli scrittori antichi e medievali, e più tardi Charles Perrault, Giovan Battista Basile, i fratelli Grimm, Alexander Afanasiev, Vladimir Propp, Italo Calvino mettessero nero su bianco e le fissassero per sempre.
I primi ad esserne convinti erano proprio Wilhelm e Jacob Grimm, certi che molti di questi fortunati plot narrativi precedessero l’invenzione della scrittura. In fondo il nostro immaginario è stato formattato ab origine, in un tempo così remoto in cui gli uomini si facevano domande su se stessi, sulla natura, sul destino usando la lingua alata della fantasia.
Vista così la Bella e la bestia diventa una parabola proto animalista per raccontare il rapporto di attrazione-repulsione tra le specie. E la Sirenetta? È stata scritta nell’Ottocento, è vero. Ma non è tutta farina del sacco del danese Hans Christian Andersen. Perché in realtà sciami di donne pesce, seduttive e trasgressive, surfeggiano da sempre sui mari dell’immaginazione. Stesso discorso per i prìncipi che diventano rospi, o per le zucche trasformate in carrozza. Metamorfosi che esprimono un’idea di mondo che va al di là del principio di realtà: nulla è veramente impossibile, ma tutto è immaginabile. E alla fine la fortuna premia chi spera l’insperabile. Che sia Cenerentola o che sia Pretty woman. E questa è la morale della favola.”



Articolo di Elena Dusi “C’era una volta nella preistoria… Quanto antiche sono le favole
Uno studio della Royal Society”

“”La principessa prigioniera nel castello è arrivata dopo. Le fiabe affondano le loro radici in epoche molto più remote rispetto al medioevo di re, streghe e cavalieri. Storie come il Fabbro e il diavolo o la Bella e la bestia, secondo due antropologi delle università di Durham e di Lisbona, venivano già raccontate rispettivamente 6mila e 4mila anni fa, in quell’età del bronzo in cui la vita dell’uomo era ancora prevalentemente nomade e le favole erano trasmesse per via orale, raccontate intorno al fuoco in una lingua antenata degli idiomi indoeuropei e oggi sostanzialmente estinta. Sulla rivista “Royal Society Open Science”, Sara Graça da Silva dell’università di Lisbona e Jamshid Tehrani dell’università di Durham elencano una cinquantina di favole in cui il “c’era una volta” rimanda alla preistoria. Al nostro patrimonio più antico risalgono il Fabbro e il diavolo e la Bella e la bestia, ma anche Tremotino, Giacomino e il fagiolo magico, il Genio nella bottiglia, Cenerentola, Pelle d’asino, la Pappa dolce, il Giovane gigante, le Tre piume, le Tre filatrici. Quasi tutte queste fiabe sono finite millenni più tardi nella raccolta dei fratelli Grimm. E proprio Wilhelm e Jacob, a metà Ottocento, furono i primi a suggerire che i racconti di sapore germanico e medievale da loro messi insieme fossero il frutto di una tradizione più vasta e antica. «Credo che le storie tedesche – scriveva Wilhelm – non appartengano solo alla nostra madrepatria ma siano comuni a olandesi, inglesi, scandinavi».
Applicando le stesse tecniche con cui la genetica ha ricostruito l’albero genealogico delle popolazioni antiche, da Silva e Tehrani hanno tracciato le ricorrenze delle favole nelle varie lingue indoeuropee. Il corpus cui hanno fatto riferimento è l’immenso
Aarne Thompson Uther Index,
un catalogo di duemila trame di racconti fiabeschi di oltre 200 società di tutto il mondo. «Abbiamo cercato – scrivono gli studiosi le trame delle favole di magia nelle 50 lingue indoeuropee». Una similitudine fra le storie germaniche e quelle indo-iraniane, ad esempio, indica che quel particolare esisteva nel momento in cui i due popoli erano uniti. Poiché questa data è nota grazie agli studi sulle migrazioni antiche, i ricercatori sono risaliti all’antenato comune più antico di ogni fiaba. In molti casi lo hanno trovato più in là di quanto non pensassero, e in un’area molto più estesa di quanto credessero i fratelli Grimm. «Nel caso della Bella e la bestia e di Tremotino – spiegano ancora i due – alcuni esperti avevano suggerito un’origine mitologica greca o romana. Ma noi abbiamo ritrovato queste storie nel più antico fra gli antenati comuni dei linguaggi indoeuropei». E non è certo un caso, in una fase della storia in cui la metallurgia dava il nome alle epoche, che un elemento ricorrente fosse il fabbro che stringe un patto con il diavolo. «La struttura di questa storia – scrivono i due ricercatori – si ripete in maniera fissa in tutto il mondo indoeuropeo, dall’India alla Scandinavia».
«Sono millenni che ci raccontiamo sempre le stesse favole» conferma Antonio Faeti, primo titolare della cattedra di letteratura per l’infanzia all’università di Bologna. «Il marinaio che non torna, la fanciulla che scappa dall’orco, il mercante che ne sa una più del diavolo sono elementi ricorrenti nelle fiabe di tutto il mondo. Perfino gli indigeni d’America hanno racconti comuni ai nostri. E quando il tedesco Wilhelm Hauff scrisse la Storia del califfo cicogna, nessuno si accorse che l’autore fosse un tedesco anziché un arabo».
Se i due ricercatori di oggi sono riusciti ad assegnare una data alle nostre favole più antiche, lo stesso Italo Calvino nella sua raccolta di saggi Sulla fiaba citava gli studi di Vladimir Propp e si diceva sicuro che le storie di magia risalissero alla preistoria. «Anzi, le fiabe, analizzate e spogliate di tutti gli elementi posteriori, sono il principale e quasi l’unico documento che ci resta di quelle lontanissime età». «Le leggi cambiano, le favole no» riassume Faeti. «Sono il riconoscimento della nostra anima perpetua e hanno la caratteristica di non mentire mai». La storia della Bella e la bestia deriva da Amore e psiche di Apuleio, fa notare Bianca Lazzaro, che dirige la collana fiabe e storie dell’editore Donzelli e sta riproponendo le raccolte della tradizione dialettale italiana. «Si tratta di un “meme”: l’unità minima di trasmissione culturale delle fiabe di tutto il mondo. Le prove per recuperare l’amato o l’amata e l’odio della matrigna per la figliastra ne sono un esempio». Tutte le favole scritte oggi, secondo lo scrittore Guido Conti, sono in fondo la rielaborazione in chiave attuale di un archetipo ripescato dalla tradizione. «La mia cicogna Nilou si inserisce nella scia dei personaggi che volano. Ma offre elementi moderni, come la solidarietà e l’aiuto offerto a chi fugge da una guerra».”

Dala Repubblica 22.1.16

L' inferno dei migranti descritto da Hakan Günday

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Ancòra, il nuovo romanzo dello scrittore turco Hakan Günday, racconta l’inferno dei migranti e dei trafficanti di clandestini.*

Domenico Quirico

Il viaggio al termine della notte è una nuova vita in Europa


Una volta in una stradina di un villaggio nigeriano, Paese dell’Africa da cui partono a migliaia i migranti, ho visto fabbricare una cassa da morto. Un vecchio e un ragazzo ci lavoravano attorno, alacremente, squadrando con cura le assi, inchiodando, dando forma. Come fosse un mobile qualsiasi, un tavolo o una credenza. La scena mi torna in mente ogni qualvolta sento parlare dei «passeur», dei mercanti che trasportano uomini da una terra ad un’altra terra in cambio di denaro e di violenza.
E mi è venuta in mente quando ho chiuso l’ultima pagina di Ancòra, il nuovo duro, vibrante romanzo dello scrittore turco Hakan Günday (in libreria dalla prossima settimana). Giovane talento che usa, santamente, la letteratura come esplosivo, per mettere a nudo le viscere marce del mondo: in particolare della sua Turchia a cui dedica nel libro una definizione fulminante: «la differenza tra l’oriente e l’occidente è la Turchia…»

Il protagonista Ahad, un bambino, è appunto un passeur in erba: con il padre trasporta i migranti in un camion dalle frontiere del dolore e della guerra fino agli imbarchi sulle rive dell’Egeo, verso quella che chiamiamo la «rotta balcanica».

Ho pensato a quella scena perché trasportare l’umanità della Migrazione, farne un «lavoro» redditizio, è in fondo come fabbricare casse da morto. Davanti a una simile scena e a simili storie puoi avere due atteggiamenti: uno alla Amleto di considerazioni sulla vita e la fugacità di essa. L’altro di interesse per quel lavoro, i suoi riflessi economici e sociali, il guadagno che se ne trae, le possibilità di impiego (poiché i migranti sono molti, milioni, quasi quanto sono i morti rispetto ai vivi).

Ho conosciuto i migranti. E ho conosciuto i «passeur», a decine : tunisini e maliani, nigeriani e libici, siriani e turchi. Sono loro e soprattutto i loro inermi, fragili «clienti» che stanno riscrivendo la storia del terzo millennio, dal suo inizio. Gli uni e gli altri potrebbero essere la parabola di come nell’uomo si celino insieme il Bene e il Male, e una sola parabola così sarebbe sufficiente. Ma né Ahad ne le sue vittime sono esempi unici del nostro tempo. Non sappiamo quanti migranti siano morti e quanti torturatori continuino a lavorare proficuamente a quella bara. Scrivere della Migrazione come della guerra è una iniziazione alla vertigine.

Dopo averli incontrati (e di alcuni sono stato anche ospite e cliente) con sincerità devo dire che non comprendo questi uomini. A punzecchiarli con uno spillo, sanguinano? E’ la stessa domanda di chi alla fine ripensa a questo libro, un Viaggio al termine della notte del nostro presente, anche se di Céline in fondo manca la maggiore magia, che sono la lingua e lo stile.

Dunque il piccolo Ahad porta uomini: afgani e pachistani, siriani e iracheni, folla indifferenziata che conosce una sola parola di turco «daha», «ancòra»: ancòra acqua cibo aria, che chiede per non morire. Lui li chiude nel camion o in una cisterna-prigione, alcuni per indifferenza o malvagità li lascia anche morire. Già, perché mentre il padre è un vero passeur, un professionista, in fondo Ahad è una creatura vigorosamente romanzesca, totalmente romanzesca. Personaggio, non persona. Di fatto non esiste, non può esistere. Il padre infatti considera i migranti oggetti: gli sono affidati , viene pagato per spostarli intatti, vivi. Non sono per lui esseri umani con sentimenti dolori speranze: sacchi di farina, bidoni di benzina, cose come scrive sui falsi documenti del suo camion a cui il capo dei gendarmi turchi finge di credere in cambio di denaro.

Ma l’economia non è tutto e la tragedia di molti profughi e fuggiaschi non è fare la fame nei loro paesi di origine: è il fatto che le loro menti e i loro cuori fanno la fame. Durante il viaggio e quando, e se, arrivano. Sono degli alieni.

Ahad i profughi li usa: per una sorta di educazione al Male e per scoprire se stesso e il mondo, violenta le ragazze in cambio di un pezzo di pane, costringe gli uomini a battersi tra loro come animali, costruisce all’interno dell’infernale cisterna un mondo di potere in miniatura che attraverso telecamere osserva come un entomologo osserverebbe un formicaio.

Questo un passeur non lo farebbe mai. Perché in realtà, terribile verità, non è un aguzzino che cerca vittime. è un capitalista ligio alle regole del profitto e della organizzazione.

I passeur che ho conosciuti trasferiti in qualsiasi Borsa del mondo si farebbero largo senza problemi, non dovrebbero imparare nulla: conoscono a menadito le regole per fare denaro. E forse un giorno dietro fortune molto rapide e misteriose scopriremo un’ attività di «trasporti», nel Sahel o nel Mediterraneo, o tra le montagne del Kurdistan… Non è a caso se Robinson, esempio dell’uomo bianco e della sua capacità di modificare il mondo anche il più vuoto e ostile, era un... mercante di schiavi!

Scrivere un libro sulla Migrazione è impresa ardua, fatale. Forse basterebbe pubblicare i verbali polizieschi, gli interrogatori dei passeur arrestati, pochi, molto pochi. Eppure i reportage, i saggi, la realtà non bastano. Ci annoia sentirci ricordare l’agonia di un popolo, e i migranti sono il popolo nuovo di questo tempo. La morte della immaginazione, la morte del cuore sono malattie fatali. O forse temiamo di sapere perché temiamo di dover esaminare le nostre coscienze, prendere atto delle nostre responsabilità e del nostro immenso egoismo. Sì, la morte e il dolore di uomini innocenti appartengono al nostro tempo.

Dobbiamo sapere tutto, dobbiamo riconoscere ogni sintomo, ogni segnale. Ancòra appartiene a quel piccolo numero di libri in cui, superata la linea di una scrittura estrema, al limite del brutale, finite le forti impressioni, si comincia a soffrire e a capire.

La Stampa – 23 gennaio 2016
*Le illustrazioni sono tratte da "Abissi di speranza" di Claudio Carrieri, ciclo pittorico dedicato alla tragedia dei migranti.


SCUOLA E TERRITORIO

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Ecco il programma di un bel Corso di formazione organizzato da alcuni cari amici a Mezzojuso (PA). Il Corso rivolto a docenti in servizio è aperto anche a laureati e laureandi del territorio.

G. RABONI SULLA FORZA DELLA MEMORIA

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Uno dei pochi pilastri della mia fede – ammesso che di fede si possa parlare – è l’idea della comunione dei vivi con i morti, che non vuol dire che io pensi che c’è un oltrevita nel quale si incontrino i morti. Penso che i morti ci siano, cioè penso che si continui a vivere anche con le persone che non ci sono più, che continuino a fare parte della nostra vita… Attraverso la memoria, attraverso la continuità dei pensieri e delle emozioni. Se li coinvolgevano quando erano vivi, perché non dovrebbero coinvolgerli poi quando sono morti? Noi non cambiamo perché una persona non la vediamo più, rimaniamo noi stessi. Quindi, non ci sono dubbi. Non ho dubbi su questo… o, comunque, voglio non averne.

(Intervista a Giovanni Raboni, Firenze, 29 maggio 2003)

Metamorfosi e musica in Morten Søndergaard.

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Morten Søndergaard: il poeta della metamorfosi e della musica.

Di Claudia Iandolo

Pochi autori hanno insieme il dono della complessità e quello della leggerezza. Pochi, come Søndergaard, riescono a scrivere di una realtà che si moltiplica, si dilata, cambia e ci cambia. Eppure in quella realtà siamo condotti per mano dall’autore con eleganza e disinvoltura.
Che il mondo sia Caos appare vero fin dalla prima delle tre raccolte che costituiscono il libro: A Vinci, dopo. Titolo emblematico che ci riporta immediatamente ad una delle caratteristiche della poetica e dunque della visione del mondo di Morten: il movimento. Con una specie di cortocircuito temporale il poeta avverte che tutto ciò che è accaduto a Vinci ha un prima e appunto un dopo, registra cioè una distanza probabilmente annullata dal processo creativo. Del resto l’autore stesso dichiara nell’introduzione come i due atti del camminare e del poetare siano interconnessi, ( Il giorno che imparai a camminare/ mi insegnarono contemporaneamente a parlare) Camminare fornisce il ritmo di cui ogni poesia si nutre. Vinci è il paese toscano, patria di Leonardo, in cui Søndergaard è vissuto quattro anni. L’esperimento, che sarebbe dovuto durare solo sei mesi, era di provare cosa avrebbe provocato sulla sua lingua l’immersione totale in un’altra lingua (ma sarebbe meglio dire una lingua altra). Søndergaard si cimenta con uno dei topoi più diffusi della letteratura mondiale: il paesaggio. Esiste, fin dai tempi di Petrarca un paesaggio soggettivo ed uno oggettivo, esiste cioè la percezione del paesaggio, in buona sostanza la sua creazione. Una creazione/percezione relativa inoltre all’idea di mondo che abbiamo e che la cultura e i tempi in cui viviamo hanno contribuito a creare. Søndergaard stravolge totalmente tale prospettiva. Non solo i suoi paesaggi sfuggono e fuggono ad una definizione certa, ma sono loro a percepire noi (Siamo stati svegliati in piena notte/da un nubifragio. Il paesaggio ci ha letti/ come un libro aperto.) La parola stessa perde di significato. Il paesaggio come blocco, come un tutto finito e definito non esiste più e non solo perché metamorfico ma soprattutto perché intelligente, in senso letterale. Può essere ciò che vogliamo, ciò che ci aspettiamo (verrebbe da dire che si comporta come un fotone nel famoso esperimento della doppia fenditura che dimostra la dualità onda/particella della materia), il paesaggio, addirittura si mette in posa. Søndergaard gioca col più celebre dei ritratti, la Gioconda di Leonardo, in cui forse il paesaggio sta in posa come se fosse lui il protagonista e non Monna Lisa. Il paesaggio parla, attraverso le creature che lo compongono (Oggi è venuto da me un olivo parlante e ha detto:/ “la vita è un passaggio dal nulla/ al nulla”./ Quanto si annida fra le righe del paesaggio/non si lascia leggere.) E non esistono solo i paesaggi umani (Le formiche trasportano/ paesaggi di origine molto varia/ dall’una all’altra… /Dimostra la massima cautela quando tratti/ con i paesaggi. I continenti migrano. Noi facciamo l’amore/ come bambini curiosi e i meli/ hanno perduto i fiori.) I paesaggi degli altri sono altrettanti veri ed altrettanto imprendibili, altrettanto indefinibili attraverso gli strumenti umani, parole comprese ( Non si può dire “gira a sinistra al grande albero”, / perché la frase non arriva fin laggiù./… Nel paesaggio le porte sono destinate agli dei.) Dove poi esse conducano è mistero. Agli uomini non resta che il tentativo di misurare il mondo, l’antico tentativo di intercettare qualche possibilità (provvisoria, s’intende) di senso attraverso le rispondenze nascoste e intelligenti celate nella materia. La poesia stessa, fondata come dicevamo sul ritmo, è esercizio di misurazione (Ogni poesia illumina il suo tratto di mondo con la sua torcia./ È un modo di precisarlo.) Ma precisare equivale, come l’etimologia suggerisce, a tagliare, scontornare fino a rendere esatto, eliminando il superfluo. Un’operazione che può restituire una parte di mondo, così come la immaginiamo, ma non il mondo nella sua essenza. Per questo non resta che arrendersi alla metamorfosi, partecipare al gioco dei cambiamenti e delle trasformazioni “mettere foglie e nuovi germogli” come Søndergaard scrive. Abolire la distanza, ogni distanza tra soggetto e oggetto. Essere paesaggio e non più guardarlo, perché se lo si guarda abbastanza sarà il paesaggio a catturarci. (I luoghi ci invadono, e noi inermi ci lasciamo portare/ in nessun posto./Potremmo anche stabilirci qui: noi)
Metamorfosi e movimento: tutto nelle poesie di Søndergaard è in costante movimento. L’autore stesso cammina, viaggia nel tentativo di capire. Ogni movimento umano è però vanificato da quello più veloce e insondabile della realtà che ci circonda, fatta a sua volta di una moltiplicazione di mondi destinati ad ignorarsi. Il gatto cieco/ va a caccia nel giardino segreto./ Spaventapasseri, colli, alberi, campi di girasoli/ si fanno sotto e studiano i nostri volti/ Ma il paesaggio è fuori da ogni senso./ Pensa per sé. D’altro canto: / noi siamo alberi con le gambe./) In un mondo così complesso e a dispetto di tutte le precisazioni possibili, è facile perdere l’orientamento non solo spaziale. Tra qui e lì c’è un solo punto, ma è il punto di ogni istante ed è perciò inafferrabile.
Søndergaard sa bene che ogni decifrazione/creazione della realtà passa attraverso la lingua. Un mondo può essere camminato tutto, può addirittura essere pensato, ma è l’atto del dire che crea la realtà. Vengono in mente due verbi greci: μυθοποιέω e μυθολογεύω. Il primo contiene l’idea della creazione della parola che per se stessa si identifica con la realtà, il secondo riconduce al concetto di relazione. L’atto stesso del parlare è, come suggerisce l’etimologia del termine, raccogliere, contare e quindi raccontare. Dire equivale sempre a stabilire relazioni di senso tra le cose e tra noi e le cose stesse. Passare dal Caos al Kosmos.
La molteplicità delle lingue (senza contare i linguaggi, che appartengono anche al regno animale), genera in ogni scrittore la nostalgia di un mondo pre-babelico, di una lingua universale con la quale poter dire non solo le cose per come sono, nella loro essenza primigenia e totalizzante, ma per poterle dire tutte. (deve pur esserci una lingua/ per poter dire le cose come sono / né più né meno). Dire equivale dunque a dire sempre più o meno. La lingua, e perciò la poesia, sono un esercizio che ci consente solo approssimativamente di avvicinarci alla realtà. Non solo le parole non sono più consequentia rerum, ma possono depistare, o peggio creare una folle realtà (titolo di un’altra sezione) in cui niente è come appare. (I cadaveri marciscono nella pila dei giornali/ la verità sventola sullo schermo/non sappiamo quasi nulla/e ciò su cui basiamo le nostre conoscenze/si dimostra essere in realtà una menzogna/nella vera e propria folle/realtà dove tutto/è fatto di teflon e gomma e cartone), dove forse la salvezza (momentanea) può essere affidate alle minime parole ( Casa. Sole./ legno. Sorriso. Sedia). E ancora :( Il mondo/ può essere detto/ com’è,/ come portachiavi/ chiodo e subwoofer). Ma per dire il mondo così com’è c’è bisogno di una lingua nuova, di una lingua che nessuno parla. Di una lingua capace di annullare la distanza tra Langue e Parole, per dirla con De Saussure. Non è un caso che la poesia di Søndergaard insista sulla relazione tra linguaggio e suono. Una relazione antica probabilmente, quanto la nascita della poesia stessa. In Ritratto con Orfeo ed Euridice, pubblicato in Italia da Kolibris edizioni, Søndergaard scrive: Avanza nell’ignoto Orfeo,/ Corifeo, si spinge avanti/ cantando./ Cantando?/ Ė questo che fanno i poeti? Ora scrivono/ Si son fatti così silenziosi. Il mondo moderno ricorda nel mito di Orfeo ed Euridice un amore infelice che varca (anche se provvisoriamente) i confini della morte, ma dimentica spesso che il figlio di Eagro fu anche il primo poeta e musico e che i due aspetti erano in lui indissolubili. La ricerca di una lingua che nessuno parla è nostalgia, anch’essa mitica, di una lingua vera oltre che universale. Viene in mente quanto il critico Gianfranco Contini scrive sul linguaggio di Giovanni Pascoli. Il fonosimbolismo insistito del poeta italiano crea una lingua agrammaticale o pregrammaticale. Una lingua che forse riconduce all’infanzia e alle prime sonorità che con esso ci hanno messo in relazione. La ricerca musicale di Søndergaard restituisce nel ritmo il respiro autentico della parola, quel retroterra di mistero e di imprendibile che il suono contiene e trattiene.

Articolo ripreso da  http://www.nazioneindiana.com/

APRITE LE PORTE E ABBATTETE TUTTI I MURI!

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Questa notte il meteo prevede 4 gradi sotto lo zero alla frontiera tra Macedonia e Serbia. Ma neanche la neve sembra spaventare chi alle spalle si è lasciato una guerra. Ditelo a ministri e burocrati riuniti ad Amsterdam a decidere il futuro di Schengen. Dite loro che l'unica soluzione è fermare le guerre e non le persone. E che nel frattempo non ci resta che aprire quella dannata porta, perché è il minimo che si possa fare quando la casa del vicino brucia.

RILEGGERE FRANTZ FANON

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Fanon inedito

Per l'editore La Découverte, Parigi, è uscito in Francia un libro che raccoglie opere inedite di Frantz Fanon (1925-1961). S'intitola Écrits sur l'aliénation et la liberté ed è curato da Jean Pierre Khalfa e Robert Young. Il testo, di quasi settecento pagine, si divide in cinque parti: Teatro, Scritti psichiatrici, Scritti politici, Pubblicare Fanon (Francia e Italia, 1959-1971) e La biblioteca di Frantz Fanon. Le ultime pagine del testo riportano una cronologia della sua vita che inizia con l'anno di nascita e si chiude, tre anni dopo la morte, con la pubblicazione, da parte di Maspero, del testo Pour la révolution africaine. Écrits politiques. L'opera si compone di un apparato critico ben fatto, che aiuta il lettore a orientarsi nello studio e nella biografia del grande intellettuale martinicano. Scrittore, filosofo, psichiatra e rivoluzionario, Fanon ha contribuito più di chiunque altro a Decolonizzare la follia. Così s'intitola un testo che raccoglie alcuni degli scritti psichiatrici – presenti nell'edizione francese – raccolti in un volume uscito in Italia nel 2012 a cura di Roberto Beneduce. Il lettore italiano interessato a Fanon ha dunque già avuto modo di avere un anticipo in testi come: “La terapia sociale (socialthérapie) in un servizio psichiatrico di uomini musulmani”, “Considerazioni etnopsichiatriche”, “Il TAT con donne musulmane. Sociologia della percezione e dell'immaginazione”, ecc.

Il TAT – Test di Appercezione Tematica – è il più noto test proiettivo, ideato negli anni Quaranta da Chris Morgan e Henry Murray, ed è uno strumento clinico per la valutazione psicodiagnostica e per la psicoterapia. Usato anche in campo sociologico, per esempio dagli studi su La personalità autoritaria diretti da Theodor Adorno negli Stati Uniti. Fanon fa del TAT un uso culturale, rileva le differenze tra le reazioni classiche occidentali e quelle delle donne ricoverate all'ospedale di Blida per delineare una sociologia dell'immaginario a partire da una differente elaborazione del dato percettivo. Nei casi da lui valutati: “Non si evidenzia alcuna linea fondamentale. Non compare alcuna struttura. La narrazione è inesistente. Non vi è né scena, né dramma.” L'assenza di configurazione del racconto non indica però alcuna mancanza, semmai una distinzione ontologica nel reagire allo stimolo rispetto a un classico “paziente” occidentale.

Poi, il libro raccoglie due opere teatrali: L'Œil se noie e Les Mains parallèles. Una terza opera, La Conspiration, risulta irreperibile. Di questi lavori si sa poco. L'Œil se noie è diventato titolo di un'esperienza espositiva a Kiosk, una galleria fondata nel 2006 con sede in Belgio e con riferimento specifico a Fanon. Si tratta di due opere – L'Œil se noie e Les Mains parallèles – la cui lettura fa pensare a una messa in scena in cui l'esperienza del corpo è fondamentale, com'è evidente anche dai titoli. L'occhio che annega, per esempio, sembra già esprimere il conflitto tra il desiderio di cogliere il tutto nella visione e la sua impossibilità radicale. Evoca le domande di Darwin e Nietzsche su che cos'era l'occhio prima di vedere, la nota frase di Heinz von Foerster: “Non vediamo ciò che non vediamo”, l'opera di H.G. Wells sul paese dei ciechi e anche le meravigliose riflessioni di Borges a proposito dell'opera di H.G. Wells.

Gli scritti politici hanno come tema preponderante la rivoluzione algerina, alla quale Fanon partecipò attivamente. Il Fanon politico è, tra gli italiani che lo ricordano, il più noto, grazie al libro I dannati della terra. Tuttavia il Fanon politico è anche il Fanon tragicamente più datato. A cinquant'anni di distanza, non ci resta che prendere atto che le esperienze di liberazione sono state spesso disastrose. Tuttavia, nel contesto di quegli anni, i movimenti di liberazione hanno dato vita, prima in Francia poi in tutta Europa, ai movimenti studenteschi e a una stagione di contestazione politica che Fanon non ebbe l'opportunità di vivere.
Nel libro, c'è anche un'interessante sezione dedicata al Fanon italiano. Una sorta di continuazione del Fanon politico. La sinistra italiana, favorevole alla lotta di liberazione algerina, accoglieva Fanon grazie all'aiuto di Giovanni Pirelli e al coinvolgimento di Raniero Panzeri, siamo all'inizio degli anni Sessanta. Su questi temi si può leggere l'interessante tesi di Laurea di Marco Ferro Quale Fanon? Un'analisi della prima ricezione italiana de “I dannati della terra”, discussa presso l'Università Ca' Foscari di Venezia.

I due curatori del libro, grazie al contributo di Neelam Srivastava, riconoscono la maggiore attenzione ottenuta da Fanon in Italia, rispetto alla Francia, in un'epoca in cui la questione algerina aveva costretto la Francia ad agire dentro un logica amico/nemico. Fanon passava spesso da Roma per recarsi in Africa. Sembra anche essere scampato a un tentato assassinio di qualche servizio segreto francese mentre era in Italia.

Questo testo lascia però un po' in ombra la fama di Fanon, dopo la sua morte, presso gli studi post-coloniali di lingua inglese. Se I dannati della terra rappresenta il Fanon sartriano, rivoluzionario comunista – apprezzato in quello strano paese occidentale, alleato degli Stati Uniti, con il Partito Comunista più forte del mondo, che era l'Italia – Pelle nera, maschere biancheè invece la sua opera più nota nel mondo anglosassone e mostra un Fanon che usa la psicoanalisi per smascherare l'aspetto intimo del soggetto colonizzato, il suo assoggettamento linguistico, culturale, ontologico.

L'opera Rethinking Fanon, curata da Nigel Gibson nel 1999 e numerose altre opere in lingua inglese sul suo pensiero mostrano la fioritura di studi anglosassoni non tanto sul Fanon rivoluzionario attivo, quanto sul pensatore critico, anticipatore delle opere di Edward Said, Homi Bhabha e Gayatri Spivak. In un certo senso, Fanon ha subito la stessa sorte accaduta a Gramsci, pensatore comunista in Italia fino agli anni Ottanta, filosofo dei cultural studies inglesi e nord-americani a partire dagli anni Novanta. Si tratta dello stesso Fanon? Oppure ci sono Fanon molteplici? Propenderei per la seconda versione: il rivoluzionario, lo scrittore di teatro, il critico post-coloniale, l'etno-psichiatra stanno insieme e, mentre nel contesto degli anni Sessanta e Settanta in Italia, il rivoluzionario aveva certamente più influenza, oggi, in un contesto storico-sociale del tutto diverso, emerge il Fanon clinico. Rivoluzionario sì, ma nei “minuti particolari”.


IL PROCESSO EICHMANN IN TV

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Il ruolo storico della tv nel «processo del secolo»: le dirette sul gerarca nazista fecero capire al mondo gli orrori della Shoah. Un film ricostruisce quel momento.

Aldo Grasso

The Eichmann Show

Che ruolo hanno avuto la radio e la tv sulla comprensione della Shoah, in Israele e nel mondo? Per molti israeliani il processo Eichmann (aprile 1961), le cui udienze furono trasmesse in diretta, fu il primo contatto ravvicinato con l’Olocausto. In precedenza il loro approccio era stato caratterizzato da una incomprensione di fondo sull’ampiezza della tragedia e sulla terribile esperienza vissuta dai superstiti. Quell’evento, raccontato per la prima volta dalla tv, rappresentò una svolta nella memoria collettiva.

Il processo ad Adolf Eichmann fu un momento drammatico per Israele e non solo. Basti pensare ai resoconti che Hannah Arendt scrisse per il New Yorker (raccolti poi nel libro La banalità del male ) dove si sosteneva la «terribile normalità» della burocrazia nazista, capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto in nome di una cieca obbedienza. Il Male che Eichmann incarnava appariva alla Arendt «banale», e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori erano grigi impiegati.

Il film The Eichmann Show racconta appunto il ruolo che la tv ebbe nell’elevare questo processo a una sorta di presa di coscienza collettiva (è anche un piccolo trattato sulle riprese tv). Merito del produttore televisivo Milton Fruchtman (Martin Freeman), che chiamò Leo Hurwitz (Anthony LaPaglia) per occuparsi delle riprese. Hurwitz, regista molto amato dalla critica e pioniere nell’uso delle telecamere, era finito nella «lista nera» di McCarthy ed era rimasto inattivo per un decennio. Arrivando a Gerusalemme, si trovò per le mani un lavoro fuori dal normale: con l’aiuto di Milton, in tempi ristrettissimi dovette addestrare un team di riprese formato da professionisti inesperti e convincere i giudici a cambiare decisione, permettendo che il processo venisse ripreso.
Mentre in Israele la trasmissione andava in diretta, per gli altri Paesi fu approntato un sistema di distribuzione di «cassette», con le prime registrazioni fatte attraverso il sistema Ampex, un nastro da due pollici non facile da montare. Ben 37 Paesi (tra cui Usa, Francia, Inghilterra, Australia, Argentina…) vollero mandare in onda quelle registrazioni. Soprattutto in Israele, la tv svolse un ruolo catartico, liberatorio: di fronte allo shock delle immagini, la popolazione si confrontò con se stessa e soprattutto con i sopravvissuti.

I «salvati» non avevano voglia di parlare, non amavano raccontare la loro terribile esperienza, anche perché avevano la sensazione di non essere creduti. Gli scampati alla Shoah si coprivano con la camicia i numeri impressi a fuoco sulle braccia. Si sentivano «ebrei sconfitti» al confronto dei «pionieri» che apparivano invece come «ebrei vincenti». Queste anime così diverse che avevano vissuto la tragedia in maniera tanto dissimile riuscirono in un’aula di tribunale a esprimere insieme, per la prima volta dal 1948, un vero spirito unitario. Ci vollero quelle immagini televisive perché anche gli «altri» cominciassero a credere.

Da allora, la tv, non diversamente dal cinema, ha assunto sempre più la duplice veste di fonte e strumento di narrazione storica. Se il Novecento è stato definito il secolo «della testimonianza», questo si deve alla sempre più massiccia e pervasiva presenza dei mezzi di comunicazione di massa che affiancano, registrano e, talvolta, si pongono al centro della vita politica e culturale delle società tardomoderne. Dal processo Eichmann, la tv diventa il luogo di dispiegamento — reale, simbolico o meramente retorico — dei fatti storici, che non possono sottrarsi all’occhio della pubblica visibilità (sebbene, ovviamente, il mito della visibilità totale lasci fuori ampi coni d’ombra). Le trasmissioni televisive cominciano a incidersi nella memoria collettiva, raggiungendo una grandissima audience, intervenendo direttamente sul contesto in cui la storia stessa si realizza. La tv diventa «agente di storia».

The Eichmann Show ci fa rivivere i quattro mesi del processo e la difficoltà delle riprese, anche dal punto di vista morale. Spesso l’etica (mostrare anche le fasi più noiose del dibattimento) si scontrò con l’estetica: drammatizzare il male attraverso i primi piani dell’imputato. Ma quelle immagini scioccarono il mondo per l’evidente mancanza di rimorso del colpevole. L’80% della popolazione tedesca guardò almeno un’ora del programma ogni settimana. Il processo venne trasmesso su tutte e tre le reti statunitensi, con notiziari quotidiani in altri Paesi. Ci furono persone che svennero guardando il processo in tv. Intanto, in quei mesi, la tv si doveva anche occupare di Yuri Gagarin primo uomo nello spazio, della baia dei Porci, di Alan Shepard, il primo americano in orbita…Quanto alla tv italiana, si celebra il centenario dell’Unità d’Italia e nasce «Tribuna politica».

Oggi, grazie a un accordo tra gli Archivi di Stato Israeliani, lo Yad Vashem di Gerusalemme (il principale museo dedicato al ricordo dell’Olocausto) e Google, molte delle riprese televisive realizzate durante il processo sono visibili su YouTube. Tocca a Internet assumere ora il ruolo che in passato è stato mirabilmente svolto dalla televisione.


Il Corriere della sera – 23 gennaio 2016

E. ZOLA, GERMINAL

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Analisi del capolavoro di Zola, Grande romanzo sociale dove il lavoro in miniera diventa metafora della condizione umana.

Pietro Citati
Germinal, l’opera nera. E no
Émile Zola è lo scrittore più popolare della Francia: alla fine del Ventesimo secolo, le collezioni di tascabili hanno venduto venticinque milioni di copie dei suoi romanzi. Nel nostro Paese, invece, Zola è poco letto e poco amato; ed è dunque molto proficua la recente edizione dei Meridiani, che pubblica nove romanzi in tre volumi. Da poco sono usciti Germinal , La terra , La bestia umana , curati in modo eccellente da Pierluigi Pellini e tradotti da Giovanni Bogliolo, Donata Feroldi e Dario Gibelli. Zola cominciò a scrivere Germinal , il più famoso e forse il più bello dei suoi romanzi, nell’aprile 1884, dopo aver studiato la questione mineraria, e dopo un viaggio a Valenciennes, il principale modello di Montsou, dove si concentrano le vicende del libro. Un anno più tardi lo pubblicò in quarantamila esemplari: una tiratura alta anche oggi.

In primo luogo, Germinal è un libro nero. La pianura nuda è dominata da una notte senza stelle, illuminata dai rari fuochi azzurri degli altiforni e da quelli rossi dei forni a coke: essa è spazzata da una tramontana gelida con grandi soffi che si succedono regolari come colpi di falce; oppure bagnata dalla pioggia che scende lenta, cancellando ogni cosa in fondo al suo monotono picchiettio. La notte seppellisce la terra come un sudario. Si moltiplica nel cuore della miniera, ispessita dalla polvere di carbone sospesa nell’aria, e appesantita dai gas che gravano sugli occhi dei minatori. 
Sentiamo un rumore sordo, che sembra provenire dalle viscere della terra, e che nasce dallo sfiatatoio della grande pompa: un respiro lungo, greve, incessante, simile all’ansimare strozzato del mondo. Tutto, la notte, la miniera, il respiro dello sfiatatoio, è tenebra; e questa tenebra non è un’assenza di colore, ma, come diceva Huysmans, il colore supremo, la molteplicità di tutti i colori, che occupa in modo stabile la mente di Zola.

La miniera è accucciata in fondo a un avvallamento: con edifici tozzi di mattoni e una ciminiera alta trenta metri, ritta come un cono minaccioso. Il suo aspetto è malvagio: sembra una bestia ingorda, un mostro accoccolato per divorare la gente. Zola si sforza di descriverla: insiste, ripete, insiste ancora, fallisce; finché, secondo la profonda inclinazione della sua natura, parla, con una specie di religioso tremore, di un «tabernacolo», in cui si nasconde, accucciato e satollo, il dio al quale tutti i minatori e tutti gli uomini offrono la propria carne.

Questo dio è inanimato: è una cosa nella sua essenza profonda: ma subito diventa animalesco; il pozzo inghiotte gli uomini a bocconi di venti o trenta per volta, e li manda giù per la gola, come se non li sentisse nemmeno passare. Ciò che è animalesco diventa umano: i cavalli, che stanno chiusi in fondo alla miniera e non risalgono mai alla luce, rivedono con la mente il mulino dove sono nati, continuamente battuto dal vento, e fanno inutili sforzi per ricordare l’infanzia. Intanto la pompa della miniera continua a soffiare con lo stesso respiro lungo e greve: il respiro di un orco umano che nulla può saziare.

Passando dal simbolo alla realtà, Zola descrive gli uomini che affollano la pianura di Montsou. Essi non sono, in realtà, uomini, ma insetti o spettri. In fondo alla miniera, si agitano forme fantomatiche, lasciando intravedere un’anca, un braccio nodoso, una faccia rabbiosa, imbrattata di polvere di carbone come per commettere meglio un delitto. Essi sudano: ansimano: le giunture dei corpi scricchiolano, ma senza un lamento, con l’indifferenza dell’abitudine, come se vivere così piegati fosse il destino comune di tutti gli uomini. Si spogliano: scavano la roccia: si intridono di fanghiglia nera fino al capo; come talpe in fondo a una tana, sotto il peso della terra, senza più fiato nei corpi arroventati.

Quando la Compagnia mineraria aggrava le loro condizioni di vita, i minatori entrano in sciopero. I borghesi trovano divertente lo sciopero: ma, in fondo alla loro allegria forzata, c’è una sorda paura, tradita da occhiate involontarie. Sul piazzale della miniera grava un pesante silenzio: quella di Montsou è una fabbrica morta: i grandi cantieri sono vuoti; nel cielo di dicembre, tre o quattro vagoni abbandonati hanno la muta tristezza delle cose dimenticate. In questo momento, alla tradizionale disciplina dei minatori si aggiunge un orgoglio da soldati: gente fiera del proprio mestiere, che dalla lotta quotidiana contro la morte ha appreso l’esaltazione del sacrificio.

Tra i minatori di Montsou, giungono estranei. Étienne Lantier, che viene dalla città, appare in altri volumi dei Rougon-Macquart , il grande ciclo di Zola. Egli non tollera i doni della Compagnia: detesta i borghesi: non vuole farsi ridurre come una bestia accecata e schiacciata; ma immagina una rigenerazione universale di popoli senza una goccia di sangue. Suvarin è un anarchico, che viene da Pietroburgo. «Piantatela — grida — con la vostra evoluzione! Appiccate il fuoco ai quattro angoli della terra, sterminate i popoli, radete al suolo tutto quanto. Quando non resterà più niente di questo mondo, allora forse ne nascerà uno migliore. Lo volete capire? Bisogna distruggere tutto. Sì, l’anarchia. Più niente. La terra lavata dal sangue, purificata dall’incendio...!».

Lo sciopero si estende e diventa violento. Quando i minatori arrivano al pozzo di Gaston-Marie, duemilacinquecento forsennati spaccano e spazzano via tutto, con la forza impetuosa di un torrente in piena. Ribaltano i fornelli, svuotano le caldaie, devastano gli edifici. Si gettano sopra la pompa, come se fosse una persona a cui vogliono togliere la vita: la massacrano a colpi di mattoni e sbarre di ferro. Allora l’acqua comincia a sgorgare. Quando esce completamente, un ultimo gorgoglio sembra il singulto di un agonizzante. Lo sciopero dura due mesi. La rabbia, la fame, le scorribande trasformano i placidi volti dei minatori di Montsou in fauci di bestie feroci. I raggi del sole al tramonto insanguinano la pianura. Il nero del libro diventa rosso, scarlatto, accrescendo la propria violenza tenebrosa. I minatori si chiudono in casa, in preda alla fame e alla ostinazione passiva. La loro forza cieca divora sé stessa.

Intanto Suvarin è sempre più assorbito in un’idea fissa, che sembra brillare come un chiodo d’acciaio in fondo ai suoi occhi chiari. Egli sabota la miniera. Poi si allontana senza guardarsi alle spalle nella notte tenebrosa: con la sua aria tranquilla, va verso lo sterminio, dovunque ci sia dinamite per far saltare uomini e città.

Sottoterra, scorre il Torrente, un mare inesplicato, con le sue tempeste e i suoi naufragi, che agita i propri flutti neri a trecento metri dalla luce del sole. La miniera si riempie d’acqua. La grande pompa ansimante non riesce a smaltirla. Il rivestimento del pozzo si stacca. In alto si sente una serie di sorde detonazioni: tavole di legno si fendono e si schiantano in mezzo al continuo e crescente frastuono del diluvio. Si sentono bruschi rimbombi: rumori irregolari di cadute profonde, seguiti da lunghi silenzi. La ferita della miniera si allarga: la frana, cominciata in basso, si avvicina alla superficie. Una prima scossa fa tremare il terreno, seguita da una seconda. Da quel momento il suolo non smette di tremare: un susseguirsi di scosse, cedimenti sotterranei, boati di vulcani, e infine un’ultima convulsione. L’alta ciminiera crolla in blocco, bevuta dalla terra come un cero colossale. Tutta la miniera sprofonda in un lago d’acqua melmosa: mentre i cavalli, chiusi nelle stalle sotterranee, impazziscono con nitriti furibondi.

Nel pozzo rimane Étienne, insieme a una ragazza, Catherine Maheu, che egli ama di un amore contrastato. La lampada si spezza. Sopra di loro, scende la notte assoluta. Entrambi accusano ronzii alle orecchie: sentono i rintocchi furiosi di una campana a martello, il galoppo interminabile di una mandria sotto un rovescio di grandine. Étienne avvinghia Catherine e la possiede: «Quella fu finalmente la loro notte di nozze, in fondo a quella tomba, su quel letto di melma, per l’ostinato bisogno di vivere un’ultima volta». Catherine muore. Étienne viene salvato e portato in alto, alla luce del sole. Come i grandi romanzi romantici, Germinal conosce il proprio senso ultimo nella fusione di Eros e Thanatos, amore e morte.

Il titolo del bellissimo libro indica il settimo mese, Germinal, nel calendario della rivoluzione francese: dal marzo all’aprile. Al tempo stesso, annuncia il ritorno e la vittoria della primavera: la nascita, la vita, la germinazione. Tutte le cose germinano: anche ciò che è morto, o non è mai esistito: persino Catherine annegata in fondo al pozzo; eppure esse sono nere, come l’eterna notte senza stelle che apre il romanzo. I libri di Zola sono sempre così: realistici e onirici, razionali e mistici, riuniscono disperatamente e trionfalmente gli estremi dell’universo.


Il Corriere della sera – 21 gennaio 2016

ANTONELLO DA MESSINA SECONDO SILVANA LA SPINA

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L'UOMO CHE VENIVA  DA MESSINA
Massimo Maugeri  *


La lettura del nuovo romanzo di Silvana La Spina, “L’uomo che veniva a Messina” (Giunti, 2005), mi ha spinto verso un’ulteriore riflessione sul potere “sanante” della letteratura.
Nella nota che leggiamo alla fine del volume, Silvana La Spina ci dice che questo suo nuovo libro “è innanzi tutto un romanzo. E in quanto tale vive di vita propria – ossia piegando la realtà ai suoi bisogni, la storia vera alle sue storie”. Ma è anche vero, come evidenzia l’autrice, che di Antonello si sa molto poco. Ed ecco, dunque, che viene in soccorso proprio quell’aspetto peculiare del potere “sanante” della letteratura a cui facevo cenno prima e che trova il senso più alto nel ricomporre i pezzi e nell’aggiungere i tasselli mancanti affidandosi alla forza dirompente della narrazione, della scrittura che crea. D’altra parte non stiamo parlando di un uomo qualunque, di un artista qualunque. Stiamo parlando di Antonello, del grande Antonello, del Messinese: l’unico tra i pittori siciliani (per dirla con La Spina) ad aver raggiunto una fama universale, a essere entrato tra i giganti della sua epoca.
È una storia dalle tante facce, questa che racconta l’uomo che veniva da Messina. È la storia di come, spesse volte, i luoghi natii respingano i propri geni; di come difficilmente riescano a riconoscere la loro arte, la loro grandezza. Di come, al contrario, i conterranei tendano – in alcuni casi – a soffocare, a stritolare o – paradossalmente – a respingere. E a volte sono proprio i parenti più stretti a svolgere quest’attività di accerchiamento che diventa zavorra di qualunque ambizione artistica. (Nella parte iniziale del romanzo il nonno di Antonello, rivolgendosi al nipote, definisce la pittura come «l’arte del Diavolo»… mentre suo padre lo prende addirittura a scudisciate quando lo sorprende a tracciare i disegni di certi monumenti). E se questo è vero per tutti, è ancor più vero per un’artista siciliano. Ecco cosa Antonello, con riferimento al Panormita (alias Antonio Beccadelli), dice a Colantonio, nel corso del suo delirio pre-mortem: “Il Panormita era un siciliano e i siciliani, per esperienza di vita, da sempre si odiano tra loro. È come una malattia, credetemi, mastro Colantonio. Un siciliano non vorrà mai che un conterraneo possa emergere, persino se il campo di cui si occupa è lontanissimo dal suo. È un vizio, un peccato d’origine in tutti i miei conterranei… Persino nella mia famiglia è stato così”. E allora il viaggio, il peregrinare verso altre mete, il tentare di accedere nel cuore dei luoghi dove la Grandezza ha messo radici con l’obiettivo di divenire parte di questa pianta chiamata Arte; una pianta che – nei casi più fortunati – consente persino di sopravvivere alla morte. Ed è questa l’esperienza che Antonello il Messinese si trova a vivere. Antonello lascia la sua città e approda prima a Napoli, dove migliora la propria tecnica grazie a colui che chiama Maestro: il già citato Colantonio. Nel romanzo di Silvana La Spina – come accennato – sarà proprio quest’uomo, il suo Maestro, il referente a cui Antonello si rivolgerà in punto di morte per rievocare l’intera propria esistenza: dall’inizio alla fine.
Il romanzo comincia così. Siamo nell’anno 1479, a Messina. Antonello comprende che la Signora del niente, la protagonista di una delle opere pittoriche che più lo ha ossessionato (“Il Trionfo della Morte”) lo sta per venire a trovare e dunque, dentro di sé, mentre riceve l’unzione estrema inizia una sorta di confessione, rivolta a Colantonio, che si traduce in una ri-evocazione della sua intera esistenza. Un’esistenza di viaggi, dicevamo. Di partenze e di ritorni, che vedrà Antonello protagonista – come accennato – nella Napoli del Maestro Colantonio dominata dai cortigiani (con la presenza di figure inquietanti: come il Panormita) e poi, ancora, a Roma (una capitale che già a quel tempo ravvisa i sintomi di una corruzione endemica). Nei percorsi di Antonello c’è la Mantova del Mantegna, la Arezzo di Piero della Francesca, il Ducato di Milano. E tra le più importanti tappe della sua vita, c’è Venezia: la città che lo renderà notissimo e che gli consentirà di stringere un’amicizia fraterna con Giovanni Bellini e l’intera famiglia di questi pittori veneziani.
Ma il luogo dei luoghi, per Antonello è Bruges, la città che incarna il cuore della sua più grande ossessione artistica: ovvero, la pittura a olio e i suoi segreti. Perché “L’uomo che veniva da Messina” è anche un romanzo sull’ossessione dell’arte… ovvero sull’insopprimibile necessità di ogni artista di raggiungere l’apice, di tendere alla perfezione, di conquistare quella tappa che possa consentirgli di contrapporre la bellezza e la grandezza dell’opera alla forza annientatrice della Morte. Perché questa è, in definitiva, la vera battaglia che intraprende ogni artista. Una battaglia contro i propri limiti e contro la propria fine.
L’ossessione di Antonello si concentra, per l’appunto, sulla tecnica degli artisti fiamminghi e sull’uso della pittura ad olio. Quella che garantisce il grande salto di qualità, il perfezionamento definitivo della rappresentazione per immagini (i particolari così vividi, le luci e le ombre così precise). Un’ossessione che avvicinerà Antonello al grande Van Eyck e che, alla fine, in un modo o nell’altro, gli permetterà di accedere ai segreti del giusto dosaggio. Non solo. Quell’ossessione finirà con il far scoprire ad Antonello cos’è l’amore vero. E proprio lui, che non si è mai tirato indietro di fronte ai piaceri della carne; lui, che ha amato moltissime donne, dalle nobili alle prostitute; che ha avuto figli, legittimi e illegittimi, nati dentro e fuori dal matrimonio (che ha contratto a Messina con una donna benestante) finisce con il comprendere che l’amore vero va al di là del mero piacere carnale.
Silvana La Spina, nel suo romanzo, ci racconta un Antonello da Messina che si innamora perdutamente di Griet, figlia illegittima del grande pittore fiammingo Van Eyck. E allo sviluppo di quest’amore contrastato, dolente e destinato alla tragedia, sarà legata la realizzazione dell’opera più grande del Messinese: l’Annunciata, ritratta con la mano destra sollevata. Un’Annunciata dal volto bellissimo, che riprende i tratti della donna amata.
Un siciliano in viaggio, prima o poi fa ritorno al proprio luogo d’origine. È così anche per Antonello, che per la sua Messina coltiva il tipico sentimento frammisto di amore e odio. Sarà un ritorno dolente, segnato dalla peste che ha investito Venezia e dalla fine drammatica dell’amore. E allora ecco giungere la Morte, la morte del Trionfo; come quella dell’affresco di Palazzo Sclafani, a Palermo: una Furia a cavallo che tutto travolge e tutto distrugge. “Guardavo quella forma scheletrica, che calpestava tutti coloro che non riusciva a raggiungere con le frecce”, dice Antonello. “I ricchi, i potenti e gli umili, che pareva gridassero: «A me, a me. Levami dalla vita, cara Morte…»”.
Attingendo al potere “sanante” della letteratura Silvana La Spina ci offre un romanzo potente e avvincente, che incanta con la sua forza affabulatrice e restituisce un Antonello da Messina rinvigorito e rinnovato da questo personaggio letterario che affianca e integra la figura storica del più grande pittore nato in terra di Sicilia.
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* Massimo Maugeri cura Letteratitudine (blog, news, radio)

Testo tratto da   https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/

ITALIA IMMOBILE

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Irene Brunetti
Italia immobile: il figlio dell’operaio fa ancora l’operaio
Che cosa significa mobilità sociale? Il termine non è molto diffuso nel linguaggio comune ma indica un fenomeno importante per tutti gli individui. Come evidenzia il Rapporto Istat 2012, la mobilità sociale è il processo che, in una data società, consente agli individui di muoversi tra posizioni sociali diverse. I destini individuali possono risentire degli squilibri delle posizioni di partenza. Ognuno di noi nasce infatti in una certa famiglia e in un determinato contesto, ha quindi una sua «origine sociale». Diventando adulto, costruisce una famiglia e svolge un’occupazione, acquisisce cioè una «posizione sociale» autonoma. Talvolta, questa risulta più elevata rispetto a quella dei propri genitori, ma è anche possibile che sia inferiore: o perché il reddito percepito è minore, o perché svolge un lavoro più basso nella scala sociale. I figli possono quindi ereditare i vantaggi, ma anche gli svantaggi associati alle posizioni dei loro padri.

Molti sono gli indicatori che vengono utilizzati per misurare la posizione sociale di un soggetto: il reddito, il livello di istruzione, la ricchezza posseduta e la classe occupazionale. Quest’ultima, definita come l’occupazione più alta nella scala sociale raggiunta sia dai padri che dai figli, viene considerata un buon indicatore: permette infatti di considerare sia il prestigio che la società attribuisce a ciascuna occupazione, sia i possibili cambiamenti della struttura occupazionale.

Quanto è mobile l’Italia da un punto di vista occupazionale? Per poter rispondere a questa domanda abbiamo utilizzato i dati forniti dalla Banca d’Italia. La Banca permette l’accesso ai dati sulle indagini sui bilanci delle famiglie italiane, indagini da cui si possono reperire informazioni riguardanti le occupazioni svolte dai padri e dai figli definiti «capifamiglia», che quindi vivono fuori dalla casa paterna. Le classi occupazionali considerate sono sette: disoccupato, operaio, piccolo imprenditore, lavoratore autonomo, impiegato o insegnante, libero professionista e manager. Le occupazioni sono state classificate sulla base del reddito medio legato a ciascuna di essa, e del prestigio che la società vi assegna.

Per misurare la mobilità si è calcolata la probabilità che ciascun figlio ha di raggiungere una classe occupazionale uguale o diversa da quella del proprio padre, data l’occupazione svolta dal padre stesso.

Il quadro che emerge è tutt’altro che promettente: si osserva infatti un peggioramento delle opportunità di riuscita occupazionale dei giovani e, per determinate classi occupazionali, un aumento della persistenza da una generazione all’altra, ad esempio per la classe operaia e impiegatizia. In particolare i nati nei periodi 1967-1976 e 1977-1986 hanno un’elevata probabilità di trovarsi in una classe occupazionale più bassa rispetto a quella dei propri padri. Consideriamo due individui, il primo nato nel periodo 1947-1956, e il secondo nato nel periodo 1967-1976, il cui padre svolge un’occupazione da libero professionista. Il primo ha una probabilità di svolgere un’occupazione più bassa nella scala sociale, ad esempio essere insegnante o impiegato, pari al 15 per cento, mentre la stessa probabilità per il secondo soggetto sale al 41 per cento. Si osservi a questo proposito la visualizzazione: il flusso di colore giallo, che rappresenta la probabilità di essere impiegato o insegnante, nella sesta colonna, che a sua volta indica la professione del libero professionista per il padre, va ampliandosi per la generazione più giovane. Tale andamento suggerisce quindi un peggioramento nelle opportunità di occupare una posizione migliore nella scala occupazionale rispetto ai propri padri implicando quindi una più alta probabilità di muoversi verso il basso.

Per le coorti più anziane vale invece l’opposto: la probabilità di accedere a un’occupazione più elevata rispetto a quella dei padri resta alta. Osserviamo la terza colonna, dove il padre è un piccolo imprenditore: il flusso di colore azzurro denota la probabilità per i figli di diventare liberi professionisti, salendo così nella scala occupazionale. Per la generazione nata tra il 1947 e il 1956 tale probabilità è pari al 14 per cento. Rimane stabile per la generazione nata tra il 1957 e 1966, ma inizia a diminuire drasticamente per le generazioni più giovani fino a raggiungere un livello vicino allo zero.

Emergono altri due fenomeni: la crescente probabilità di accedere alla classe operaia e a quella impiegatizia, e la maggiore difficoltà delle generazioni più giovani a ricalcare le orme dei padri. Nel primo caso si osserva che la probabilità che un figlio ha di diventare operaio avendo un padre manager aumenta dal 4 per cento per i nati nel periodo 1947-1956 al 10,5 per cento per i nati nel periodo 1967-1976. Queste stesse probabilità variano dal 36 al 47 per cento se il figlio rientra nella classe impiegatizia. Nel secondo caso invece appare sempre meno probabile che il figlio di un libero professionista svolga la stessa professione del padre.

L’Italia mostra quindi da un lato un basso livello di mobilità causato dall’aumento della persistenza in certe classi occupazionali, e allo stesso tempo, un aumento della mobilità discendente. Tra le cause, il peggioramento delle opportunità tra i più giovani che può essere imputato sia a una minore equità nei processi di allocazione delle persone nelle varie posizioni, sia ai cambiamenti strutturali che il nostro sistema occupazionale ha subito negli ultimi decenni.

Alle coorti più giovani non è permesso accedere a certe occupazioni non tanto perché non ne hanno le opportunità, ma piuttosto perché c’è meno richiesta dal lato della domanda di lavoro. L’incremento della mobilità discendente può dare origine a diversi effetti, che sembrano essere favoriti, paradossalmente, dalla crescita dei livelli di istruzione dei giovani: venendo collocati in posizioni professionali meno qualificate di quelle in cui erano i loro padri, a parità di istruzione, assistono a una dispersione del loro capitale umano.

Il Corriere della sera – 24 gennaio 2016

SANTI E PORCI PER CARNEVALE

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Il giardino delle delizie di H.Bosch




Con Sant'Antonio Abate (17 gennaio) comincia il carnevale. La leggenda narra che il maligno si manifestò sotto forma di maiale prima ancora che di femmina e la cosa da allora ha sempre sollecitato la creatività di artisti e scrittori.

Marino Niola
Il santo e il porco
Da sempre il porco regna incontrastato sul periodo più grasso e licenzioso dell’anno, il carnevale. A carnevale ogni scherzo vale e ciascuno è libero di fare i suoi porci comodi. Quello tra la festa più trasgressiva e la bestia più allusiva è un incontro largamente annunciato, visto che la nomea del suino come sex symbol è antichissima.

Fu Aristotele a consacrarne la fama, quando gli attribuì una natura sessuale particolarmente calda, facendone così il simbolo di un desiderio insaziabile, ma anche dell’abbondanza, della fecondità, dello scialo. Voluttuoso ma anche generoso. Del maiale, si sa, non si butta via niente. Come in altri campi dello scibile, anche in materia suina l'ipse dixit aristotelico è diventato legge e da allora il porcello è, per antonomasia, l’emblema dei piaceri della carne, in ogni senso del termine.

Forse anche per questo il cristianesimo, che riconobbe subito l’attrazione calorica ed erotica esercitata da questa energia vitale, ne fece un simbolo del basic instinct, l’icona della debolezza congenita della carne, sempre tentata dalle porcherie. O dalle maialate, se si preferisce. E addirittura la chiesa associò il maialino a uno dei suoi santi più popolari. Cioè Antonio Abate, il vecchio dalla barba bianca la cui ricorrenza, che cade proprio oggi, apre i battenti del carnevale.

A dire il vero, la sua figura avrebbe poco a che fare con lussurie e lascivie, frenesie e fantasie, eccitazioni e fornicazioni. Non ci indurre in tentazioni, potrebbe essere il suo motto. Perché nella realtà, storica e teologica, Antonio è stato un asceta del deserto, un eremita di costumi rigorosi e severi, considerato il fondatore del monachesimo cristiano. Visse nell’Egitto del terzo secolo dove passò gran parte della sua vita chiuso in una tomba scavata nella roccia a pregare, mortificarsi e autopunirsi, ad maiorem dei gloriam.

Ma cosa c’entra un sant’uomo del genere con la licenza del carnevale e con la concupiscenza del maiale? C’entra eccome! Perché il diavolo, che ci mette sempre la coda, indispettito dall’incorruttibile continenza del santo, lo sottopose a mille e una tentazione, nel tentativo di far divampare il fuoco che covava sotto quella cenere devota. Alcune storie narrano che il maligno gli apparve in forma di suino. Altre, absit iniuria, dicono che si manifestò sotto sembianze di femmina.

Due immagini non certo equivalenti, eppure equipollenti, perché rappresentano entrambi una sorta di apparentamento, perfino linguistico, tra corpo e porco. Riflettendo un’idea della carne come peccato originale, come impurità da emendare. Fatto sta che, sin dal Medioevo, la tentazione di sant’Antonio diventò un leitmotiv dell’immaginario colto e di quello popolare, dalla letteratura alle arti visive.

L’episodio ispirò a un pittore sensibile a visioni e allucinazioni come Hieronymus Bosch ben due dipinti. L’onirico Giardino delle delizie del Prado e, soprattutto, il vertiginoso Trittico delle tentazioni del Museu Nacional di Lisbona, dove il povero Antonio deve vedersela sia con delle donne vestite da sacerdoti che celebrano una messa satanica, sia con un uomo dal muso di porco. Il divino, l’umano e il bestiale. Un triangolo sconveniente su uno sfondo rosso ardente. È la fiamma del desiderio, difficile da controllare e dolorosa da spegnere. Che diventa croce e delizia della condizione umana. Nonché attributo iconografico del santo. Sempre rappresentato mentre tiene in mano una fiammella. Il fuoco di sant’Antonio, appunto. E con un maiale ai piedi.


Il grande Gustave Flaubert, in visita a Genova nel 1845, fu letteralmente folgorato da un quadro di Pieter Brueghel il Giovane, raffigurante l’eremita molestato dal demonio, che si trovava nella quadreria di Palazzo Balbi. «Darei un’intera collezione, più centomila franchi, per avere quel quadro» disse, esaltato e scottato dalle vampate di colore del fiammingo. Non tardò a tradurre la bruciatura in letteratura. E scrisse la celebre Tentazione di Sant'Antonio che, ai suoi occhi, diventa l’immagine stessa dell’uomo in lotta con le sue passioni.

Paul Valéry confessava di preferire la Tentation anche a Madame Bovary. Perché Flaubert non si era limitato a raccontare una storia di tentazione. Era riuscito addirittura a definire la «fisiologia della tentazione» come forza motrice della vita. In questo senso, Antonio è l’altro lato di Madame Bovary. Anche il Novecento delle avanguardie si è misurato con la storia del santo abate. Lo hanno fatto surrealisti col pennello, come Salvador Dalí che trasforma la lotta con il demonio in una processione di bestie apocalittiche. E surrealisti con la macchina da presa come Luis Buñuel, che alle tentazioni ha dedicato più di un capolavoro, da Salita al cielo a Simon del deserto.

Ma la più geniale variazione sul tema è quella offerta nel 1962 da Federico Fellini con Le tentazioni del dottor Antonio, uno dei quattro episodi di Boccaccio '70, sceneggiato da Tullio Pinelli e Ennio Flaiano. Con Peppino de Filippo nei panni del dottor Mazzuolo, un inflessibile guardiano della morale, posseduto da una divorante ossessione-passione per il corpo femminile. Nella fattispecie quello di una straripante Anita Eckberg che, dall’alto di un cartellone pubblicitario, lo tormenta con l’allusivissimo jingle “bevete più latte”.

Qualcuno ha visto nel sessuofobo moralista felliniano, che in una scena del film schiaffeggia una donna molto discinta, un’allusione a un episodio reale, con protagonista Oscar Luigi Scalfaro. Che in realtà, agli occhi del regista, sarebbe stato colpevole soprattutto di averchiesto il sequestro della Dolce Vita. Certo è che la vendetta di Federico il grande colpì nel segno, con la perfidia beffarda di un tiro a rientrare e la stralunata precisione di un’ellissi barocca.

Asceta e non solo. Accanto al sant’Antonio della cultura alta c’è quello completamente diverso della devozione popolare. Che ristilizza a proprio uso e consumo gli attributi del santo. La signoria sull’ardore delle passioni diventa padronanza del fuoco. E la sofferta familiarità con le tentazioni della carne, nonché con il porco che le incarna, si trasforma in amicizia con la bestia che è in noi. Non più l’anacoreta del deserto ma il santo del porcello. Capace di uccellare anche il diavolo a beneficio di quei poveri cristi di peccatori.

Una leggenda diffusa in tutta Europa, e riportata da Italo Calvino nelle Fiabe italiane, racconta che il misericordioso Antonio viene mandato a fare il portinaio all’inferno. Ma lascia sempre la porta semiaperta per far evadere le anime dei dannati. Allora viene richiamato sulla Terra ma, prima di tornare a riveder le stelle, con la complicità dell’inseparabile maialino, ruba un tizzone infernale e lo regala agli uomini.

Un Prometeo cristiano che diventa patrono degli animali e protettore del quarto stato. Di cui allevia la fame e le sofferenze. Fornendo calore e calorie. E rimedi contro le malattie. L’amico delle bestie, infatti, veniva invocato contro l’herpes zoster, il male che proprio da lui prende il nome di fuoco di sant’Antonio. E che, fino all’Ottocento, veniva curato dai monaci dell’ordine antoniano con la somministrazione di un unguento ottenuto dal grasso di maiale.

Un vero cortocircuito dell’immaginario che inverte il senso del rapporto tra tentazione e inibizione. Rendendo virtuoso quel che per il dogma era un circolo vizioso. Insomma una guerra degli appetiti che, mutatis mutandis, si continua a combattere anche oggi. Con la censura dietetica che ha sostituito quella religiosa nella lotta contro il carnevale dei nostri sensi.


La repubblica – 17 gennaio 2016

GIORNATA DELLA MEMORIA A PALERMO

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Questo pomeriggio alle 16.30 allo Steri di Palermo.

RICORDARE SEMPRE!

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Le architetture dell’orrore

auschwitz-letti 

Natàlia Castaldi

E’ il 27 gennaio e, ormai da undici anni, ogni ventisette di gennaio si torna a parlare e polemizzare sull’utilità di celebrare la memoria dell’Olocausto e la liberazione del Campo di concentramento e sterminio di Auschvitz, avvenuto nel corso de La Grande Offensiva dell’Armata Rossa, il 27 gennaio del 1945. La settimana del 27 gennaio anno dopo anno va perdendo di vista il suo obiettivo principale, saturando l’informazione con discussioni sterili, o peggio pavoneggianti, sulla retorica della memoria, sull’inutilità dell’istituzione di una data in cui celebrare una memoria tanto scomoda da meritare l’etichetta dell’ipocrisia, del fastidio, della noia, del trito e ritrito talmente ripetuto e celebrato da causare irritata indifferenza, un distacco emotivo assuefatto e malato che non si ferma al passato, ma si protrae ed estende al presente, al punto di “banalizzare il male” come qualcosa che comunque non ci appartiene se non come spettatori inermi, indispettiti,
disturbati.

Testo tratto da https://rebstein.wordpress.com/

LETTERATURA E INCONSCIO

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La letteratura senza inconscio

Simboli e racconti
Nel suo significato originario, il termine greco σύμβολον, da cui deriva l’italiano “simbolo”, indicava, cito l’Enciclopedia Treccani, un «mezzo di riconoscimento, di controllo e simili, costituito da ognuna delle due parti ottenute spezzando irregolarmente in due un oggetto (per es. un pezzo di legno) che i discendenti di famiglie diverse conservavano come segno di reciproca amicizia». L’etimologia del termine contiene dunque il senso di un’unità spezzata che tende al ricongiungimento, un collegamento implicito tra due oggetti ora separati ma che un tempo avevano fatto parte di una stessa totalità. Da qui il significato del termine è passato a indicare un oggetto “che sta al posto” di qualcos’altro, traslando l’idea della connessione dal piano della realtà (le due parti del bastone) a quella delle idee (il senso di amicizia tra le due famiglie). Questo è il presupposto che ha permesso di attribuire al concetto di simbolo una concezione estetica, differenziandolo progressivamente dal semplice “segno”.
In ambito letterario, pochi generi in epoca moderna si sono serviti del simbolo come il racconto breve. La short story, per l’economia imposta dalla sua lunghezza ridotta e per la struttura conclusa che lo caratterizza (anche quando è aperto o sospeso: Julio Cortázar, un grande scrittore di racconti dal significato multiplo, ha più volte paragonato il genere a «una sfera»), ha bisogno di poggiare la propria struttura su nuclei tematici forti e circoscritti, che ne limitino le derive ed esercitino una forza centripeta. Qualunque lettore abituale di racconti brevi registra immediatamente la presenza di questi “concentrati di senso” non appena li incontra, e li deposita nella propria memoria sapendo che quegli elementi combinati insieme andranno a comporre il senso del racconto. Spesso questi elementi hanno il valore di simboli; sempre si comportano come le due parti del σύμβολον greco, frammenti di un dispositivo semiotico più ampio che richiede il lavoro del lettore per essere riportato alla propria originaria unità.
È stato Immanuel Kant, nella Critica del giudizio (1790), a tracciare la distinzione fondamentale tra simbolo e segno. Il simbolo, per Kant, è una forma particolare di segno che, cito di nuovo la Treccani, «ha in sé determinazioni ulteriori e indefinite; di qui nasce la vaghezza del senso del simbolo, la sua allusività e inesauribilità». In altre parole, il simbolo è un segno ma è anche qualcos’altro: un segno dai contorni sfumati, potremmo dire, circondato di un alone più o meno ampio di significati collaterali o periferici. Nella storia della letteratura moderna, questo alone è andato di volta in volta ampliandosi o riducendosi, oppure cambiando connotazioni, a seconda della sensibilità artistica delle epoche storiche e dei movimenti artistici: molto ampio e indefinito nel Romanticismo, codificato nel Simbolismo, piuttosto preciso e psicologizzato nel Modernismo e così via fino ai giorni nostri.

Elefanti, pavoni, cani
Ernest Hemingway scrisse il racconto breve Colline come elefanti bianchi nel 1927 e lo pubblicò sulla rivista parigina di letteratura sperimentale transition; quello stesso anno lo incluse nella sua seconda raccolta di racconti, Men Without Women, la quale fu successivamente accorpata ai Quarantanove racconti nel 1938. Il racconto, tra i più studiati nei licei e nelle università di mezzo mondo come esempio paradigmatico del simbolismo modernista, racconta una storia semplice: mentre aspettano un treno in un piccolo paese spagnolo, un uomo e una donna discutono dell’eventualità che lei abortisca. Né l’aborto né i dettagli della relazione tra i due vengono mai esplicitati (da quanto tempo si conoscono? sono sposati? è lui il padre del bambino? si intuirebbe di sì, ma nel corso del racconto, lungo solo quattro pagine, non viene mai detto chiaramente), lasciando al lettore il compito di completare i tanti buchi lasciati dalla prosa essenziale e distaccata. In questo, com’è noto, consiste la “teoria dell’iceberg” di Hemingway: lo scrittore si occupa di esplicitare solo una parte molto piccola della storia che sta raccontando, lasciando sommersi i nuclei tematici profondi allo stesso modo in cui l’aera emersa costituisce solo una piccola un iceberg.
Così, quando la ragazza del racconto paragona le colline spagnole a elefanti bianchi, il lettore anglofono percepisce il significato dell’espressione idiomatica “elefante bianco”, che l’Oxford Dictionary definisce come «un possesso che è inutile o dannoso, specialmente se costoso o di cui è difficile liberarsi»: la ragazza si riferisce naturalmente al bambino che porta in grembo. Il modello di Hemingway dunque è costruito secondo un’opposizione netta tra superficie e profondità, che ricalca quella tra significato e significante, dove qualcosa (l’elefante) sta al posto di qualcos’altro (la gravidanza indesiderata). Una rappresentazione schematica di questo modello può essere vista nella Figura 1:
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Nel 1983 uno scrittore postmoderno che a Hemingway deve molto della sua tecnica letteraria, Raymond Carver, dava alle stampe la sua terza raccolta di racconti, Cattedrale. Il racconto che apre la raccolta, intitolato Penne, presenta una situazione per certi aspetti simile a Colline come elefanti bianchi: un uomo e una donna si trovano a vivere una situazione che farà loro cambiare idea sulla possibilità di una gravidanza. Jack e Fran, una coppia senza figli, vanno a cena da Bud, un collega di Jack, e da sua moglie Olla. La cena, a cui inizialmente Fran non voleva partecipare, si rivela fin da subito imbarazzante e costellata di piccoli eventi inquietanti: la coppia possiede un pavone; Olla non è particolarmente desiderabile e il figlio della coppia è decisamente brutto; su una mensola vicino alla televisione si trova un calco dei denti storti di Olla prima che Bud pagasse per l’operazione odontoiatrica che li ha sistemati. Tuttavia, nel corso della serata diventa sempre più chiaro che Ollaha avuto da Bud quello che voleva e che in definitiva la coppia è felice, mentre Frannon è pienamente felice della sua vita con Jack. Il sogno da bambina di Olla era avere un pavone e l’ha coronato; quello di Fran era visitare il Canada, ma Jack non ce l’ha mai portata.
Nel racconto di Carver il pavone svolge lo stesso ruolo dell’elefante in quello di Hemingway, è cioè il simbolo visibile di qualcosa di nascosto sotto la superficie. Tuttavia, il racconto di Carver è più inquietante di quello di Hemingway, al punto da lambire i confini del genere horror: i denti di Olla sono mostruosi, il bambino sembra inumano, il pavone emette suoni alieni camminando sul tetto, in televisione viene mostrato un catastrofico incidente stradale. Sembra chiaro che l’alone di significati secondari nel simbolo di Carver è molto più ampio di quello di Hemingway, tanto da sfumare in un senso di minaccia generalizzato che travalica la storia personale di Jack e Fran. Carver, scrittore postmoderno, vive in un mondo senza più certezze, che si regge in equilibrio precario sull’orlo di un abisso. Ecco perché, come si può vedere dalla Figura 2, il significato profondo di cui il pavone (e i denti, e il bambino) è il significante non è più solamente un’entità univoca (le cose che Jack non ha dato a Fran), ma anche il terrore che si nasconde dietro la faccia quotidiana dell’America degli anni Settanta. Il simbolo è un meta-simbolo, il rapporto tra superficie e profondità si è parzialmente interrotto:
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Dopo aver preso in esame uno scrittore reduce da entrambe le guerre mondiali e uno che ha raccontato l’America del post-Vietnam, sembra coerente chiudere questa carrellata di animali con il lavoro di Phil Klay, veterano dei marines nato proprio nell’anno in cui Carver pubblicava Cattedrale, il 1983, che nel 2014 ha pubblicato una sorprendente raccolta di racconti di guerra intitolata Fine missione. Il racconto omonimo, che apre la raccolta, comincia così: «Sparavamo ai cani. Non per sbaglio. Lo facevamo di proposito, e la chiamavamo Operazione Scooby. Io amo i cani, per questo ci ho pensato parecchio». Come scrittore di racconti, Klay si inserisce molto chiaramente in quella tradizione consacrata all’essenzialità della prosa di cui Hemingway e Carver sono i principali esponenti, e la riga di apertura fa immediatamente scattare nel lettore abituale di short stories il riconoscimento di uno di quei conglomerati di senso chereggono la struttura di un racconto breve. Tuttavia il racconto di Klay prosegue per un lungo momento seguendo altre strade: il narratore, conclusa la sua missione, viene mandato a casa negli U.S.A. e durante il viaggio lui e i suoi compagni fanno scalo da qualche parte in Irlanda dove si ubriacano per la prima volta dopo molti mesi.
Alla fine però un altro cane compare, chiudendo almeno in apparenza il cerchio: tornato a casa dalla moglie, il narratore scopre che il cane che hanno adottato anni prima in un canile è anziano e malato, e per non farlo soffrire ulteriormente, quando si accorge che non c’è speranza di guarigione, lo porta in un campo e gli spara. Un cane ucciso apre il racconto, un cane ucciso lo chiude: a prima vista sembrerebbe un dispositivo semiotico dei più semplici, costruito su una semplice opposizione (sparare a un cane in guerra / sparare a un cane nella vita civile) la cui tensione narrativa deriva, come già in Hemingway e Carver, dal rapporto del protagonista con la moglie.
Una lettura più approfondita del racconto mostra però che nessuna di queste ipotesi è corretta. È vero che il protagonista e sua moglie devono affrontare delle difficoltà dopo il ritorno di lui dall’Iraq, ma queste difficoltà sono così esplicitate da Klay che la tensione narrativa è pressoché inesistente. Allo stesso modo, l’uccisione del cane Vicar nel finale viene direttamente associata dal protagonista alla tecnica di uccisione a cui sono addestrati i marines in guerra: è una scena potente, dolorosa, ma che non rimanda a nessuna “profondità nascosta” come nel caso di Hemingway e di Carver. In altre parole, il cane del racconto di Klay non solo non è un simbolo, ma nemmeno “sta per” qualcos’altro: qui l’iceberg di Hemingway è del tutto emerso. Non si tratta tanto di un’assenza del significato, come in certi quadri astratti, ma di una perfetta sovrapposizione del significato al significante, tanto che sarebbe più corretto dire che il cane nel racconto di Klayè un simbolo del cane. Questa particolare condizione del simbolo letterario nella narrativa contemporanea può essere schematizzata come nella Figura 3:
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Roland Barthes ha scritto, ne L’impero dei segni (1970), che la caratteristica fondamentale dell’haiku giapponese è «l’esenzione del senso», mostrando come in questa forma d’arte non esista profondità ma solo superficie e come, dunque, commentarla sarebbe impossibile: «parlare dello haiku sarebbe semplicemente ed esattamente ripeterlo». Qualcosa di molto simile si potrebbe dire per il cane di Klay. Dobbiamo concluderne che la narrativa occidentale si sta orientalizzando? Che dopo il postmoderno viene lo Zen? Non proprio.

La fine della profondità

Nel 2010 lo psicanalista Massimo Recalcati ha pubblicato L’uomo senza inconscio, nel quale adatta alcuni punti chiave del pensiero di Jaques Lacan alla clinica di quelli che definisce, sulla scorta dei lavori di Gilles Lipovetsky, «i tempi ipermoderni». Il punto centrale dell’argomentazione di Recalcati è semplice e potente: nel disagio psichico contemporaneo gioca un ruolo sempre meno importante il cosiddetto soggetto dell’inconscio, quell’entità desiderante che manifesta alla superficie le istanze inconsce attraverso i sintomi e altre forme simboliche di rappresentazione. A essere entrato in crisi è nientemeno che il modello tradizionale della psicanalisi freudiana, perché il conflitto non sorge più da un desiderio (inconscio) che si scontra con un ordine regolatore (di tipo sociale o individuale) manifestandosi alla coscienza sotto forma di sintomo (un segno, qualcosa che “sta per” qualcos’altro); al contrario il sintomo viene sostituito da «forme verticali di scissione», come ad esempio l’identità narcisistica che si compatta su sé stessa per difendersi dall’angoscia) in cui l’opposizione fondamentale non è più quella tra superficie e profondità.
Tra gli esempi portati da Recalcati (tossicodipendenze, anoressia) quello più calzante ai fini del nostro discorso sono i disturbi psicosomatici,  nei quali «il corpo espone una lesione muta, mostra un segno privo di significazione, un reale refrattario al potere del simbolico, una cifra che resta indecifrabile»: siccome manca «la natura simbolica del sintomo isterico», il fenomeno psicosomatico «anziché prendere la via della metafora s’incarna direttamente nel corpo, cortocircuita con il reale del corpo senza alcuna mediazione simbolica producendosi direttamente come lesione».
Senza entrare nel dettaglio dell’analisi psicanalitica, ci sono ancora due punti che mi sembra necessario sottolineare nel discorso di Recalcati. Il primo è la stretta connessione tra queste nuove forme di disagio e la tecnologia. Se infatti da un lato «Lacan assimilava, nella conferenza di Ginevra del 1975 dedicata al Sintomo, il fenomeno psicosomatico al numero», si capisce come mai l’uomo senza inconscio è la figura clinica per eccellenza in un tempo dove a regnare sono «il numero, la cifra, la comparazione quantitativa, la quantificazione scientista, la negazione del desiderio come impossibile da misurare»: perché, appunto, il soggetto dell’inconscio si manifesta nell’incontro con un Altro irriducibile alla dimensione razionale (Freud lo chiamava “il perturbante”) e scompare quando questa dimensione viene totalmente inglobata nel dominio della normazione scientifica. In secondo luogo Recalcati accenna una periodizzazione del fenomeno non solo quando identifica la nuova clinica in un quadro di passaggio dal postmoderno ai “tempi ipermoderni”, ma anche quando scrive che «la nostra idea di fondo è che, dagli anni Settanta a oggi, si è verificata una trasformazione inedita di quello che Freud definiva “Superio sociale” […]. Sino agli anni Settanta il comandamento del Superio sociale aveva assunto le forme del dovere morale […], la “morale civile” dell’uomo occidentale; il fulcro di questo comandamento prevedeva che l’accesso alla Civiltà […] avvenisse a condizione di un sacrificio di godimento».
Il risultato di questa trasformazione storico-psichica è per Recalcati che le nuove forme del disagio «s’impongono piuttosto come evidenze fuori discussione: il tossicomane è un tossicomane, l’anoressica è un’anoressica, il depresso è un depresso. La funzione enigmatica del sintomo metaforico viene sostituita da una nominazione identitaria assicurata dal sintomo stesso». Recalcati sostiene, in altre parole, che all’incirca dalla generazione dei nati negli anni Settanta in poi, e su forte spinta della tecnologia, la psiche dell’uomo occidentale abbia progressivamente perso contatto con il proprio inconscio appiattendo la propria dimensione esistenziale a livello della superficie, del significante o del corpo. Nel paragrafo precedente abbiamo visto come nel racconto di Phil Klay il cane “sta per” il cane, in una coincidenza di significato e significante che è anche elisione del simbolo in favore di un’evidenza situata tutta a livello della superficie (ciò che il lettore può effettivamente leggere, il racconto esplicito). Il parallelismo è abbastanza netto da farmi avanzare la prima delle due ipotesi alla base di questo saggio: che la letteratura dei tempi ipermoderni sia essenzialmente una letteratura senza inconscio. Nei paragrafi successivi cercheremo di capire cosa questo significhi nel concreto.

Corpi

Un’obiezione valida al discorso fatto fino a questo punto potrebbe essere la seguente: chi dice che il racconto di Klay non sia un’eccezione? Per un cane che “sta per” un cane ci saranno nella letteratura contemporanea decine di cani che “stanno per” qualcos’altro, che simboleggiano un referente profondo nascosto al di sotto della superficie del testo. Probabilmente questo è vero, ma nella narrativa contemporanea gli esempi di letteratura senza inconscio sono moltissimi. Eccone una lista:
– Nel racconto Dentophilia di Julia Slavin (1999) a una donna crescono denti su tutto il corpo; gli altri racconti della raccolta, intitolata La donna che si tagliò una gamba al Madison Club, sono all’incirca dello stesso tenore: una donna si taglia una gamba per sfuggire al prurito, un’altra ingoia intero il proprio giardiniere. La raccolta di Julia Slavin viene generalmente considerata l’apripista del Realismo Magico statunitense, una piccola corrente di cui fanno parte anche Aimee Bender e alcuni lavori di A. M. Homes. Nella raccolta di racconti Creature ostinate di Bender (2006) ci sono donne i cui figli sono ortaggi e bambini nati con un ferro da stiro al posto della testa; nel suo ultimo romanzo pubblicato in Italia, L’inconfondibile tristezza della torta al limone (2011), la protagonista Rose prova le emozioni di chi ha cucinato il cibo che mangia (e più avanti nel libro suo fratello Joseph si trasforma in una sedia). In tutti questi casi il simbolo prende forma nel corpo dei personaggi: è molto difficile dire cosa rappresentino i denti che crescono sul corpo della donna nel racconto di Slavin;
– Probabilmente il simbolo più potente di tutta l’opera di Jennifer Egan si trova in Il tempo è un bastardo (2010), quando di Rolph, morto suicida a ventotto anni, viene detto che aveva un corpo privo di segni perché «il segno era ovunque. Il segno era la giovinezza». La giovinezza (ma una giovinezza dalla quale non riesce a uscire, quindi anche la morte) si incide sul suo corpo nella forma dell’assenza di segno, di un’impenetrabilità del corpo alla trasformazione: siamo nello stesso territorio della «esenzione di senso» che Roland Barthes associava allo haiku. Ma siamo anche, al di là di ogni ragionevole dubbio, nel campo del corpo come «lesione muta, segno privo di significazione, cifra che resta indecifrabile» di cui parlava Recalcati in relazione al fenomeno psicosomatico;
– Il romanzo C di Tom McCarthy è in parte la storia del laborioso (e fallimentare) tentativo da parte di Serge Carrefax di conferire un senso alla propria storia personale attraverso una serie di indizi frammentari che emergono alla sua coscienza sotto forma di segnali cifrati (corporali e psichici, ma anche tecnici come i frammenti di messaggi radiofonici che capta attraverso un’antenna rudimentale). Da un altro punto di vista, C è un saggio critico sull’impossibilità di decifrare il senso del segno letterario, di svelare quello che altrove McCarthy ha definito «il segreto della letteratura». Infine C, che è la rielaborazione di un famoso caso clinico di Freud, è una riflessione sul fallimento della psicanalisi in tempi in cui il corpo, la mente e il linguaggio umani sono completamente colonizzati dal discorso tecnologico. L’epilogo di queste tre tracce sovrapposte è sempre lo stesso. Al momento della sua morte, Serge incontrerà finalmente la profondità che sottende la saturazione di significanti nei quali si è mosso per tutta la vita: quello che trova è un’interferenza, un rumore inintelligibile, la cacofonia di tutti i significanti sovrapposti che non producono alcun senso;
– Ma soprattutto l’esempio più importante, sia in termini di frequenza nelle ricorrenze che di rilievo letterario, è quello rappresentato dalla letteratura di testimonianza che dal 2000 a oggi ha ottenuto tanto successo. Non mi riferisco tanto al memoir, con cui comunque condivide molti aspetti, quanto a quella scrittura in cui l’autore che si pone come “testimone” di un fatto storico o di un particolare contesto (il mondo della prostituzione, il traffico di stupefacenti) normalmente non accessibile al lettore comune: William Vollman, ad esempio, o il suo seguace Roberto Saviano. Come ha scritto giustamente Giordano Tedoldi in un articolo[1] dedicato al premio Nobel a Svetlana Aleksievic, la letteratura di testimonianza è caratterizzata da una «ossessione per il corpo», e in quanto tale «è una letteratura di superficie», non prova interesse per la dimensione psichica perché essa è una dimensione della profondità, “non misurabile” direbbe probabilmente Recalcati. Il che solleva un punto importante nel nostro discorso: l’idea, veicolata dalla letteratura di testimonianza come da altre forme di scrittura personale, che ciò di cui posso fare esperienza fisica sia anche reale, anzi sia la Realtà, e in quanto tale abbia un valore letterario in sé. Ma siamo proprio sicuri che le cose siano così semplici?

Il Nuovo Realismo letterario come equivoco

Nel 2012 il filosofo Maurizio Ferraris ha dato alle stampe il Manifesto del Nuovo Realismo, libro con il quale ha popolarizzato la sua fortunata teoria per il superamento dell’impasse del pensiero postmoderno. L’argomentazione di Ferraris, riassunta ai minimi termini, è la seguente: con il suo accento sull’ermeneutica, il postmoderno ha progressivamente delegittimato il concetto di realtà aprendo la strada al populismo: il punto di non ritorno del cosiddetto “pensiero debole”, logica conseguenza della “fine delle grandi narrazioni” di cui aveva parlato Lyotard negli anni Settanta, sarebbe dunque un processo di interpretazione infinita nel quale a soccombere sono le idee illuministe di progresso e oggettività. Uscire dall’impasse postmoderna significa dunque per Ferraris recuperare quella base di realtà (l’ontologia) che rende i fatti «inemendabili», impossibili da correggere (o manipolare, o distorcere) tramite l’applicazione di categorie culturali.
La proposta di Ferraris è figlia dell’11 settembre, prova suprema che i fatti esistono al di là delle interpretazioni: “emendare” l’attacco alle Twin Towers è effettivamente problematico. Tuttavia si inserisce in un più ampio percorso di recupero del valore culturale della realtà anche in altri settori, come è facile constatare pensando al boom del reality e del memoir rispettivamente nelle forme audiovisive e in letteratura dagli anni Novanta in poi. Quello che a noi interessa maggiormente è però il concetto di «inemendabilità», che nella letteratura di testimonianza è stato interpretato come un fattore essenzialmente corporale: niente è più inemendabile delle cicatrici che mi sono provocato a Fukushima, a Chernobyl, nella guerra dei Balcani o nella lotta alla mafia. Un discorso che vale in larga parte anche per il memoir, visto che ancora meno emendabile di guerre e catastrofi sono la malattia personale, la morte di un parente, la discesa nelle spirali dell’alcol o della droga.
Non entro nel merito della questione filosofica. Mi limito a dire che in letteratura l’assunto per cui l’inemendabilitàè un attributo della realtàè quantomeno problematico, visto che stiamo parlando non dei fatti, ma della loro rappresentazione: per questo il realismo letterario, come ha detto Walter Siti, è «l’impossibile» per eccellenza. Ne consegue che l’appiattimento sulla superficie che abbiamo visto essere la caratteristica fondamentale della narrativa “ipermoderna” difficilmente, e con buona pace della letteratura di testimonianza (questo sia detto al di là dei meriti), potrà essere la realtà. Se del binomiotra realtà e rappresentazione solo uno dei due poli è destinato a sopravvivere, non c’è dubbio che nelle arti si tratterà del secondo: la letteratura senza inconscio, dunque (è la seconda tesi che sostengo) è anche una letteratura di pura rappresentazione.
Conclusione: autofiction e appiattimento dello sguardo

Quanto detto finora ci porta, per concludere, a un’ultima osservazione. Insieme al memoir e alla letteratura di testimonianza, un altro genere in cui questo “ritorno della realtà” si è fatto particolarmente sentire è quello della cosiddetta autofiction: romanzi e racconti che mescolano senza soluzione di continuità realtà e finzione. A differenza della letteratura di testimonianza, l’autofiction non afferma alcuno statuto di verità o autenticità: piuttosto gioca con l’assottigliamento dei confini e, in maniera postmoderna, con i mescolamenti di genere (Guarigione di Cristiano De Majo, ad esempio, gioca con il memoir, in un discorso tutto interno alla “letteratura della realtà”).
C’è voluto il libro di Ben Lerner, Nel mondo a venire (2014), per sradicare definitivamente il concetto di realtà come profondità dall’autofiction. Un libro scritto in prima persona come un memoir, da un autore che è in primo luogo un poeta, che riflette sulla letteratura citando un grande classico della fiction popolare come Ritorno al futuro: poche opere avrebbero potuto combinare meglio postmoderno e suo superamento. Nel mondo a venire dimostra meglio di qualsiasi altro lavoro letterario finora che l’autofiction non porta nessuna prova di “inemendabilità”, anzi sostiene implicitamente il contrario: anche ciò che appare inemendabile è in effetti in possesso di una natura ontologicamente instabile. Più precisamente l’autofiction fa un passo ancora successivo verso l’appiattimento della prospettiva comportandosi esattamente come si comporta il Google Glass o qualsiasi altro dispositivo per la realtà aumentata: include in uno stesso sguardo realtà e rappresentazione, mondo e commento sul mondo, significato e significante. E dunque, terza tesi sostenuta in questo saggio, non c’è letteratura senza inconscio più netta dell’autofiction.
Si tratta di un bene o un male per il futuro della letteratura? La sparizione del soggetto dell’inconscio è un problema per Recalcati, il ritorno del reale è un bene per Ferraris. Nel contesto del nostro discorso il fatto che il cane di Klay stia al posto del cane, che significante e significato si sovrappongano, non ha una connotazione morale: partecipa, come altre manifestazioni (la mappatura planetaria del territorio, ad esempio, o le sculture iperrealiste senza spessore di Ron Mueck) di un più generale processo di trasformazione a cui la cultura occidentale sta andando incontro e che rappresenta, mi sembra, una delle principali cifre distintive del XXI secolo.

[1] http://www.rivistastudio.com/standard/uno-scrittore-ti-salvera/

Testo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/  pubblicato giovedì, 28 gennaio 2016

TORNIAMO A SCUOLA PER IMPARARE A LEGGERE IL TERRITORIO

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Enzo Guarrasi e Giovanna Soffiantini questo pomeriggio a Villafrati (PA) aprono un interessante Corso di Formazione.

J. CORTAZAR, Insieme ridendo spettinati

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Ph. Elliott Erwitt, Valencia 1952



E quando tutti se ne andavano
e restavamo noi due soli
tra bicchieri vuoti e posacenere sporchi,
Com’era bello sapere che eri
lì come l’acqua di uno stagno,
sola con me sull’orlo della notte,
e che duravi, eri più del tempo,
Eri quella che non se ne andava
perché uno stesso cuscino
e uno stesso tepore
ci avrebbero chiamato ancora
a risvegliare il nuovo giorno,
insieme, ridendo, spettinati.

Julio Cortazar

EZRA POUND, FASCISTA PER CASO?

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Pasolini intervista E. Pound

Ezra Pound, il poeta fascista


di Augusto Benemeglio
 
1.Il grande fabbro della poesia moderna

Ezra Pound , nato il 30 ottobre del 1885 nel profondo e provinciale Far West (Idaho) e morto il 4 luglio 1972 in una città irreale come Venezia , è stato il più internazionale , inevitabile, imbarazzante poeta del Novecento. E’ il poeta “fascista”, il poeta “traditore”, il poeta “pazzo” , che visse 13 anni della sua lunga vita rinchiuso nel manicomio criminale di Saint Elizabeth’s di Washington ; ma è anche il “grande fabbro” della poesia moderna , poeta “imagista” , che sposa le idee filosofiche di Hulme e spoglia i versi da ogni sovrastruttura retorica e sentimentale ; l’ideatore di una nuova poesia fondata essenzialmente sull’elemento visivo. E poi sarà tante altre cose: il poeta della speranza di un rinascimento culturale americano, che pubblica i sonetti di Cavalcanti e fa conferenze a Londra sul poeta fiorentino stilnovista; il poeta “vorticista”, che esplora la complessità psichica dell’immagine poetica, ne complica l’espressione cercando effetti di simultaneità e di spazialità, (siamo nell’epoca delle innovazioni dell’arte, di Braque,Picasso , Matisse, Kandisnsky, Marinetti, etc) . L’immagine – dirà Pound – non è un’idea, è un nodo, un grappolo radiante, un vortice. Ed ecco il “Vorticismo “ che , diversamente dall’ imagismo, che è statico, è il movimento racchiuso nell’immagine stessa . “Voi mi parlate di Marinetti? Ma Marinetti è solo un cadavere!”.

2. I Cantos
E’ il poeta che postula la necessità dell’impersonalità della poesia ricorrendo alla tecnica delle “maschere”, maschere che non occultano, ma anzi disvelano. Infatti , nel suo viaggio cinquantennale attraverso il suo interminabile poema dei “ Cantos” , un’immensa enciclopedia poetica del sapere del nostro tempo , uno dei monumenti della poesia contemporanea in cui l’autore racconta la storia del mondo e di se stesso , ossia il suo inferno, il suo purgatorio, il suo paradiso , Pound è insieme Dante ( il suo inarrivabile modello , di cui si innamora fin giovanissimo, anche grazie a Henry Wadsworth Longfellow, lontano parente della madre, che aveva effettuato la prima traduzione in americano della “Divina Commedia” e fondato il Circolo Dante, nel 1867) e Virgilio, guida e viaggiatore, giudice e peccatore , spettatore e protagonista.
I Cantos– dice Montale – contengono tutto lo scibile di un mondo in disfacimento e in essi il senso del carpet domina su quello d’una costruzione ,di un avvicinamento a un centro… I troni nel paradiso di Dante sono assegnati alle anime delle persone responsabili di buon governo, i troni dei “Cantos” rappresentano uno sforzo per uscire dall’egoismo e per dare la definizione di un ordine possibile o comunque concepibile sulla terra”. In quel suo poema che rifà la storia dell’umanità, in cui le epoche e le civiltà più remote e diverse si sovrappongono e s’intrecciano , così come l’impasto di lingue e stili diversi , toni lirici e toni saggistici, il balenare di immagini pure e definitive in un apparente accumulo di dati materici , qualcuno ci vede una miniera di splendidi frammenti lirici, una scarica elettrica di versi di straordinaria intensità e innocenza lirica , versi talora delicati e rigorosi nella loro libertà. E per quanto sia forse arbitraria e spesso inafferrabile la struttura complessa del suo poema , – dicono alcuni studiosi – essa ha un’importanza notevole , ed esercita un fascino immanente. Dopo di lui la poesia di lingua inglese non è più stata la stessa, – dirà Auden, – è uno dei maggiori innovatori dell’arte novecentesca. Le avanguardie novecentesche devono molto a Zio Ezra , gli devono il coraggio di uno sguardo sempre volto al “nuovo” ( Make it new era il suo motto) , ma anche l’esempio di come conservare il meglio delle tradizione del passato, occidentale e orientale . Si può dire che non ci sia autore di versi che non abbia imparato qualcosa da lui , come nessuno scrittore di racconti è privo di debiti nei confronti di James Joyce , che fu una delle tante scoperte di quel formidabile cacciatore di geni che era Pound . Fu lui che fece pubblicare l’Ulysses a Sylvia Beach , a Parigi, e lo difese quando lo accusarono di pornografia; fu lui che scoprì Eliot e “La terra desolata” , di cui fece anche uno spietato “editing” di riduzione che varrà , in seguito, al poeta americano , il nobel per la letteratura; fu lui che insegnò a Hemingway ciò che si deve scrivere e ciò che non si deve scrivere.

3.La radice di ogni male è l’usura
Ma cosa ci vuol dire Pound con questo vertiginoso poema i cui procedimenti stilistici si fanno via via sempre più ardui ed ellittici , con tecniche espressive fatte quasi interamente di citazioni e ideogrammi cinesi che rendono assai problematica non solo la comprensione del testo , ma la sua stessa lettura? Pound dice che la poesia per essere davvero nuova e rivoluzionaria deve essere totale , la poesia è anche storia, società , politica, economia . La poesia diventa giustizia internazionale contro la corruttela del mondo finanziario, dei traffici bancari, dell’usura. Ecco l’intuizione! La radice di ogni male , di ogni decadenza, di ogni corruzione è annidata nella pratica dell’usura , e quindi nell’istituzione quattrocentesca delle banche e dei banchieri, e quindi negli ebrei che la praticano da sempre. E per rimanere fedele a questa idea ispiratrice singolare quanto maniacale , al suo ruolo di poeta e di educatore della poesia , ruolo a cui si sentiva vocato e che s’era scelto fin dall’inizio dei suoi precocissimi studi classici ( “Già a quindici anni, -scrive in How I began , – sapevo esattamente ciò che avrei voluto fare… Decisi che a trent’anni avrei saputo tutto sulla poesia , più di ogni altra persona al mondo; avrei saputo distinguere il contenuto dinamico dal guscio , e riconoscere ovunque la poesia, in qualunque lingua fosse stata scritta” ), Pound commette una serie di errori grossolani , dolorosi e tragici. Un uomo gentile , un sognatore che studiò le lingue classiche , le letterature romanze, Dante, Cavalcanti e Villon , e poi Confucio , il cinese e il giapponese , un uomo di cultura , di larghe vedute , un poeta inquieto e combattivo , errante , ma non reietto , diventerà , via via , in una sorta di drammatica escalation , antisemita, fascista, traditore, pazzo.

4. Fuochi d’artificio stravinskjiani
Ma altri affermano che zio Ezra non era affatto pazzo ( quello di farlo ritenere infermo di mente fu un espediente del suo avvocato per sottrarlo alla condanna a morte) , e le sue poesie non sono quelle di un pazzo , altrimenti lo sarebbero i tre quarti degli scrittori contemporanei . Ma forse Pound non era neanche quel gran poeta che si vuol far intendere . Per carità, dice Montale, ottima persona , buona , generosa ,che accoglieva e sfamava giovani aspiranti scrittori che lo venivano a trovare a Rapallo ,nella sua torre d’avorio e ”ombelico del mondo”, dov’era la sua casa, organizzava stagioni di concerti di musica rara per la sua compagna violinista Olga Rudge ( si era improvvisato critico musicale a Venezia, ventitreenne, per sbarcare il lunario, ma poi aveva scoperto che la musica ce l’aveva dentro, in modo prodigioso, e la studiò davvero e fino in fondo, fino a divenire un raffinato compositore) , ed era sempre dignitoso, cortese , umano , grande giocatore di tennis e quasi altrettanto professionale scopritore di geni che non sempre si dimostrarono tali. Per il resto – dice sempre Montale – era uno che si era divertito a giocare con le parole , che aveva ridotto i fatti della storia ( cinese, giapponese, italiana) ad altrettanti stravinskjiani fuochi d’artificio , o a quadri cubisti di Braque e Picasso, a costruzioni ideogrammatiche, a esperimenti su teorie dell’inconscio collettivo. E questo fu – forse – il sospetto che turbò sempre qualcuno tra i suoi migliori amici , letterati e artisti , parliamo di Eliot ,Cummings, Hemingway, Williams, Lowell, Elizabeth Bishop , Cyril Conolly, Ginsberg, Ungaretti, Sheri Martinelli, Bukowsky , Frost , Palazzeschi, Saba , Ungaretti , Picasso, Bogart, Caproni, Luzi, Moravia, Rebora, Pasolini , Fernanda Pivano , tutti coloro che si mobilitarono per chiederne la liberazione .

5. Mary de Rachewiltz
E la Corte Suprema, su mozione del giudice Thurman Arnold , dopo ben 13 anni , lasciò cadere l’accusa di tradimento e fece uscire dal manicomio (siamo nell’aprile del 1958 ) il più famoso imputato e ricoverato d’America sotto custodia della moglie Doroty Shakespear, che lo aveva conosciuto nei salotti di Londra cinquant’anni prima , nell’agosto del 1908 , e se ne era subito innamorata. ”Pound ha imparato a vivere fuori del suo corpo. Lo vedo come una persona duplice , tenuto insieme dalla carne… Può anche languire la fame , ma il suo spirito riuscirebbe sempre a perseguire la più alta delle arti, la poesia. Per lei si può anche morire, mi ha detto un giorno”. Si erano sposati nel 1914 e negli anni ’20 erano andati a vivere a Parigi ( la Parigi di Hemingway, Joyce, Eliot, Satie, Picasso, Tzara, Cocteau) , dove Ezra avrà una relazione anche con la violinista Olga Rudge, da cui nel 1925 , quando si saranno ormai stabiliti a Rapallo, in un menage a troi, nascerà la figlia Mary.
Ed è proprio dalla figlia , ormai contessa Mary de Rachewiltz , (ha sposato il nobile egittologo Boris de Rachewiltz) , nel castello di Brunnenburg , vicino Merano , che il poeta andrà a vivere subito dopo essere stato liberato ( luglio del 1958). Con la figlia , che sarà devota custode , traduttrice ed esegeta della poesia del padre , rimarrà per circa tre anni , poi andrà a Roma e infine si stabilirà definitivamente fra Venezia e Sant’Ambrogio di Rapallo , dove , ormai ultrasettantenne , continuerà a scrivere. Ma le sue vecchie certezze lo avevano ormai abbandonato da tempo. E sebbene continuasse a lavorare a “I Canti”, sapeva che erano stati il suo fallimento , sia come artista sia come uomo. Si pentì di molte delle sue azioni passate, tanto che in un’intervista con Allen Ginsberg del 1967 si scusò di quello “sciocco e provinciale pregiudizio dell’antisemitismo”. Distrutto da quei durissimi anni di sofferenze sia morali sia fisiche trascorsi in manicomio , “anni immedicabili” , dice Fernanda Pivano , che ne raccoglie il dolore in un ritratto commosso e nostalgico, “ sembra davvero che su quest’uomo il sole sia tramontato” , ben presto Ezra si ammalò e si chiuse in un silenzio quasi completo. Gli ultimi dieci anni li trascorse con Olga Rudge , la celebre violinista per la quale aveva scritto diverse opere musicali. Vivevano fra Venezia e Sant’Ambrogio, vicino Rapallo , in una spartana casetta immersa nel paesaggio ligure che domina “i Canti Pisani”, da molti ritenuto il suo capolavoro.

6. Ciò che tu sai amare rimane / non sarà strappato da te.
Li compose , mentalmente , in una gabbia di ferro, costruita appositamente per lui nel cortile della prigione militare di Metato, presso Pisa, dove lo avevano rinchiuso , in isolamento , dopo essere stato prelevato da due partigiani e consegnato, su sua richiesta, al comando americano. L’Alta corte di Giustizia degli Stati Uniti l’aveva ufficialmente accusato di tradimento per aver diffuso durante la guerra propaganda antiamericana da Radio Roma. Su di lui era stata messa anche una taglia di mezzo milione di lire. Nella gabbia non c’erano sedie o brande, giaceva sul cemento, avvolto nelle coperte , bruciato dal sole, bagnato dalla pioggia; chiuso in gabbia , dove vento e pioggia sono “parte del processo” , e solo la luna gli è sorella . forse la stessa luna a cui anche l’amato Leopardi aveva affidato il proprio dolore , traduce Confucio , l’unica cosa che ha portato con sé, e compone buona parte dei Pisan Cantos, il suo Inferno, il confronto tra sofferenza individuale e sofferenza storica, in attesa di una condanna a morte ( viene trasferito nella death row, cella dei condannati a morte) in cui come un proiettore che si sia incantato la memoria continua a mandare la stessa immagine, ecco Omero, le Muse e John Donne, – Nessun uomo è un isola, intero da solo, – ecco Ernest Hemingway , con la sua campana, – “Ogni morte di uomo mi diminuisce perché sono parte dell’uomo/ e così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana, / essa suona per te”

7. La bellezza dell’erba
Immaginate – scrive Montale – come si possa radiografare il pensiero di un condannato a morte dieci minuti prima dell’esecuzione capitale, e supponete che il condannato sia un uomo della statura di Pound e avrete i Canti Pisani: un poema che è una fulminea ricapitolazione del mondo senza alcun legame di tempo e di spazio . Migliaia di personaggi, fitto intarsio di citazioni in ogni lingua , ideogrammi cinesi, allusioni a tutto ciò che per cinquant’anni ha alimentato , nella storia, nella filosofia, nella medicina, nell’economia o nell’arte il pensiero moderno , non senza salti vertiginosi nel mondo del mito e della preistoria . Poesia – pittura a spicchi , ai limiti del non figurativo , mosaico fatto a pezzi e poi ricomposto senza che le tessere siano per nulla accostate. Chiuso nella death row, Pound afferra spicchi di fotogrammi , spiragli di esistenza, pezzi di cielo , zaffate e suoni improvvisi, un gatto che attraversa il rettangolo del suo campo visivo, una piccola cavalletta verde senza una zampina. ”Le cose belle sono difficili da capire veramente”. Prova a capire la difficile bellezza dell’erba che cresce sotto la tenda infernale della morte, la bellezza del gesto pietoso, o delle nuvole, o della polvere sul fondo d’una vasca, la bellezza della propria sofferenza: Ciò che sai amare rimane, /il resto è scoria.
E’ tutto qui il simbolo dei canti pisani ed è anche il simbolo di come la poesia vinca ogni barriera ideologica. E anche quando verrà internato nel manicomio criminale di Saint Elizabeth , Pound non smetterà di essere ombelico del mondo dell’arte ; come davanti ad un Prometeo incatenato sfileranno in quella stanza artisti, giornalisti, critici, amici di tutto il mondo.

8. Morì sradicato
Ma ormai è stanco, i sogni cozzano l’uno contro l’altro e si frantumano.
Ho perso il mio centro/ a combattere il mondo.
Come aveva previsto ( era stato sempre una specie di chiaroveggente, anche nei confronti di se stesso) e come aveva lungamente desiderato morì a Venezia , la città che aveva intensamente amato , il giorno dei santi , due giorni dopo aver compiuto gli ottantasette anni. Si era preparato prima della confessione , “querulo come le allodole sopra le celle dei condannati a morte”. Morì da sradicato, qual era sempre stato . Il solito Montale disse che in Pound lo sradicamento fu quasi un’involontaria autodistruzione. E lui stesso ammise che era abituato a sentirsi un estraneo. “Per me sentirmi a casa significa essere straniero in un posto o nell’altro”. Non era riuscito ad arrivare alla meta prefissata – il centoventesimo canto. Si era fermato al centosedicesimo, che aveva tutta l’aria di un congedo anticipato: “ un po’ di lume come un lume di paglia, per ricondurre allo splendore”. E in qualche modo chiude il cerchio con la sua prima raccolta di poesie, A lume spento. E privo di candele, il vecchio zio Ezra se ne era andato ancora pieno di candore , dopo una vita intera passata a risalire le correnti , come un salmone , e fare il grande periplo che spinge le stelle alla nostra riva. dopo aver varcato le colonne d’ercole , le sbarre di Lucifero e chiarità di diamante dei cieli della Nord Carolina . Ezra se ne era andato sereno , coll’ultimo giorno di lettura e in mano la chiave di liuto e del mondo. Forse aveva ricordato i suoi grandi errori, come quello di paragonare Mussolini a Thomas Jefferson, uno dei padri della sua patria americana.

9. Il suo incontro con Mussolini
Il Duce lo aveva ricevuto, dopo tante insistenze, a Palazzo Venezia, il 30 gennaio 1933, dapprima incuriosito da questo strano poeta americano che parlava un italiano trecentesco, Voi siete degno di grande ammirazione, Duce. Siete la guida di un popolo “immaturo” così come la intende Confucio . So che voi seguite , con magnifico intuito, le dottrine di Confucio . Con il Fascismo avete eliminato la disoccupazione lottato contro l’inflazione , migliorato il tenore di vita delle classi sociali medio-basse . Ho letto della battaglia del grano e delle bonifiche delle paludi . Voi, Duce, avete restituito all’Italia il senso della giustizia economica , che è alla base di uno Stato moderno, e quella dignità umana che era ciclicamente apparsa nei momenti più alti della storia dell’uomo e che ora rende il vostro meraviglioso paese degno del suo passato , e lo pone all’avanguardia di tutte le nazioni civili. Mussolini lo guardava perplesso, mentre il poeta si infervorava sempre di più.
Dovete, però, tener conto, Duce, delle teorie economiche di Gesell e Douglas , che sono basilari per uno Stato moderno e che ho riassunto nei miei “Cantos” , che vi dono con gioia e onore . Sono teorie fondate su una forte critica al sistema capitalistico usuraio e guerrafondaio , che io condivido al massimo grado. Il maggiore Douglas ha scoperto la “grande falla” dei grandi Stati di oggi , consistente in un potere economico interamente affidato ai grandi gruppi bancari che applicando un sistema usuraio (basato cioè sui prestiti a interesse) impoverirebbero le popolazioni , abbattendo il potere d’acquisto dei salari e provocando la paralisi del mercato. Vi farò avere , al più presto, un mio piano per una lega internazionale che sostituisca la Società delle Nazioni, “baracca di bari”.

10. Una mente nebbiosa
Il Duce rimase perplesso di fronte a questo bohemien americano che parlava un italiano trecentesco e sembrava vivere in un mondo tutto suo. Formalmente lo ascoltò, lo approvò, scrollando il mascellone , prese il libro con dedica , gli strinse la mano, e lo congedò . Poi non volle mai più riceverlo. E sul famoso “piano internazionale” , che il poeta aveva depositato un paio di anni dopo negli Uffici di Palazzo Venezia, fece scrivere una nota, ad uso interno: “ Si tratta di un progetto strampalato concepito da una mente nebbiosa , sprovvista di ogni senso della realtà. “
Ci si chiede come sia stato possibile che un uomo di tale statura intellettuale, – un uomo di grandissima cultura, che aveva conosciuto la vita democratica di Londra e l’esistenza libera di Parigi, un “chiaroveggente” a cui bastava un niente , anche quando gli venivano dati i più nudi dettagli , per riuscire a penetrare l’intenzione centrale di un autore, di una persona , di un fatto ,- avesse fatto un simile macroscopico tragico errore, perpetuato fino all’ultimo, fino allo sfacelo della guerra , fino alla Repubblica di Salò? Dire ai microfoni della radio , situato all’ultimo piano del MinCulPop , in via Veneto, nella trasmissione di “Uncle Ez”, – che veniva ricevuta in tutta Europa e anche oltre oceano,- che la guerra non era stata cagionata da un capriccio di Mussolini, né di Hitler, ma dalla usurocrazia per trarne profitti. “Questa guerra fa parte della guerra millenaria tra usurai e contadini , fra l’usurocrazia e chiunque faccia una giornata di lavoro onesto con le braccia o con l’intelletto, questa è la guerra dell’usura contro l’umanità; ovvero degli ebrei contro l’Europa.

11. Non vive la vita reale, come tutti i poeti
In realtà Pound non fa altro che rimaner chiuso nella sua torre d’avorio di Rapallo , e ne esce solo per entrare nella gabbia di Pisa, e poi nella stanza di un manicomio criminale. Non vive mai la vita reale, come tutti i poeti .( La vita la si vive o la si scrive, disse Pirandello) . Il fatto è – scrive Contini – che tutto cospira a farci credere che l’Italia di Pound non sia mai esistita, o al massimo fosse un paese archeologico produttore di una lingua morta, qualcosa di profondamente etnico.… Se vogliamo il cosiddetto tradimento di Pound anticipa la “Grande Disobbedienza” che scoppierà in modo massiccio durante la guerra del Vietnam, quale ne fosse il quasi irrilevante segno, destra o sinistra. Ezra – scrive Montale – difese allora non l’Italia reale , della quale s’infischiava , ma la cornice dei suoi sogni ad occhi aperti . Antiquario senza saperlo, custode del museo del suo cuore , egli leggeva le nostre vecchie cronache per cercarvi qualche episodio eccitante, qualche parola peregrina.
A Rapallo, qualche tempo dopo il suo ricovero nel manicomio di St. Elizabeth, (siamo nella primavera del 1948) un migliaio di cittadini , con a capo il Sindaco, firmano una dichiarazione con cui si afferma che Pound non aveva mai svolto attività fasciste, ma esclusivamente artistiche-culturali; che non aveva mai usufruito di privilegi da parte dei fascisti , e non aveva mai compiuto atti di antisemtismo. Era vero, ma gruppi e movimenti di estrema destra non cesseranno mai di strumentalizzare la figura di Pound per farne un paladino delle loro ideologie ( vds. i cosiddetti ”Gruppi di Casa Pound”).
12. Al tramonto
E sul finire della sua vita, Ezra , per quanto spento, assente, ormai ridotto ad un ectoplasma , ebbe barlumi di coscienza di tutti i suoi errori, dei suoi fallimenti, delle sue amare sconfitte, dei suoi rimorsi di uomo e di poeta. Sapeva che ormai la bellezza era per sempre perduta “ per mancanza di energia nella mano che scrive” . Così lo ricorda Fernanda Pivano, in un giorno trascorso assieme a lui , e ad Allan Ginsberg , una gita da Sant’Ambrogio a Portofino , alla fine del 1967. “Il poeta era indifferente, muto , curvo, con una sciarpa al collo , che gli aveva messo Olga Rudge, e un bastone… Non aveva mai parlato, se non a monosillabi, ma ogni tantomi lanciava uno di quei suoi sguardi penetranti come lame, che mi ricordavano quelli del St Elizabeth…
Al tramonto ritornammo a Sant’Ambrogio; Olga lo accolse sorridendo e mi chiese sottovoce alle sue spalle se tutto era andato bene. Sì, tutto era andato bene, dissi”. Bene non era andato però il destino di questo genio falcidiato dalla vita , che aveva provato a capire come la bellezza sia legata – indissolubilmente – alla sofferenza , e la sua sofferenza era diventata la sofferenza della storia , e com’era ancora così pieno di rimorsi! Nell’ultimo frammento dei “Cantos” scrive: “Mi perdonino gli dèi per ciò che ho fatto./ Cerchino coloro che amo di perdonarmi ciò che ho fatto”.

Augusto Benemeglio                                                                                   Roma, 16 gennaio 2016  

Testo ripreso da  https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/

UN PAESE ALLO SBANDO

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"Chi parla male pensa male e vive male” dice il protagonista di Palombella Rossa, il film di Nanni Moretti del 1989. Il dilagare di un inglese maccheronico in ogni aspetto della nostra vita ci rimanda l'immagine deprimente di un paese allo sbando, ignorante e privo di cultura (per usare le parole di Sgarbi relative alla recentissima pagliacciata delle statue inscatolate).

Adolfo Scotto di Luzio

Lo sforzo autolesionista di demolire la nostra lingua


Join the Navy, «entra in marina». L’ invito non viene da Annapolis, Maryland, dove ha sede la più importante accademia navale degli Stati Uniti d’America. Più domesticamente, da Roma. Lo slogan compare sui manifesti che in questi giorni annunciano nelle nostre città la nuova campagna di reclutamento della Marina militare italiana. Dopo il «Be cool and join the Navy» del 2015, qualcosa che in italiano suona come «Fai il fico ed entra in marina», lo Stato maggiore insiste con un giovanilismo di maniera che si pretende dinamico e internazionale ma che, riferito a un’istituzione militare della Repubblica italiana, suona alquanto privo di senso.

Non c’è dimensione pubblica del nostro Paese, ormai, che non sia affidata a pubblicitari e creativi di ogni risma per i quali l’uso dell’inglese è diventato una specie di tic nervoso. Clamoroso è lo slogan inventato per Roma, RoMe & You, «Roma, Io e Te», che ha finito per renderne irriconoscibile finanche il nome. Un paradosso non da poco per chi, dovendo vendere un marchio, lo confonde sotto un gioco grafico e linguistico buono, forse, per una paninoteca dalle parti di Campo de’ Fiori.

Non fa eccezione a questo andazzo sciatto e autolesionistico il ministero della Pubblica istruzione. Da tempo nella scuola italiana circola un nuovo latinorum che mescola alle vecchie formule della burocrazia un gergo monotonamente ripetitivo degno di un call center. Basta prendere il piano della scuola digitale del Miur e aprirlo a caso. È un succedersi di Acceleration Camp , percorsi di accelerazione per stimolare lo spirito di intrapresa nei giovani. Ci sono i Contamination Lab , luoghi di contaminazione interdisciplinare. Le studentesse patiscono i confidence gap , il pregiudizio di genere in ambito scientifico e tecnologico. Il ministero risponde con «Girls in Tech & Science». Su questo linguaggio c’è poco da dire, se non che è refrattario a qualsiasi elaborazione intellettuale.

Ma che dire, invece, dell'obbligo d’insegnare in lingua straniera una materia non linguistica imposto nelle scuole superiori, in quinta? È il famigerato Clil, acronimo inglese, che sta per apprendimento integrato di lingua e contenuto. Nasce dalle escogitazioni multilinguistiche di un esperto di origini australiane che fa base in Finlandia. Si prefigge il conseguimento di un livello di estrema generalizzazione linguistica al di sopra delle differenze «dialettali» fra cittadini europei. Un progetto di vasta portata, per chi lo ha concepito; un’idea, invece, da pezzenti culturali a ben vedere. Non si danno più ore alle lingue straniere. Né si assumono insegnanti specialisti. Niente di tutto questo.

Si sottraggono, invece, al dominio dell’italiano contenuti culturali importanti e insieme si svilisce il valore di questi stessi contenuti, riducendoli a mero supporto della lingua straniera. Soprattutto, se il ministero presuppone negli insegnanti certificazioni linguistiche che di fatto non posseggono, dà per scontato che gli studenti siano in grado di prendere attivamente parte a lezioni in lingue che non padroneggiano.

Gli effetti semplificatori sui contenuti saranno, inevitabilmente, disastrosi. La lingua, tanto quella straniera che l’italiano, qui è concepita come un mero strumento e non come un terreno sul quale sorgono, nel tempo, pensieri e idee, sentimenti. In questo modo gli italiani vengono educati, fin dalle aule scolastiche, a formarsi un’ immagine opaca del mondo per mezzo di parole generiche e vuote.

Da qualche tempo si sente ripetere che l’Italia è tornata protagonista. Per il momento sembra più che altro sommersa dalle truffe.


Il Corriere della sera – 27 gennaio 2016

R. ALBERTI, Il nostro incontro

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Anche prima,
molto prima della rivolta delle ombre,
e che nel mondo cadessero piume incendiate
e un uccello potesse essere ucciso da un giglio.
Prima,
prima che tu mi domandassi
il numero e il sito del mio corpo.
Assai prima del corpo.
Nell'epoca dell'anima.
Quando tu apristi nella fronte non coronata, del cielo,
la prima dinastia del sogno.
Allorché,
contemplandomi nel nulla,
inventasti la prima parola.
Allora,
il nostro incontro.

Rafael Alberti

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