Quantcast
Channel: CESIM - Centro Studi e Iniziative di Marineo
Viewing all 9115 articles
Browse latest View live

B. BRECHT, Canto di un' amata

$
0
0

Le poesie d'amore di B:B. sono tutte straordinariamente belle soprattutto perchè non sono mai retoriche (fv)

Canto di un’amata

Lo so, mia amata: già mi cadono i capelli,
tanto dissoluta è la mia vita
e devo giacere sulle pietre.
Vedete come bevo il liquore più infimo,
e cammino nudo nel vento.


Ma vi fu un tempo, amata, in cui ero puro.
Avevo una donna che era più forte di me,
come l'erba è più forte del toro:
si rialza, infatti.


Lei vedeva che io ero cattivo, e mi amava.
Non chiedeva dove andasse la strada su cui camminava,
e che forse era in discesa.
Quando mi dava il suo corpo, diceva:
questo è tutto.
E diventava il mio corpo.


Ora non è più, è scomparsa
come la nube dopo la pioggia,
la mia mano l'ha lasciata
ed essa è caduta giù,
poiché quella era la sua strada.


Ma talvolta, la notte, quando mi vedete bere,
io vedo il suo viso, pallido nel vento,
forte e rivolto a me, e m'inchino verso il vento.


Bertolt Brecht

PALERMO, UNA CITTA' DA MANGIARE

$
0
0





 
Breve guida ai sapori di Palermo, perchè cultura è anche saper mangiare come ci hanno insegnato, tra gli altri, Ignazio e Nino Buttitta. (fv)

Federico De Cesare Viola

Una città da mangiare

Panelle, sfincione, quarume, stigghiole, pani ca’ meusa: ci sono luoghi che profumano di cibo buono a ogni angolo di strada. Come Palermo, dove lo street food non è mica una moda, ma una categoria dello spirito. Conviene subito tuffarsi nel ventre della città per fare la conoscenza di Rocky Basile, il “re della Vucciria”, autore di un celebre panino con la milza da ordinare nella sua versione più schietta con sale e limone. Lo trovate al 211 di Via Vittorio Emanuele dove c’è anche (ma al civico 102) Franco ‘U Vastiddaru: oggi è Antonino, il figlio di Franco, a garantire l’eccellenza della “vastidda”, la tipica pagnotta. Serve un nome romanzesco per fare il miglior cibo di strada, evidentemente: da Nino u’ Ballerino, nella zona del Tribunale (C.so Finocchiaro Aprile 76/78), si va per una milza “fatta con il cuore” e per le arancine, i cazzilli e il pane con panelle.

La sistemazione ideale per questo tour gastronomico è il B&B del Massimo, dentro un bel palazzo Liberty di fronte al teatro lirico più grande d’Italia. Le camere sono curate e spaziose, con pavimenti originali d’epoca, e la suite ha anche una terrazza che dà sull’ edificio teatrale. All’ora dell’aperitivo serve appena qualche passo per raggiungere la Champagneria del Massimo e brindare a bollicine e birre artigianali.

E vicinissima è pure la sede palermitana di Fud – Bottega Sicula, l’innovativo format di Andrea Graziano che propone burger di carni locali, taglieri di formaggi e salumi e insalate, il tutto accompagnato da una bella selezione di etichette del territorio. Anche a Palermo, finalmente, cresce la cultura del bere miscelato. Il merito va a bartender come Adriano Rizzuto, che trovate dietro al banco di Close a preparare impeccabili cocktail con una notevole scelta di distillati. In via Cassari, quella che collega la Vucciria con il mare, ecco Bocum, un altro locale dove la mixology è una cosa seria: ambiente eclettico, convincenti piatti fusion e serate di buona musica in calendario.

La mattina si fa colazione all’insegna della classicità: all’Antico Caffè Spinnato, nel più elegante salotto cittadino, si può sorbire un impeccabile caffè accompagnato da lieviti della tradizione. Fatto il pieno di calorie si va a smaltire al Giardino Inglese, mirabile polmone verde progettato nel 1851 da Giovan Battista Filippo Basile con abbondanza di statue, laghetti e fontane.

L’Hotel Giardino Inglese è una residenza di charme per scoprire questo quartiere raffinato e romantico. A pranzo c’è un tavolo prenotato da Corona Trattoria per una scorpacciata di sapori di mare con materie prime di qualità scelte dal patron: da non perdere i bucatini con le sarde e l’involtino di spatola.

Dopo aver attraversato la città, si può continuare a camminare a piedi nudi nel parco (nella stagione giusta) a Villa Giulia, “la” passeggiata dei palermitani a ridosso del mare. D’obbligo una merenda al Bar Rosanero, storica pasticceria artigianale famosa (con pieno merito) per le torte. Nel frattempo è già ora di cena: se siete in vena di chiacchiere e condivisioni c’è Gagini, con il suo tavolo sociale e una cucina siciliana moderna; l’Osteria dei Vespri garantisce un’esperienza solida e rassicurante, una cantina di livello e una location (Piazza Croce dei Vespri) che rende onore alla storia, al mistero e al fascino di Palermo; oppure c’è Buatta, bistrot ai confini della Vucciria che propone cucina popolana in chiave contemporanea.

Infine, nell’agenda del weekend bisogna lasciare il tempo necessario per una visita al nuovo Mercato Sanlorenzo: 250 produttori per quasi 3mila prodotti, una vetrina (al coperto) della biodiversità dell’isola. Qui si trovano, ad esempio, anche mango e tè made in Sicily, e poi naturalmente salumi, verdure, crostacei e dolci. Spesa di qualità, pranzo low cost e poi fine pasto con il miglior espresso della città: quello preparato da Alessio Vabres con i monorigine di Histo Caffè.

La repubblica – 28 gennaio 2017

G. VASTA SU CINICO TV

$
0
0

Pubblichiamo la prima parte di un saggio scritto da Giorgio Vasta per il terzo cofanetto (uscito a dicembre) che raccoglie la produzione di Ciprì e Maresco, gli ideatori di Cinico Tv. Proprio pochi giorni fa è scomparso uno dei volti più simbolici del programma, Pietro Giordano, morto a 69 anni nella sua abitazione di Palermo.

Cinico mai più 

Italy Is Burningè un progetto musicale che nasce nel 2007. A idearlo è il dj lombardo Mario Fargetta. Su una base house, una voce sintetica pronuncia una sequenza di frasi. Ogni frase descrive abitudini, usi, costumi, consumi di una determinata comunità cittadina, soprattutto o soltanto composta da adolescenti. Per esempio: «Vivo a Bologna, Studio al Dams, Vivo vicino alle due torri, Abito appena fuori Porta Mascarella, Compro le bici in via Zamboni»; oppure, in Firenze Is Burning: «Vo a psicologia alla Torretta, Fo la ragazza immagine, Mi garba la Ducati Monster, Prima andavo al Mood, ora vado all’ex Mood, Andavo al Cabiria di piazza Santo Spirito, ora vado al Pop Cafè di piazza Santo Spirito»; e ancora, in Roma Is Burning: «’sto disco spigne una cifra, No, al mucca assassina no, è un posto de froci, Carlo Verdone me fa troppo sdraia’, Mangio i panini dallo Zozzone de corso Francia, La Tedesca se dovrebbe fa un po’ i cazzi sua, Roma de notte è da paura».
Ogni frammento di Italy Is Burning contribuisce a dare forma a un repertorio di situazioni tipiche e ricorrenti, tic, clichés, micro-orizzonti di riferimento più o meno consapevolmente condivisi che, nominati, diventano identitari; qualcosa di simile a quanto accade nei profili Facebook Sei di… se…– Sei di Belluno se…, Sei di Lecce se…, Sei di Frosinone se… –, nei quali a segnare un’appartenenza locale è ancora una volta il succedersi di circostanze riconosciute e riconoscibili che gli stessi utenti contribuiscono a dilatare: un’idea di identità – locale e in un certo senso personale – in forma di catalogo.
Quando qualche tempo fa ho scoperto l’esistenza di Italy Is Burning sono andato in rete a cercare la sua declinazione palermitana. Su YouTube, la versione principale è tarata su una costellazione di riferimenti e consumi della medio-piccola borghesia: «Vado al Clubino del Mare, Vivo in via Libertà, Faccio pilates, Faccio giurisprudenza, Faccio filosofia, Faccio lo Stams, Facevo teatro, Mi sono fatta le mani, Sei un piscio, Vado alle serate, Vado alla Cuba, Vado al Jamaica, Vado al Baretto, Andavo al Garibaldi, Sono accollativa, Stasera Birimbao, Festazze rum e pera». Diversamente da quanto in generale connota il progetto di Fargetta, in Palermo Is Burning la «voce recitante» non è sintetica ma è una voce femminile con una cadenza locale molto netta (vale a dire che in quella voce si avverte qualcosa di lasco, un’indolenza se non un’inerzia tipicamente palermitana, un vuoto di tensione da cui al limite a tratti trapela quel microscopico principio di stupore sempre riconducibile alla dimensione esclamativa tramite la quale a Palermo si fa esperienza delle cose).
In teoria Palermo Is Burning non dovrebbe essere altro che una specifica particella locale all’interno di un progetto più ampio descritto – così si legge in rete – come qualcosa che ha un’intenzione critica: inventariando, si mette alla berlina una vita regolata da comportamenti stereotipati. Il progetto di Mario Fargetta sarebbe allora assimilabile a quei cataloghi di convenzioni, comportamentali e linguistiche, che nel tempo hanno affascinato scrittori come Flaubert (nel suo Dizionario dei luoghi comuni) oppure Léon Bloy (in Esegesi dei luoghi comuni); al centro di tutto, come una persecuzione che è solo possibile a propria volta perseguitare, la bêtise.
In realtà, ascoltando la voce palermitana che passa in rassegna spazi atteggiamenti e standard espressivi del luogo in cui sono nato e cresciuto (e in cui, dopo vent’anni trascorsi altrove, sono per il momento tornato a vivere), mi sembra che questa intenzione sia fallace. L’impressione è che Palermo Is Burning lavori soprattutto sul ribadire un senso di appartenenza; su un’immedesimazione in cui, tutt’altro che percepire imbarazzo, a imporsi è una specie di soddisfazione se non di vero e proprio compiacimento. Ogni enunciato è del resto calibrato su un livello di genericità funzionale a questa identificazione: blandisce il bisogno di autoreferenzialità, gratifica il desiderio di appartenenza. Palermo Is Burning«suona» – è il caso di dire – come un inno, non nazionale bensì iperlocale, utile a una manutenzione ordinaria del noto. Come spesso accade in un certo comico di matrice televisiva che presume (o pretende) di essere abrasivo se non distruttivo (intercettando e rivelandoci proprio la nostra costitutiva bêtise), Palermo Is Burningè nei fatti complice e condiscendente, se non del tutto corrivo: non produce disagio ma consenso.
Per cercare di comprendere a che cosa in effetti serva Palermo Is Burning può essere utile concentrarsi sul titolo del progetto complessivo: l’Italia sta bruciando. Ogni brano in cui si struttura il progetto di Fargetta è un braciere, un’ara, un caminetto: c’è una città e c’è la sua arsione in forma musicale. Palermo Is Burningè allora il luogo in cui – come accade quando il fuoco agisce sulla materia – qualcosa si rapprende, è lo spazio in cui i margini si contraggono e l’articolazione interna si riduce; è dove ogni densità, ogni eventuale potenziale, viene estinto. È un fenomeno – minuto e laterale, sì, ma lo stesso significativo – che aderisce al bisogno di semplificare la percezione di Palermo. A un suo addomesticamento. Palermo Is Burningè oggi – a circa dieci anni dalla sua invenzione – uno tra i ritratti più credibili di una città euforicamente a suo agio. Di una città domestica. Un luogo immerso in una sua oscura felicità.

La cenere e lo sciame
Cinico Tv ha origine dalla cenere. Nel momento in cui, a fine anni Ottanta, le primissime incursioni televisive di Ciprì e Maresco si manifestano su Tvm, a precedere la prima immagine compiuta c’è un formicolio grigionerobianco sul quale si materializza la scritta rossa cinico tv. È il caos della genesi, il rumore bianco da cui poco a poco tutto scaturisce (e che permane come struttura invisibile di ogni cosa). È quella caligine che per il Beckett di Mal visto mal dettoè la sola evidenza: «Unica certezza la bruma. Quella di là dai campi. Già li invade. Invaderà la pietraia. E poi l’abituro penetrando attraverso ogni sua fessura. L’occhio potrà anche chiudersi. Non vedrà altro che bruma. Anzi neanche. Lui stesso non sarà altro che bruma».
Quando dunque l’occhio di Cinico Tv si apre per la prima volta, ciò che vede è indistinguibile da ciò che vedeva prima di aprirsi: il brusio della cenere fredda intorno al fuoco spento, l’indiscernibile, la nebbiolina in cui tutti stiamo.
Se l’origine di Cinico Tv è la cenere, la sua forma è quella dello sciame. Per una ventina d’anni, la televisione di Ciprì e Maresco si è fatta leggere come una propagazione di immagini microscopiche simili e diverse, come una massa pulviscolare in movimento. Qualcosa, cioè, che funziona come le api, le cavallette, le meteore, i terremoti. Una configurazione compatta e unitaria e al contempo un prisma, un brulicare di frammenti, uno scompiglio di particelle. Confrontarsi con Cinico Tv nel corso di due decenni vuol dire allora fare esperienza di una dispercezione. Come nel caso dell’esperimento della Gestalt – il «duck-rabbit illusion» –, al cospetto di Cinico Tv, attraverso uno scarto impercettibile della messa a fuoco, vediamo tanto l’anatra quanto il coniglio, la totalità e la scheggia, il senso inventato di colpo dalla forma e l’impossibilità del senso che la forma può solo giocare a mascherare ma non può (e non vuole) in nessun modo cancellare.
Sciame è un termine che esprime un moto. Lo sciamare. Delle api – quando gli insetti lasciano la vecchia colonia e, insieme alla regina, vanno a fondarne una nuova –, oppure il movimento dell’invasione – quando le cavallette attraversano un campo devastandolo –, o ciò che accade quando i detriti meteorici penetrano nell’atmosfera e l’attrito che si genera li fa bruciare, o ancora quando un pezzo di superficie terrestre è solcata da un succedersi di microsismi. In ognuno di questi casi lo sciame ha un riflesso visivo – le scie, tanto quelle animali quanto quelle siderali o sotterranee – e ne ha uno acustico – il fruscio, il brusio, il crepitare dei corpi celesti.
Cinico Tv è stato allora una coesa moltitudine in azione. Qualcosa che non se ne sta lì, fermo, a farsi contemplare, brillando di qualità estetiche che sollecitano il nostro apprezzamento; semmai l’equivalente di una mano che afferra, sposta, muove, separa.

Breve storia della cenere e dello sciame
A partire da fine anni Ottanta, dalla cenere di Cinico Tv affiorano figure strutture masse e masserelle, complessioni rovinate, rigide o molli, rigide e molli, un retablo di sagome implose, nella maggior parte dei casi filmate frontalmente, a volte osservate mentre scorrono sul filo dell’orizzonte (qualcosa che fa pensare ai corpi, sempre scoordinati, sempre in eccesso o in difetto, del cinema di Augusto Tretti), e trapela lo spazio fisico palermitano, un succedersi di spianate e macerie, moncherini di vecchie fabbriche di laterizi, la foce di cemento di un fiume vuoto, le ciminiere e il cielo bianco, qualche interno senza intonaco che allo sguardo si dischiude come una Wunderkammer di tenebra, luoghi minimi di una meraviglia ancora cinerea (si percepisce a volte quel senso di immagine-fossile, da presepe extratemporale, che è il lineamento della fotografia di Joel Peter Witkin), e in questo propagarsi di materia compare a tratti anche una specie di linguaggio, un codice sconnesso e incalcolabile (in Ciprì e Maresco i conti della lingua non tornano mai), locuzioni reiterate, olofrasi magiche – il «Certamente» di Giuseppe Paviglianiti, che con il «Siamo davvero pietosi» di Francesco Tirone vale da chiave di volta di un discorso laconico –, i tormentoni, il tormento (il tormento dentro i tormentoni), e ancora, negli anni – quando dopo Tvm il trabiccolo di Cinico Tv si conficca, come il missile-navicella di Méliès nell’occhio (ancora lui) di una Luna di cartapesta, dentro il palinsesto della tv nazionale –, dagli schermi emerge (sempre più preciso, sempre più consapevole) il prolasso degli organismi, l’inerzia, scorie di gesti, fantasmi di movimenti, l’ebetudine e l’ebefrenia di Rocco Cane, l’agitazione locutoria dei Fratelli Abbate, invano concentrati – e con loro una città intera – nel tentativo di dirimere dilemmi (Pesa di più un chilo di ferro o un chilo di paglia?, Con chi è sposato il toro?), e poi nello sciame si materializza il movimento di macchina continuo che in Keller vale da catalogo-riepilogo-rilancio (è il 1992) di quello a cui già da qualche anno Ciprì e Maresco stanno dando forma, un carrello orbitale che, come lo sguardo assoluto di La Région Centrale di Michael Snow, fa del mondo elenco e via crucis circolare, le immagini che nel delimitare un’area (l’accampamento di fortuna in cui si cerca riparo durante l’assalto nemico) si accerchiano da sole, allo stesso tempo assediate e assedianti, e, ancora, dallo sciame viene su un altro relitto, quel frantume di cinema (di cinema in tv) autolesionista che in Il corridore della paura (è ancora il 1992, quando a Palermo spazio e tempo esplodono) si esprime attraverso l’impulso dell’immagine a sporcarsi, a obliterarsi, Tirone e Miranda che spazzano la scena fino a corroderla, a imploderla, facendo il fotogramma abraso, lacerocontuso, e intanto nello sciame gravitano il corpo e la voce di Ignazio Trevi, una caverna di suoni – il balbettio, il farfugliamento, finché, nel canto, l’anatroccolo non si trasforma in cigno (nel suo eterno immacolato indistruttibile vulnerabile canto), e gravitano il corpo e la voce di Giuseppe Paviglianiti, il suo corpo assoluto – paradossalmente lievissimo, etereo, pieno d’aria, pieno di grazia: una nube di carne e candore – e a un certo punto, è il 1996, compare quello che per me vale come un personale trittico del congedo, tre corti – Il manocchio, dove un occhio si dimette (si dismette) rendendo inequivocabile quella che da lì a poco sarà – nell’apparenza del contrario – la nuova irrilevanza dello sguardo; Ritorno alla vecchia casa, dove un corpo in mutande e calzini se ne sta al cospetto di un edificio in macerie (le macerie tornano alle macerie, similia similibus solvuntur); Ai Rotoli, un carrello sulle lapidi del cimitero di Palermo, la voce di Carmelo Bene che legge di Bibi nelle pagine di Signorina Rosina di Antonio Pizzuto, la sensazione che al bianco matto del colombario non ci sia scampo: tre corti, dicevo, che inaugurano (e in un certo senso nutrono) quella che sarà la mia ventennale separazione da Palermo, e poi, trapelante dallo sciame – prepotente, eversivo – c’è Pietro Giordano (con Paviglianiti non solo il più grande attore di Ciprì e Maresco ma, azzardiamo, di gran parte del cinema italiano di quegli e di questi anni), simultaneamente immobile e metamorfico, il silenzio di continuo masticato dentro la bocca chiusa (le labbra che a volte percependo l’amaro si socchiudono, sembra vogliano espellerlo ma poi rinunciano, si richiudono, lo covano in bocca), Pietro Giordano – dicevamo – che nelle sue trasformazioni senza cambiamento è intervistato in qualità di stupratore escremento fantasma suicida preservativo guardone (di coppie che pomìciano), e ancora topo di fogna, sepolto vivo, scheletro nell’armadio, bomba in attesa di esplodere, Tarzan di Palermo, Dio, così esaltando il carattere solo in teoria in divenire ma in realtà fossile, avulso dalla Storia (o al limite blandamente storicizzabile), di Palermo, e dentro quelle immagini filtra la città di Franchi, Ingrassia e Leoluca Orlando, di Gaetano Cristiano Rossi (in arte Christian, il terzino cantante di Boccadifalco), del Mago Atanus, di Totò Cascio, di Enzo Castagna – presenze che senza mai ridursi a resoconto giornalistico esistono in Ciprì e Maresco come parvenze, detriti, fosfeni, illuminate nella loro più autentica consistenza di pulviscolo – e poi – come una nervatura, come un architrave – dentro la materia nata postuma di Cinico Tv c’è la voce off di Franco Maresco, un vero e proprio dispositivo che, in anni disciplinati dalla massima (di continuo ribadita all’interno del Maurizio Costanzo Show) secondo cui «domandare è lecito, rispondere è cortesia», ha la capacità non solo di violare la regola ma soprattutto di ricalibrare i termini della dialettica televisiva in una chiave spietatamente autentica, perché in Cinico Tv domandare è un vizio e rispondere è (afasia, verrebbe da dire giocando con l’assonanza, ma quel rispondere è anche altro) un obbligo, un dovere, un patimento – e l’intera relazione dialettica tra voce fuori campo e corpi in campo (quella stessa cosa, fisica e metaforica, in cui Berlusconi in quegli anni decide di scendere) viene in breve a coincidere con un’inerziale costellazione di tic (quel «Dica» congiuntivo dei Fratelli Abbate che, come il «Bravo-Grazie» di Petrolini-Nerone, risponde automatico alla chiamata di Maresco), qualcosa che ha la capacità di ridimensionare l’idea amatissima del dialogo come relazione importante fondativa positiva, rivelandolo invece nella sua natura di sintomo (nel macrodiscorso sciamante di Cinico Tv, forse gli unici due obiettori delle affermazioni di Maresco – relative al genere, all’età, alle attitudini, alla cosiddetta identità – sono stati, ognuno a modo suo, Francesco Tirone e Filangieri Giuseppe; se la voce di Maresco viola, reinventandole, le informazioni minime, e in teoria autoevidenti, su chi è chi, Tirone e Filangieri ribattono, eccepiscono, cercano di ripristinare quello che è il livello di realtà a loro noto: Tirone, mitemente, rivelando la capacità di cogliere l’abuso e trascendendo il contesto, a volte persino ironico nel farsi per gioco avversario della voce di Maresco; Filangieri, invece, sempre intrinseco al contesto, sempre immanente, opacamente fiducioso, braccato dal close-up, persuaso che se il suo interlocutore continua a dargli quarantasette anni e a considerarlo cieco – quando invece lui ne ha trentuno ed è solo molto miope – questo accada per errore, e dunque è utile precisare, pianissimo, che le cose stanno in un altro modo – e ugualmente Maresco non cede: «Questo è il bello: fingere di vederci quando ormai sappiamo che la luce è andata via per sempre»).

L’umiliazione
Sciamando attraverso uno spazio e un tempo – l’Italia tra fine anni Ottanta e i due decenni successivi (ma, di fatto, attraverso l’umano) – la materia di cenere di Cinico Tv intercetta una specifica esperienza, macroscopica e strutturale nonché minima e diffusa. Sono gli anni in cui l’umiliazione italiana (ipotizzando dunque che dell’umiliazione possa esistere una declinazione nazionale) smette di essere un fenomeno eventuale, un trauma che, come un’eccezione dolorosa, tocca (e a volte distrugge) le esistenze individuali, mutandosi invece in qualcosa di trasversale e duraturo, di reticolare e molecolare: un particolato fine, l’aria che respiriamo, una sostanza che dai polmoni risale nel flusso ematico fino a farsi struttura e postura psichica permanente.
Immaginando di poter ricomporre in breve una storia dell’umiliazione – dunque dell’umiliare e dell’essere umiliati – possiamo individuare in una scena di Io la conoscevo bene, il film di Antonio Pietrangeli del 1965, la sintesi di ciò che l’umiliazione italiana è stata per tanto tempo (di come è stata percepita, di come è stata pensata e temuta, del modo in cui era intesa nel senso comune). Durante una festa in un salotto romano, il padrone di casa (Franco Fabrizi), un attore di successo (Enrico Maria Salerno) e un fotografo insinuante (Nino Manfredi) diventano i «carnefici» di un fantasista in disarmo – l’abito troppo stretto, i baffetti e i capelli unti di brillantina, la sigaretta sempre tra le dita, i modi vezzosi e servili – interpretato da Ugo Tognazzi. Quando gli viene chiesto di esibirsi in una specie di provino estemporaneo, il fantasista decide di proporre il suo cavallo di battaglia: l’imitazione di un treno in corsa. Monta su un tavolino – ed è come se scendesse in una fossa sacrificale – e comincia, anche con una certa perizia, a produrre con la bocca il rumore del locomotore, i piedi che si cimentano in un tip-tap che rifà il ritmo ferroviario, via via accrescendo la velocità – la gente intorno che lo acclama – finché il fiato gli scoppia in petto e un principio di malore arresta l’esibizione nell’imbarazzo generale. Usando Isaia 53,7 come cartina di tornasole per leggere la scena di Pietrangeli – «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» – all’ammutolimento della vittima segue quello dei carnefici.
Il luogo storico e culturale in cui ci troviamo nella scena di Pietrangeli è ancora quello di un’umiliazione che qualcuno pensa, allestisce e infligge a qualcun altro. Siamo ancora nella circostanza, nell’anomalia, in uno stato d’eccezione che contrasta con un tempo esistenziale che, se anche può essere dimesso o patetico (è il caso del personaggio interpretato da Tognazzi), non coincide con una mortificazione totale e perenne: quella di Io la conoscevo beneè un’umiliazione – generata nella relazione – ancora circoscritta e superabile.
Ciò che invece Cinico Tv coglie e mette in scena è un mutamento fondamentale. L’umiliazione che, almeno in Italia, si comincia a sperimentare alla fine degli anni Ottanta – e che da allora fino a oggi si è sempre più raffinata e normalizzata – non passa più per la relazione che oppone (e collega) un carnefice a una vittima, e non si manifesta come un acuto doloroso in contrasto con uno stato di prevalente dignità: l’umiliazione di questi ultimi decenni è uno stato cronicizzato, ecosistema, humus, endoscheletro individuale e collettivo; qualcosa che, se anche resta in sé insostenibile – o meglio proprio per questo – viene tenuto a bada da una serie di piccole strategie di contenimento (prime tra tutte, l’autoironia e il vittimismo retorico).
La straordinaria ambiguità – inesauribile e irrisolvibile – di Cinico Tv sta fin dalle sue origini (fin dalle sue prime ceneri) nella indecidibilità delle situazioni che genera. Quelle davanti all’obiettivo sono persone che Ciprì e Maresco si divertono cinicamente– e del resto quei due definiscono il proprio modus operandi già dal nome che si sono dati – a prendere in giro, si sosteneva (e si sostiene) nella maggior parte dei casi. No, obiettava (e obietta ancora) qualcuno, sono personaggi, ciò che vediamo è finzione, messinscena, una tragicommedia sadomasochistica. C’era (e c’è) anche chi ritiene Tirone, Giordano, Miranda e Paviglianiti non tanto personaggi occasionali, figure bizzarre ogni tanto (e forse, almeno in parte, inconsapevolmente) prestate al gioco della simulazione, quanto veri e propri attori in grado di passare plastici da un ruolo all’altro.
Al mutare di ognuna di queste prospettive, muta la percezione che abbiamo della voce off di Franco Maresco. Di che cos’è, di che cosa fa. È un sadico torturatore? Un martire paradossale? Oppure un complice, regista (tramite la propria voce e la propria invisibilità) di un gioco del quale allora tanto Maresco quanto Ciprì quanto Tirone Giordano Miranda Paviglianiti sono corresponsabili? Le ipotesi possono moltiplicarsi, e ibridarsi tra loro, senza che ci sia modo di arrivare a una soluzione ultima. Perché la voce fuori scena di Maresco è al contempo il varco d’ingresso nell’ambiguità nonché il luogo dell’ambiguità medesima. È una voce fantasma che mescola, confonde, si fa nebbia, annebbia («Unica certezza la bruma»). Se la struttura di ciò che vediamo e ascoltiamo ci fa percepire Ciprì e Maresco come gli aguzzini che hanno sempre, di quanto accade, una coscienza e un controllo assoluti, a forza di osservare lo sciame si sospetta (si teme?) che le cose non stiano davvero – o del tutto – così.
«Tirone», chiama la voce di Maresco, «lei è un pezzo di m…, un pezzo di m…»; Tirone ci pensa, ipotizza: «Motore… Mascherone…»; «Voglio regalarle un’altra lettera», continua Maresco, «lei è un pezzo di me» – e se pure lo scambio di battute è qui isolato dal suo contesto e dalla sua prosecuzione, vale lo stesso da sintesi preterintenzionale di una lettura forse non proprio remota: quella secondo cui Cinico Tv mette in scena una gerarchizzazione dei ruoli (i carnefici, le vittime) che gli permette di fare sua una consapevolezza che non lascia scampo: tu sei me, tu sei un pezzo di me, dice la voce fuori campo di Maresco: voi siete noi, dice Cinico Tv, e in questa specularità si descrive tanto il legame di Ciprì e Maresco con le loro persone-personaggi-attori, quanto il nostro con Cinico Tv: noi– noi che guardiamo Cinico Tv – noi siamo loro.
E allora tutt’altro che poter distinguere con chiarezza tra chi umilia e chi è umiliato, in Cinico Tv si assumono i presupposti della nuova umiliazione italiana: uno stato d’animo che innerva di sé pratiche e immaginario, un sentimento capillare così presente da non venire più percepito come trauma. Come il pesce anziano dell’apologo di David Foster Wallace – quello che incrociando due pesci più giovani domanda «Com’è l’acqua?» suscitando il loro stupore tanto da indurli a domandarsi «Che cavolo è l’acqua?» –, a noi che viviamo immersi nell’amnios dell’umiliazione non ha senso chiedere com’è oggi quell’amnios, perché la nostra unica risposta non può essere che una: Che cavolo è l’umiliazione?

Testo ripreso da  http://www.minimaetmoralia.it/wp/cinico-piu-parte/

NINO BUTTITTA E LA RIVISTA NUOVABUSAMBRA

$
0
0

Nino Buttitta, Aldo Gerbino e F. Virga presentano la rivista nuovabusambra alla Libreria Broadway di Palermo



       
Mezzojuso, 5 marzo 1985: Nino Buttitta commemora Gabriele Buccola


      Il compianto prof. Nino Buttitta ha seguito con simpatia la breve stagione della rivista nuovabusambra. E, oltre a contribuire alla sua diffusione nella città Palermo, ha permesso che venisse pubblicato, nella stessa rivista, il testo della sua commemorazione  di Gabriele Buccola che si tenne il 5 marzo 1985 nella sede del Consiglio Comunale di Mezzojuso. 
Riproponiamo il documento quale ulteriore testimonianza dell'attenzione mostrata da Nino Buttitta nei confronti delle diverse espressioni culturali del nostro territorio. 

NINO BUTTITTA COMMEMORA GABRIELE BUCCOLA

Signor Sindaco, Eccellenza, Autorità, Cittadini di Mezzojuso, Chiarissimi Colleghi, considero un onore poter rendere questa sera giustizia all’uomo Gabriele Buccola e allo scienziato. Rendergli giustizia perché ingiustizia gli è stata resa nel suo tempo, dagli uomini e dagli scienziati, o dai pretesi tali. Non dirò dell’opera di Buccola, né come uomo né come scienziato, perché ci sarà tempo nel convegno che è stato appena annunciato, per trattare soprattutto l’aspetto scientifico della sua opera e perché, per altro, Aldo Brigaglia ne ha fatto una esemplare sintesi sul Giornale di Sicilia.
Consentitemi, però, due considerazioni di carattere generale che si riferiscono alla vita dell’uomo Buccola e all’opera dello scienziato Buccola. L’uomo. Un giovane dalla salute fragile, dall’animo gentile che si muoveva in una società nella quale non diversamente da oggi gli elementi della foresta erano prevalenti su quelli della civiltà. Tuttavia questo giovane così delicato e così fragile, così profondamente legato agli affetti familiari, così radicato nel suo paese e nella sua terra, decide di affrontare la foresta, non per ambizioni ma per servire il suo paese. Tant’è che, quando grazie alla sua vivida intelligenza e alla qualità dei suoi scritti, gli viene offerta una cattedra di filosofia nell’Università di Genova, egli nettamente, senza perplessità alcuna, la rifiuta.
Chi conosce il mondo universitario sa quanto possa essere tormentata e difficile una scelta del genere. Ma perché la rifiuta? Non perché egli si rifiuti di rendere un servizio sociale, di mettere gli altri a conoscenza degli studi e delle sue scoperte, ma perché questo servizio lo vuole rendere alla sua Terra. Vuole sì insegnare nell’Università - del resto era docente nell’Università di Torino - egli vuole insegnare come cattedratico non a Torino, non a Genova, ma a Palermo. Perché l’Università della terra in cui si riconosce è l’Università di Palermo.
Palermo però gli rifiuta questa possibilità e gliela rifiuta in modo vile, come vili sanno essere spesso alcuni professori universitari: non bocciandolo, perché non possono bocciare uno studioso come Gabriele Buccola, ma non assegnando la cattedra, fino a quando, spento da un male - ahimè incurabile! - Buccola a Torino muore. In quella Torino che era stata ingiusta nei suoi confronti, di questo grande clinico (questo è un aspetto dell’opera di Buccola che non dobbiamo dimenticare), quella Torino che era stata altrettanto ingiusta nel momento in cui gli aveva impedito di esercitare la sua attività di medico. Lo aveva ostacolato cioè in un altro aspetto del suo impegno civile e sociale. Un uomo dunque che, nel breve arco della vita che gli è stata data vivere, ha subito ingiustizie. A cui pertanto bisogna rendere giustizia. Ed è giusto che sia il suo paese a farlo.
Buccola merita giustizia anche come scienziato, perché a torto è stato messo in disparte, a torto è stato dimenticato e si trattava di un grandissimo scienziato. Perché la scienza italiana gli ha reso questo torto? Bisogna rifarsi all’attività di Buccola come studioso, come intellettuale per poterlo capire. Buccola inizia, stante gli studi che quasi tutti abbiamo fatto, cioè gli studi classici, inizia a dar prova della sua intelligenza come critico letterario e, giovanissimo, scrive due saggi - più di due ma i più significativi sono due - uno su Carducci, l’altro su Di Giovanni. Produce anche uno studio di contenuto scientifico: l’inizio del lungo cammino che lo porterà a quella che è la sua opera fondamentale per gli studi di psicologia nel nostro Paese e non solo. È: Ladottrina dell’eredità e i fenomeni psicologici. Non è ancora laureato e questo saggio gli procura immediatamente la simpatia e l’appoggio di una parte degli studiosi italiani ma anche l’ostilità di altri. Perché uno studio in cui i fenomeni del pensiero, i meccanismi intellettuali o psicologici sono studiati in termini sperimentali, ottiene il favore di alcuni e il rifiuto netto e rabbioso di altri? Ma perché è evidente agli uni e agli altri che questo giovane studioso, secondo la tradizione intellettuale, che è propria della nostra terra, si muove all’interno di una storia intellettuale che è da ritenere la marca di nobiltà della nostra Isola.
Una tradizione intellettuale che va in continuità dall’Empirismo all’Illuminismo e da questo al Positivismo: una tradizione intellettuale che in Italia, ha trovato, insigni cultori i quali ne hanno purtroppo enfatizzato gli aspetti più grossolanamente materialistici. È ovvio che abbia trovato i suoi avversari. Avversari di due tipi. Da un lato quelli che, declinando in modo conservatore un certo Cattolicesimo, eranoradicati in una forma gretta di Spiritualismo. Dall’altro gli ostili che ritenevano di potersi collocare su una posizione più avanzata rispetto allo Spiritualismo da un lato e al Positivismo dall’altro Penso ai cosiddetti idealisti, di cui il Meridione di Italia ha avuto rappresentanti insigni: Croce e Gentile che costituiscono, è bene dirlo una volta per tutte, una declinazione dialettale di Hegel. Come giustamente ha notato Brigaglia, è stato proprio Gentile, siciliano e idealista, a emettere la condanna definitiva, (intendeva esserlo, ma non lo fu se siamo qui questa sera a parlarne in termini diversi) della tradizione culturale e politica di cui Gabriele Buccola già da giovane si faceva portavoce.
Che cosa dice Gentile? Ubriaco dell’idealismo tedesco, la tradizione intellettuale siciliana che come abbiamo avuto occasione di segnalare in altri luoghi e in altri tempi, non ha niente da invidiare a quella europea e occidentale tout court, viene da lui bollata di provincialismo. Gentile non è del tutto in mala fede. In realtà questo illustre nostro conterraneo conosceva male la storia della cultura siciliana pur essendo l’unico ad avere scritto un volume sul tramonto della cultura siciliana: un’opera nella quale si cerca di fare un panorama della cultura dell’Isola tra Sette e Ottocento. Gentile in realtà la conosceva male, tanto male da affermare, come hanno sostenuto gli altri che lo hanno seguito su questa strada, che in Sicilia per ragioni storico-politiche non era mai arrivato l’Illuminismo.
Basta entrare in qualunque biblioteca, anche minuscola dei nostri paesi, non dico della biblioteca della Società di Storia Patria, né dico della Biblioteca Comunale di Palermo, non dico della vostra Biblioteca, basta entrare in qualunque biblioteca, scorrere l’indice degli autori e delle opere per accorgersi che di letteratura illuministica in Sicilia se n’è prodotta parecchia. Era una ricerca intellettuale che non aveva larga diffusione perché i movimenti culturali in quel tempo non avevano ampia estensione. Non c’è dubbio tuttavia che gli intellettuali siciliani erano partecipi della cultura europea del loro tempo. E poiché ne stiamo parlando - potrei ricordare varie cose, per esempio l’Istituto Castelnuovo, ma, lasciamo perdere, questo riguarda altri settori disciplinari. Poiché stiamo parlando di medicina, sostanzialmente, di una disciplina di tipo sperimentale, sul versante medico-clinico, possiamo tuttavia affermare che Buccola non è un fiore nato nel deserto. Spesso - consentitemi questa digressione - quando qualche importante intellettuale siciliano si afferma a livello nazionale e internazionale, qualcuno dei critici dice: “toh, guarda, ma come, in Sicilia, dove ci sono questi individui tutti piccoli, neri e mafiosi, toh, guarda, c’è Sciascia, toh, guarda, c’è Bufalino. Come è possibile che sia nato Pirandello, in Sicilia?” Perché dicono queste cose? Taluni per malizia, altri in buona fede, perché non conoscono la storia della cultura siciliana.
Questo grande medico, perché di un grande medico stiamo parlando, Buccola, non nasce in Sicilia, per caso. La verità è che in Sicilia fin dal tempo della dominazione musulmana, si è affermata una grande scuola di studi medici. Non è un caso che nel Rinascimento i parigini che volevano studiare le prime forme di cura della lue, venivano a Modica, dove fioriva in quel momento una scuola, nella quale per la prima volta se ne sperimentava la terapia. Non è un caso che Buccola decida di studiare medicina nell’Università di Palermo, dove operava una affermata tradizione di studi in questo ambito. Non in tutti isettori, ma ce ne erano alcuni che costituivano punte avanzate della ricerca medica.
L’appartenenza a una precisa corrente di pensiero in un determinato momento della storia politica e culturale della propria Isola, è un fatto che può avere determinato nel giovane Buccola la sensazione di trovarsi in una condizione discrasica rispetto al contesto scientifico nazionale. Proprio perche vuole rendere un servizio e vuole renderlo bene alla sua Terra, questa sensazione lo induce a cercare altrove i luoghi e i modi della sua crescita intellettuale: Firenze, Reggio Emilia, Torino. Non a caso Torino, perché lì nel settore in cui Buccola ha deciso di impegnarsi, opera Morselli, - e non solo Morselli, ovviamente - uno dei più grandi studiosi positivisti italiani.
Dobbiamo cercare di capire il valore vero dell’opera di Buccola. Il profano può restare impressionato dal fatto che da un lato si registrano forme di radicale rifiuto del suo lavoro scientifico; dall’altro invece, esiste un numero esteso di testimonianze attraverso le quali la figura del Buccola emerge come superiore alla media scientifica del tempo. Si può pensare che i giudizi favorevoli sull’opera del Buccola siano legati a ragioni emotive. Si può pensare che a un certo punto, trattandosi di uno studioso giovane, brillante, che muore anzi tempo, i chiamati a formulare giudizi su di lui, suggestionati da questo fatto, dicano: “rimpiangiamo la morte di una grandissimo studioso”. Quando si commemora qualcuno, se ne dice in genere bene. Quindi leggendo le testimonianze, le lettere, gli scritti, a favore di Buccola, si potrebbe pensare che siano ragioni di carattere emotivo ad aver portato questi testimoni a essergli tanto favorevoli.
C’è però una spia che fa capire il valore grande dell’opera del Nostro. È una lettera che Morselli, il maestro di Buccola, scrive molti anni dopo la sua morte a Francesco Guardione, già cieco. È una cosa che mi ha molto commosso. Il fatto che nel silenzio generale, nella dimenticanza generale, nell’oblio e nell’ingiustizia generale, sia un cieco a rendere testimonianza a favore dell’opera di Buccola, è un fatto che mi ha colpito e mi ha fatto pensare, parafrasando, a Pascal, quando dice che “nessuno è più cieco del vedente in un mondo di ciechi”. La verità è che l’unico che non fosse cieco era Guardione e gli altri, invece, lo erano, perché accecati dalla loro sottocultura provinciale.
Nella lettera che Morselli scrive a Guardione dopo anni, quando quest’ultimo decide di raccogliere gli scritti inediti di Buccola e di pubblicarli, Morselli non solo ripete l’elogio dell’opera di Buccola, ma dice “io che fui discepolo di Buccola”. Perché afferma questo e lo sottolinea? Perché il grande Morselli di un giovane ormai morto, ormai scomparso dall’orizzonte scientifico italiano, da cui certamente nessun vantaggio accademico gli poteva venire, dice “io che fui discepolo di Buccola”? Perché?
Qual è il vero valore dell’opera di Buccola che giustamente merita di essere ristampata: I fenomeni del pensiero. Qual è il suo vero valore? Perché è così importante l’opera di questo giovane da far dire al suo maestro che egli, il discepolo, era in verità il maestro?  Consentitemi di fare un discorso filologico. La nostra tradizione culturale, dico la tradizione culturale occidentale, da Platone in poi si è articolata sulla dicotomia spirito-materia. La più parte degli intellettuali dell’Occidente ha privilegiato lo spirito rispetto alla materia, una minoranza la materia sullo spirito. Addirittura i partigiani dello spirito hanno negato l’esistenza della materia, i sostenitori della materiahanno invece riportato anche lo spiritoalla materia, negando l’esistenza del primo. In questa che è la sua opera principale - perché le altre in sostanza sono tutte legate allo stesso tema che poi è quello che viene organicamente trattato nel volume che abbiamo qui sul tavolo - Buccola cerca di superare e supera questa dicotomia, riportandola ad unità, negando l’esistenza della dicotomia stessa. Non c’è da una parte lo spirito, cioè il pensiero, e dall’altra parte la materia, il corpo, ci troviamo in presenza di un fenomeno unico e questo rende possibile il suo studio sperimentale. Su questa idea si sviluppano le riflessioni di Buccola.
Ecco perché Morselli, nella testimonianza che è stata ricordata dal Sindaco, dice: “non lo piango tanto per quello che ha fatto, quanto per quello che avrebbe fatto”. Morselli capisce che la strada imboccata da Buccola è una strada nuova, non è quella del Positivismo grossolano, dei Lombroso, dei Mantegazza, dei Niceforo e, per certi aspetti, dello stesso Sergi. È una strada diversa. È la via di un Positivismo maturo che si apre già a nuove e più complesse forme di rappresentazione e analisi della realtà. Non v’ha dubbio che quando Morselli dice che Buccola gli è stato maestro, intende riferirsi a tutto questo. Morselli infatti non aveva bisogno di maestri positivisti, conosceva molto bene i positivisti francesi, forse meglio quelli tedeschi. Erano gli autori che egli stesso aveva fatto studiare a Buccola: da Spencer a Comte, ma soprattutto a Wundt: in quel momento il principale esponente di quella che un tempo si chiamava Völkerpsychologie.
Se dice che Buccola è il suo maestro, è perché ha capito che l’allievo ha ampiamente assorbito e digerito la lezione positivista e che prepara - in quest’opera fondamentale della storia della ricerca psicologica non solo italiana - un tempo nuovo. Fonda un nuovo approccio alla realtà dei fenomeni psicologici, anticipa una pagina diversa delle scienze umane. Una pagina che non si è aperta per la chiusura provinciale della nostra cultura, per le amare vicende politiche che tutti abbiamo vissuto, per il trionfo - per merito/demerito dei Croce e dei Gentile - di quel hegelismo dialettale che, ahimè, nel nostro Paese tarda ad essere sradicato.
Consentitemi, per concludere, il ricordo di una esperienza personale. Io ho avuto l’onore di conoscere il figlio di quel Giuseppe Seppilli che fu l’amico più caro e lo studioso più vicino a Gabriele Buccola, quel Seppilli che ha scritto il più bel ricordo di Buccola. Quando io conobbi il figlio di Seppilli’[1] (era il marito di quell’Anita Seppilli che ha pubblicato vari volumi con Einaudi, padre dell’antropologo Tullio Seppilli), mi disse: “Sono contento che lei sia siciliano, perché io ho conosciuto la Sicilia attraverso il ricordo che mio padre mi ripeteva di Buccola”. Bene. Se un uomo riesce a marcare nella memoria degli altri in modo cosi incisivo il proprio Paese, la propria Terra, allora quell’uomo è veramente grande. Vi ringrazio di avermelo fatto ricordare e capire.

Antonino Buttitta



[1] Alessandro Seppilli (1902-1995) n.d.r.

J. SEIFERT, Il bisbiglio reticente di una bocca baciata

$
0
0




Il bisbiglío reticente di una bocca baciata
che sorride: sí
non lo sento da molto tempo.
E poi non mi spetta.
Mi piacerebbe però trovare ancora parole
che fossero impastatecon mollíca di paneo profumo di tiglio.Ma il pane è ammuffitoe i profumi sono amaricati.E attorno a me strisciano parole in punta di piedie mi strangolanose voglio afferrarle.E i colpi delle maledizioni rimbombano sulla porta!Se le costringessi a danzare per me,resterebbero mute.E per giunta zoppicano.Però so beneche un poeta deve sempre dire piúdi ciò che sta nascosto nel rombo delle parole.Ed è la poesia.Altrimenti non potrebbe con la búrbera del versocavare un bocciolo da strascichi di mielee forzare il brividoa corrervi per la schienaquando spoglia la verità.

Jaroslav Seifert
Traduzione di Sergio Cordaus
da “Concerto sull’isola”, 1965, in “Jaroslav Seifert, Vestita di luce”, Einaudi, Torino, 1986



LE TORRI D' ACQUA A PALERMO

$
0
0






Torri d'acqua a Palermo. Foto di Cettina Vivirito


Devo all'amica Cettina Vivirito non solo le belle foto di questo post ma anche la scoperta del bel pezzo di Simonetta Agnello Hornby che ignoravo. (fv)

SORPRESA A PALERMO

Complice un libro di Giuseppe Barbera, “Conca d’oro”, ancora una volta la mia città riesce a sorprendermi.
Ci amiamo, Palermo e io, con l’accanimento appassionato di un padre e un figlio, lontano ma non prodigo. Lo scorso dicembre ho voluto vederla da un punto di vista diverso: dall’alto. Pensavo ai belvedere e alle torrette dei palazzi del centro storico e dei monasteri; mi aspettavo un mare di tegole a cannolo, di cupole di chiese e oratori rivestite di maioliche colorate a spina di pesce, a mosaico, a strisce. Immaginavo di trovarmi a tu per tu con i campanili, di scrutare dentro cortili interni e segreti, di scorgere tra le case le cime di alberi nascosti.
Dopo aver letto il bel libro di Giuseppe Barbera, Conca d’oro (Sellerio 2012), ero curiosa di vedere le torri che portavano l’acqua potabile nelle abitazioni dei palermitani abbienti. La maggior parte dei miei amici ne sapeva poco e non era per nulla interessata, altri le conoscevano ma non condividevano il mio entusiasmo né la mia voglia di vederle. Ero pronta a partire da sola per la mia spedizione, ma poi a vedere la torre d’acqua dietro il teatro Massimo – nella strada che dalla questura sale verso il mercato del Capo – mi ha accompagnato Chiara, figlia di un’amica carissima e curiosa quanto me.
La torre è alla fine di una muraglia possente che fiancheggia la via; essendo stata intaccata per allargare la carreggiata, in superficie affiorano i catusi – cilindri di terracotta rivestiti internamente di ceramica, che portavano l’acqua nelle case. La torre, costruita con una malta impastata di pietruzze, argilla e calcare chiaro, sembra un polmone poroso e lacerato. I catusi sono incastrati uno nell’altro a formare la tubatura; alcuni sono intatti, altri sono lacerati come vene senza sangue e mostrano l’interno colorato in diverse sfumature di rosso, arancio, amaranto, rosa.
Ogni tubatura portava l’acqua a una sola casa. Quel sistema di approvvigionamento idrico risaliva al periodo della conquista islamica – undici secoli fa; identico a quello usato in Siria, è stato funzionante fino ai primi del Novecento. Ho alzato gli occhi: l’intera parete della torre, fino alla cima, era tutto un intersecarsi di tubi e allacci. Di queste torri ne sono state censite una trentina. Alcune sono relativamente recenti e intonacate, perfino con decorazioni in stile liberty.
Il convento delle Cappuccinelle ne ospita due. La più interna è in stato di abbandono, sembra un altissimo obelisco sgretolato. Una scala di ferro, con sbarre sottili per pioli, raggiunge la cima da un punto lontano, forse nel chiostro, come un ponte. Sulle pareti vedevo mozziconi di scala ancora attaccati alle pietre della torre, senza inizio né fine. Una seconda scala sembrava sbucare da un’apertura laterale, poi si spezzava e rimaneva sospesa nel vuoto. Surreale come un’architettura di Escher. L’altra torre è in migliori condizioni. Una scala di ferro all’apparenza intatta l’avvolge come un serpente nero. Da questa si diramano e si intersecano altre scale, tutte con i pioli. A un metro dalla cima, una rampa si trasforma in ballatoio, sul quale forse lavoravano in piedi, uno accanto all’altro, i fontanieri, come noi chiamiamo gli idraulici.
Le torri d’acqua funzionavano con il sistema dei vasi comunicanti. L’acqua scendeva dalle sorgenti sulle colline attorno a Palermo e la raggiungeva lungo canali sotterranei leggermente inclinati, i qanat, costruiti dagli ingegneri arabi. Formava pozzi per l’irrigazione degli agrumeti e fontane per i poveri, poi, sfruttando la pressione, saliva nella torre attraverso un condotto rivestito di materiale impermeabile e si raccoglieva in cima, in una vasca di ardesia. Da lì partivano gli allacci e i catusi che la conducevano nelle case private. L’erogazione era regolata rigidamente; i fontanieri salivano sulla torre più volte al giorno per distribuire l’acqua nelle diverse condotte. E così è stato fino agli inizi del secolo scorso. Era una Palermo totalmente diversa, perfettamente visibile eppure ignorata dai palermitani.
Ho capito di non essere affatto l’acuta osservatrice che avevo sempre pensato di essere: ero passata tante volte dalla porta d’Ossuna e dalla strada delle Cappuccinelle, quando scrivevo il romanzo La monaca avevo perfino visitato il convento – eppure non mi ero mai accorta di quelle torri. Come me, però, tanti altri: e proprio grazie all’indifferenza dei palermitani, le torri d’acqua, capolavori dell’ingegneria idraulica araba, sono rimaste indisturbate nei secoli, protettrici della salute del popolo e del verde urbano che abbellisce la mia città.

Simonetta Agnello Hornby

SCIASCIA SPIEGA A CHE SERVE LO STUDIO

$
0
0


Elvira ed Enzo Sellerio, Nino Buttitta, Leonardo Sciascia e Vincenzo Tusa


Una storia semplice di Leonardo Sciascia. Dialogo tra il magistrato e il suo vecchio professore di lettere.

«L'italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica...».
«L'italiano non è l'italiano: è il ragionare», disse il professore. «Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto».


La battuta era feroce. Il magistrato impallidì. E passò a un duro interrogatorio.


Ecco spiegato in poche righe a cosa dovrebbe servire  lo studio della lingua italiana. Ma, come si sa,  l'istruzione e la scuola oggi servono ad altro (altro che buona scuola! ).

LOVE & PEACE. Underground 1964-74.

$
0
0

«Peace & love».Underground 1964-74, anni «gioiosamente ribelli» 

Giuseppe Culicchia


C'è stato, su questo pianeta, un tempo nemmeno troppo lontano eppure distantissimo dal nostro, in cui l'India era l'Altrove e l'Afghanistan un fiabesco paese medievale. In entrambi i luoghi, ignari della globalizzazione e delle guerre a venire e affollati di santoni e monaci e spacciatori, si arrivava da Brera in autostop o a bordo di pulmini Volkswagen, magari strappando il passaporto in qualità di cittadini del mondo: una Brera e un mondo va da sé assai diversi dalle attuali versioni 2.0. In Sicilia, la comune di Terrasini era una sorta di tappa propedeutica sulla via per gli Ashram di Poona. A Torino Gianni Milano si faceva conoscere come «il maestro beat». A Roma, il solito Giuliano Ferrara si esibiva al Piper in veste di cantante e ballerino in un'opera insieme lirica e pop ispirata alle canzoni di Bob Dylan e naturalmente alternativa, non solo al «potere costituito», come si diceva allora, ma alla famiglia in quanto istituzione e alla società borghese, messe in discussione a San Francisco come a Trastevere dai cosiddetti capelloni, o se preferite dal movimento hippy. Intanto, Marcello Baraghini apriva le porte della sede del Partito Radicale ai ragazzi che con i loro sacchi a pelo si davano appuntamento sui gradini di Piazza di Spagna. Anita Pallenberg e Gabriella Ferri, due matte scatenate, frequentavano in minigonna il giro degli artisti al Caffè Rosati. Romina Power scopriva come tanti Gibran e Hermann Hesse. Quanto a Fernanda Pivano, invitava tutti nel suo salotto di design, lì dov'erano appena passati Jack Kerouac e Allen Ginsberg, a dire di alcuni «un po' guardona».
Fa una certa impressione, oggi che l'India è una potenza nucleare e in Afghanistan si viaggia a bordo di mezzi blindati leggere Underground Italiana, racconto corale degli anni «gioiosamente ribelli della controcultura», curato da Matteo Guarnaccia e ottenuto dalle voci di chi all'epoca, più o meno ventenne, sognò di cambiare il mondo all'insegna dello slogan «peace & love», anche precipitandosi a Firenze per dare una mano all'indomani dell'alluvione: salvo poi dover fare i conti con la realtà, e dunque non solo con le retate della polizia ma anche con il servizio d'ordine di Lotta Continua e con l'eroina. Tra concerti pop e feste macrobiotiche, sit-in di protesta contro l'intervento americano in Vietnam e orge lunghe tre giorni corredate da cataloghi di droghe, i ricordi si affollano: chi a causa della chioma veniva sospeso da scuola, chi strafatto di Lsd badava ai bambini in un asilo autogestito, chi faceva ritorno dall'India con i pidocchi e la dissenteria e dieci chili in meno, chi scappava di casa e fondava una comune di fronte a San Vittore, chi finiva nel carcere omonimo.
Tra i sostantivi e i nomi ricorrenti, energia, Jimi Hendrix, Chilum, rivoluzione, Himalaya, utopia, Londra, Re Nudo, amore libero, libertà. E ovviamente 68. Dinni Cesoni, ex attivista del Movimento delle Comuni, tira le somme: «ci hanno ucciso con una overdose di consumismo e ideologia, ci hanno fatto credere che tutto era moda. Hanno fatto in modo che parole come hippy, India, underground diventassero impronunciabili. Poi ci si sono messi anche i compagni che in un delirio di follia hanno iniziato ad ammazzare la gente. Per il potere, da un certo punto in poi, tutti erano brigatisti e hanno spazzato via tutto».
Underground Italianaè il racconto del decennio 1964-1974 visto attraverso gli occhi di chi credeva che la sola vera ricchezza fosse avere il tempo per vivere le proprie esperienze. Tra tenerezze e rivendicazioni, nostalgie e paraculaggini assortite, molti di quelli ancora in vita devono dire oggi di essere finiti in un «bad trip». "Energia, Jimi Hendrix, Chilum, rivoluzione, Himalaya, utopia, Londra, viaggio, Re Nudo, amore libero..."

Da “La Stampa TuttoLibri” 21 gennaio 2012

IL CINEMA AI TEMPI DI H. BOGART

$
0
0




Sessant'anni fa moriva Humphrey Bogart, il più grande attore del noir. Eroe malinconico, conquistava lo spettatore con lo sguardo disincantato e il sorriso amaro. Rivedendo i suoi films si capisce l'imbarbarimento di gran parte del cinema d'oggi che per creare emozioni sa solo utilizzare effetti speciali, esibizioni muscolari, inseguimenti in auto e fiumi di sangue.

Alberto Manguel

Quando diventammo Bogart

Di solito le facce degli attori sono immediatamente riconoscibili, come marchi o loghi nel vocabolario mitologico della nostra epoca. Gli uomini e le donne invecchiano, ma le loro facce diventano congelate nel tempo, nell’istante della loro massima venerazione: la faccia di Charlie Chaplin a trent’anni, quella di Marilyn Monroe a venti, quella di Anna Magnani a cinquanta.

La faccia di Bogart — lo sguardo inflessibile, la sigaretta appesa alle labbra, la mascella bellicosa — è diventata un’icona in un’età imprecisata, né giovane né ancora anziana. Sulle locandine dei suoi film, dal Mistero del falco a Casablanca, il volto che ci fissa con aria… — come? Sprezzante? Beffarda? Minacciosa? — sembra senza età. Nello slang americano del XXI secolo, to bogart significa tenersi stretto qualcosa egoisticamente, per esempio una canna.

Walter Benjamin è famoso per aver osservato che una volta che un’opera d’arte viene riprodotta, diventa riproducibile all’infinito. Per dirla in altre parole, se si lascia che un’immagine venga moltiplicata più volte nello stesso identico modo, genera di per sé una sorta di monotona immortalità. Aby Warburg (celebre critico d’arte, ndt) affrontava il problema da un altro punto di vista e distingueva tra un’immagine che viene fatta resuscitare e una che sopravvive senza mai scomparire dal nostro immaginario. Quest’ultima condizione la definiva «l’oltretomba delle immagini» e la comparava a quei fantasmi senza età che continuano a essere presenti fra noi anche dopo che sono morti.

La rappresentazione artistica di solito ricerca la singolarità, ma spesso viene infettata dalla potenza di questo “oltretomba”. I romani ne erano consapevoli quando riproducevano immagini dei Cesari che diventavano simboli del potere imperiale separati dalle caratteristiche psicologiche individuali o dalla ritrattistica biografica terrena, come anche, più tardi, la figura del Cristo nelle sue varie rappresentazioni (il Cristo nel presepe, il Cristo sofferente, il Cristo sulla croce). E ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

di Benjamin, il processo è diventato più semplice, se non obbligatorio. Un’opera teatrale, quando viene messa in scena, esiste in uno spazio e un momento specifici, un film invece esiste sub specie aeternitatis. È questo che rende così pregnante la scena in cui Norma Desmond guarda e riguarda sullo schermo le immagini di lei più giovane, in Viale del tramonto: invecchia ma al tempo stesso rimane giovane, il suo fantasma fissato in eterno sullo schermo impietoso.

Gli attori che fanno il salto dal palcoscenico allo schermo o viceversa lo fanno a loro rischio e pericolo: l’immortale Sarah spezzava i cuori a teatro, ma suscitava risatine soffocate su pellicola; Al Pacino, di certo una delle star più elogiate di Hollywood, è stato fischiato nella sua esecuzione di China Doll a Broadway. L’immagine riprodotta meccanicamente e l’immagine creata ex novo ogni sera richiedono qualità recitative differenti.
Ma esistono attori che per qualche oscuro motivo hanno successo in entrambi i regni, e sono in grado di produrre una performance completa sul palco e un’interpretazione taglia- e-incolla per lo schermo. Humphrey Bogart era uno di questi. Cominciò la sua carriera in teatro nel 1921, nel ruolo di un cameriere giapponese che aveva solo una battuta, con accetto pseudo-orientale: «Da bele pel mia signola e suoi molto onolevoli ospiti». Qualche anno dopo, diede prova del suo talento ne La foresta pietrificata di Robert Sherwood, in cui interpretava la parte di un omicida evaso in modo talmente convincente che il pubblico si lasciò sfuggire un grido di orrore la prima volta che entrò sul palco.

Un critico fortunato, che aveva assistito a una delle rappresentazioni e successivamente aveva visto la versione cinematografica, disse che i tic nervosi e l’aura di malvagità che emanava Bogart sul palcoscenico nel film si erano mutati in qualcosa di molto più freddo e meno espressivo.

Sul grande schermo, Bogart ti ipnotizzava perché non faceva quasi nulla. Quello sguardo freddo in cui gli spettatori leggevano qualcosa a metà strada fra astio e disprezzo, quelle posture sgraziate giudicate estremamente virili, e in particolare quell’eloquio strascicato che contrastava così efficacemente con i toni rochi di Lauren Bacall, venivano ripetuti film dopo film in modo quasi identico. Le sue partner cambiavano — la Bacall, Mary Astor, Katharine Hepburn — il contesto cambiava — le strade malfamate nei suoi film di gangster, le dune desolate di Una pallottola per Roy, il fiume nella giungla de La regina d’Africa — ma Bogart rimaneva invariabile.

Che cos’è che fa di Bogart quasi un mostro sacro, nei nostri capricciosi vocabolari culturali? Certamente le caratteristiche stereotipate e ripetute dei suoi film, la famosa incuranza apparente dei suoi movimenti, per non dimenticare le memorabili battute che squadre di sceneggiatori gli fornivano per infondere vita a quel volto impietrito: «Se ti danno uno schiaffo, te lo tieni e ringrazi», «Non mi importa se i miei modi non le piacciono; in confidenza non piacciono neanche a me, ci piango su spesso, specialmente durante le lunghe sere d’inverno »; «La sola cosa che mi interessa della tua testa è quanto ci metterò a rompertela», e l’immensamente famoso «Louis, credo che questo sia l’inizio di una bella amicizia».

Tutto questo spiega in parte la fascinazione esercitata da Bogart. Si dice che il regista Rouben Mamoulian abbia consigliato alla Garbo, durante le riprese de La regina Cristina, nella scena in cui lei fissa il mare notturno dal ponte della nave, di «non pensare a nulla». In quei lineamenti vuoti gli spettatori leggevano fiumi di angoscia esistenziale e desiderio. Lo stesso si può dire, in buona parte, su Bogart.

La Repubblica – 28 gennaio 2017

UN CONVEGNO SUI MILLE VOLTI DELLA SICILIA AL LICEO UMBERTO DI PALERMO

$
0
0




Ecco in anteprima il programma del Convegno organizzato dal Liceo Umberto di Palermo sui mille volti della Sicilia:



CONVEGNO UMBERTINO - L’ISOLA CHE C’E’
Studi e riflessioni sulla cultura in Sicilia
Liceo classico Umberto I – Palermo
14, 15, 16 febbraio 2016


PROGRAMMA

Martedì 14 febbraio ore 9-13 Aula magna
§  GAETANO DE BERNARDIS  - Pirandello e la follia
§  MARIO RE – “Giorgio di Antiochia e i Greci di Palermo (XII-XIII secolo
§  Intervento degli alunni: II B – II C - La scoperta di Cerere GIUSEPPE VENTIMIGLIA – “Don Parrino

Mercoledì 15 febbraio ore 15,30-18,30 – Teatro delle Arti- Sede Succursale
§  FRANCESCO VIRGA – “La Sicilia di Sciascia
§  Clelia Calandra (II D) Presentazione del libro Anima Pezzi di me
§  Aurora Mazzola (II D) “Miti greci di Sicilia”
§  MARIO PINTACUDA – “L'italiano regionale della Sicilia
§  BERNARDO PULEIO – “La Sicilia immobile: un'invenzione della letteratura?

Giovedì 16 febbraio ore 9-13 Aula magna
§  TIZIANA BARBARO e FRANCESCO CACCIOPPO - LORA: UNA VOCE DELLA SICILIA
§  ANGELA CARUSO – “Sicilia: lisola plurale
§  Intervento degli alunni: I D
§  DANIELA MUSUMECI – “Le fascianti

SULLA PAURA DELLO STRANIERO

$
0
0

Questo saggio è uscito nel sesto numero monografico di Lettera. Quaderno di clinica psicoanalitica (Mimesis), intitolato Lo straniero, il nome dell’uomo. Psicoanalisi e forme dell’alterità. Gli scritti che ne fanno parte parlano del soggetto umano, che secondo la psicoanalisi è per definizione «straniero a se stesso», e del rapporto con l’altro da sé




Lo straniero interno


di Alberto Russo

Di fronte agli atti terroristici che hanno colpito l’Europa in questi ultimi due anni, è sorta spesso, inevitabile, questa domanda: quale posizione occorre assumere rispetto a quei soggetti che diventano l’incarnazione di atti capaci di instillare l’angosciosa estraneità nel nostro corpo sociale?
Quando la reazione affettiva, immaginaria, di fronte a quelle vittime che sono doppi di noi stessi, non porta ad annullare completamente il riconoscimento dell’esistenza della soggettività del terrorista, cadendo nel tranello dell’odio mimetico, accettando il farsi dell’altro nemico più-che-straniero (Jean-Claude Milner), ci si ricorda che, nella maggior parte dei casi, i terroristi suicidi sono giovani, a volte addirittura adolescenti, e che, in molti casi, sono individui nati e cresciuti in Europa e sono cittadini europei.
Se riusciamo a sottrarci alla presa dell’odio speculare, possiamo percorrere un’altra via: quella di leggere il gesto di questi giovani in correlazione con la conformazione contemporanea dei legami sociali e dell’ordine simbolico; questo gesto può allora anche essere interpretato come un sintomo, dunque come un fatto di struttura che chiama in causa il fare comunità di tutti gli altri e dell’Altro; un gesto in cui, al di là dell’adesione alla “causa” dello jihad a livello dell’io, può leggersi, in estrema istanza, l’espressione di ragioni profonde, inconsce, nella forma di una provocazione tragica.
Ora, di fronte agli attentati compiuti sul suolo francese, il presidente Hollande ha ripetuto “siamo in guerra!”, e così ha fatto Angela Merkel per quelli compiuti sul suolo tedesco. Questa frase verbalizza senza mediazione il sentimento ostile prodotto inevitabilmente dall’attentato. È però molto di più dell’effetto di una posa retorica, finalizzata a mostrare di non perdere sintonia con gli elettori in un momento decisivo. Prendiamo il caso francese. Nel caso di attentati compiuti da cittadini francesi di origine straniera, questa frase si pone come riaffermazione della logica classica, rassicurante per lo Stato (e per i cittadini), di essere in guerra con un nemico straniero; è la negazione della realtà scomoda di vedere dei cittadini del proprio Stato compiere atti terroristici contro di esso e contro la collettività nazionale, un fatto che infrange la rappresentazione immaginaria di un corpo sociale il cui legame è garantito da principi giuridici laici e non etnico-identitari. Viene negata cioè la possibilità sovversiva che un individuo possa essere nato, cresciuto ed educato in un paese, possa essere giuridicamente cittadino di quel paese (e magari solo di quello), un elemento del suo corpo nazionale, e che nonostante tutto ciò possa sentirsi straniero, e straniero ostile. Se l’ostilità riguardasse altri cittadini in nome della realizzazione di un patto diverso tra il corpo nazionale e lo Stato, si potrebbe parlare di guerra civile, o di guerra partigiana, ma l’ostilità riguarda proprio il legame tra Stato e collettività nazionale. Ecco dunque che, al di là dell’odio speculare, inevitabile è il rimbalzare ovunque di questa domanda: perché un ragazzo nato e cresciuto in un paese “avanzato”, nel pieno della giovinezza, decide di farsi straniero e di  sacrificare la propria vita per nuocere il più possibile al suo paese?
Il carattere sovversivo di questa posizione rispetto allo Stato e alle sue esigenze di controllo può essere compresa rifacendoci alla metafora dello “straniero interno”[1] usata da Freud per indicare il rimosso, e a quelle di “interno escluso”, di “esteriorità intima” e di “estimità”[2], usate da Lacan per situare l’oggetto perduto (la Cosa). Queste metafore permettono di pensare in termini rigorosi la strategia sovversiva implicita nel farsi straniero del terrorista.
Il primo effetto ricercato è quello di infliggere una ferita narcisistica all’Occidente, incrinando la sua immagine di luogo privilegiato del pianeta, desiderato da tutti[3], come attesta quotidianamente l’epopea tragica dei migranti. Il terrorista straniero interno con il suo gesto esibisce il suo rifiuto profondo per i valori occidentali, ovvero per i valori della globalizzazione trionfante votata all’“autoesportazione”. Questo rifiuto pone l’immagine del terrorista come rovescio speculare di quella del migrante: il primo rifiuta, sacrificando la propria vita, la condizione che il secondo desidera al punto da rischiare la vita per ottenerla. Si potrebbe leggere il gesto del terrorista “interno-escluso” come un messaggio ai migranti: non troverete quello che cercate. I vostri figli, e i loro figli, e i figli dei loro figli, saranno sempre stranieri ed esclusi.
Il secondo effetto ricercato è quello di mettere a nudo l’incapacità di realizzare a pieno l’ideale del controllo. Il terrorista fattosi straniero, spesso impegnato nella dissimulazione della propria radicalizzazione prima di passare all’atto (taqiyya), rivelando l’impotenza dei sistemi di controllo poliziesco, li costringe a intensificare la loro attività, spingendoli di conseguenza al confronto con la loro potenzialità totalitaria. Così le destre, più o meno estreme, invocano ovunque misure anticostituzionali, e lo stato d’emergenza in cui viviamo da mesi è divenuto ordinario. In effetti, il manifestarsi del terrorista come straniero interno esaspera la fantasia ossessiva dell’intrusione (così intimamente connessa alla struttura dello Stato nazione), e si pone come sua paradossale conferma. A questa esasperazione contribuisce inoltre l’accresciuto flusso di migranti e di profughi dal Medio oriente e dall’Africa, un fenomeno che pone gli stati e la massa di fronte a un’umanità ridotta a bisogno, nella quale viene a incarnarsi, nella realtà, la scena familiare-rimossa (perturbante) scongiurata dall’Altro ipermoderno: “noi non manchiamo di nulla sulla terra”.
La vocazione prima dei discorsi di padronanza che dominano l’attuale organizzazione dei legami sociali (economia finanziaria, scienze mediche, telematica, show-business etc.), è garantire alla massa, elevando il bisogno a fondamento della realtà, l’evitamento dell’incontro con la propria fragilità, con la propria mancanza, attraverso la costruzione di dispositivi discorsivi (scientifici, polizieschi ecc.) finalizzati a creare l’illusione di un controllo della possibilità di morire. Sia l’azione del terrorismo suicida che i movimenti dei migranti rivelano l’impotenza di questi dispositivi, ponendosi come alterità irriducibili che il discorso di padronanza può provare a trattare solo con un’intensificazione della propria logica: attraverso pratiche che facciano in modo che lo straniero sia, prima ancora che posto all’esterno del corpo sociale, reso identificabile, visibile, distinguibile al suo interno (con il rischio di un ritorno del razzismo istituzionale). Appare dunque inevitabile in questo quadro il sorgere della relazione speculare angosciante tra migrante e terrorista estimo: “ogni migrante può essere un potenziale terrorista”.
Malgrado i meccanismi di difesa e le reazioni proiettive dei discorsi di padronanza, che fanno inevitabilmente il gioco della sovversione, una questione insiste: che cosa di profondamente intimo, che cosa di più proprio del legame sociale occidentale si manifesta nell’attuale farsi stranieri dei giovani connazionali di origine straniera? Questo “che cosa” deve essere ancora pensato rigorosamente. Una cosa però è certa: la buona novella neoliberale, che sotto l’egida della globalizzazione economica canta l’avvento di un’unica umanità consumistica e pacifica, senza frontiere, mostra oggi la sua inconsistenza. La logica bellica del “siamo in guerra” vorrebbe poter semplificare le cose: chi compie atti contro la “nazione”, rivendicandosi straniero, è uno straniero. E invece, nell’accettare la rivendicazione del soggetto radicalizzato a farsi straniero, la logica bellica conferma spesso maldestramente una verità della sua condizione sociale: al di là della legge, egli era già straniero, lo era a un livello simbolico molto più fondante di quello del diritto.
L’assunzione, da parte del cittadino discendente da migranti, di una posizione di assimilazione allo straniero ostile (posizione del nemico esterno) può dunque essere letta come meccanismo di difesa, come un plus-identificarsi (Fethi Benslama) a un tipo di identificazione negativa già presente nell’Altro sociale. Tuttavia, il tratto comune (provenienza, religione) tra la componente straniera del cittadino discendente da un paese dell’Africa o del Medio oriente e l’identità dello straniero ostile non appare più come un elemento indispensabile a questa identificazione negativa. La radicalizzazione di giovani di classe media di origini europee induce a interpretare l’assimilazione allo straniero esterno nel quadro dell’indebolimento generalizzato delle appartenenze ideali e ideologiche, delle sublimazioni collettive e delle identità di genere che caratterizza la società a capitalismo avanzato.
Di fronte alla radicalizzazione, all’estraneazione dei soggetti rispetto al proprio (al nostro) corpo sociale, il discorso psicoanalitico permette di tenere aperto un orizzonte pedagogico autentico: cercare nel loro incontro con l’ideologia dell’islamismo la ricerca di una soluzione a problemi in cui il singolare si interseca con il sociale e con il politico nella sua attuale debolezza. È una strategia che richiede più forza della reazione puramente bellica e poliziesca, obiettivo della provocazione terroristica, il cui fine è proprio l’esasperazione del conflitto speculare, in cui l’Altro prigioniero dei discorsi di padronanza ipermoderni si rivela in tutta la sua fragilità.

[1]
Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie di lezioni (1932), in Opere, cit., vol. XI, p. 170
[2]
Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII., cit., pp. 119-165.
[3]
Alain Badiou parla di “desiderio di Occidente” per descrivere una soggettività tipica del mondo contemporaneo (che riguarda la gran parte dell’umanità), animata dal “desiderio di possedere, di condividere ciò che viene vantato ovunque come il benessere occidentale. […] Ciò origina manifestamente dei fenomeni come i flussi migratori”; Alain Badiou, Il nostro male viene da più lontano, Einaudi, Torino, 2016, p. 40.


[Immagine: Immagine: Martin Parr, La Goutte d’Or, Paris]

Testo e immagine da  http://www.leparoleelecose.it/?p=26093

CHI GETTA FANGO SU PAPA FRANCESCO?

$
0
0
I manifesti affissi a Roma contro il Papa 

Si era capito da tempo che Papa Francesco non era amato da tanti alti prelati e da tutti i sepolcri imbiancati che predicano bene e razzolano male. Gli incredibili manifesti che hanno tapezzato mezza Roma lo dimostrano. (fv)
La critica ai manifesti contro il papa di padre Spadaro
«A Roma sono apparsi manifesti anonimi finto-popolari e ben pagati contro Papa Francesco», ha commentato su Facebook padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, gesuita assai vicino al Papa. «È il segno che sta agendo bene e sta dando molto fastidio. Quei manifesti sono minacce e intimidazioni. In finto romanesco per tentare di far credere che siano popolari. Macché! La gente vera non discetta sull’ordine di Malta, o su canonistici “dubia” cardinalizi. Ma per carità! Dietro c’è gente corrotta e ci sono poteri forti che montano strategie per staccare il Papa dal cuore della gente, che è la sua grande forza. E il risultato è l’effetto l’opposto».

IL MALE OSCURO DI GIUSEPPE BERTO

$
0
0



Il grande romanzo sperimentale. Il male oscuro di Giuseppe Berto


di Niccolò Scaffai

Se Zeno avesse voluto e potuto raccontare la verità, avrebbe scritto qualcosa di simile al Male oscuro. Il capolavoro di Giuseppe Berto uscì nel 1964, quasi diciotto anni dopo il fortunato Il cielo è rosso, cui seguirono tra gli altri Il brigante (accolto assai peggio dalla critica, in particolare da Emilio Cecchi) e Guerra in camicia nera. Già volontario in Abissinia (e fresco di laurea a Padova), Berto si era arruolato nella Milizia fascista. Catturato in Nord Africa nel ’43, era stato internato negli Stati Uniti, dove in un campo di prigionia nel Texas conobbe, tra gli altri, Alberto Burri. Tornò in Italia nel ’46, a trentadue anni (era nato a Mogliano Veneto nel 1914); con sé aveva i manoscritti di alcuni racconti e il testo di Il cielo è rosso, che Longanesi pubblicherà di lì a poco. Il successo arrivò subito, ma quando più tardi Berto scrisse Il male oscuro– in circa due mesi, nel ritiro di Capo Vaticano – il clima letterario e civile era ormai profondamente mutato rispetto agli esordi. Dopo i suoi primi romanzi, Berto era considerato un neorealista – lo ricorda l’autore stesso, in uno scritto di commento al Male oscuro. Ma già nel 1950 «il neorealismo era finito perché era finita anche l’ultima illusione che uno scrittore potesse essere tra i protagonisti della vita d’un paese». D’altra parte, la crisi del neorealismo «portava lo scrittore alla libertà»; occorrevano «una maggiore penetrazione psicologica» e «un linguaggio più curato e complesso» – commenta Berto – e fu allora che «venne la nevrosi». Il male oscuro è appunto il memoriale di quella nevrosi (non di una generica depressione, sebbene oggi l’espressione ‘male oscuro’ sia usata indistintamente per definire la sofferenza psicologica), della sua radice nel rapporto con l’autorità super-egotica del Padre (il narratore definisce il racconto come storia di una «lunga lotta col padre»), del suo alimento nella fatica inappagata della scrittura (il protagonista è uno sceneggiatore malpagato, che non riuscirà mai a finire un suo romanzo, il ‘capolavoro’), della sua causa scatenante nel male fisico, delle sue conseguenze nella crisi coniugale e nel distacco dalla famiglia. L’aver abbandonato, per disgusto, il padre sul letto di morte ha generato nel figlio un senso di colpa che lo porterà ad attribuire alla postuma vendetta paterna ogni caduta e malessere patito; e guarigione non vi sarà, se non accogliendo quella vendetta e finendo per assomigliare al padre e ripeterne i gesti.
Molto di ciò che Berto racconta corrisponde alla sua biografia, eppure non è questa la più importante verità del Male oscuro. Non è la verità che il libro dice, bensì la verità di cui è fatto; la sua sostanza, cioè, non consiste in una fedeltà, ma in una forma narrativa. Per questo, l’antenato del personaggio che scrive ‘io’ nel romanzo di Berto, pur così direttamente autobiografico, è il narratore Zeno, non l’autore Svevo. Così come il suo fratello maggiore è Gonzalo: proprio dalla Cognizioneè prelevata, del resto, l’espressione ‘male oscuro’. (Ma nel carattere del personaggio entrano pure certi connotati pratici della macchietta satirica, di cui si nutre all’epoca anche la commedia all’italiana).
Non sono pochi i contatti e le somiglianze tra i romanzi di Svevo e Berto, a cominciare dal tema della morte del padre; più in generale, comune ai due libri è lo scenario enunciativo, cioè la psicanalisi come istigazione alla scrittura di un memoriale. Non mancano altri specifici segnali allusivi (è un caso che il protagonista del Male oscuro insista per chiamare la figlia ‘Augusta’, come la moglie di Zeno?) e le immediate citazioni: «pare che la psicoanalisi non danneggi la capacità creativa di un artista, anzi si potrebbe dire che la esalti come dimostrato ad abundantiam dal caso di Italo Svevo». Proprio il confronto con La coscienza di Zeno, tuttavia, aiuta a capire quale diversa disposizione nei confronti della verità narrativa assuma il protagonista di Berto. La «distanza tra Svevo e Berto, verificata direttamente sulla pagina, appare incolmabile»; a osservarlo, giustamente, è Emanuele Trevi nel saggio che correda ora, insieme a una postfazione di Gadda (da «Terzo Programma», 1965), la nuova edizione del romanzo: Giuseppe Berto, Il male oscuro, Vicenza, Neri Pozza Editore, pp. 512, euro 18,00.
Per il narratore del Male oscuro, raccontare non significa camminare sul bordo di un vuoto, facendo della reticenza e della bugia un sistema retorico, una chiave per accedere ai sensi impliciti. Nel Male oscuro, il vuoto viene saturato da un’unica eloquente diceria: la pagina, perciò, non è più un velo, come quello che Zeno stende tra sé e il passato, ma è una tela ossessivamente riempita di caratteri, in cui i motivi essenziali si ripetono, appena intervallati dalle virgole. Queste, d’altra parte, anziché organizzare il discorso, gremiscono una pagina già fitta come un quadro di art brut. La verità non è, perciò, questione di controllo ed equilibrio, ma di esplicitazione ed eloquenza. Un horror vacui verbale, non meno sintomatico della menzogna, in cui si realizza lo stile psicoanalitico di Berto.
Si può paragonare (non assimilare) questa modalità con il flusso di coscienza; ma è più utile riflettere sulla poetica implicata da una simile scrittura, cioè sulla posizione che, attraverso lo stile, questa scrittura e il suo autore occupano nel campo letterario a loro contemporaneo. È lo stesso romanzo a dare le coordinate, accennando alla cura «di cui ora molti parlano […] alquanto superficialmente come del resto fanno anche certi romanzieri nostrani per i quali il tocco psicoanalitico è dato dal particolare che Antonio da piccolo tirava la coda al gatto». Gli scrittori dal «tocco psicoanalitico» usano la materia per alludere senza dire, costruendo il racconto intorno a un nucleo, a un nodo pulsionale o traumatico taciuto, o meglio non commentato. Berto all’opposto fa di quel nodo il tema di una continua affabulazione disperatamente polemica e umoristica, che procede avanti e indietro nel tempo come una lancetta mossa ad arbitrio sul quadrante.
Se il male è oscuro, Berto sfida l’oscurità come tecnica narrativa e prospettiva conoscitiva. È una sfida sofferta e, nella vicenda del protagonista, perduta. Le diverse istanze – la scrittura, la paura del male e la cura, l’eros misogino – non si conciliano e anzi producono lacerazioni sempre più profonde, perdita affettiva, sconfitta professionale. Fino al conclusivo isolamento, che sfata il clima di un’epoca, gli ideali di progresso, la meccanica dell’ascesa sociale. L’aspirazione alla gloria letteraria resta insoddisfatta, l’ambizione di rivaleggiare con quelli che il protagonista chiama i ‘radicali’ – gli intellettuali di successo, i Moravia, i Tecchi, i Bellonci – viene frustrata. Ma la frustrazione diventa una risorsa del racconto, permettendo al narratore di dipingere con la tinta del suo amaro umorismo la società culturale romana – gli scrittori di riferimento, i produttori, gli sceneggiatori «ai tavolini di Canova o Rosati a piazza del Popolo, o al caffè Greco […] o ai caffè di via Veneto» – e di prendere contropelo quel tratto di Novecento spesso idealizzato con nostalgia un po’ elitaria. In quella frustrazione, si sconta certo anche la convinta militanza giovanile dell’autore dalla parte sbagliata. Ma il sentimento è elevato a stile e assunto come espressione idiosincratica del mondo: nel Male oscuro, osserva Gadda, il racconto di una nevrosi s’incrocia con quello di una psicosi, i «cittadini e cittadine della Città folle vengono colti e ritratti nei loro giudizi sbagliati, nei loro movimenti sbagliati».
Il male oscuro è un libro di peculiare importanza e di miglior tenuta rispetto ad altre opere emblematiche o programmaticamente sperimentali uscite negli stessi anni. Per almeno due motivi. Il primo è la rappresentazione di «un tempo in cui tutto va per via di amicizie e raccomandazioni», che somiglia al tempo in cui viviamo, tentati in pari misura – come l’eroe fallito di Berto – dalla rivolta e dalla rinuncia; oppressi e attratti da estinti modelli paterni, imbarazzati dal futuro (come il protagonista dinanzi alla figlia ormai cresciuta). Il secondo motivo è la scrittura, che resta leggibile anche nell’oltranza dello stile; una scrittura fatta per raccontare la realtà di tutti, attraverso il sentire patologico di un individuo che parla sempre di sé – è vero – ma che lo fa reagendo alle ossessioni di un’intera società.

Da   http://www.leparoleelecose.it/?p=26113

LUIGI PINTOR LEGGE GIOBBE

$
0
0

La pazienza di Giobbe

È facile leggere la Bibbia. Si trova nei comodini degli alberghi come le saponette nei bagni. È meno facile capirla.
La pazienza di Giobbe è un modo di dire che non rende giustizia al personaggio. Era un instancabile combattente capace di tener testa al suo dio che lo trattava come uno straccio. Ma forse Junior non sarebbe d'accordo con questa interpretazione.
«Maledetto il giorno in cui son nato e la notte in cui fui concepito! Quel giorno sia solamente tenebre... Quella notte sia preda dell'oscurità... Sì, quella notte sia sterile, neanche un grido di gioia vi risuoni... Sia maledetta perché non impedì la mia nascita, una vita di dolori e di affanno. Perché non sono morto nel grembo di mia madre?» (Libro di Giobbe).
Bisogna essere molto sinceri e liberi di mente e di cuore per lanciare un'invettiva così forte. Non in un momento di disperazione e di odio ma con lucida determinazione, senza mordersi la lingua un momento dopo, senza limitarsi a covarla in seno ma gridandola al cospetto di tutti.
Luigi Pintor, Il nespolo, Bollati Boringhieri, 2001

SULLA TRAGEDIA CURDA

$
0
0


Sempre meno si ricordano le crudeltà turche, russe, iraniane, irakene, siriane contro i Curdi, una grande etnia, forse una nazione, divisa tra quattro o cinque stati e sottoposta a discriminazioni, nel tempo più o meno gravi e pesanti, in ciascuno di essi.

Neanche l'Armata Rossa si sottrasse a questa orribile pratica durante la guerra civile che seguì la Rivoluzione di Ottobre e che ebbe tra i suoi teatri il Caucaso e le regioni della penisola iranica che erano state conquistate dagli zar nel corso dei secoli.Viktor Sklovskij, che nel 1919 fu commissario dell'Armata Rossa in quelle regioni che chiama semplificando “Persia”, nel Viaggio sentimentale che raccoglie i suoi ricordi degli anni 1917-1922, dedica diverse pagine alla tragedia dei curdi. Ne ho qui ripreso una, particolarmente significativa.(S.L.L.)

Eravamo abituati ai mendicanti. Intorno a ogni accampamento si aggiravano bambini di forse cinque anni, con addosso un solo cencio nero a mo' di camicia; avevano gli occhi tracomatosi e assediati dalle mosche. Curvi, grufolavano con mosse istintive di animale stanco nei rifiuti, cercando qualcosa di commestibile. Di notte si raccoglievano vicino alle cucine per scaldarsi. Pochi, fra i più grandicelli, furono assunti nelle unità come inservienti. Gli altri morivano silenziosamente e lentamente; come sa morire un essere umano infinitamente tenace.
Lasciammo Gajderobat. Percorrevamo ora strade appena abbozzate, dove ancora formicolavano persiani e curdi, sorvegliati dai nostri genieri, ora direttamente sul terreno salino. In un punto la macchina si mise a slittare e uscimmo a stento da una palude salata a forza di mettere erba secca sotto le ruote.
Ci imbattemmo in villaggi distrutti. Avevo visto molte distruzioni; i centri abitati e le case della Galizia quasi interamente frantumati, ma la vista delle rovine persiane era nuova per me.
Una casa costruita con argilla e paglia diventa un mucchio di fango se le si toglie il tetto.
La strada continuava, sterminata come la guerra. Tutte le strade di guerra sono vicoli ciechi.
Sui terreni salini incontrammo mandrie di cavalli. Non avevamo, come ho detto, foraggi a sufficienza, non avevamo di che sostenere i cavalli sfiniti. Non valeva la pena di nutrirli, non bastava la compassione per ammazzarli, venivano cacciati nella nuda steppa perché si procacciassero il cibo sa sé. Morivano lentamente. Io passavo oltre.
A proposito di compassione. Mi avevano descritto il quadro seguente. Un cosacco in piedi. Davanti a lui un lattante curdo nudo, abbandonato. Il cosacco lo vuol uccidere, gli vibra un colpo e si ferma a pensare, gliene dà un altro e si ferma ancora. Gli dicono: «Fallo fuori con una botta sola» e lui «Non posso: mi fa compassione».
Arrivai a Solozbulak. Una piccola città in una conca. Una volta famosa per le sue pellicce stampate d'oro. Il progrom era finito, avevano arraffato ogni cosa.
Andai al comitato di armata, radunai quelli del reggimento. Cominciai a parlare. Mi rispondevano, irritati, che i Curdi erano dei nemici. «Ogni curdo è un nemico», è il ritornello del soldato russo in Persia. Poi, subito si riprendevano e dicevano di essere contrari ai progrom.
Appresi strane cose. Oltre ai cosacchi del Kubàn e ad un reparto di sanità avevano preso parte al saccheggio... tutti indistintamente. Nei nostri convogli prestavano servizio, a titolo di mercenari, o che so io, dei molokàn (setta religiosa, ndr) con i loro tiri a tre. La combinazione era questa: molokan, duchobor, arapija bianca (tutti movimenti religiosi caratterizzati da fanatismo n.d.r.), misticismo, e chi più ne ha più ne metta... E tutta questa gente aveva partecipato alle ruberie, insieme agli artiglieri. Il comandante della divisione, mentre infieriva il progrom, si chiuse in casa e non ne uscì.
Sì: la storia non dimenticherà certe usanze nei confronti dei persiani e dei curdi.
Quando cominciava il saccheggio, i curdi – Solozbulak è una città curda – riparavano sui tetti insieme alle mogli senza portarsi dietro nulla e lasciavano la città in balia dei saccheggiatori. In tal modo evitavano lo stupro, non sempre beninteso.
Il dolore e la vergogna della polvere di pogrom si depositò nel mio animo e “la tristezza, come un esercito di negri, mi insanguinò il cuore”(è la seconda parte d'una frase tratta da una lirica persiana).
Non voglio essere il solo a piangere e dirò qualcosa di troppo doloroso per essere nascosto. Nel comitato di armata un soldato sosteneva con energia che nulla doveva essere tolto alla popolazione affamata. Occorre dire che la nostra armata, a differenza di alcuni corpi dell'armata del Caucaso, non soffrì la fame; si distribuivano non meno di 600 grammi di pane e la carne di montone era abbondante. Unica eccezione erano le vedette sui valichi montani. Quel soldato aveva portato dei campioni di pane curdo: era fatto di carbone e di argilla, con una piccolissima parte di ghiande. Non lo si volle ascoltare.

da Viaggio sentimentale, De Donato Editore, Bari 1966, trad. di M. Olsufieva.



FRANCO CARDINI, L' Oriente tra immaginazione e realtà

$
0
0


Franco Cardini

L’Oriente sognato dalla nave di Sindbad 

Nel film “Les visiteurs du soir” di Marcel Carné (tradotto in italiano come “L’amore e il diavolo”) si ascoltava fascinosa la voce di sogno del menestrello Gilles, un giovanissimo e bellissimo Alain Cuny, che al centro della sala di un adorabile castello falsomedievale di cartapesta cantava i versi di Jacques Prévert, i più belli forse che egli abbia mai scritto. Il film era la favola bella del maniero infestato dallo Spirito del Male e dell’amore che vince ogni cosa, che tutto purifica, che respinge e mette in fuga il demonio. Uscito nel 1942, era un messaggio di speranza per Parigi preda dell’incubo, prigioniera del faustiano sogno di onnipotenza del Necromante di Berlino e della sua armata che allora sembrava invincibile.

Quel verso indimenticabile, che associava demoni e incantesimi a meraviglie e maree, che sapeva di oceani e di leggende, evocava irresistibilmente un capolavoro ispirato a Le Mille e Una Notte: la musica della Sherazade di Nikolaj Andreievich Rimskij- Korsakov. Non era, non è l’Oriente: non quello “vero” che del resto – Edward Said ha ragione – non è mai esistito, è una proiezione dell’Occidente che del resto non esiste nemmeno lui. Eppure senza quel sogno, che per tanti versi ci definisce, noi che ci definiamo “occidentali” soffriremmo di un deficit identitario in più. L’Oriente ci avvolge, c’incanta, ci attrae e ci perseguita: e non è certo – grazie a Dio – quello del “califfo” al-Baghdadi.

Che cosa significhi in realtà quell’Oriente, tanto nella storia quanto nel nostro immaginario, lo spiega in questi giorni una splendida mostra proprio a Parigi, all’Institut du Monde Arabe, due passi da Place de la Bastille. Aventuriers des mers. De Sindbad à Marco Polo, visitabile fino al 26 febbraio (e poi dal 7 giugno al 9 ottobre a Marsiglia, al Musée des Civilisations de l’Europe et de la Méditerranée) vale la pena di un viaggio apposito. E non perdetevi il suo catalogo (pubblicato da Hazan).

Tema specifico della mostra (oggetti, documenti, manoscritti, maquette, filmati, una ricchissima cartografia) è in primo luogo lo sterminato mondo dei viaggiatori e geografi musulmani del medioevo: da al-Idrîsî (ca 1100-1165) a Ibn Jubayr (1145-1217) a Ibn Battûta (1304-1377); senza dimenticare però nemmeno il veneziano Marco Polo (ca. 1254-1324), il più celebre fra i viaggiatori europei.

Ma c’è molto di più di quanto viene promesso. Ci si trova davanti a un sorprendente coup d’oeil sulla storia del mondo, che sconvolgerà molti di noi assuefatti all’eurocentrismo e ai confini del Mediterraneo. Qui, il protagonista è appunto l’Oceano Indiano de Le Mille e Una Notte con il suo Ulisse arabo-persiano, Sindbad il Marinaio: e, in tempi di matura globalizzazione, questo rovesciamento di prospettive sarà per molti una vera e propria scoperta rivelatrice.

I romani conoscevano la “Via dell’Incenso” (o “delle Spezie”; o “degli Aromi”) che dall’estremità della penisola arabica conduceva preziose mercanzie provenienti via mare dall’India o dalla Cina. Essi avevano anche rapporti mercantili via terra, sia pur indiretti, con l’Estremo Oriente e con il “paese dei seres”, cioè dei produttori di seta: la Cina. Alessandro Magno si era del resto spinto fino all’India: e della sua avventura era rimasta una possente traccia leggendaria nella cultura occidentale.
I romani avevano però guardato soprattutto a quel mondo mediterraneo che conoscevano meglio: e i loro viaggiatori ed enciclopedisti (Pomponio Mela, Plinio il Vecchio, Solino) si erano dati nel tempo a riempire il vuoto di notizie a loro disposizione sul continente asiatico con una quantità di nozioni in parte rispondenti a una realtà spesso fraintesa o mista ad elaborazioni leggendarie.

La seta e le altre preziose merci giungevano al Mediterraneo attraverso le rapide ancorché pericolose rotte che rapide attraversavano, sfruttando il clima monsonico, l’Oceano Indiano; dall’estremità della penisola arabica si risaliva poi lungo le carovaniere fino a Damasco o si trasferivano i carichi per via d’acqua lungo il Nilo fino ad Alessandria.

Ma i cinesi, le spedizioni e le esplorazioni dei quali si spinsero pur fino al Golfo Persico, non dimostrarono mai per l’Occidente un entusiasmo o una curiosità pari a quelli che gli occidentali dimostravano nei loro confronti.

Del resto, noi avevamo molto da chieder loro (“le spezie” erano indispensabili per la medicina, la gastronomia, la tintura delle stoffe), ma praticamente nulla da offrire. D’altra parte, quello che può sfuggire a un occidentale odierno è che comunque, nel medioevo come nell’antichità, l’Europa altro non era che un piccolo e sottosviluppato annesso nordoccidentale della grande Asia.

Se gli europei sapevano dunque poco di quel continente, molto più di loro conoscevano gli arabi che erano abituati a viaggiare in quel continente e a commerciare con esso. E a partire dal VII secolo, con la nascita e l’espansione dell’Islam, si venne a creare un ponte continuo fra Oriente asiatico e Occidente europeo. Mediterraneo e Nordafrica ne furono i tramiti.

Fin dal IX secolo i mercanti del Golfo Persico frequentavano la Cina mentre le navi giavanesi giungevano, favorite dal regime stagionale dei monsoni, fino alla penisola arabica. Anche se per via di terra il commercio era florido, e il fascio carovaniero che noi chiamiamo la “Via della Seta” attraversava i deserti del Gobi e le oasi turkestane, furono soprattutto le vie d’acqua quelle che favorirono i commerci e gli scambi. Già nel VI secolo la produzione della seta si era impiantata a Bisanzio, anche se fu solo dal VII e dalla prima intermediazione araba che essa si fece più diffusa.

Insieme alla seta la produzione della carta di stracci, sostituto sia del papiro sia della pergamena, cominciò a diffondersi grazie agli arabi a partire dalla stessa epoca. Ma, oltre alla seta, altre merci viaggiavano sulle vie commerciali eurasiatiche. Le più richieste e pregiate erano l’oro e l’argento di Sumatra, della Malesia e della Corea; il sandalo, il bambù, l’albero della canfora da cui si estraeva un’apprezzata essenza; gli aromi come l’incenso e il muschio; le pietre preziose come rubini e zaffiri, provenienti da Ceylon o dall’India.

Altrettanto ricco era quello delle spezie vere e proprie: pepe, noce moscata, cannella (“cardamomo”), chiodi di garofano. Una sezione dell’esposizione parigina mette alcune di queste spezie in evidenza all’interno di teche: ed è una riscoperta, perché da generazioni certe sostanze un tempo familiari anche nelle nostre farmacie sono ormai scomparse.

E c’erano altre merci ancora, forse addirittura più importanti: strumenti scientifici, carte geografiche, libri, culti religiosi, idee, racconti. Di qui il richiamo, nel titolo della mostra, a Sindbad: se Marco Polo rappresenta il mercante europeo, sia pure affascinato dall’Asia, il leggendario marinaio delle Mille e Una Notte è il richiamo a una dimensione dell’immaginario che molto deve alla cultura indopersiana.

Sindbad, al pari del divino Ulisse, molto vide e molto soffrì: affrontò l’isola del Monte della Calamita che, attraendo il ferro, sfasciava le navi i cui scafi erano rafforzati da chiodi (i marinai dell’Oman lo sapevano…); sfidò l’immenso Uccello Ruk, un leggendario volatile del quale parla anche Marco Polo e di cui qualche decennio fa si occupò Rudolph Wittkower (1901-1971), il quale – indagando la “migrazione dei simboli” da est a ovest - ne ha individuato le origini nel combattimento tra l’uccello solare Garuda e il serpente ctonio Naga, entrambe figure del mito induista.
Ma esso ha un parallelo preciso in Persia, dove una creatura alata del tutto simile prende il nome di Simurgh. Dall’India e dalla Persia le storie e le immagini di questa creatura si diffusero verso il mondo turcofono dell’Asia centrale (e oltre, fino alla Cina) e da là al Caucaso fino a raggiungere la stessa Grecia: e il grifone che Dante incontra sulla cima del monte del Purgatorio forse ne dipende.

Questo commercio intercontinentale, per tanti versi poco noto, è stato la base reale della nostra prosperità moderna: e non stupirà se vie, rotte e mercanzie concretissime grondassero di leggende. Noi siamo fatti della stessa stoffa dei nostri sogni.

La Repubblica – 28 gennaio 2017

ITALO CALVINO, Una pietra sopra

$
0
0

Calvino dentro il labirinto della letteratura Renato Barilli

L'estensore di questa recensione si trova in un certo imbarazzo, dato che deve conciliare due atteggiamenti diversi presi, pur nel corso del tempo, di fronte alla saggistica di Calvino (come del resto anche alla sua opera narrativa). Quando infatti lo scrittore ligure pubblicò negli Anni 50 o subito dopo saggi famosi quali il «Midollo del leone», il «Mare dell'oggettività», la «Sfida al labirinto» (saggi che giustamente sono all'inizio della presente raccolta, Una pietra sopra, Einaudi, 1980), il sottoscritto non lesinò le critiche e le riserve. Successivamente invece il distacco o addirittura l'avversità si mutarono in accordo, in consenso via via crescente.
Che cosa è successo, chi è cambiato, l'autore o il lettore? Diciamo che si potrebbe parlare di un onorevole compromesso: l'autore è passato senza dubbio attraverso un'attenta autocritica, mentre il lettore, il critico si è deciso a lasciar cadere un metro non troppo adeguato al suo oggetto, vale a dire la pretesa di avere a che fare con uno scrittore «tutto d'un pezzo», coerente e radicale nelle sue scelte: laddove Calvino si dichiara, con volontaria e ironica adozione di uno stereotipo, «alieno da ogni estremismo», continuamente portato a giocare su vari registri e a praticare la figura retorica della palinodia: autore, quindi, in via di perenne metamorfosi quasi sotto i nostri occhi.
Nessuno ha saputo essere più duro di lui, a posteriori, sulla nostra letteratura degli Anni 50, ravvisandovi alcuni difetti fondamentali: quello di voler «rappresentare la coscienza etica e sociale dell'Italia contemporanea», ovvero di essere illustrativa di una verità già posseduta dalla politica, e l'altro, del resto confluente, di fare mostra di un «assortimento di eterni sentimenti umani»; dal che risultava anche un atteggiamento di paternalismo verso il lettore, guidato per mano sulla giusta strada. Ma nei saggi famosi che ho ricordato prima Calvino difendeva queste due ottiche, seppure con quella cautela, quel filtro dubitativo che sono connaturati alla sua personalità, e non senza avvertire il fascino degli idoli polemici, appunto il «mare dell'oggettività», vale a dire la decisione, di Robbe-Grillet e compagni, di farla finita con quella che altrove Calvino stesso chiama la «melassa di umanità»; e il labirinto, ovvero l'idea di un racconto che non si svolge linearmente: idea di cui egli stesso in seguito diverrà un fervente cultore.
Ecco perché era giusto, sullo scorcio degli Anni 50, polemizzare con «quel» Calvino troppo cauto, che non rompeva la solidarietà con l'«impegno», con l'umanesimo convenzionale, con la letteratura dei buoni sentimenti. Ma di tutto ciò egli subito dopo ha fatto onorevole ammenda, e ha ampiamente riconosciuto i meriti storici che allora spettarono alla neoavanguardia per aver allargato l'orizzonte della letteratura, adottando modelli aperti e problematici di interpretazione della realtà.
D'altra parte, dopo il periodo di scontro, non ci poteva neppure essere un incontro sulla base di un comune estremismo sperimentale: non potevano certo convenire a Calvino, né allora né in seguito, le ipotesi di una ricerca linguistica «bassa», tra il dialettale e l'onirico, o di una adozione normalizzata e quantitativamente espansa della «corrente di coscienza». Bisogna però ricordare che i teorici della neoavanguardia non puntavano tutte le loro fortune su questo solo blocco di strumenti; venne introdotta abbastanza presto anche la prospettiva di un ricorso alla comicità e all'ironia, oppure a una letteratura «artificiale», «al quadrato». Del resto, stava per sopraggiungere l'ondata dello strutturalismo a mutare il quadro dei contrasti, a far sparire i partiti opposti degli storicisti crociano-gramsciani e dei fenomenologi.
Le carte si rimescolano, e nel corso dei primi Anni 60 si costituisce un diverso blocco progressivo, appunto nel nome delle nuove metodologie analitiche e strutturaliste mutuate dalla linguistica Calvino vi aderisce in pieno, trovandovi anzi il clima più congeniale ai suoi mezzi. Si vedano le pagine sempre centrate che egli dedica alla letteratura intesa come artificio, come tessuto di elementi «discreti», come «ars combinatoria»: tutto l'opposto di un umanesimo sfumato e generico; e si aggiungano anche i validi amori a livello internazionale, le scelte omogenee a un tale assetto di fondo, indirizzate verso l'«oulipo» (Ouvroir de littérature potentielle) di Queneau e la patafisica di Jarry. Alle giuste prese di posizione teoriche fanno coerente riscontro le produzioni letterarie, dalle Cosmicomiche a Ti con zero al Castello dei destini incrociati; l'irrequietudine e la mobilità, che in passato apparivano più subite che amministrate, costituendo la spia di una insoddisfazione di fondo, ora risultano legittime, «interne» in qualche modo alla poetica assunta, che impone di «provare» senza sosta composizioni e formule diverse.
Questo Calvino maturo, disponibile, cosmopolita diviene quasi la coscienza della letteratura italiana più avanzata, e per esempio prende posizione in misura energica quando scoppia il caso della Storia della Morante, in cui è contenuta la minaccia di riportarci agli Anni '50, o forse anche più indietro, e cioè proprio alla «melassa di umanità» da Calvino così risolutamente denunciata. È vero che egli non manca di gettare una ciambella di salvataggio all'illustre collega, prospettando l'ipotesi che essa abbia voluto ritentare il «romanzo popolare», dove cioè l'umanesimo sarebbe assunto come stereotipo volontario; ma tra le righe è chiaro che egli denuncia la seriosità, l'assenza di distacco critico di quell'operazione, ovvero la pretesa di far piangere il lettore, il che equivarrebbe a ritrovare una superiorità paternalistica su di lui. A ciò Calvino risponde optando per due vie ben diverse: farlo ridere, che vuol dire essergli inferiore, essere il suo giullare, o fargli paura, che è un modo di stabilire un rapporto di complicità alla pari, in nome di un fine di intrattenimento piacevole, e non di edificazione.
Beninteso, anche in questa prospettiva pur così congeniale di una letteratura discreta, combinatoria, artificiale, Calvino non vuol fare l'estremista, andare fino in fondo. Sarebbe pertanto sbagliato valutarlo sul metro di Roussel, o di Robbe-Grillet, o di Borges, come pure è stato fatto di recente: egli si avvia di volta in volta per la loro strada, ma poi scatta un» meccanismo di palinodia, di controcanto, che magari lo vede impegnato a ritrovare un po' di umanità, o di mistero, o di mito. Non tutto avviene alla superficie, alla luce del sole. Calvino è troppo versato nelle attuali scienze umane, per potersi permettere di trascurare l'inconscio freudiano, o, secondo le sue stesse parole, «il mare del non dicibile».
È questo un alibi che gli consente di non affidarsi esclusivamente a una sola parte, ma di essere sempre, e letteralmente, altrove. Giungiamo così al recente Se una notte d'inverno un viaggiatore, ove le prese di distanza non avvengono solo verso ogni pretesa natura del racconto, ma perfino verso una sua artificialità, troppo scoperta e meccanica, nell'intento di ammorbidirlo, di dotarlo di un po' di carne e di consistenza naturale.

“Tuttolibri La Stampa”, 31 maggio 1980

EMMA GOLDMAN, Femminismo e anarchia

$
0
0

Da poco in libreria una biografia di Emma Goldman, militante anarchica che seppe vedere e denunciare già nella Russia di Lenin i segni di quello che poi sarebbe diventato lo stalinismo.

Alessandra Pigliaru

Lo sguardo obliquo di una insorta

Di Emma Goldman, pensatrice, anarchica, femminista, immigrata e irriducibile rivoluzionaria, si è detto e scritto molto – con maggiore trasporto dagli anni Settanta in avanti. Eppure la figura di questa «piccola Giovanna D’Arco», come sovente veniva chiamata da qualche giornalista che ne aveva incrociato – e ne temeva anche un poco – la forza politica, abitava il terreno del mito fino dagli anni Trenta del Novecento. Fascinazione comprensibile, a percorrere la sua vita sembra di stare dentro un romanzo straordinario. Uno di quelli che ha come protagonista l’esistenza tempestosa di chi nasce già insorta, a cavallo tra due secoli, facendo parte della storia e scrivendola. La storia degli ultimi, degli operai e delle operaie con cui si confronta Emma Goldman, la storia che la trafigge anzitutto nella coscienza incarnata che la interroga sulla sessualità, sulla riproduzione e il controllo delle nascite, sul suffragio e tanto altro ancora.
La storia di cui ha fatto parte Emma Goldman è insomma quella che ha nutrito un pensiero anti-capitalistico e capace di raccontare cosa significa il fermento libertario, quali le sue genealogie, le sue scommesse, come l’anarchismo. E il suo incontro con il conflitto della classe operaia, l’antimilitarismo contro il fanatismo della prima guerra mondiale, la rivoluzione russa prima, la guerra civile spagnola poi. Forse una vita non basta per reggere tutto questo, quella di Emma sì.

Disfare l’affronto di essere nata donna per un padre ottuso e autoritario, è il modo in cui Goldman debutta nella decostruzione simbolica del già dato. Sceglie di rimettersi al mondo, lo fa numerose volte. La prima, come lei stessa scrive, è il 15 agosto del 1889 quando a vent’anni arriva a New York.
Da Kovno (l’odierna Kaunas), cittadina portuale della Lituania, se n’era già andata tempo prima per raggiungere la sorella Helena che abitava nel Connecticut. Lì Emma confeziona corsetti in una fabbrica e segue laboratori di cucito che poco dopo, oltre alla sopravvivenza, le avrebbero dato il senso della relazione con le lavoratrici del tessile.

Frequenta circoli radicali e di operai, studia, ascolta, scrive, legge moltissimo, stringe rapporti con alcuni esponenti del movimento anarchico. Trascorre qualche mese e la figura di questa giovane donna, dapprima misteriosamente comparsa su un carretto a Union Square a tenere un discorso e a resistere alle cariche della polizia, diviene centrale sia sui giornali che all’interno del movimento.

Proprio in quei primi comizi di piazza la si ricorda avvolta da una bandiera. Era rossa, da qui – insieme alla furia mostrata contro ogni potere costituito – la nominazione di Emma the Red. E proprio Emma la Rossa (eléuthera, pp. 223, euro 16, prefazione di Normand Baillargeon, traduzione di Carlo Milani) si intitola il volume di Max Leroy che ne ripercorre la parabola cominciando dal fulgore di quegli anni di apprendistato alla rivolta.
Appassionato e all’orlo di una festa del cuore verso chi ha speso la propria vita per la libertà e la giustizia, il libro di Leroy propone un ritratto puntuale, servendosi di un apparato bibliografico interessante che conduce lettori e lettrici sulle tracce di Goldman, di ciò che ha scritto – due le opere che si ricordano principalmente: My Disillusionment in Russia (1923) e Living My Life (1931), la sua autobiografia (si dica per inciso che entrambe sono state tradotte in Italia tra gli anni ’70 e ’80 da La salamandra.

Di più recenti invece si segnalano Femminismo e anarchia, edito da Bfs con una splendida prefazione di Bruna Bianchi, e Anarchia e prigioni, edito da Ortica). Ulteriore pregio di Leroy è quello di aver tenuto conto della dedizione di biografi e in particolare biografe come Alice Wexler e Candace Falk (direttrice dell’Emma Goldman Papers Project che a Berkeley ha raccolto dal 1980 a oggi più di ventimila carte relative alla sua produzione e ai suoi scambi epistolari).
Se «lo Stato è un saccheggiatore al soldo del capitalismo», scrive convinta ripensando al suo arresto occorso all’età di 24 anni per incitamento alla sommossa, la maggiore oppressione viene inferta alle donne, ai bambini e alle bambine. Da quell’oppressione, gravida di nodi da sciogliere, e da alcune sue esperienze (non ultima quella di levatrice per cui segue un corso a Vienna), impara molto e si mette in cammino. Verso un femminismo che non la abbandonerà mai più; gli incontri più importanti sono due: quello con Voltairine de Cleyre, scrittrice e militante anarchica, e con Louise Michel, la «vergine rossa» deportata in Nuova Caledonia dopo la repressione della Comune di Parigi. Il resto è la lettura di Mary Wollstonecraft (così come nella sua formazione decisivi sono stati Henry David Thoreau e Michail Bakunin). Molti illustri esponenti del movimento anarchico la ammirano; da Johann Most, Edward Brady a Pëtr Kropotkin. A qualcuno concede di amarla.

In una lettera ad Aleksandr Berkman – compagno di lotte e presenza cruciale nella sua vita – nell’agosto del 1927, riesce a raccontare il tenore della sua differenza, quella in fondo che la sa consegnare alla gratitudine delle generazioni politiche successive: «Le sole teorie non sono sufficienti a smuovermi. Comprendere le nostre idee non è abbastanza. È necessario sentirle in ogni fibra come una fiamma, come una febbre divorante, una passione elementare».


Il manifesto – 20 gennaio 2017

T. TODOROV, un' altra grande perdita per la cultura

$
0
0
Todorov e l'arte come antidoto allo scontro di civiltà
Tzvetan Todorov

Todorov e l'arte come antidoto allo scontro di civiltà

Dario Pappalardo

L'arte, secondo Tzvetan Todorov, poteva salvare il mondo. O almeno contribuire a spegnere lo scontro di civiltà. È per questo che il filosofo, scomparso a Parigi a 77 anni, dopo una malattia, sosteneva che gli artisti fossero anche maestri del pensiero e di vita.

"L'artista creatore è incitato a sottrarsi al dominio del proprio interesse personale. Cosa può mettere al posto suo? L'amore del bello, rispondono i moderni, un amore modellato sul puro amore di Dio". Così scriveva nell'intervento Arte e morale, testo pubblicato adesso da Garzanti nel Caso Rembrandt, la monografia dedicata al pittore olandese, forse il più amato, ma non il solo.

Per Todorov, Cézanne, nel dipingere le sue famose mele, ha dovuto "sopprimere l'amore che nutriva per tutte le mele per concentrarlo sulla mela che dipingeva". Perché - ragionava lo studioso - il vero artista non piega il mondo ai propri gusti, ma gli si sottomette.

Accanto ai saggi fondamentali - da La conquista dell'America (Einaudi) a Resistenti (Garzanti), passando per La paura dei barbari. Oltre lo scontro di civiltà (ancora Garzanti, che ha tradotto gran parte delle opere) - c'è una bibliografia parallela di Todorov che attinge pienamente dalla letteratura e dalla storia dell'arte. Si può partire proprio dal saggio La bellezza salverà il mondo in cui Oscar Wilde, l'amatissimo Rainer Maria Rilke e la poetessa russa  Marina Cvetaeva rappresentano non solo tre grandi autori, ma altrettanti maestri vissuti con l'ossessione di migliorare la condizione umana.

L'indagine di Todorov lungo le vie della bellezza continua con il fondamentale La pittura dei lumi, dove il filosofo di origine bulgara utilizza le immagini e i percorsi di vita di artisti come Watteau, Goya, Chardin, Hogarth e gli italiani Tiepolo, Magnasco e Piranesi per dimostrare come questi maestri siano stati fondatori di un'identità e di un pensiero comune europeo, prima del tempo.

Un'analisi, questa, che Todorov approfondisce in particolare attraverso la figura unica di Francisco Goya. Al pittore spagnolo, vissuto tra Settecento e Ottocento, dedica infatti una monografia in cui lo paragona per la forza delle idee a Goethe e a Dostoevskij. Perché è un artista che "non propone rimedi, si accontenta di esplorare la condizione umana". Non cerca di imporre, "si limita a proporre. I suoi valori rimangono quelli di tutti: verità, giustizia, ragione, libertà".

La verità di Goya vivrà, "ma a condizione di non dimenticare i mostri crudeli". Gli stessi che lo spagnolo aveva raffigurato nei Disastri della guerra e nelle Pitture Nere. Opere che ricordano a Todorov il mondo di oggi e i pericoli derivanti dagli scontri di civiltà nati da nuovi fondamentalismi e nazionalismi. L'arte può, ancora una volta, mettere in guardia da quel sonno della ragione che genera mostri.


Da La Repubblica 7 febbraio 2017 

EURIPIDE OGGI

$
0
0
La locandina delle rappresentazioni del 1922 al Teatro Greco di Siracusa 

“Ogni straniero è un dio” 

Paolo Lago 

Uno straniero proveniente da un lontano paese, accompagnato da un gruppo di donne, anch’esse straniere, come lui vestite in modo sgargiante, arriva in una città; qui i detentori dell’ordine, terrorizzati di fronte a ciò che appare loro come ‘diverso’ e sconosciuto, decidono di incarcerarlo e allontanarlo con l’accusa di creare sovvertimento e disordini. Sembrerebbe una vicenda di questi giorni ma qui non si tratta di immigrati o profughi, bensì del dio Dioniso che si presenta a Tebe accompagnato da una schiera di strane seguaci, al cospetto del re Penteo. Ci troviamo all’inizio delle Baccanti di Euripide: il dio, in realtà originario di Tebe, si traveste da viaggiatore proveniente dalla Lidia (straniero in senso forte, un barbaros per i Greci) per ristabilire il suo culto nella propria città. Il vecchio e saggio Cadmo e l’indovino Tiresia sono pronti ad accoglierlo e a seguirlo nei culti bacchici, ma il giovane re Penteo si oppone e lo fa incarcerare. La madre di Penteo, Agave, trascinata dal furor bacchico, si reca assieme alle altre donne sul Citerone per celebrarne il culto. La vendetta del dio verso Penteo sarà terribile: quest'ultimo, infatti, gradualmente ‘affascinato' da Dioniso, si traveste da donna e si reca sul monte per spiare le baccanti dalle quali verrà successivamente sbranato e fatto a pezzi. In un colloquio con Cadmo, alla fine, Agave riacquisterà gradualmente la ragione e si renderà conto, in preda al dolore, che la testa che reca in mano è quella del proprio figlio. Le Baccanti, perciò, è una tragedia che, fra i suoi nuclei portanti, presenta quello della polarità fra nativo e straniero: un tema molto attuale. Niente di meglio, quindi, che poterla rileggere in una nuova versione con testo greco a fronte, a cura di Roberta Sevieri (La Vita Felice, 2014).
Questa edizione si distingue per l’ampio commento, caratterizzato da notazioni di natura filologica e antropologica, nonché per la bella e lineare traduzione, molto fedele. Sarebbe stato auspicabile però almeno un accenno alla fortuna delle Baccanti e di Dioniso, quella che Davide Susanetti nella sua edizione ha chiamato, con un termine felice, «rifrazione». Nel Novecento, ad esempio - come ha mostrato Massimo Fusillo in un importante saggio dedicato a questo tema -, la tragedia di Euripide è stata oggetto di numerose riprese sulla scena e sullo schermo; Dioniso è un «dio ibrido», un «dio della polarità e dell’alterità» che ha saputo generare sempre nuove «rifrazioni» nella cultura e nella società contemporanea: a fianco della polarità nativo/straniero, risultano infatti fondamentali quelle io/altro, maschile/femminile, umano/animale, corpo/mente. Dal canto suo Eric R. Dodds, nel fondamentale studio I Greci e l’irrazionale, affermò che resistere a Dioniso significa reprimere gli elementi primigeni della propria natura, andare contro se stessi.
In una società come quella attuale, fra i cui elementi costitutivi troviamo il cosmopolitismo e la migrazione dei popoli, chiudersi a tali fenomeni sarebbe quindi rovinoso, significherebbe andare verso l'autodistruzione: l'ibrido Dioniso ci ricorda ancora una volta che in ogni straniero è un «dio».

Alias domenica – il manifesto, 27 gennaio 2015
Viewing all 9115 articles
Browse latest View live