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L' EDUCAZIONE LINGUISTICA OGGI

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Lo sviluppo di un paese passa per l’educazione linguistica: contro la lettera dei 600 e la nostalgia di una scuola classista

diSimone Giusti e Christian Raimo

Puntuale come una festa patronale è arrivato qualche giorno fa l’intervento polemico sul declino scolastico dei ragazzi di oggi. Il Gruppo di Firenze, un piccolo novero eterogeneo e informale che si dichiara “per la scuola del merito e della responsabilità”, ha chiamato a raccolta seicento professori universitari, tra cui alcuni accademici della Crusca e rettori e alcuni editorialisti importanti (Massimo Cacciari, Paola Mastrocola, Ilvo Diamanti…), e ha pubblicato sul proprio blog – a partire da un appello del coordinatore del gruppo Giorgio Ragazzini – una lettera allarmata destinata al governo:
“È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare.”
La lettera suggerisce anche i rimedi a questo disastro:
1. revisione delle indicazioni nazionali per dare rilievo all’acquisizione delle competenze di base,
2. introduzione di verifiche nazionali periodiche,
3. partecipazione di docenti delle medie e delle superiori alle verifiche dei corsi di studi precedenti.
La lettera per intero è leggibile qui.
Con altrettanta prevedibilità l’eco a questa geremiade è stato un grido di dolore: autoflagellazione per i famosi bei tempi andati in cui a scuola si faceva sul serio non come oggi, e un dito puntato contro gli insegnanti della primaria che non sanno ottemperare al loro dovere.
Riconoscendone le buone intenzioni e il valore di aver portato la questione dell’educazione linguistica al centro del dibattito, fare le pulci nel merito e nel metodo alla lettera non è difficile ed è doveroso. Come da subito ha sottolineato lo storico Antonio Brusa, la chiamata alle armi dei seicento, pecca di impressionismo:
“Forse preoccupati di non mostrarsi spocchiosi, i 600 non citano un dato, una ricerca […] Si parla di scuola? E allora valgono le impressioni, le sensazioni personali.
Di poca informazione:
““Dichiara uno dei promotori che vorrebbe che nelle elementari le insegnanti promuovessero
«dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano». Bene: a p. 28 (http://www.indicazioninazionali.it/…/indicazioni_nazionali_…) inizia la parte dedicata all’italiano delle Indicazioni. C’è tutto quello che i nostri eroi vorrebbero reintrodurre, dal dettato, alla scrittura in corsivo, alla grammatica, alla comprensione dei testi, ben distribuito fra traguardi da raggiungere in terza e in quinta primaria.”
Di miscomprensione del problema:
“Chi vuole fare questa battaglia, che è fondamentale per le sorti della nostra democrazia (e non solo per la correttezza ortografica delle tesi di laurea), dovrebbe capire che due sono i settori nei quali la situazione si sta incancrenendo: il primo è quello della formazione degli adulti. […] Il secondo, è quello della formazione dei professori e dei maestri”.
Un video di qualche tempo con un’intervista a Giorgio Ragazzini – il coordinatore del Gruppo di Firenze – mostra meglio l’ideologia del gruppo: un misto di buon senso, un vago richiamo al a uno spirito civico che confina con il mos maiorum (onore, merito, severità, rigore…): “C’è chi si illude che con le riforme della didattica si possa incidere sul cattivo comportamento”. E in più una condivisibile preoccupazione per la dispersione scolastica, una problematica idea politica sulle scuole professionali.
La ministra dell’istruzione, Valeria Fedeli, si è sentita in dovere di rispondere, chiamando in causa la figura di Tullio De Mauro:
“Fu lui negli anni ’80 a farmi capire la necessità di un buon italiano e di una sua diffusione corretta e capillare tra i giovani. Ancora nel 2013 De Mauro ha messo in luce i ritardi rispetto alla media europea. Con il ministero dei Beni culturali, a questo fine organizzeremo una promozione della lettura dei libri extra-scolastici, con la Federazione della stampa porteremo i giornali nelle classi.”
Il ministero ha fatto anche di più, ha emanato una “circolare De Mauro”, eleggendo così il linguista da poco scomparso a nume tutelare delle iniziative di educazione alla lettura e di didattica delle lingue; il testo della circolare si può leggere per intero qui.
Ma la visione politica di De Mauro sottesa al suo impegno pluridecennale per l’educazione linguistica è ancora evidentemente fraintesa e continua a suscitare malumori per chi pensa che l’educazione linguistica sia un’altra cosa rispetto all’impegno per la democratizzazione della scuola, e consista essenzialmente nel buon uso dell’ortografia e non nel miglioramento di quella facoltà più ampia che è la literacy, la competenza linguistica. Un campione di questa distorsione è l’irritazione sfrenata di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di un paio di giorni fa:
“Se da due, tre decenni le competenze linguistiche dei giovani italiani si stanno avviando verso la balbuzie twittesca qualche responsabilità, e non proprio minima, ce l’ha avuta proprio anche Tullio De Mauro”.
Per fortuna da anni in Italia su questi temi non si parte per niente da zero. Il documento che ha scritto Alberto Sobrero per il Giscel (il Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica, che De Mauro stesso ha fondato e animato per molti anni) replica smontando una a una le soluzioni del gruppo di Firenze:
“1.Gli estensori del documento ritengono che debbano essere riviste [le indicazioni nazionali], per dare grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari, fissare i traguardi da raggiungere e proporre tipologie di esercitazioni. In realtà le Indicazioni contengono tutto questo, anzi sono caratterizzate proprio dall’insistenza sull’obiettivo del progressivo consolidamento delle competenze linguistiche e comunicative degli allievi, e dal ribadimento del ruolo centrale e trasversale – cioè proprio di tutte le materie – dell’educazione linguistica”.
2.La seconda proposta contenuta nella lettera-appello è drastica: invoca il controllo degli apprendimenti mediante ‘l’introduzione di momenti di seria verifica’: una misura efficace potrebbe essere, ad esempio, l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo”: praticamente, almeno un test INVALSI all’anno. Un’aperta – e ben poco motivata – dichiarazione di incapacità, per i docenti del primo ciclo.
3. Ma è la terza proposta la più grave: chiede “la partecipazione di docenti delle medie e delle superiori rispettivamente alla verifica in uscita dalla primaria e all’esame di terza media, utile per stimolare su questi temi il confronto professionale tra docenti dei vari ordini di scuola”. Tradotto: chi sta sopra deve controllare chi sta in basso. Se ne deduce che docenti di scuola secondaria sono superiori non come ordine di scuola, in quanto successivo alla primaria, ma in quanto a preparazione professionale, che si esplica nella funzione di controllo dei subalterni.”
Così ci sono almeno due aspetti nocivi di questa lettera. Il primo è il contenuto ambivalente e di fatto reazionario. Varrebbe la pena riprendere quello che scriveva Pierre Bourdieu già cinquant’anni fa in Les heritierse nella Distinzioneper ammettere come le buone intenzioni dei 600 possano mascherare un classismo agguerrito. Marco Magni a questo proposito ha scritto un lungo post che vale la pena riportare quasi per intero:
“Il vero problema di questa lettera dei 600 sta nel fatto che vi si considerano la lingua e il suo apprendimento come qualcosa di neutro dal punto di vista sociale. L’ortografia, la grammatica, il lessico, come le “buone maniere”, hanno una connotazione sociale. Il bello scrivere è un segno di distinzione sociale, che viene assorbito inconsapevolmente prima di tutto nell’educazione familiare e poi riprodotto nella scuola. Un qualcosa di connotato socialmente che tuttavia diventa essenziale nella carriera scolastica così come per l’accesso alle posizioni qualificate del mercato del lavoro. […] La scuola valorizza la “brillantezza”, la “creatività” della scrittura, considerandole come qualità spirituali e disprezza gli aspetti tecnici e materiali dello scrivere, in ciò confermando il suo pregiudizio élitario. Ma, allora sbagliano i 600 dicendo che il problema è che nel primo ciclo non si fa dettato e grammatica, perché il problema riguarda invece l’intero apprendimento della lingua, che dovrebbe dare la loro importanza agli aspetti “tecnici” e “prosaici” del leggere e dello scrivere, ma considerandoli, per dirlo sbrigativamente, come un problema di “empowerment” di coloro – e sono la maggioranza – che sono esclusi, per la provenienza sociale, dalla cultura delle élites. Ma ciò può funzionare veramente solo se ortografia e grammatica vengono contestualizzati dentro la lingua intesa nel suo insieme, comprendendo l’interesse per il leggere, l’educazione del gusto estetico, lo spirito critico, ecc. Fare semplicemente “più dettati”, in assenza di tale contestualizzazione, significherebbe semplicemente confermare – come denunciava un tempo Don Milani – lo stigma per coloro che continuano a fare errori di dettato, semplicemente perché è loro estraneo il senso di ciò che stanno facendo”.
Il secondo aspetto discutibile di questa lettera è quella posa intellettuale che si basa sull’applicazione di un metodo incapace di tenere conto dei risultati della ricerca sociale e delle statistiche dell’apprendimento.
Cosa sappiamo infatti della scuola di ieri e di oggi? Siamo davvero in grado di parlare con cognizione di causa, dati alla mano, degli effetti dell’istruzione pubblica sugli studenti – di oggi come di ieri?
Per quanto l’Italia sia approdata tardi all’uso di prove standardizzate in grado di fornire una misura sufficientemente attendibile della padronanza dell’italiano e della matematica – la famigerata prova Invalsi – grazie al lavoro dello stesso ministero dell’istruzione, dell’Istat, dell’Isfol e, a livello internazionale, dell’Ocse e di Eurostat, è possibile individuare e descrivere alcuni dei principali problemi del sistema scolastico italiano, soprattutto in relazione all’uso della lingua.
Cominciamo col dire, dati Istat alla mano, che nel 1951, all’inizio dell’età repubblicana, gli analfabeti censiti sono il 12,9 per cento della popolazione, 17,9 per cento sono gli alfabeti privi di titolo, 59 per gli italiani con licenza elementare, 5,9 per cento con licenza media, 3,3 per cento diplomati e 1 per cento laureati. Nel 2001, dopo cinquanta anni di scuola pubblica, si è passati all’1,5 per cento di analfabeti dichiarati, 9,7 per cento di alfabeti privi di titolo, 25,4 con licenza elementare, 30,1 per cento con licenza media, 25,9 per cento diplomati e 7,5 per cento laureati.
Non è un risultato pienamente soddisfacente (a paragone degli altri paesi sviluppati abbiamo ancora basse percentuali di diplomati e laureati), ma è pur sempre un cambiamento epocale, che ha portato a una drastica riduzione dell’analfabetismo e a un innalzamento considerevole dei livelli di istruzione.
Secondo le indagini nazionali e internazionali, tuttavia, non tutti i nuovi cittadini riescono a completare il percorso di istruzione; i dati sulla “dispersione”, ovvero l’abbandono precoce della scuola, risultano tra i più alti nell’Unione Europea (15 per cento secondo i dati forniti dall’indagine Eurydice La lotta all’abbandono precoce dei percorsi di istruzione e formazione in Europa).
Il fenomeno sembra in lieve diminuzione, ma come sottolineato nell’introduzione all’edizione italiana del rapporto OCSE: Skill Out 2013, i dati sono discordanti e in alcune ricerche raggiungono il 26 per cento.
Se si incrociano queste cifre con le informazioni che ci fornisce l’Istat sulla correlazione tra i risultati scolastici e l’estrazione sociale della famiglia d’origine (ovvero con i livelli di istruzione dei genitori e con la loro situazione lavorativa) allora è chiaro che la scuola italiana rimane una scuola classista: non riesce ancora – ammesso che voglia davvero essere una scuola per tutti – a dare un servizio soddisfacente soprattutto a chi ne ha più bisogno; mentre funziona meglio per chi può avere maggiore sostegno dalla famiglia d’origine (report IstatLa scuola e le attività educative)
Sempre secondo il rapporto OCSE: Skill Out 2013 in alcune nazioni più che in altre (tra cui appunto c’è l’Italia oltre l’Inghilterra, la Germania, la Polonia e gli Stati Uniti) la condizione sociale ha un impatto significativo sulle competenze in literacy.
In queste nazioni, infatti – si legge nel rapporto – “i figli dei genitori con un basso livello di istruzione hanno una padronanza decisamente inferiore rispetto a quelli che hanno livelli più elevati di istruzione”.
Anche per questo, dovendo pensare a strategie di ampio respiro per migliorare i livelli di alfabetizzazione, è imprescindibile coinvolgere gli adulti innalzando il loro livello di istruzione e, in generale, le loro competenze di lettura e di scrittura.
Non ha senso partire dalle impressioni, insomma: esistono, e possono essere presi come riferimenti, documenti e esperienze di grande valore. È utile leggersi il rapporto finale della commissione sul progetto Piaac, datato 2013. (Piaac sta per Programme for International Assessment of Adult Competencies (PIAAC), ossia un’iniziativa dell’Ocse volta a misurare il livello di possesso di quelle competenze o abilità chiave nell’elaborazione delle informazioni che sono considerate essenziali per la piena partecipazione di cittadini adulti al mercato del lavoro e alla vita sociale di oggi.)
Da questa ricerca infatti, risulta chiaro che solo il 30 per cento degli adulti italiani – pur dotati di titoli di studio acquisiti in una scuola più “tradizionale” – è in possesso delle competenze necessarie minime per poter vivere e lavorare in modo adeguato al giorno d’oggi.
Al di là del giudizio impietoso sugli effetti quantomeno poco duraturi dell’intero sistema d’istruzione, il dato deve far riflettere sull’isolamento della scuola, che è chiamata ad affrontare compiti sempre nuovi in un mondo complesso senza poter contare sul sostegno di una società incapace di dare il suo contributo.
In un programma molto articolato, ci sono dei punti qualificanti nel rapporto Piaac proprio per il dibattito che stiamo affrontando: quando si propone per esempio di
“valorizzare e sviluppare le università della terza età, le scuole popolari, i centri anziani etc. per il mantenimento delle competenze cognitive della popolazione adulta e soprattutto senior, per l’invecchiamento attivo e la prevenzione sanitaria. In Italia c’è ricchezza di organizzazioni/associazioni non-profit e a partecipazione pubblica che svolgono attività di apprendimento degli adulti e della popolazione senior”
oppure di
“facilitare l’ingresso di tutti i cittadini (inclusi quelli di recente immigrazione) nelle reti di informazione, promuovendo la diffusione delle reti in tutte le famiglie e l’apprendimento all’uso con formazione tipo e-citizen con il supporto di giovani tutor; – fare delle sedi scolastiche luoghi dell’apprendimento culturale collettivo (“Fabbriche della Cultura” sul modello “olivettiano”) aperti anche il pomeriggio e il sabato per favorire nuove iniziative di learning by doing, accogliere corsi e seminari di aggiornamento, agevolare l’accesso alle biblioteche scolastiche, introducendo anche una piattaforma di networking delle scuole”,
o ancora di
“avviare progetti di diffusione della lettura, anche e soprattutto per gli adulti, nelle biblioteche scolastiche e comunali, permettendo l’acquisto di libri a prezzi vantaggiosi, promuovendo o finanziando iniziative culturali”.
Si capisce bene che c’è una prateria sconfinata oltre il dettato o l’incremento delle verifiche a scuola per migliorare la competenza linguistica degli studenti universitari e degli adulti in generale.
E possiamo trovare molti altri indici che ci aiutano a comprendere come le carenze di base anche permanenti non siano causate da un malfunzionamento della scuola primaria, ma da diverse ragioni di contesto.
Solo per fare un esempio paradigmatico, avere genitori che leggono rappresenta un fattore che influenza i comportamenti di lettura dei figli, considerando che dal 2010 al 2015 si registra una costante diminuzione del già bassissimo numero di lettori (dal 46 per cento al 42 per cento quelli che hanno letto almeno un libro nei dodici mesi precedenti).
Se quindi una delle miopie di questo genere di dibattiti è quella di pensare la scuola come la maggiore se non l’unica responsabile delle carenze sulla literacy, e che gli interventi per riparare il disastro in corso siano i corsi di grammatica di base all’università, si può invece e aguzzare e allargare il nostro sguardo alle molte iniziative che cercano di affrontare in tutta la fase evolutiva la questione del decremento delle abitudini di lettura o dell’analfabetismo di ritorno.
Solo tenendo conto che le carenze della scuola sono il riflesso di mancate politica dell’educazione che riguardano tutta la società, si capisce bene che le competenze linguistiche ovviamente non sono l’esito di quello che si fa a scuola, ma di quello che si vede in tv, o si legge sui giornali, in rete. E a questo punto si può riconoscere nella formazione degli adulti lo spettro d’analisi come come quello d’intervento.
Cosa si può fare? Dal 2013 è stata depositata dai deputati Giancarlo Giordano, Celeste Costantino e Nicola Fratoianni in commissione cultura una legge per la promozione alla lettura. È stata elaborata sull’esempio di quella spagnola dal Forum del libro, e nonostante abbia trovato nel frattempo l’appoggio di una larghissima maggioranza e la buona volontà della stessa presidente della commissione cultura, Flavia Piccoli Nardelli, manca di coperture finanziarie ed è in stallo.
Cosa si fa già? In Italia esiste e andrebbe valorizzata, finanziata, sistematizzata una rete di iniziative di educazione alla lettura: anche qui il Forum del libro ne aveva fatto un censimento e si può trovare sul sito del Cepell, il centro per il libro e la lettura.
La scuola non deve fare tutto e non può tutto, a partire dall’evidente condizione di svantaggio in cui opera: grandi masse di analfabeti di ritorno, scarsamente propensi alla lettura di giornali e di libri, incapaci di usare in modo consapevole le tecnologie.
Eppure, come ha notato sul suo blog Mariangela Galatea Vaglio in risposta alla lettera dei seicento, alla scuola si chiede di tutto: “unico presidio dello stato sociale sul territorio, unica reale interfaccia con le famiglie”, alla scuola si chiede di risolvere o alleviare problemi che sono quelli della sua funzione primaria, l’istruzione.
Insieme ai servizi sociosanitari, le scuole autonome, quelle nate per effetto del decreto 297 del 1994, si sono ritrovate a rappresentare, all’interno delle loro comunità, dei presidi di democrazia. Le istituzioni scolastiche, specialmente quelle del primo ciclo – proprio negli anni in cui venivano tagliati i finanziamenti pubblici al settore, prima gradualmente e poi più drasticamente – si sono impegnate nella lotta alla dispersione e nel contrasto al disagio sociale, nell’inclusione degli alunni disabili, nell’educazione linguistica degli alunni stranieri e nell’accoglienza delle loro famiglie, nella promozione della lettura, nell’orientamento, nell’educazione all’uso delle tecnologie: sono diventate in molti paesi e città il centro di una serie di attività che forse avrebbero potuto essere affidate ad altri soggetti (le biblioteche? le circoscrizioni? i centri sociali? i centri per l’impiego?) e che comunque avrebbero richiesto maggiori investimenti da parte dello stato.
Usare la scuola come una sorta di agenzia di cittadinanza è compatibile con il perseguimento di una piena padronanza della lingua italiana? Probabilmente sì, e per chi scrive è anche necessario, vista l’urgenza di rompere il circolo vizioso tra contesto socioeconomico, competenze della famiglia d’origine e possibilità di raggiungere un livello adeguato di istruzione.
Ma abbiamo bisogno di una scuola attiva sul territorio, capace di includere e di educare, ma non possiamo e non vogliamo negare la necessità di dotare tutti gli alunni delle competenze di base. Per fare questo, è evidente, occorrono finanziamenti adeguati.
“Poiché sviluppare le competenza della popolazione è costoso”, si legge ancora nel rapporto OCSE: Skill Out 2013, “le nazioni devono ragionare per priorità quando ci sono poche risorse, e progettare le proprie politiche connesse allo sviluppo di competenze in modo che portino i maggiori benefici possibili all’economia e alla società”. Questo non significa che ciascuno può stilare un elenco delle priorità, o che occorre semplicemente incrementare la percentuale di Pil da destinare all’istruzione.
Significa principalmente che occorre ripensare a livello nazionale – e non, quindi, scuola per scuola, all’interno dei singoli territori, o solo per alcuni ordini o indirizzi di scuola rispetto ad altri – l’intero sistema dell’istruzione, e non allo scopo di scrivere un’ennesima riforma, quanto semmai per negoziare obiettivi di medio e di lungo periodo da perseguire con un largo consenso sociale.
Anche per questo non ha senso l’idea di partire dal problema della “correttezza ortografica e grammaticale” o dalla soluzione del “dettato ortografico” (un ulteriore parere convincente è quello di Rita Bortone).
Il punto non è se le persone siedono a tavola in modo più o meno appropriato, ma se sono o no in grado di procurarsi da mangiare. Il problema, per richiamare un termine più volte usato in precedenza, non è la “grammatica” ma la literacy, cioè la capacità di comprendere, valutare e usare in maniera consapevole testi scritti per far parte della società, raggiungere i propri obiettivi e sviluppare la propria conoscenza e le proprie potenzialità (definizione dell’Ocse).
Senza un adeguato livello di padronanza in literacy, ci dicono le ricerche internazionali, le persone non fanno brutta figura all’università, ma hanno una vita più breve e maggiori possibilità di ammalarsi, hanno meno senso civico e meno fiducia negli altri, lavorano di più per guadagnare di meno.
In una nazione che non riesce a garantire a tutti il conseguimento dell’istruzione di base e che, soprattutto, non riesce a dare a tutti le competenze necessarie al pieno godimento dei propri diritti e al soddisfacimento dei propri bisogni, è evidente che dobbiamo avviare una seria riflessione sulla scuola e sull’università, ma è altrettanto evidente che questa riflessione non può essere guidata da sentimenti nostalgici, da ideologie classiste o da interessi di categoria.
Da dove ricominciare allora? A chi spetta decidere il destino della scuola e dell’università? E come, con quale metodo? Sembra che l’approccio usato negli ultimi vent’anni non abbia sortito grandi effetti. Le richieste provenienti dall’Unione Europea – tutte dettate dalla necessità di far dialogare tra loro i diversi sistemi nazionali e di migliorare i risultati di apprendimento nelle cosiddette competenze chiave – hanno avuto un impatto considerevole sulle indicazioni nazionali senza ottenere grandi cambiamenti, non in positivo almeno, a giudicare dal clima che si respira all’interno delle scuole e delle università.
Proviamo anche in questo caso a ripartire dalla lezione di Tullio De Mauro, un intellettuale che ha saputo tenere insieme il lavoro di ricerca, la didattica e l’impegno nella scuola e nella società, con la consapevolezza che per fare ricerca nell’ambito della didattica occorre disporre di una base dati statisticamente valida e di conoscenze e competenze di altri ambiti disciplinari. (Qui si può leggere un ricordo di Emanuela Piemontese che ne mette in luce la complessità di questo approccio politico).
In fondo si tratta di riconoscere che i problemi educativi riguardano i diritti primari dei cittadini – di tutti i cittadini, non dei loro familiari o dei potenziali datori di lavoro – e che gli apprendimenti incidono direttamente sul corpo delle persone, come ci insegnano le neuroscienze.
Non è proprio possibile, quindi, parlarne in modo impressionistico, senza tener conto della vituperata pedagogia e delle scienze sociali e psicologiche.
Qualunque sia la strada che si percorrerà in futuro, ammesso che si voglia davvero iniziare un percorso di cambiamento, non sarebbe da evitare l’errore già compiuto nel recente passato da quei politici che – dimenticandosi di essere anche accademici e scienziati – hanno introdotto nelle scuole innovazioni di metodo, nuove strumentazioni tecnologiche (il tablet, la lavagna elettronica, per dire) nelle scuole, dimenticandosi di indicare i cambiamenti attesi, senza individuare indicatori attendibili e, quindi, evitando di sottoporre a una qualche verifica il reale impatto sugli apprendimenti delle persone.
Non sarebbe ora di terminare con una tregua e poi con una pace duratura la guerra santa tra i cosiddetti “disciplinaristi” e i pedagogisti, iniziata all’incirca vent’anni fa, quando sono state istituite le Ssis, le Scuole di specializzazione per l’insegnamento superiore, e che poi è proseguita nei Tfa e nei Pas?
Chi ha assistito a quelle lezioni ha potuto constatare la separazione netta, spesso ideologica, tra scienze pedagogiche e altri ambiti disciplinari, tra chi trasmetteva i contenuti senza tenere conto dell’uditorio e chi insegnava come insegnare senza tenere conto della materia. La conseguenza inevitabile è stata ed è ancora la scarsa qualità di quei corsi, caratterizzati – soprattutto nell’area umanistica – dalla frammentazione dei saperi e da un eccesso di specializzazione, una specializzazione tecnicistica, priva di basi scientifiche condivise.
Allo stesso modo, tipico di questo approccio ascientifico è l’abuso che è stato fatto delle prove Invalsi, nate per poter finalmente disporre di una base dati attendibile e poi usate, anzi propagandate, come strumento di verifica e di valutazione degli apprendimenti dei singoli alunni.
È per questo che uno strumento scientifico – utile a garantire il controllo democratico di un sistema di istruzione pubblico – è stato percepito come l’ennesima pratica burocratica sfruttata per vessare scuole e alunni. Ed è sempre per questo che negli ultimi anni si sono diffuse pratiche didattiche sempre più focalizzate sul conseguimento rapido e immediato di obiettivi di apprendimento misurabili con metodi standardizzati (i test), a discapito degli approcci più attivi e partecipativi, che ovviamente richiedono tempi lunghi e condizioni meno stressanti.
Perché allora, per rimediare a questo deficit di scientificità e a questo rifiuto di una pedagogia seria e non impressionistica, dettati spesso da pigrizia e conservatorismo, non ricominciare proprio dalla ricerca scientifica e dall’insegnamento universitario? Perché non rompere il più grande e il più classista dei tabù, quello dell’ineffabilità del docente universitario, chiamato al grande compito di formare i futuri insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado per gli anni, i decenni e i secoli a venire, senza che abbia egli stesso ricevuto un’adeguata formazione e, soprattutto, senza che abbia accesso alle conoscenze e agli strumenti messi a disposizione ormai da decenni dalle scienze sociali, psicologiche e pedagogiche?
Nella vicina Svizzera, per esempio, è normale che i docenti universitari dispongano di una squadra di formatori esperti in pedagogia e in didattica coi quali fare formazione, consulenza individuale, coaching e supervisione; ed è altrettanto normale che la formazione degli insegnanti sia affidata a una scuola professionale universitaria in cui lavorano esperti di didattica delle discipline e non dei ricercatori e docenti di letteratura, di matematica, ecc., prestati temporaneamente alla didattica.
A partire da qui, dotati di una cultura pedagogica di base e molto consapevoli dello status quo, che può svilupparsi un ragionamento importante sulle politiche dell’istruzione e sull’uso dell’italiano da parte degli studenti anche in ambito universitario. Così magari in futuro persino prossimo ci saranno più progetti di lunga durata e meno lettere scritte di getto sull’onda dell’indignazione.

B. PULEIO RICORDA MARIO FRANCESE

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Il giornalista Mario Francese in Tribunale

Quest'anno, ho il privilegio, insieme agli studenti di una classe liceale, di partecipare al premio Mario Francese che ricorda un grande giornalista- scriveva per il Giornale di Sicilia-, assassinato dalla mafia il 26 gennaio del 1979. Essendo nato nel 1963 ero un ragazzino all'epoca di quei fatti, ma ricordo che una delle prime cose che leggevo quotidianamente in quegli anni era la pagina di cronaca del Giornale di Sicilia, per capire attraverso gli articoli di Mario Francese il fenomeno mafia. Aggiungo che pochi anni fa, ho avuto il privilegio di essere stato il prof di Italiano di Giulia Francese, nipote del giornalista, brillantissima alunna del Liceo Umberto e ora eccellente studentessa presso la facoltà di Medicina dell'Università cattolica di Roma. Ecco l'articolo che probabilmente costò la vita a Mario Francese: denuncia i traffici dei corleonesi (in primo luogo la ricostruzione dei paesi terremotati lungo la valle del Belice), parla del matrimonio di Totò Riina, celebrato dal discusso don Coppola. Francese fu il primo a capire l'importanza e l'ascesa dei corleonesi nella cupola mafiosa.
Bernardo Puleio

Nel Belice la mafia al suo terzo tempo
Mario Francese, Giornale di Sicilia,  21.9.1977


I boss spostano l'interesse dagli enti pubblici agli appalti delle super-opere nelle zone terremotate - Il col. Russo lasciò il comando del Nucleo Investigativo mentre indagava su delitti degli ultimi anni e rifiutò il trasferimento a Reggio Calabria
L'escalation dei delitti, dal 1974, ha coinciso col boom di finanziamenti statali e di opere pubbliche tra Garcia e le zone terremotate del Belice. Dopo la tragedia di Ciaculli del 30 giugno del 1963, le organizzazioni mafiose della Sicilia occidentale hanno fatto registrare il terzo tempo della loro continua e progressiva evoluzione. Una mafia "galoppina", con settore preferito il contrabbando, fino al 1963, cioè una mafia che, attraverso appoggi elettorali, sfrutta al massimo le risorse cittadine (edilizia). I "patriarchi" si attestano nella città, abbandonando feudi e campagne e cominciano a tessere le fila di un'organizzazione funzionale a carattere interprovinciale.
Dal 1963, con la massiccia applicazione di misure di prevenzione, la mafia, sparpagliata in tutta la penisola, incomincia a darsi un volto nazionale. I boss, quelli con la "b" maiuscola, rimasti in sede, rivolgono la loro attenzione agli enti pubblici. Dal 1963, infatti, scatta l'era delle "municipalizzate" e degli enti di Stato: un pedaggio che la DC paga all'ingresso del PSI nella maggioranza governativa. E con il fiorire di enti pubblici, parallelamente, dilagano enti misti, cioè enti privati, con partecipazione finanziaria di enti pubblici. Un'epoca che ha un nome battesimale: quella dei "boss dietro le scrivanie". Ed eccoci al dopo - 1970. Il dopo terremoto che ha devastato, nel 1968, molti centri del Belice, ha dato l'occasione alla grossa mafia di mutare obiettivi e di evolvere la sua già potente organizzazione. E' una corsa sfrenata alle campagne e ai feudi. Ma i programmi non sono quelli di venti anni prima. L'ansia di valorizzazione di vaste plaghe deserte e di trasformazione di colture tradizionali è solo apparente. Le espropriazioni per la costruzione della diga Garcia hanno dimostrato come 800 ettari di terreno, per secoli incolto, è stato trasformato per ricavare dallo Stato il maggior profitto possibile: un ettaro di vigneto è stato pagato, per far posto alla diga, 13 milioni. La cifra è stata raddoppiata se il proprietario ha dimostrato di essere un coltivatore diretto.
Dal 1970 quindi, abbiamo un terzo stadio evolutivo della mafia: i boss dietro le scrivanie degli enti pubblici, spostano i loro interessi nel retroterra e, in prevalenza, nelle zone della valle del Belice. Una mafia che sta alle calcagna di imprese colossali e di appalti di super - opere. Oltre mille miliardi i finanziamenti per la costruzione del Belice. E nel contempo sorgono una pletora di società private, con finalità non sempre chiare. In città resta posto per i contrabbandieri, per i rapinatori e per le piccole organizzazioni. L'evoluzione della mafia della Sicilia occidentale è costretta però a pagare un prezzo, a volte alto, nella ricerca di equilibri stabili e nella corsa all'accaparramento di privilegi e ricchezze. Ed ogni conquista lascia dietro una scia di delitti.
Abbiamo detto di una catena di agghiaccianti omicidi e di tre sequestri che hanno provocato stupore ed allarme sociale. Giuseppe Russo, la vittima di Ficuzza, piombò nella zona del Belice, esattamente a Roccamena, sin dall'8 settembre 1974, giorno in cui fu rapito il giovane enologo monrealese Franco Madonia, per il cui rilascio (15 aprile 1975), lo zio "don" Peppino Garda ha pagato un riscatto di un miliardo. Il 1° luglio 1975 fu sequestrato il docente universitario Nicola Campisi, rilasciato l'8 agosto, dopo il pagamento di settanta milioni e infine, il 17 luglio, il sequestro senza ritorno del re delle esattorie, Luigi Corleo. A questi tre eclatanti rapimenti sono seguite impressionanti catene di delitti. Si cominciò a Corleone con la soppressione di Biagio Schillaci (27 luglio 1975), si continuò a Corleone con l'attentato a Leoluca Grizzaffi.
Chi è Leoluca Grizzaffi? Un nome che non figura nel "gotha" mafioso. Eppure l'allora maggiore Russo scoprì che il Grizzaffi, era un "intoccabile". Il suo tentato omicidio aveva dunque aperto un capitolo abbastanza drammatico e senza limiti di vendetta. Leoluca Grizzaffi è, infatti, fratello di Giovanni, figlio di Caterina Riina, sorella di Totò, il fedele luogotenente di Luciano Liggio. Riina ha anche sposato segretamente (officiante padre Agostino Coppola), nell'aprile 1974, la maestrina corleonese Antonietta Bagarella, sorella di Calogero, altro luogotenente della "primula". Un affronto, quindi, al clan di Luciano Liggio. Ma i Grizzaffi, oltre ad essere nipoti, sono i più attivi collaboratori dello zio Totò. Giuseppe Russo, ad esempio, ha scoperto che la Zoosicula "Risa" (che si tradurrebbe in Riina Salvatore) aveva, tra l'altro, acquistato il feudo "Rocche Rao" di Corleone, per oltre undici salme. Il fondo fu ceduto in affitto, per un canone irrisorio e per la durata di trenta anni, a Giovanni Grizzaffi, fratello di Leoluca. Avrebbe pagato allo zio o meglio alla "Risa" trenta salme di frumento l'anno. L'attentato dell'ottobre '75 ha provocato quindi nel triangolo Corleone - Roccamena - Partinico la rottura di un equilibrio che ha portato ad una guerra, così come l'attentato di Piano di Scala, nel 1957, aveva portato a sei anni di guerra tra "navarriani" e "liggiani" nel corleonese. Sono questi gli episodi più significativi del dopo sequestro Campisi e Corleo: episodi che indussero il maggiore Russo ad ipotizzare, con maggiore convinzione, l'esistenza di un'asse Liggio - Coppola nell'"anonima sequestri". In quest'epoca si infittisce la rete di società paravento (Solitano, Risa, Sifac, etc.) che, forse intravedendo la possibilità di intrufolarsi in appalti e subappalti, aumentano improvvisamente di svariate decine di milioni i loro capitali sociali. Denaro sporco, riciclato e utilizzato per iniziative pseudo industriali. A Corleone, intanto, la lotta divampa. L'attentato di Grizzaffi fu seguito il 12 gennaio 1976 dall'omicidio dell'autotrasportatore Giuseppe Zabbia: il 13 febbraio successivo eccoci all'omicidio di Francesco Coniglio, impresario di pompe funebri, seguito dall'assassinio di Giovanni Provenzano (4 maggio), dall'omicidio di Rosario Cortimiglia (4 giugno), dalla soppressione del roccamese Giuseppe Alduino (29 agosto), di Giuseppe Scalici (9 gennaio 1977), dalla scomparsa di Onofrio Palazzo (9 luglio), dalla pubblica esecuzione di Giovanni Palazzo (23 luglio). Quindi la faida si sposta a Roccamena, da dove fugge, il 29 luglio, dopo essere scampato ad un attentato, il cavatore Rosario Napoli, in rapporti con la Lodigiani. Il 30 luglio è il turno di Giuseppe Artale, guardiano dell'impresa Paltrineri, assassinato sul ponte San Lorenzo. Il 10 agosto poi, il tiro dei killer si sposta a Mezzojuso, dove viene freddato Salvatore La Gattuta e, infine, la spirale si chiude a Ficuzza, con la duplice esecuzione del colonnello Giuseppe Russo e dell'insegnante Costa.
Una spirale apertasi a Corleone e che, nel suo vortice, racchiude l'altra catena di attentati e delitti avvenuta in parallelo nel trapanese. Il 26 febbraio 1976 sulla Mazara - Punta Raisi furono feriti il geometra - imprenditore Pietro Lombardino e il suo amico Stefano Accardo, il 5 aprile furono assassinati, a Marsala, Silvestro Messina ed Ernesto Cordio, quattro giorni dopo, a Mazara, fu il turno di Antonino Luppino. Gli ultimi omicidi sono recentissimi (del luglio e dell'agosto scorsi). A Monreale, intanto, erano stati fatti fuori Remo Corrao (dicembre 1975), il suo socio Aloisio Costa (22 gennaio 1976). Due gravi delitti seguiti dall'uccisione, a San Cipirello, di Enzo Caravà (12 aprile 1976), a Mazara, di Agostino Cucchiara (25 agosto), a Castelvetrano, di Baldassare Ingrassia (11 dicembre 1976). Delitti preceduti dalla soppressione a Partinico e Balestrate di Angelo Genovese e Angelo Sgroi.
Giuseppe Russo lasciò il comando del nucleo investigativo mentre indagava per questi delitti. Diceva di volere andare in "pensione". E' certo che rifiutò il comando del gruppo di Reggio Calabria. Si dice che durante la "convalescenza" abbia tentato la carta delle pubbliche relazioni per conto di grosse imprese impegnate anche nella zona del Belice. La sua morte ha aperto dei grossi interrogativi cui lui soltanto, forse, avrebbe potuto rispondere con certezza: è caduto per essersi introdotto in un terreno per lui minato dalle approfondite indagini che aveva fatto anche sul conto di imprese intrufolate nella costruzione del Belice? O è caduto per mano di chi si è ostinato a vedere in Russo ancora il "segugio" alle calcagna della mafia organizzata, piuttosto che il borghese, per poco ancora in divisa, avviato su strada nuova, anche se per conto di supersocietà? O piuttosto questo duplice delitto di Ficuzza, dietro la clamorosità del fatto, non nasconde una terza causale?
Mario Francese

RILEGGERE T. TODAROV

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Nato a Sofia, allievo di Barthes, difese i valori dell’Illuminismo dagli oscurantismi e indagò l’universo concentrazionale.

Massimiliano Panarari

Addio al filosofo Tzvetan Todorov. Celebrò l’uomo contro i totalitarismi


Uno studioso versato negli attraversamenti disciplinari e predisposto alla contaminazione. Un profondo «umanista contemporaneo» (come è stato definito in Francia) e un indomito intellettuale pubblico, europeista convinto. Ecco l’identikit del teorico della letteratura, storico delle idee («etichetta» che lui stesso preferiva a quella di filosofo) e saggista Tzvetan Todorov, nato a Sofia nel marzo del 1939 e scomparso ieri a Parigi all’età di 77 anni. Una figura, insignita di molti premi e riconoscimenti per le scienze sociali, votata alla rottura degli steccati tanto nel sapere quanto nel modo di pensare le società e l’umanità.

Todorov cominciò a muovere i suoi passi sulla scena intellettuale internazionale, dopo la laurea in filologia in patria, con il trasferimento nel ’63 per il dottorato a Parigi, dove fu allievo del celebre semiologo Roland Barthes, e approdò al Cnrs (il Centre national de la recherche scientifique), intraprendendo una brillante carriera che lo porterà a diventare direttore del Centre de recherches sur les arts et le langage presso l’Ecole des hautes études en sciences sociales.
Fuoriuscito da uno dei Paesi più «osservanti» e liberticidi del blocco del socialismo reale, di cui descrisse in varie occasioni la perversa capacità di annullamento dei valori (e del valore) dell’individuo, Todorov svolse un ruolo essenziale nell’importazione nell’Europa occidentale della metodologia di analisi dei testi letterari sviluppata dalla scuola del formalismo russo degli Anni Venti (di cui curò una famosa antologia, pubblicata in Italia nel ’68 da Einaudi).

Una proposta culturale che incontrò gli immediati favori dello strutturalismo transalpino, verso il quale si orientò da subito il lavoro di Todorov, con la sua ricerca di una scienza della letteratura (la «poetica») in grado di formalizzare le norme astratte e le leggi fondamentali della narrazione.

Una visione, appunto, tipicamente strutturalista, veicolata anche attraverso la rivista di teoria letteraria Poétique da lui fondata, nel 1970, insieme a Gérard Genette, ma che saprà rendere via via meno ortodossa nel corso del decennio; in seguito, l’entrata in crisi della critica di impronta semiologica lo indurrà a spostare l’asse della ricerca verso il simbolismo linguistico e una concezione del testo in cui la centralità della «struttura» (e del «sistema») lasciava progressivamente il passo a una sua visione più «dialogica», fondata sulla consapevolezza della rilevanza della molteplicità delle influenze culturali e del confronto tra gli autori (documentata già da un libro come l’Introduzione alla letteratura fantastica, Garzanti).
Il congedo dall’approccio strutturalista lo conduce, negli Anni Ottanta, al nuovo periodo del lavoro sulla storia delle idee, costellato di saggi quali La conquista dell’America (uscito in Italia nel 1984 sempre da Einaudi, e dedicato all’annullamento delle culture indigene amerindie nel nome della colonizzazione) e Noi e gli altri sulle riflessioni, nel pensiero francese tra Settecento e Novecento, intorno al tema della diversità umana. Un’analisi incrociata e comparata, come d’abitudine, che ha fornito il sostrato per la sua nozione, basata su un’idea di moderazione e sulla razionalità, di un «umanesimo ben temperato».

Queste posizioni lo porteranno, negli Anni Duemila, a individuare ne Lo spirito dell’Illuminismo (Garzanti, 2007) il lascito migliore della storia europea e il solo antidoto al dilagare dell’irrazionalismo e del revanscismo neoidentitario e xenofobo. L’intellettuale franco-bulgaro era entrato da qualche tempo nella sua fase di pensatore morale ed etico, che si era cimentato, nel volume Di fronte all’estremo (Garzanti, 1992), con l’abisso concentrazionario e il progetto di disumanizzazione attuato dai totalitarismi (che non è archiviato una volta per tutte, metteva in guardia, perché l’orrore rimane sempre in agguato sotto altre spoglie).
Il Todorov degli ultimi due decenni è stato il fiero avversario della dottrina dello scontro di civiltà di Samuel Huntington, la firma di Libération che interveniva in maniera «militante» sui temi dell’attualità, e la voce coraggiosa che si faceva puntualmente sentire in questa nostra epoca di pruriti neototalitari rossobruni e di populismi, avendo – lui che disvelò la protervia e il «nichilismo» del comunismo della cortina di ferro – i titoli esemplari per farlo.

Todorov è stato anche lo studioso multidisciplinare di Benjamin Constant e di Rembrandt, lo storico delle idee che ha rivendicato fortemente la tesi per cui il pensiero non è appannaggio esclusivo dei filosofi, ma viene espresso dagli artisti come dai teorici politici. E da tutti coloro che, di fronte alle minacce alla libertà e alla dignità degli individui, sono capaci di testimoniare e resistere, come i grandi Resistenti (da Pasternak a Luther King ed Etty Hillesum) del suo ultimo libro.

La Stampa – 8 febbraio 2017

AL LICEO UMBERTO DI PALERMO SI DISCUTE DELLA NOSTRA ISOLA

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"Ho dovuto fare i conti da trent’anni a questa parte prima con coloro che non credevano o non volevano credere  all’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia e di difenderla troppo. (…). Non sono infallibile, ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho 67 anni, ho da rimproverarmi e da rimpiangere molte cose; ma nessuna  che abbia a che fare con la malafede , la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. 
Ma si è come si è."
 
(Leonardo Sciascia,  cit. da Francesco Virga, in La Sicilia di L. Sciascia, nuovabusambra, 2012)

MARIELLA TRAMONTANO, Scuola madre antica

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Soltanto una poetessa innamorata della scuola poteva scrivere versi come questi:


Scuola, madre antica

C'è una Madre di storie
e di leggende
Madre di vita
Una madre abitata

Ha grandi spazi
E aria sempre nuova
Muri saldi a proteggere i suoi figli
Ha luce ad archi
per guardare il mondo
È illuminata di studio e di pazienza

Nei registri ingialliti
Conserva le tracce dei bambini che la abitarono
E lascia che parlino ancora

Oggi accoglie figli nuovi
Coi volti colorati
Supereroi a nutrire i loro sogni
Sconosciuti alla lentezza
Veloci come il lampo

Per loro srotola giornate di idee nei lunghi corridoi
Vene fluide di risate e canti
del suo corpo mai stanco
di libri e pianti
di temuti abbandoni
di abbracci nei ritorni

Madre antica
Di libero pensiero
Fai luce sulle cause
Libera connessioni
Si vedano gli effetti
Fatti ponte
Tieni uniti
l'antico e il nuovo
Coltiva la memoria
E poi sollevala
nel vento che verrà .

Mariella Tramontano

L' ULTIMO MARX E NOI

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 L'ULTIMO MARX E NOIdi Annibale C. Raineri 10 febbraio 2017


Nel 2016 Donzelli ha pubblicato il libro di Marcello Musto L’ultimo Marx 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale. Vale la pena soffermarcisi.

Come chiarito dal sottotitolo, si tratta di un saggio di biografia intellettuale, che si avvale della gran mole di materiali che negli ultimi anni sono divenuti accessibili e che, secondo Musto, modificano l’immagine del vissuto e del pensiero di Marx fin ora consolidata.

Anzitutto biografia: Musto ci consegna l’immagine di Marx uomo negli ultimi tre anni della sua vita, alle prese con le sofferenze, i dolori e le (poche) gioie che quegli anni gli hanno concesso, ma che conserva la sua umanità nonostante il destino ostile, che lo perseguita financo con un’avversione climatica che fiacca il corpo malato. Marx affronta questo destino con lo spirito tenace di un combattente, che continua a tenere per le vicende più ampie della storia dell’umanità, nonostante viva, soggettivamente e non solo oggettivamente, una condizione di isolamento anche e specialmente nei confronti di quelli che dovrebbero essere i suoi più affini solidali, la frastagliata famiglia del movimento socialista nella penultima decade dell’Ottocento.

Resterebbe deluso chi cercasse in questo libro l’approfondimento teorico delle questioni irrisolte nell’ultima ricerca di Marx. Tuttavia il volume ci offre lo spunto per ridefinire la prospettiva nella quale dovrebbero collocarsi coloro che alle opere e alla vita di Marx continuano a fare riferimento, prendendo a testimone il lavorio cui lo stesso Marx sottopose il proprio pensiero, cercando nuovi orizzonti a partire dai quali superare l’impasse in cui si era trovata tanto la pratica che la teoria del “marxismo”.

Caratteristica di questo periodo è l’estremo ampliamento dell’ambito delle ricerche di Marx, nonostante il succedersi dei drammi familiari, l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, e l’urgenza interiore di completare l’opera cui aveva dedicato la sua vita, Il capitale, e alla quale assegnava un ruolo fondamentale («Emblematicamente, quando proprio nel 1881 Marx fu interrogato da Karl Kautsky, circa l’opportunità di un’edizione completa dei suoi testi, egli rispose causticamente: – Questi dovrebbero prima di tutto essere scritti.», p. 78)
Provo a indicare i punti che mi sembrano essenziali:
1. l’approfondimento delle scoperte in ambito antropologico, cui si dedica con intensità negli anni 1881-82;
2. la ripresa della ricerca storiografica di lunga durata;
3. la ferma opposizione all’oppressione coloniale in India, Egitto e Algeria ed il sostegno alla lotta di liberazione dell’Irlanda;
4. l’attenzione per la conoscenza delle forme di proprietà comune pre-capitalistica, non solo dal punto di vista storico, ma anche nei processi a lui contemporanei di esistenza/trasformazione delle forme di proprietà comune e di organizzazione politico-sociale non statuale (in particolare per le trasformazioni che vive la comune rurale in Russia, ma anche per le forme economiche e politiche non borghese-privatistiche né statuali del mondo islamico, con cui ha occasione di entrare in contatto grazie al suo viaggio in Algeria alla ricerca – fallita – di un clima più mite, secondo l’indicazione sanitaria).

Marx si era occupato delle formazioni sociali precapitalistiche sin dagli anni Cinquanta, tornandovi alla fine degli anni Settanta. Ma perché tornarvi, dedicando a tali studi non solo di storia economica, ma propriamente antropologici, un tale dispendio di tempo, in un’epoca in cui per ragioni di salute le sue energie erano ridotte? perché dedicarvi tanto tempo e tante energie in un periodo in cui sente così acutamente il peso del non essere riuscito a chiudere gli studi sul Capitale e a darne una versione completa e per lui appagante? La risposta di Marcello Musto, con cui mi sento di convenire, è che «questo gli serviva anche per dare delle fondamenta storiche più solide alla possibile trasformazione di tipo comunista della società» (p. 21). È questo un punto al quale sono particolarmente interessato: mentre Marx continua a cercare di descrivere la dinamica strutturale del modo di produzione capitalistico, e quindi la logica cui sono sottoposte le società in cui esso domina, si affaccia al suo pensiero l’ipotesi (certo non pienamente cosciente, ma tuttavia fortemente operante in lui) che il fondamento di una società comunistica deve in qualche modo essere connesso a un piano più di fondo dell’essere umano, per scorgere il quale è necessaria una visione più ampia e profonda, che abbracci l’insieme della storia del genere umano, e che comprenda le vicende storiche del capitalismo e del suo superamento con lo sguardo dell’antropologo, che cerca di individuare le logiche di funzionamento delle società in quanto umane (significativo è l’interesse di Marx per le strutture familiari), e, insieme, con lo sguardo dello storico di lunga durata, che descrive i molti modi in cui queste logiche si sono trasformate nel corso dei secoli e dei millenni. In questo modo la “rettifica” che Marx opera nel suo laboratorio intellettuale negli ultimi tre anni lo ricollega all’intera sua ricerca, e a quell’esordio così straordinario che fu il primo emergere del suo pensiero: i Manoscritti del ’44 e l’idea radicale di comunismo.

Musto, ripercorrendo i materiali di questi ultimi anni dell’opera di Marx, ed in particolare le lettere, che acquistano un ruolo decisivo per comprendere il profilo del Moro in questo squarcio di esistenza, conclude che il confronto con gli studiosi a lui contemporanei di antropologia, combinato con l’approfondimento delle sue ricerche storiche (fra l’autunno del 1881 e l’inverno del 1882 destinò gran parte delle sue energie intellettuali agli studi storici, ripercorrendo la storia mondiale a partire dal I secolo a. C.) portarono Marx a differenziarsi nettamente da una interpretazione della storia in senso evoluzionistico-darwinistico (prevalente fra gli antropologi dell’epoca), «conservando il suo caratteristico approccio: complesso, duttile e multiforme (…) non condivise i rigidi schemi sull’ineluttabile successione di determinati stadi della storia umana (e) respinse le rigide rappresentazioni che legavano i mutamenti sociali alle sole trasformazioni economiche. Marx difese, invece, la specificità delle condizioni storiche, le molteplici possibilità che il corso del tempo offriva e la centralità dell’intervento umano per modificare l’esistente e realizzare il cambiamento» (pp. 29-30). Dalla lettura del libro di Musso emerge come questo più articolato sguardo teorico alla storia umana, che incrina l’eurocentrismo della sua precedente elaborazione teorica, sia connesso ad un diverso approccio alla questione coloniale (complice l’attenzione ai fatti di attualità e le relazioni intrattenute con i soggetti che in esse promuovevano le lotte ai colonialismi): se negli anni Cinquanta l’accento di Marx era rivolto essenzialmente all’opera di “civilizzazione” che la dominazione coloniale realizzava, nei primi anni Ottanta prevale la consapevolezza di quanto il dominio coloniale con la sua opera abbia spinto i popoli indigeni non in avanti, ma indietro, in particolare attraverso la distruzione degli istituti comunitari (dalla distruzione della proprietà comune alle connesse forme sociali e politiche non statuali, tanto in riferimento alla politica coloniale inglese, p. 65, che francese, p. 109); senza peraltro con ciò mitizzare le società precapitalistiche.

Questo diverso modo di intendere lo sviluppo storico appare in tutta evidenza nella controversia sullo sviluppo del capitalismo in Russia, o, più esattamente, sul ruolo che la comune rurale russa (l’istituto tradizionale della obščina) avrebbe potuto avere nella prospettiva di un processo rivoluzionario in senso socialista. È forse il capitolo teoricamente più pregnante. Marcello Musso descrive la trasformazione della posizione di Marx sulla Russia, considerata per lungo tempo «uno dei principali ostacoli all’emancipazione della classe lavoratrice» e vista adesso come il luogo che presentava le condizioni più propizie per una rivoluzione. Musso sottolinea come la Russia era diventata progressivamente sempre più importante nello studio di Marx, portandolo ad imparare il russo per approfondire la conoscenza storica e l’attualità di quel paese. Tale centralità viene a coincidere, nel 1881, con i suoi studi antropologici, facendogli vedere con altri occhi la questione che divideva allora il movimento rivoluzionario russo: da un lato coloro che si consideravano (o tali si sarebbero definiti di lì a poco) “marxisti”, che ritenevano necessaria la rapida dissoluzione della comune rurale russa al fine di permettere il rapido sviluppo del capitalismo, ritenuto premessa necessaria per la successiva rivoluzione socialista; e dall’altro i populisti che al contrario vedevano nella permanenza della comune una possibile base su cui costruire la prospettiva socialista. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare sulla base dei suoi scritti precedenti, Marx condivideva le posizioni di questi populisti “di sinistra”. Con molta nettezza Marx afferma, contraddicendo la lettera dei suoi scritti, che la storia del mondo non deve ripercorrere le strade che lui ha descritto nelle analisi storiche dedicate allo sviluppo capitalistico dell’Europa occidentale (ed in particolare dell’Inghilterra), e che sono possibili, e perfino auspicabili, percorsi alternativi, quali quelli che sarebbero potuti derivare dallo sviluppo della obščina come germe di una futura società comunista (p. 63).

Nel 2001, intervenendo nel dibattito sulla globalizzazione aperto da Luigi Cavallaro sul “manifesto”, avevo ripercorso la posizione marxiana in merito alla possibilità di un processo rivoluzionario che avesse nell’antichissimo istituto della obščina– insieme economico, politico e sociale – la propria base, sottolineando come quella posizione marxiana, ma non marxista, potesse essere per noi fonte di orientamento per l’oggi. Ne riporto qualche passaggio.

Di fronte al conflitto fra la potenza dissolutrice del denaro nella sua funzione di capitale – che irrompe sulla scena di un paese non ancora pienamente sviluppato – e le preesistenti formazioni sociali di tipo comunistico, quindi non ancora assoggettate agli “automatismi del mercato” e alla conseguente atomizzazione delle relazioni sociali, Marx riteneva possibile una pratica che né si attestasse su posizioni “reazionarie” di difesa dei vecchi istituti né accettasse come inevitabile pagare i “prezzi della modernizzazione capitalistica”. Anzi, riteneva Marx, proprio il carattere pubblico e comunitario di tali istituti li rendeva soggetti fondamentali nella lotta per il superamento della società borghese, avendo qualcosa da insegnare ai soggetti il cui orizzonte di vita è costituito dai “paesi ancora asserviti dal regime capitalistico”.

La possibilità di questo nuovo sviluppo storico si fondava, per Marx, sulla contemporaneità fra la esistenza di antichi istituti comunitari e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico sulla cui base si sono sviluppati tanto i processi di universalizzazione delle relazioni sociali quanto l’emergere del valore della individualità con la connessa idea moderna di libertà: «se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda, allora l’odierna proprietà comune della terra in Russia potrà servire come punto di partenza ad uno sviluppo in senso comunistico» (Prefazione alla edizione russa del Manifesto, del 21 gennaio 1882).

Se, come spesso ci ricorda Cavallaro, il nodo che abbiamo da sciogliere è quello di superare/sopprimere il dominio del denaro (capitale) nella determinazione del quanto, come e cosa produrre, è altrettanto vero che questo compito, che segna per le sue dimensioni una intera epoca storica, non può essere ridotto alla definizione di una autorità centrale a (livello planetario), ma ci riconsegna il problema della invenzione e costruzione di percorsi decisori pubblici e democratici, non (più) mutuabili dalle esperienze degli stati nazionali, senza ovviamente con ciò volere demonizzare le esperienze del Novecento, né darne una rappresentazione caricaturale, come troppo spesso capita di leggere. Questa invenzione storica, anche di articolazioni istituzionali, oltre che economiche e sociali, può essere solo il prodotto di un movimento in cui cooperino creativamente tutti i soggetti che già oggi fanno pratica (contraddittoria quanto si vuole) di relazioni sociali non mercantili e non autoritarie.[1]

Queste considerazioni ci fanno comprendere come l’affermazione del vecchio Marx: «Quel che è certo è che io non sono marxista», sia più di una semplice battuta, e sia invece il frutto di un ripensamento su questioni fondamentali, anche se spesso poste nella forma di una mera reinterpretazione dei propri testi piuttosto che di una loro smentita (mai fatta).

Sul cambio di prospettiva realizzatosi nel pensiero di Marx negli anni Ottanta aveva insistito molto Enrique Dussel (El último Marx (1863-1882) y la liberacion latinoamericana [1990], ed. it. L’ultimo Marx, manifestolibri 2009), che nel capitolo finale, Dall’ultimo Marx all’America Latina, mostra come la concezione unilaterale della storia universale abbia dominato il pensiero di Marx fino alla pubblicazione del primo libro del Capitale, per essere poi abbandonata alla fine degli anni Sessanta anche in relazione ai rapporti sempre più significativi con i rivoluzionari russi di tendenza populista. Dussell legge il cambio di prospettiva dell’ultimo Marx – in opposizione alla continuità engelsiana – anche confrontandosi con Rosa Luxemburg, nella prospettiva della costruzione di un diverso orizzonte etico-politico dell’agire, che colga l’importanza della dimensione popolare e nazionale, cui Marx avrebbe iniziato a guardare proprio seguendo con partecipazione quanto accadeva in Irlanda e ripensando con diversi occhi la questione contadina. Da queste letture marxiane Enrique Dussel può quindi ricavare ispirazione per l’orientamento nell’azione politico-sociale in America Latina, dove il modello europeo di movimento socialista sarebbe privo di prospettive.

Rispetto al testo di Dussel, il recente volume di Marcello Musto (a parte diversità di accenti, che comunque non mi sembra modifichino l’essenziale, se non per uno sguardo accademico e museale all’opera di Marx) ci offre una visione più ampia della vita intellettuale dell’ultimo Marx. Da essa emerge con forza la testimonianza (quanto di più prezioso ci lasciano i suoi ultimi anni) di una ricostruzione unitaria dell’intero suo lavorio privo di attese dottrinarie. Ma soprattutto, confrontata con i compiti cui siamo oggi chiamati, ci impone la consapevolezza che l’unico orizzonte sensato dentro cui pensare la parola comunismoè quello che pone al centro della sua costituzione la dimensione antropologica, l’essere umano in quanto tale, cogliendo le sue vicissitudini non solo nella lunga storia della modernità (sin dal suo esordio, vedi le interpretazioni radicali della riforma protestante), ma specialmente nella lunghissima storia della nostra umanità, che, per tempi cronologicamente maggioritari e antropologicamente costitutivi, ha visto nel comune l’ambito primario dello svolgersi della sua esistenza.



[1] L’articolo, pubblicato l’11.9.2001, è ancora reperibile nel web col titolo Le comuni rurali: Marx censurato. L’attentato alle Torri gemelle interruppe il dibattito per ovvie ragioni politiche e giornalistiche. L’intero dibattito è stato poi pubblicato nel 2002 da Deriveapprodi in appendice a Karl Marx, Discorso sul libero scambio.

GRAMSCI E LA QUESTIONE MERIDIONALE

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Nella sede dell'Istituto Gramsci Siciliano di Palermo continua il Seminario intorno alla figura del grande sardo. Il terzo incontro verte sull'annosa questione meridionale.

Di nulla sia detto: "è naturale"...

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Marineo 10 febbraio 2017, un'immagine della Rocca franata



E vi preghiamo, quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: "È naturale" in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile. 

BERTOLT BRECHT

F. ARMINIO, Lettera ai ragazzi del sud

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Cari ragazzi,

abitate da poco una terra antica,
dipinta con le tibie di albe greche,
col sangue di chi è morto in Russia, in Albania.
Avete dentro il sangue il freddo delle navi
che andavano in America,
le grigie mattine svizzere dentro le baracche.
Era la terra dei cafoni e dei galantuomini,
coppole e mantelle nere,
era il Sud dell’osso, era un uovo, un pugno di farina,
un pezzo di lardo.
Ora è una scena dissanguata,
ora ognuno è fabbro della sua solitudine
e per stare in compagnia si è costretti a bere
nelle crepe che si sono aperte tra una strada e l’altra,
tra una faccia e l’altra.
Tutto è spaccato, squarciato, separato.
Sentiamo l’indifferenza degli altri
e l’inimicizia di noi stessi.
Uscite, contestate con durezza
i ladri del vostro futuro:
sono qui e a Milano e a Francoforte,
guardateli bene e fategli sentire il vostro disprezzo.
Siate dolci con i deboli, feroci con i potenti.
Uscite e ammirate i vostri paesaggi,
prendetevi le albe, non solo il far tardi.
Vivere è un mestiere difficile a tutte le età,
ma voi siete in un punto del mondo
in cui il dolore più facilmente si fa arte,
e allora suonate, cantate, scrivete, fotografate.
Non lo fate per darvi arie creative,
fatelo perché siete la prua del mondo:
davanti a voi non c’è nessuno.
Il Sud italiano è un inganno e un prodigio.
Lasciate gli inganni ai mestieranti della vita piccola.
Pensate che la vita è colossale.
Siate i ragazzi e le ragazze del prodigio.


Franco Arminio

1917-2017: LA STORIA NON E' FINITA.

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Nel febbraio 1917 una grande serie di scioperi e di dimostrazioni contro la guerra portava alla caduta della monarchia zarista. Furono soprattutto le donne di Pietroburgo e Mosca a scendere in piazza e a chiedere con forza la pace e il ritorno a casa dei loro figli e mariti. Tutto iniziò così. Sembrava l'inizio di un mondo nuovo, finalmente liberato dalla fame, dalla miseria, dalla guerra. Il sogno antico del comunismo, che da sempre gli uomini portano dentro di sè, sembrava finalmente diventare realtà: tutti uguali, né servi né padroni, mai più. Oggi tutto questo è cancellato e anche la speranza pare scomparsa. Ma gli uomini non possono vivere senza sognare. E il sogno dell'eguaglianza è il più grande di tutti.Per questo siamo certi che in altri luoghi e in altri tempi, che noi forse non vedremo, ma che certo di nuovo verranno, altri uomini e altre donne ancora si alzeranno in piedi e ancora riprenderanno a cantare. 














Inno nazionale dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche



La Grande Russia ha saldato per sempre
Un'unione indivisibile di repubbliche libere!
Viva l'unita e potente Unione Sovietica
Fondata dalla volontà dei popoli!

Sia celebre la nostra Patria libera,
Sicuro baluardo dell'amicizia fra i popoli!
Il partito di Lenin, che è la forza del popolo
Ci porta verso il trionfo del Comunismo!
Attraverso la tempesta ci illuminò il sole della libertà
E il grande Lenin ci rischiarò la via:
Alla giusta causa mosse i popoli,
Ci ispirò al lavoro e ad eroiche imprese!

Sia celebre la nostra Patria libera,
Sicuro baluardo dell'amicizia fra i popoli!
Il partito di Lenin, che è la forza del popolo
Ci porta verso il trionfo del Comunismo!
Nella vittoria delle idee immortali del Comunismo
Noi vediamo l'avvenire del nostro Paese.
Ed alla bandiera Rossa della gloriosa Patria
Saremo sempre leali con abnegazione!

Sia celebre la nostra Patria libera,
Sicuro baluardo dell'amicizia fra i popoli!
Il partito di Lenin, che è la forza del popolo
Ci porta verso il trionfo del Comunismo!

LE MIGRAZIONI DEI POPOLI NON POSSONO ESSERE FERMATE

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Migranti nigeriani a Palermo
 Nel 18° e 19° secolo l’Europa ha popolato il mondo. Oggi il mondo sta popolando l’Europa. Al di là delle tensioni scatenate dall’arrivo nel 2015 in Germania di oltre un milione di rifugiati, si impone la realtà delle grandi tendenze demografiche. L’attuale crisi migratoria è alimentata dalle guerre nel Medio Oriente, ma altre dinamiche ancor più rilevanti fanno sì che l’immigrazione verso l’Europa continuerà a rappresentare una questione controversa ben oltre la fine della guerra in Siria.

Le migrazioni di massa in Europa non possono essere fermate 

Gideon Rachman

L’Europa è un continente ricco che sta invecchiando e la cui popolazione è stagnante. Al contrario, l’Africa, il Medio Oriente e l’Asia del Sud, aree più giovani e povere, crescono velocemente. Al culmine dell’età imperiale, nel 1900, i Paesi europei vantavano il 25% della popolazione mondiale. Oggi, gli europei sono circa 500 milioni e rappresentano attorno al 7% degli abitanti del pianeta. In Africa, al contrario, ci sono ora più di un miliardo di persone e, secondo l’Onu, diventeranno 2,5 miliardi nel 2050. La popolazione dell’Egitto è raddoppiata dal 1975, raggiungendo gli oltre 80 milioni di oggi. La Nigeria aveva 50 milioni di abitanti nel 1960, che ora sono cresciuti a 180 milioni e nel 2050 saranno oltre 400.
Le migrazioni in Europa di africani, arabi e asiatici segnano il capovolgimento di una tendenza storica. Nell’era coloniale, l’Europa praticò una sorta di imperialismo demografico, con le sue popolazioni bianche che emigravano ai quattro angoli del mondo. Nel Nord America e in Australia gli indigeni furono sottomessi, spesso uccisi, e interi continenti furono trasformati in propaggini dell’Europa. I Paesi europei, inoltre, crearono colonie ovunque e vi insediarono i propri emigranti, mentre allo stesso tempo diversi milioni di persone furono costretti a emigrare con la forza, come schiavi, dall’Africa verso il Nuovo Mondo.
Quando gli europei popolavano il mondo, spesso lo facevano attraverso una “migrazione a catena”. Dapprima, il membro di una famiglia si insediava in un nuovo Paese come l’Argentina o gli Usa; poi, notizie e denaro arrivavano a casa e, infine, non molto tempo dopo, altri emigranti seguivano le orme dei primi. Ora, la catena si muove nella direzione opposta: dalla Siria alla Germania, dal Marocco ai Paesi Bassi, dal Pakistan alla Gran Bretagna. Tuttavia, di questi tempi non è più questione di una lettera giunta a casa e seguita da un lungo viaggio per mare. Nell’era di Facebook e degli smartphone, l’Europa appare vicina anche se vi trovate a Karachi o a Lagos.
Negli ultimi quarant’anni, Paesi come il Regno Unito, la Francia e l’Olanda sono diventati molto più multirazziali. E i Governi che si impegnano a imporre un giro di vite all’immigrazione, come l’attuale esecutivo inglese, si sono accorti che è poi molto difficile mantenere le promesse.
La posizione dell’Unione europea è che, mentre i rifugiati politici possono chiedere asilo in Europa, i “migranti economici” clandestini devono tornare a casa. Per varie ragioni, tuttavia, è improbabile che questo approccio riesca ad arginare i flussi di popolazione.
Innanzitutto, il numero dei Paesi che sono tormentati dalla guerra o dal collasso degli Stati potrebbe realmente aumentare; ad esempio, stanno crescendo le preoccupazioni per la stabilità dell’Algeria.
In secondo luogo, la maggior parte di quelli che sono considerati “migranti economici” non lasciano mai effettivamente l’Europa: in Germania solo il 30% dei richiedenti asilo respinti abbandonano il Paese volontariamente o sono deportati. Infine, una volta insediate grandi comunità di immigrati, il diritto alla ricongiunzione familiare garantirà un flusso ininterrotto. In questo modo, è probabile che l’Europa rimanga una destinazione attraente e raggiungibile per le popolazioni povere di tutto il mondo che aspirano a una vita migliore.
Una possibile reazione è quella di accettare l’immigrazione dal resto del mondo come inevitabile, e di abbracciarla con tutto il cuore.
Le economie piene di debiti dell’Europa richiedono un’iniezione di gioventù e di dinamismo. Chi potrà mai lavorare nelle case per anziani e nei cantieri se non gli immigranti provenienti da tutto il mondo?
Tuttavia, persino gli europei favorevoli alla causa dell’immigrazione tendono a sostenere che i nuovi arrivati nel continente, naturalmente, devono tutti quanti accettare “i valori europei”. Una pretesa che potrebbe risultare non realistica, in parte perché molti di questi valori sono di epoca relativamente recente. Negli ultimi decenni, il femminismo ha compiuto infatti passi da gigante in Europa e gli atteggiamenti nei confronti dei diritti dei gay sono stati trasformati. Molti immigranti dal Medio Oriente e dall’Africa portano con sé mentalità molto più conservatrici e sessiste. Non basterà, certo, qualche lezione civica per cambiare questa situazione.
Gli europei sono profondamente confusi su come rispondere a queste nuove sfide. Nell’età dell’imperialismo, giustificavano gli insediamenti in terre straniere con la convinzione fiduciosa che stavano esportando i benefici della civiltà nelle aree più arretrate del mondo. Ma l’Europa post-imperialista e post-Olocausto è molto più prudente nell’asserire la superiorità della propria cultura. Ha rimpiazzato la fede nella sua missione di civilizzazione e nella Bibbia con un’enfasi sui valori universali, sui diritti individuali e sui trattati internazionali.
La grande domanda nei prossimi decenni è come la fede dell’Europa nei valori liberali universali possa resistere all’impatto con l’immigrazione di massa. Una battaglia tra “nativisti” e liberali sta iniziando a plasmare la politica. A lungo termine mi aspetto che i “nativisti” perdano, non perché le loro istanze non siano popolari, ma perché inapplicabili. Potrebbe essere possibile per le nazioni-isole circondate dall’Oceano Pacifico, come il Giappone e l’Australia, mantenere controlli rigorosi sull’immigrazione. Sarà quasi impossibile per la Ue che è parte del continente Euroasiatico ed è separata dall’Africa solo da brevi tratti di mare nel Mediterraneo.(Traduzione di Marco Mariani)

Il Sole 24 ore, 13 gennaio 2016 da The Financial Times 2016

Una poesia di Edward Estlin Cummings

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Amore mio

Amore mio
la tua chioma è un reame
dove regina è l'oscurità
la tua fronte è uno svolo di fiori

è la tua testa come un bosco vivo
ricolmo di uccelli che dormono
i tuoi seni son grappoli di api
candidi sopra il ramo del tuo corpo
il tuo corpo è l'aprile e le ascelle
mi annunziano la primavera

sono bianchi cavalli le tue cosce
aggiogati ad un cocchio da re
sono il ritmo d'un bravo menestrello
e in mezzo a loro c'è sempre una musica

amore mio
la tua testa è uno scrigno per la gemma
fresca della tua mente
i tuoi capelli son come guerrieri
che non sanno sconfitta
i tuoi capelli sulle spalle sono
un'armata con trombe vittoriose

le tue labbra son satrapi in porpora
i cui baci sanno far congiungere
come re
e i polsi
fanno la guardia alla chiave del sangue

sulle caviglie i piedi sono fiori
in vasi d'argento
fluttuano flauti nella tua bellezza

hanno i tuoi occhi l'ambiguità
di campane intuite nell'incenso.
 

da E. E. Cummings, 95 poems, Harbrace Paperbound Library, 1959

ANNA CURIEL FANO: Una donna libera del primo 900.

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Anna Fano: una donna “emancipata” nella Trieste del primo Novecento

diMarina Torossi Tevini

Anna Curiel Fano è una delle figure più interessanti della Trieste ebraica di inizio Novecento, lo stesso milieu sociale e culturale a cui appartennero Saba, Voghera e Giotti. Ne fece parte sia in modo diretto, attraverso quello che scrisse, sia in modo indiretto, attraverso le molteplici relazioni di amicizia e di parentela con i componenti di quel gruppo. Attraverso le vicende della sua vita possiamo cogliere molti aspetti interessanti del primo Novecento triestino e anche, e soprattutto aspetti della sua personalità forte e indipendente. Sorprendentemente moderna per i tempi.
Nata il 20 aprile 1901 da Aronne di Samuele e dalla sua seconda moglie Maria Morpurgo, frequentò il Liceo Femminile e fin da giovane dimostrò doti di anticonformismo e di profonda intelligenza. Amava l’indipendenza ed era sensibile, tenace, conscia di sé, capace di autoanalisi approfondite anche se, come ci testimonia Saba, un po’ superba e testarda. Visse a Milano e a Roma e nel 1931 sposò il filosofo triestino Giorgio Fano, docente all’Università di Roma e studioso della filosofia di Croce, del pensiero indiano e dell’origine e della natura del linguaggio, di cui fu per molti anni fedele e intelligente collaboratrice.
Dopo la morte del marito nel 1963, si trasferì a Bologna dal 1965 al 1990. Scrisse numerosi racconti, alcuni dei quali pubblicati su giornali e riviste, e un migliaio di pagine di carattere autobiografico rimaste inedite sinché il figlio Guido non pubblicò nel 2005 il bel volume Giorgio e io. Una storia d’amore nella Trieste del primo Novecento (Marsilio editore) che le dà finalmente la giusta collocazione e il giusto riconoscimento nel panorama culturale del tempo.
Leggendo Anna Fano in questo libro che ripercorre i ricordi di una vita, ci troviamo davanti una donna che  precorre i tempi, perché “Annetta” non si rifugiava in ruoli subalterni, non rinunciava alla propria personalità, era una donna che non temeva di rompere schemi di comportamento consolidati da generazioni e aveva avuto il coraggio in tempi non facili, di dialogare con fermezza all’interno della sua famiglia per seguire il suo ideale di donna “emancipata”. In bilico tra l’essere donna o persona aveva sempre optato per la seconda opzione.
Ma questo non lese la sua femminilità né la sua capacità di essere compagna e fedele sostenitrice di un uomo come Giorgio Fano, dotato di grande fantasia, creatività, rara profondità di pensiero, e anche di uno straordinario entusiasmo giovanile che gli permetteva di scherzare con i bambini e di prendere la vita alla leggera. La vita di Anna accanto a lui fu drammatica e sofferta; ma anche largamente gratificante e tale da poter insegnare molto anche a coloro che la leggono oggi. Pubblicò il racconto lungo Noi ebrei che narra la storia di un gruppo di famiglie ebraiche che si erano rifugiate in Abruzzo della seconda guerra mondiale. Anna con il marito e il figlio Guido si era stabilita in diverse località abruzzesi durante la guerra fino al giugno del 1944, quando Roma fu liberata dagli anglo-americani. Il racconto è la cronaca di quel soggiorno: un resoconto sereno, privo di pur giustificabili rancori, ricco di personaggi e punteggiato di numerosi piccoli episodi, da cui emergono le preoccupazioni, le ansie e le paure dell’epoca. La narrazione abbonda di notazioni umanamente affettuose e dolorose, di nitide variazioni paesaggistiche, di riflessioni storiche; né mancano, talora, le tonalità ironiche e scherzose che sono caratteristiche della sua scrittura e si trovano copiose anche nel libro di memorie che il figlio ha dato alle stampe. È autrice anche  di una commedia inedita Vittoria.
Giorgio e io  si inserisce nel genere diaristico-memorialistico in cui le donne triestine hanno dato il meglio di sé. Si pensi a “Lettere a Scipio” di Elody Oblath, che percorre strade per qualche aspetto analoghe ad Anna, ponendosi come interlocutrice di pari livello rispetto a un uomo dalle capacità eccezionali come Scipio Slataper. In Elody vanno di pari passo amore romantico e confidenza, amicizia e stima, componenti che si riscontrano anche nella relazione tra Anna e Giorgio. Entrambi, Elody e Anna furono donne intraprendenti, volitive, sportive che credevano nell’amorosa amicizia e rifuggivano dalla passività tradizionalmente imposta alle donne.
L’avere un ruolo comprimario, poter prendere decisioni sulla propria vita venne indubbiamente facilitato dal’ambiente in cui vissero e sarebbe stato impensabile all’epoca al di fuori dell’ambiente triestino ed ebraico.
La Trieste mercantile del primo Novecento lasciava alla donna molti margini di libertà che altrove le erano negati, anche se le chiedeva di assumersi delle responsabilità e dei pesi.
In entrambe, in Elody e in Anna, l’amore, che ha parte grande, viene visto come una “forma privilegiata di conoscenza del mondo” e attraverso i sentimenti propri e degli altri si cerca di sondare fino alle radici più nascoste l’animo proprio e altrui con grande chiarezza e fine autocoscienza, senza coprirsi gli occhi e sviare la verità.
Lo spirito di indipendenza, un rapporto agonico e confidenziale tra i partner, la passione per ogni forma di conoscenza sono comuni a entrambe, anche se le esperienze umane furono molto diverse. Nel caso di Anna fu l’amore per Giorgio Fano, amore iniziato quando la ragazzina aveva appena dodici anni e durato tutta la vita, che determinò la sua esistenza e le sue scelte.  Giorgio Fano era di sedici anni più grande di lei e ovviamente percorse una via che lo portò in molti momenti lontano da Anna, si fidanzò, si sposò, ebbe due figli. Le loro strade si incrociarono e si allontanarono più volte, ma iniziarono a intersecarsi a partire dai diciotto anni della Curiel. A quel tempo Anna era già in grado di fare le sue scelte, di prendere o lasciare un lavoro, di decidere la propria vita – e l’ambiente familiare ebraico in questo senso era molto rispettoso della sua capacità di giudizio e della sua maturità, anche se ovviamente tutti le sconsigliavano di impelagarsi in una storia difficile e senza grandi prospettive.
L’ambiente ebraico influì sulla sua tendenza a un’autoanalisi esasperata, sul gusto a un’analisi psicologica molto spregiudicata che sarebbe stata impensabile in un’autrice di altra estrazione culturale, almeno in Italia.
L’ambiente culturale ebraico a Trieste agli inizi del Novecento era numericamente abbastanza esiguo, ma non per questo poco significativo. Pensiamo che da quel milieu uscirono personaggi del calibro di Svevo o di Saba. Certo, Svevo si battezzò e Saba era figlio di un non ebreo. Ma entrambi, pur lontani dalla cultura ebraica in senso stretto, conservarono una certa psicologia ebraica, trasmessa attraverso la tradizione e le abitudini familiari.  È presente in Svevo uno psicologismo molto fine, molto dettagliato e in Saba un tipo di sensibilità e delle peculiarità che si possono difficilmente comprendere se non si tiene conto del sangue parzialmente ebraico del poeta. Anche Anna Curiel Fano dimostra capacità raffinate di autoanalisi e di psicologismo.
Il libro Giorgio ed io dà un importante contributo anche alla maggior conoscenza di personaggi famosi come Giorgio Voghera, Saba, Giotti, tutti legati da vincoli di amicizia e di parentela alle famiglie Curiel e Fano. Giorgio Voghera era figlio di Guido Voghera e imparentato con Anna. Lei, di alcuni anni maggiore, giocava spesso con il bambino, che definisce un “genietto” visto che a sei anni sapeva già citare a memoria brani della Divina Commedia, anche se era inadatto a qualsiasi attività sportiva. La giovane Anna invece era una ragazzina scatenata, si arrampicava sugli alberi, faceva lunghe nuotate, una vera amazzone triestina. Con la famiglia di Virgilio Giotti era invece imparentato Giorgio Fano, che sposò Maria, sorella di Virgilio.
Spesso nelle pagine di Anna si parla dell’amicizia tra Guido Voghera e Giorgio Fano, assai attivi a Trieste come conferenzieri e conosciuti per le loro idee filosofiche spregiudicate e per i loro molteplici interessi intellettuali e di Saba e  Giotti che discutevano alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale di italianità (tutto il gruppo ebraico triestino era fortemente filoitaliano e irredentista).
Una figura quella di Anna Fano per certi aspetti di complemento nel variegato panorama della Trieste del primo Novecento, ma non per questo meno affascinate e ricca di spunti di inquietante modernità.

di Marina Torossi Tevini
Testo tratto da https://viadellebelledonne.wordpress.com/

Céline antisemita: fatti, non parole.

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Céline razzista e hitleriano

Leonardo Martinelli, Céline antisemita: fatti, non parole, La Stampa, 3 febbraio 2017
Dell’antisemitismo di Louis-Ferdinand Destouches (1894-1961), in arte Céline, si era già detto e scritto tanto. Eppure, un libro di 1200 pagine, appena uscito a Parigi (dove già fa polemica), va oltre, dimostrando, prove alla mano, che lo scrittore, geniale ed esagerato, paranoico e apocalittico, non era solo un antisemita nelle parole, ma anche negli atti: il suo odio contro gli ebrei si tradusse in delazioni e connivenze con i nazisti.

Ci hanno lavorato quindici anni, Annick Duraffour e Pierre-André Taguieff, specialisti dell’antisemitismo, a Céline, la race, le juif: légende littéraire et verité historique, pubblicato da Fayard. Partono da quei tre pamphlet, già conosciuti (ma mai ripubblicati da allora: si oppone da sempre l’ultima moglie, Lucette, che è ancora viva, ha 104 anni), usciti fra il 1937 e il ’41 (Bagatelle per un massacro, La scuola dei cadaveri e Le belle rogne). Lì il romanziere maledetto spiegava chiaro e tondo che «gli ebrei sono i nemici innati dell’emotività ariana».

Al di là della letteratura, però, Céline ebbe contatti con il Welt-Dienst, l’agenzia nazista specializzata nella propaganda antisemita a livello internazionale, ed ebbe un legame stretto con il filonazista canadese Adrien Arcand, che l’accolse a Montréal come «invitato d’onore» all’assemblea del suo movimento. Non solo: si è sempre detto che riguardo alla Shoah Céline non poteva sapere. Ma anche qui i due ricercatori forniscono compromettenti indizi sul fatto che l’autore di Viaggio al termine della notte sapesse, eccome, già dall’estate del 1942. E fece anche delazione, tra gli altri a scapito del dottor Joseph Hogharth, di cui voleva prendere il posto (pure Céline era medico), denunciandolo alle autorità come «straniero ebreo non naturalizzato».

Duraffour e Taguieff ritengono addirittura che fosse un agente dei nazisti nella Parigi occupata, senza comunque avere le prove di un pagamento. D’altra parte, Céline poté godere di tanti benefici, dalla carta a disposizione per pubblicare i suoi libri a un viaggio per motivi medici in Germania, fino al lasciapassare concesso per la Danimarca, quando si ritrovò a Baden-Baden alla fine della guerra, poco prima della liberazione. A Copenaghen, in realtà, finì in carcere per un anno e mezzo per collaborazionismo e fu condannato nel 1950 a Parigi in contumacia a un anno di prigione. Un’amnistia gli permise di ritornare in Francia nel 1952. Ritrovò presto la strada del successo letterario.

Inoltre: Alice Kaplan, Relevé des sources et citations dans "Bagatelles pour un massacre", Le Lérot 1987; Odile Roynette, Un long tourment. Louis-Ferdinand Céline entre deux guerres (1914-1945), Les Belles Lettres 2015.
http://abonnes.lemonde.fr/livres/article/2017/02/08/celine-activiste-et-delateur-hitlerien_5076652_3260.html

 

MANDORLI IN FIORE

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«Il mandorlo fiorisce in inverno, un mese prima degli altri alberi e per questo è simbolo della vita che ritorna, della speranza che non va mai persa. In un mito di indimenticabile bellezza. Fillide, principessa della Tracia, si innamora perdutamente di Acamante, figlio di Teseo in viaggio verso Troia. Al ritorno dalla guerra l’amato non è sulla nave, Fillide per nove giorni l’aspetta sulla spiaggia poi muore di dolore. Atena pietosa la trasforma in un albero di mandorlo che Acamante, che aveva solo tardato, abbraccerà fino a farlo fiorire. Era il pieno dell’inverno».

Giuseppe Barbera



F. VILLON, un poeta canaglia

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"Pendus". Incisione dalla prima edizione del "Testamento" di François Villon (1489)
 

Villon. “Sono François poeta malandrino” 

 Alfredo Giuliani

Mastro François des Loges o de Montcorbier, parigino dei sobborghi, divenuto orfano di padre fu allevato da un oscuro e onesto protettore ecclesiastico, il cappellano Guillaume de Villon, del quale adottò il nome. Laureato, o più precisamente «licenziato», nel 1452 (aveva ventun anni) alla Facoltà delle Arti; scrivano, forse, saltuario e indocile; forse aspirante deluso a un qualche «beneficio» (un posto ben remunerato e di un certo rilievo intellettuale); vivace sottaniere e compagnone di taverne; ladro occasionale, alleato (non proprio magnaccia) di prostitute e sodale di malfattori. Girovago per disperazione, più volte incarcerato, processato, graziato da una condanna a morte e infine bandito da Parigi nel 1463, anno dopo il quale si perde di lui ogni traccia; autore delle più straordinarie poesie dei Quattrocento francese: Le Testament, Il contrasto del cuore e del corpo di Villon, la Ballata degli impiccati. Quando sentiva incombere la forca, scrisse questa quartina: “Io sono Francesco, il che mi pesa, / nato a Parigi, presso Pontesa, / e dalla corda lunga una tesa / saprà il mio collo quanto il culo pesa”. Francesco nell'antico italiano significava anche «francese», proprio come il francese François. A parte il nome italianato, ho citato la versione di Emma Stojkovic Mazzariol, curatrice della più completa edizione reperibile da noi (Villon, Opere, Mondadori, pagg. 606, lire 5.500, con ricco apparato di note e testo originale a fronte).
Questo è il personaggio che non cessa di affascinare critici e biografi; ovviamente, è grazie alla sua poesia che il «povero Villon» sopravvive in eterno, esemplare dell'uomo rissoso e tormentato del tardo Medioevo. Uscito dal liceo, uno dei primi libri che ebbi il naso di acquistare fu, appunto, Autunno del Medio Evo di Huizinga; a tale deliziosa rievocazione debbo un'incalcolabile quantità di insegnamenti e di suggestioni. Proprio nel capitolo di apertura Huizinga osservava che gli spogli d'archivio e le ricerche storiche sulla gente nominata o ricordata da Villon nel suo Testamento, le annotazioni sui borghesi di Parigi e sulla gente qualunque di quell'epoca, mettevano in luce soprattutto processi, delitti, liti, persecuzioni, ingiustizie.

Eredità immaginaria
Da documenti ecclesiastici, verbali di polizia, carte processuali e lettere di «remissione» (condoni o grazie) la vita di tutti i giorni balza fuori vivace e fosca. E questa impressione è confermata dai documenti ordinari. Era una vita tempestosa o, come diceva Huizinga, dai toni crudi. Amo Autunno del Medio Evo oggi non meno di ieri. Però su Francois Villon, più volte menzionato e citato, c'era in un dato punto una frase che qualche anno dopo, quando riuscii a leggere le poesie, mi sembrò stranamente imprecisa: «Tutti conoscono Le Testament di Francois Villon, il grande poema satirico, nel quale egli lega tutto quel che possiede ai suoi amici e ai suoi nemici».
Definire il Testamentoun poema satirico suona alquanto riduttivo. E poi tutto il succo dell'opera sta nel fatto che il povero Villon non possedeva un accidenti di nulla. I suoi lasciti, quasi tutti indirizzati a persone realissime, erano rigorosamente immaginari: un paio di brache usate, un ghiacciolo, un proverbio bruciante, una canzoncina. Ai ciechi di Parigi, cui era concesso tradizionalmente di questuare nella chiesa degli Innocenti (attigua all'omonimo cimitero prediletto dai ricchi), lascia i suoi «grandi occhiali» perché possano distinguere i galantuomini dai furfanti, distinzione che sarebbe loro impossibile quand'anche ci vedessero. E via di questo passo.
Uno dei suoi lasciti più grandiosi è il seguente: “E se qualcuno, a mia insaputa, / da morte a vita fosse passato, / libertà gli lascio assoluta, /a che il disposto sia osservato / e fino in fondo compiuto sia, / che altrove il lascito trasmetta, /senza intascarlo per bramosia: / alla coscienza sua mi rimetto”. Lo spirito beffardo di Villon non risparmiava niente e nessuno, ma si trasformava all'occasione nella più straziante nostalgia («Piango il tempo di mia giovinezza...»), in tenerezza improvvisa, nella pietà più alta («Fratelli umani, che ancor vivi siete, / non abbiate per noi gelido il cuore...»). Ma la grandezza autobiografica del Testamento sta nel fatto che il poema è, per così dire, una trasfigurazione verso il basso, anziché verso l'alto. Ecco forse perché egli può essere sbrigativamente chiamato satirico, tacendo del suo potente patetismo e della sua energia drammatica.
Quel tanto che si sa della vita di Villon si ricava dalla sua stessa opera, da certi documenti che riguardano alcuni fatti criminali in cui fu coinvolto (risse col morto e con ferimenti, un furto sacrilego di cinquecento o seicento scudi sottratti a una cassa ecclesiastica), dalle fonti d'archivio che forniscono notizie o congetture sulle persone chiamate in causa nel Testamento. Non è molto, ma neppure poco. E ci sono i colori, sgargianti o cupi, dell'epoca. La Francia e Parigi intorno al 1450.
Dopo la desolazione della guerra dei cent'anni, l'occupazione inglese, flagelli di ogni genere (epidemie, carestie, incursioni brigantesche) e conseguente spopolamento, verso gli anni Quaranta Parigi comincia a rinascere. Nel 1450 ha centomila abitanti e un suo piccolo cosmopolitismo, è diventata un grande mercato di consumi e un centro di traffici, soprattutto regionali; conta duecento tavernieri professionali e un centinaio di osti avventizi; è gonfia di «foresti» inurbati; ha tre o quattromila studenti dei corsi superiori e delle Facoltà di teologia, diritto, medicina; ha trentacinque parrocchie, venti monasteri, ringhiose corporazioni di mercanti e artigiani; gli intellettuali si disputano gli uffici reali, le funzioni amministrative, i benefici ecclestiastici.
Tra feste religiose e temporali, domeniche e particolari festività profane (c'è la festa dei Matti, quella dell'Asino, quella della Fava), il parigino lavora sì e no un duecento giorni l'anno, e ogni festa conduce dalla chiesa alla taverna. La morte è di casa. Il cimitero degli Innocenti è un luogo di riunioni e di convegni galanti; dal 1425 sui muri del chiostro spiccano gli affreschi della Danza Macabra: gli scheletri del re e del papa e dei cittadini di qualsiasi condizione ballano il rito satanico della fragilità umana.
Nei giorni di festa, la Danza Macabra, con sempre nuove aggiunte e variazioni, viene rappresentata ai cantoni delle strade. Le strofe di otto versi che commentano le figure scarnificate degli Innocenti sono tra le fonti «letterarie» di Villon. La forca e il patibolo fanno parte del paesaggio urbano. Ogni quartiere di Parigi ha il suo «palco». La giustizia del prevosto e i tribunali ecclesiastici hanno più anno meno, vi fanno salire una sessantina di persone. Vescovi e priori hanno le loro forche, come il re. I sergenti delle verghe, ossia gli sbirri, sono altrettanto importanti dei notai e dei canonici.

Mediocre canaglia
Questo è soltanto un sommario, incompleto, dei «toni crudi» di cui parlava Huizinga. E di cui ci parla oggi, con pregnante minuzia, un altro storico, Jean Favier, in un magnifico libro intitolato semplicemente François Villon (Fayard, pagg. 540, franchi 98). Direttore generale degli Archivi di Francia, professore alla Sorbonne, autore di varie opere sulla storia del Medioevo, Favier si muove assai agilmente nel mondo del XV secolo e dà l'impressione, almeno al lettore tutt'altro che specialista, di utilizzare al meglio i documenti, la bibliografia e l'opera stessa del poeta. È molto saggio e non s'azzarda in congetture spericolate, le sue ipotesi sono sempre ragionevoli e suffragate da una profonda conoscenza della vita del tempo.
Non credo, e del resto nessuno vi riuscirebbe, che Favier abbia rinnovato da cima a fondo la nostra visione di Villon; ma ha fatto di più. Con una serie di piccole correzioni ai giudizi correnti, ricostruendo con magistrale erudizione (resa assai gradevole dal tono discorsivo e da una scrittura nitida e corposa) la Parigi di Villon e la Francia nobile e borghese e malandrina percorsa presumibilmente dal poeta nei suoi anni di vagabondaggio, evocando insomma senza risparmio lo spessore dell'esistenza reale, gli ambienti, le istituzioni, le figure sociali, tutto ciò che deve o può aver toccato la sorte dello scrittore, Favier ci ha reso familiare e quasi palpabile un personaggio che appare insieme comune e fuori del comune.
Eccezionale, naturalmente, è il genio letterario di Villon; ciò ne fa un prezioso testimone, prezioso anche per lo storico. E Favier legge molto acutamente tra le pieghe dell'opera di Villon; legge, è ovvio, da storico, mai dimenticando però la letterarietà di quell'opera. Ciò che invece fa di Villon un uomo comune è proprio la sua condizione di povero diavolo, di «marginale». Per quanto sia indubitabile che a un certo punto la sua vita cominciò a scivolare verso la delinquenza professionale, ciò che intravediamo, dice Favier, è più vicino alla mediocrità che al crimine. È una vita di espedienti, più che di malefatte. Villon fu un mediocre scolaro, e probabilmente una mediocre canaglia; si dà l'aria del malvivente, vuol far credere di far parte della Coquille (una camorra che includeva ladri, borsaioli, taglieggiatori, bari, falsari di ogni genere e che aveva una gerarchia e un proprio gergo.
Ma la regina di Villon è l'immaginazione, è lei che lo conduce alle attraenti frontiere della disonestà; è lei che lo nutre amorosamente di paradossi. E' sempre lei che, specie dopo l'inutile «licenza», che è il grado minimo rilasciato dall'università, lo conduce verso le bisbocce, le compagnie avventurate, le letture facili o frammentarie, le seduzioni delle leggende e dei motti di spirito, la passione per i giochi di parole, gli adagi popolari, le parodie, le espressioni formulari. L'uomo che intorno ai trent'anni ha scritto il Testamento deve aver dedicato parecchie energie, se non altro, a sentire la lingua e a riflettere sulle sue meraviglie.

L'ultimo documento che si conosce di Villon è una sua poesia, Lode alla Corte, scritta evidentemente dopo esser stato graziato della pena diMorte: “Voi denti miei, scrollatevi e davanti / balzate tutti insieme e ringraziate, / d'organo, tromba e bronzo più sonanti, / di masticare pena non vi date, / già morto potrei essere, pensate, /voi tutti, milza fegato polmone / che respiri; e tu mio corpo peggiore / d'orso o di porco che sta nella melma...”. Villon che ringrazia fervidamente la Corte battendo i denti. Dobbiamo immaginare che abbia conclusa da pentito il suo esilio ai margini della vita?

Da un ritaglio de "la Repubblica",  senza data, probabilmente 1982

ECCO COSA MANCA ALLA SINISTRA OGGI

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I politici della finta sinistra odierna da tempo, com'è noto, si occupano d' altro. Stefano Rodotà, nell'articolo seguente, indica chiaramente cosa dovrebbero fare se volessero davvero raccogliere il messaggio contenuto nell'esito del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre.  fv

La dignità della persona

di Stefano Rodotà 
«Siate realisti: chiedete l’impossibile». Questo ammonimento, che Albert Camus affida a Caligola, dovrebbe rappresentare un costante criterio di riferimento per tutti coloro che pensano e agiscono politicamente — e comunque identificano la politica con il cambiamento. Il rischio concreto, altrimenti, è quello di una sorta di tirannia dei fatti che, se considerati come un riferimento da accettare senza alcuna valutazione critica, come l’unica misura e regola del possibile, ben possono trasformarsi in una trappola, o una prigione. Una questione di evidente rilievo culturale e che, se trasferita sul terreno politico, può aprire una strada verso finalità sostanzialmente conservatrici.
È quel che sta accadendo in molti casi, con una scelta che non può essere considerata inconsapevole o innocente. L’attribuire ai nudi fatti la competenza a dettare le regole della vita sociale e politica dà origine ad una sorta di naturalismo che sconfigge la necessaria e consapevole artificialità della regola giuridica e della decisione politica. E che, nella sostanza, trasferisce il potere di scelta dalle procedure democratiche alle dinamiche di mercato. È così nato un nuovo diritto naturale, al quale viene attribuita una specifica legittimazione grazie al riferimento ad un mondo globale dove non sarebbe possibile ritrovare soggetti che abbiano la competenza per governarlo.
Conclusione che trascura il passaggio da una concentrazione ad una moltiplicazione dei soggetti e dei luoghi delle decisioni, sì che il problema è piuttosto quello di creare le condizioni istituzionali per la democraticità di questi processi per quanto riguarda partecipazione e controllo. In questa prospettiva non muta soltanto la dimensione spaziale, con la globalizzazione, ma pure quella temporale, con la rilevanza assunta dall’insieme delle dinamiche che determinano e accompagnano nel tempo l’azione di una molteplicità di attori.
L’attuale discorso pubblico mette in evidenza, quasi in ogni momento, la necessità di spingere lo sguardo oltre gli specifici fatti che la realtà quotidiana concretamente propone, di ragionare considerando anche la prospettiva di lungo periodo. Compaiono con insistenza parole che invitano, spesso in maniera perentoria, a riflettere e ad agire seguendo vie che portano, si potrebbe dire, ad incorporare il futuro nel presente. Si insiste sull’utopia, fin dal titolo dei libri, e si accenna addirittura alla profezia. Si riscopre l’«utopia concreta» di Marc Bloch, sull’utopia dialogano Paolo Prodi e Massimo Cacciari.
Il senso di questi riferimenti, fino a ieri inusuali nella discussione corrente, è evidente. La riflessione e la stessa azione politica non possono essere amputate della dimensione della progettazione, che molto ha sofferto in questi anni per una sua impropria identificazione con l’abbandono delle ideologie. Nel momento in cui si torna a sottolineare l’impossibilità di trascurare la discussione sulle idee, non dovrebbe essere troppo tardi per acquisire piena consapevolezza del fatto che la cattiva politica è sempre figlia della cattiva cultura.
Ma non sempre nella discussione pubblica si può cogliere questa consapevolezza. Sta accadendo per la questione del reddito, che gioca un ruolo sempre più rilevante per la costruzione di una agenda politica adeguata al tempo che stiamo vivendo. Tema che davvero può essere collocato tra le questioni “impossibili” di Camus, poiché esclude la possibilità di distogliere lo sguardo da una realtà sempre più chiaramente caratterizzata da una rilevanza nuova del rapporto tra esistenza e risorse finanziarie.
In Francia nel programma proposto da Benoit Hamon per la sua candidatura alle elezioni presidenziali il riferimento ad un reddito universale ha una evidenza particolare e sollecita la discussione sul fatto che siamo di fronte appunto ad una utopia concreta. Da anni, in Italia, Luigi Ciotti parla di un reddito di dignità, sottolineando così proprio l’impossibilità di eludere una questione che riguarda l’antropologia stessa della persona. E non si tratta di discussioni astratte. Il ceto politico italiano — qui distratto, come in troppi altri casi — dovrebbe sapere che, soprattutto grazie alle provvide iniziative di Giuseppe Bronzini nell’ambito delle attività della Rete italiana per il reddito di base, è nata una cultura che non solo ha reso possibile una impegnativa discussione sui rapporti tra il reddito e l’esistenza stessa della persona, ma ha consentito ad un centinaio di associazioni di mettere a punto una proposta di legge d’iniziativa popolare che le Camere farebbero bene a prendere seriamente in considerazione.
Così la realtà “impossibile” può trovare la via per incontrare le sue effettive e molteplici possibilità, che danno concretezza al cambiamento e possono tradursi in istituti diversi per rispondere alle diverse richieste determinate da una molteplicità di condizioni materiali. Qui si colloca quello che ormai possiamo, anzi dobbiamo, definire come un vero e proprio «diritto all’esistenza»: unico nel suo riconoscimento, articolato per consentirne l’effettiva attuazione. Questo spiega la ragione per cui il riferimento al reddito è quasi sempre accompagnato da specificazioni che possono riguardare la sua misura (da minimo a universale) o un particolare contesto (familiare) — un insieme di variazioni esaminate nel bel libro di Elena Granaglia e Magda Bolzoni, che mostra come si tratti di un tema che è parte integrante della questione della democrazia “possibile”, e nello scritto di Stefano Toso dedicato proprio a reddito di cittadinanza e reddito minimo.
Un tema tanto significativo per la costruzione dell’agenda politica non può essere separato da tutti gli altri ai quali si vuole attribuire rilevanza. E la dialettica tra possibilità e impossibilità esige l’individuazione dei principi e dei criteri che devono guidarla, dove la possibilità diventa ovviamente anche quella legata alla realizzazione di una politica costituzionale.
È una ovvietà il sottolineare che si debbono prendere le mosse dal lavoro, indicato fin dal primo articolo come il fondamento stesso della Repubblica e più avanti, nell’articolo 36, come la condizione sociale necessaria per una esistenza libera e dignitosa. E, poiché non si possono certo ignorare le situazioni di disoccupazione o sottoccupazione, è ben comprensibile che, accanto all’attenzione diretta per il lavoro, compaia quella sempre più intensamente rivolta ad altri strumenti, che possono comunque mettere le persone nelle condizioni materiali inseparabili appunto dall’effettiva condizione di libertà e dignità del vivere.
Una esistenza che, come sottolineava già la costituzione tedesca del 1919, non può essere identificata con la semplice sopravvivenza, ma deve concretamente manifestarsi come esistenza «degna dell’uomo», «dignitosa». Una novità non soltanto linguistica. Un impegnativo riferimento — appunto la dignità — compare oggi in apertura della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, affiancando in maniera particolarmente significativa gli storici principi della libertà, dell’eguaglianza, della solidarietà.
Nella storia degli ultimi decenni, anzi, proprio l’evocazione della dignità è divenuta addirittura più intensa di ogni altra e costituisce ormai un dato che unisce gli ammonimenti di Papa Bergoglio alla richieste dei nuovi «dannati della terra», come i braccianti della piana di Rosarno. Questo sguardo più approfondito e consapevole arricchisce nel loro complesso gli obiettivi costituzionali, porta con sé un chiarimento del potere dei cittadini e un rafforzamento dei loro diritti, e rende più evidenti e ineludibili le responsabilità della politica.

Fonte: La Repubblica 12 febbraio 2017

ABHINAVAGUPTA INSEGNA A DARE RESPIRO AI PENSIERI

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Scultura  di Salvatore Rizzuti, in cipresso e ulivo


 


Chi era Abhinavagupta, il maestro del Kashmir autore delle “Considerazioni sull’assoluto”? Un testo difficile, ma estremamente affascinante, che ci ha fatto pensare alla pratica dell' esicasmo dei monaci del monte Athos.

Giuseppe Montesano

L’uomo che insegnò a respirare pensieri

Siamo intorno all’Anno Mille, e mentre l’Europa dovrà aspettare due secoli per raggiungere i vertici intellettuali di un Duns Scoto e di un Tommaso d’Aquino, in India un pensatore che si chiama Abhinavagupta ed è nato intorno al 950 nel Kashmir sta seduto nella posizione del loto e pensa il Mondo.

Ma in che modo pensa il Mondo Abhinavagupta? Non legge né scrive, perché lettura e scrittura senza respiro non sono reale sapienza, ma solo gusci morti di ciò che veramente c’è nella parola; non sta nemmeno insegnando qualcosa a qualcuno, perché la meditazione prevede l’assoluta concentrazione dell’Io; e nemmeno prega come un occidentale intenderebbe il pregare, perché il sapiente Abhinavagupta non ha niente da implorare a quella Divinità che è il Mondo e che per lui è il dio che danzando distrugge e crea: Shiva.

E come pensa, allora, Abhinavagupta? L’autore del sublime Tantraloka ovvero Luce dei Tantra, capolavoro in cui è descritta la congiunzione sessuale tra il Sapiente e la Sapiente come un rito essenziale per la conoscenza, pensa cantando.

In verità Abhinavagupta non sta proprio cantando, ma sta modulando sillabe e fonemi: la lettera A che è il “Senza Famiglia” e il “Senza Superiore” ovvero l’Assoluto, l’AU che è l’arma con cui Shiva “scuote” la psiche per liberarla dalle catene e aprirla alla conoscenza, la S che si sperimenta nell’unione sessuale e nella perturbazione erotica come nella concentrazione mentale che vede la realtà senza inganni: e nel suo respiro- parola Abhinavagupta lascia che dai suoni si irradi potere, e che le palatali, e le velari, e “il florido PH labiale, il fiammeo R cerebrale, il triangolo E gutturoplatale”, attraverso la vibrazione che provocano al suo intero corpo che è anche la sua intera mente, gli concedano di essere riassorbito nel Tutto che è la Divinità e il Mondo, un Tutto che quando la vibrazione della parola raggiunge il culmine non è più separabile dall’essere respirante e pensante che è Abhinavagupta, ma che potrebbe in quel culmine essere il dio Shiva che è il Tutto.

In quello stadio supremo che non è più conoscenza concettuale ma conoscenza- vita, quell’uomo che sta respirando pensiero sta anche ripercorrendo il cammino stesso della nascita di tutte le cose, il cammino che secondo le Upanishad è cominciato dal Suono originario che si è incarnato nell’alfabeto sanscrito e che è il respiro stesso del Mondo. E stando nel centro del suo pensare-respirare attraverso la voce, Abhinavagupta, o chiunque si liberi dalla trappola del pensiero che inganna se stesso, è arrivato alla condizione fisiologica in cui ci si stupisce di ogni attimo dell’esistenza: «Il pensiero consiste in una vocalità, la quale è costituita da un discorso interiore… Questa vocalità è indipendente da convenzioni e consiste in uno stupirsi ininterrotto… Essa si può paragonare a un cenno interiore del capo e costituisce il principio vitale di tutte le parole convenzionali che sono solo apparenza…».

Le parole del linguaggio sono apparenza, ma senza questa apparenza è impossibile arrivare a ciò che non è apparenza, perché in ognuno dei fonemi scaturiti dalla Parola è presente un pezzo della Divinità che crea e anima il Mondo in una continua operazione vocale senza la quale ogni cosa svanirebbe. Qualcosa del genere, riassunto qui in modo terribilmente brusco, anima le Considerazioni sull’assoluto, un libro di Abhinavagupta tradotto e introdotto dal grande indologo Raniero Gnoli per le edizioni La Lepre: che hanno avuto l’idea di ripubblicare, in una edizione rivista, un testo uscito nel 1965 col titolo La Trentina della Suprema nell’Enciclopedia di autori classici fondata da Giorgio Colli per Boringhieri.

E come si può resistere ad Abhinavagupta? Il grande pensatore kashmiro fu un grammatico e un logico senza pari come un Gorgia unito a un Gödel, ma solo se essi fossero stati anche alchimisti e cabbalisti; fu un filosofo immenso come il Platone del Parmenide e l’Aristotele dell’Organon, ma capace di fare a meno dei concetti come un mistico Juan de la Cruz; fu un esploratore del tantrismo sessuale come nessun occidentale, e delle sottigliezze dell’arte come se il Rimbaud di Voyelles, oltre a scrivere un sonetto in cui le vocali avevano colori (“A nera, E bianca, I rossa”) e suoni poetici (“vibrazioni divine”), avesse esplorato il potere fisiologico di quei suoni. Anche leggendo poche frasi sulla “vocalità” del pensiero è impossibile non pensare a quella Parola- Dio che si fa carne in Giovanni, e alla teoria che i Maestri ebraici della Qabbalah svilupparono intorno allo Zohar e all’erotica mistica, e che interpreti come Scholem in Il nome di Dio e Idel in Eros e Qabbalah hanno studiato, inabissandosi nel pensiero che il Mondo non sia altro che un’emissione della Parola, e che nelle parole ci sia il Dio che è maschio e femmina.
Ma oggi ciò che forse colpisce di più in Abhinavagupta è la definizione della sapienza come dell’essere perpetuamente stupiti di tutto, uno stupore senza il quale per lui come per Platone non c’è conoscenza. In un momento decrepitamente e ripetitivamente post-storico come questo, in cui si vuole far credere che attività chiave come la lettura e la conoscenza delle parole siano divenute attività superate, il potere conoscitivo che Abhinavagupta attribuisce alle parole e alle immagini squilla come un allarme: Attenzione, qui non è in gioco solo la filosofia di uno stravagante pensatore dell’Anno Mille, ma ciò che si vuole fare della nostra esistenza.

Lo stupore concede di vedere la realtà in modo nuovo e creativo, e la condizione di stupore perenne in cui Abhinavagupta sostiene che debba trovarsi il sapiente è nota anche agli artisti, come sapeva Borges: «Per un vero poeta, ogni momento della vita, ogni fatto, dovrebbe essere poetico, giacché lo è nella sua essenza…», con la differenza che per Abhinavagupta la poesia non era un fine ma un gradino per arrivare da un’altra parte. Forse là dove anche per noi si aprirebbe la conoscenza suprema?
Ma no, quella toccherà solo agli yogin, non a noi che ci agitiamo nella trappola dei nostri pensieri senza respiro e senza pensiero, chiusi nel circolo meschino di una sessualità da cani di Pavlov che niente ha a che fare con il potere in cui eros e linguaggio si uniscono nei Tantra: ma forse noi, praticando in qualche ora libera e concentrata i mondi evocati da Abhinavagupta, apriremo qualche finestra in questa prigione occidentale che oggi più che mai avrebbe da guadagnare dal guardare a tempi e luoghi “altri”, un gesto che ci concederebbe di osservare la Storia di quello che chiamiamo mondo globale con occhi più acuti e orecchie più aperte: «Nel processo di liberazione non viene in realtà fatto nulla di nuovo, né viene illuminata una cosa che prima non lo fosse veramente, bensì semplicemente viene rimossa l’idea che ciò che è luminoso non sia tale…». Così sussurra Abhinavagupta chiedendoci di ripensare, ancora e da capo, tutto ciò che credevamo già pensato.


La repubblica – 8 febbraio 2017


G. BENN, La vostra fine sarà dolce dopo tanto navigare.

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«Le cose dello spirito sono irreversibili, vanno avanti per la loro strada sino alla fine, sino alla fine della notte. Con le spalle al muro, nell'angoscia delle stanchezze, nel grigio del vuoto, leggete Giobbe e Geremia e tenete duro. Formulate le vostre tesi nella maniera più spietata, perché solo le vostre frasi restano a rappresentarvi e a dare la vostra misura quando l'epoca volge al tramonto e mette fine al canto. Ciò che non esprimete non esiste. Vi fate dei nemici, sarete soli, un guscio di noce sul mare, un guscio di noce dal quale si leva un cigolio di suoni ambigui, un battere di denti nel freddo, uno sperduto tremare davanti ai vostri stessi brividi; ma guardatevi bene dal lanciare un SOS - prima di tutto non vi ode nessuno, e poi la vostra fine sarà dolce dopo tanto navigare».

Gottfried Benn, Pietra, verso, flauto

DAI DIALOGHI CON LEUCO' DI CESARE PAVESE

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Foto di Mimmo Jodice, Amazzone ferita.



DIONISO: Non sarebbero uomini, se non fossero tristi. La loro vita deve pur morire. Tutta la loro ricchezza è la morte, che li costringe industriarsi, a ricordare e prevedere. [...] Ma che vuoi che gli diamo? Qualunque cosa ne faranno sempre sangue.
DEMETRA C'è un solo modo, e tu lo sai. [...] Dare un senso a quel loro morire. [...] Insegnargli la vita beata. [...] Insegnargli che ci possono eguagliare di là dal dolore e dalla morte. Ma dirglielo noi. Come il grano e la vite discendono all'Ade per nascere, così insegnargli che la morte anche per loro è nuova. [...] Moriranno e avran vinta la morte. Vedranno qualcosa oltre il sangue, vedranno noi due. Non temeranno più la morte e non avranno più bisogno di placarla versando altro sangue.


Pavese, Dialoghi con Leucò, Il Mistero.

PS: ho ripreso dal diario fb di Stefi Rossetti sia il magnifico brano di Pavese che la foto.
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