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Channel: CESIM - Centro Studi e Iniziative di Marineo
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E NOI MEDESIMI PASSIAMO E RITORNIAMO...

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E noi medesimi e le cose nostre
andiamo e vegnamo, passiamo e ritorniamo,
e non è cosa nostra che non si
faccia aliena e non è cosa aliena che
non si faccia nostra. 

Giordano Bruno, da La cena delle ceneri


F. SHEDIR DI PAOLA, Elogio dell'antico

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Opera di Christian Schloe


Io sono antica, dicevo a un amico qualche giorno fa, senza riuscire a spiegargli in quel momento in che senso lo intendessi. Non è l’identificarsi col tradizionalista, perché la mia è anche accoglienza del nuovo, non è avversione indiscriminata al progresso, perché in fondo di questo faccio uso.
Ma è il modo di rapportarmi a tutto questo che mi fa antica. Perché il mio concetto di tempo è un concetto recuperato dall’antico.
Darsi tempo, principalmente, non lasciarsi mangiare e consumare dalle cose.
Questa è un’epoca che fagocita tutto senza dichiararlo apertamente. Io rifiuto di essere fagocitata dal superfluo che sembra diventato oggigiorno la necessità, la priorità, la norma.
Essere antichi, per come lo intendo io, significa privilegiare la qualità della vita rispetto alla quantità indifferenziata dell’abbondanza.
Qualità significa conoscere, consumare senza spreco, non abbuffarsi né di oggetti né di cibo. Saper scegliere le cose di cui abbiamo veramente bisogno, senza sottometterci alle mode, all’usa e getta che altro scopo non ha se non quello di favorire l’ennesimo ricambio di quanto si produce, nell’ottica di un eterno temporaneo consumo, di una sempre accresciuta produzione, e per contro, di un costante aumento nello svilimento e sfruttamento della manodopera impiegata in paesi resi sempre più poveri.
Mi sento antica perché voglio assaporare, gustare la genuinità e non mi accontento della sua rappresentazione puramente virtuale. Perché conosco quel che la mia terra produce di buono e so dargli valore.
Antico è il mio bisogno di affidarmi a un’educazione fondamentale su quanto mi è utile oltre che piacevole.
Antico è il rifiuto all’omologazione propugnata e diffusa da discutibili modelli, da discutibilissimi linguaggi e personaggi dei mass media.
Antico è anche il tempo selezionato, e perciò ridotto, dedicato a queste attività, perché è tempo usato contro il tempo che ci è dato per vivere.
Significa, essere antica, anche uscirsene senza portarsi necessariamente il cellulare, senza essere per forza collegati e rintracciabili da chiunque ed in qualunque posto, in qualsiasi momento, non piegarsi all’insensata necessità di controllare 300 volte al giorno il telefonino o di lasciarlo come un bicchiere, un piatto, accanto a te sul tavolo del bar o del ristorante.
Antico è ritagliarsi uno spazio privato, difenderlo e arricchirlo di interessi che ti gratificano perché ti formano.
Antico è camminare e mantenere il corpo in attività, è posare lo sguardo sempre fresco e nuovo su oggetti e persone vedendole e ascoltandole con partecipazione.
Significa saper distinguere i profumi, riconoscere i fiori, gli alberi, i venti, il valore di ogni singola parola, di ogni atto disinteressato d’amicizia.
È l’amore del bello naturale, dei veri colori di un tramonto, ad esempio, di per sé già qualcosa di insostituibile e irrecuperabile.
Di uomini e donne che fanno un uso discreto della loro bellezza e un uso quotidiano e naturale della loro gentilezza.
Quest’antico è rivoluzionario, è ancora il no del ribelle di Camus, è memoria che non sbiadisce con un colpo di spugna, è il no al signorsì nei confronti del progresso consumistico e omologante che si è impadronito già delle vite e principalmente delle vite di oggi.
E non deve spaventare questa solitudine. La solitudine di trovarsi nella direzione opposta a quella imperante. Che sia questo il sensato, il reale e l’umanissimo progresso.

Filomena Shedir Di Paola

LA PIETA' DI ELIO PAGLIARANI

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Milano, P.zza Duomo, 1961


La pietà oggettiva di Pagliarani


di Massimo Raffaeli

Si intitolava Il mare dell’oggettività il saggio di Italo Calvino che apriva il secondo numero del “Menabò”, la rivista redatta per Einaudi con Elio Vittorini, e dava conto di quella che si sarebbe definita anche in Italia letteratura industriale: era il 1960, anno baricentrico del Boom economico, e nel fascicolo oltre a una rassegna di Franco Fortini comparivano testi di Roberto Roversi, Paolo Volponi, Francesco Leonetti e di un romagnolo di Viserba da tempo residente a Milano, trentatreenne, Elio Pagliarani, già presente in “Officina” e firmatario di un paio di plaquettes (Cronache e altre poesie, Schwarz 1954, Inventario privato, Veronelli 1960) che ne facevano un tramite fra lo sperimentalismo anni cinquanta e la neoavanguardia successiva, tanto che la sua presenza nella antologia dei Novissimi (1961) lo avrebbe subito individuato quale voce laterale, estranea a qualunque poetica organica, e outsider del Gruppo 63. Refrattaria alla messa in pagina di un io autocentrato e dunque proclive all’ascolto delle presenze e delle voci del mondo, la poesia di Pagliarani, memore innanzitutto della lezione di Ezra Pound, castigando il narcisismo secolare si disponeva ad accogliere i dati della realtà più imminente, un mondo ormai a colori e in tumultuosa trasformazione. Milano era il suo panottico, la specola da cui scrutare, per frammenti e scorci, un paese i cui assetti arcaici si avviavano in poco d’ora a divenire gli stessi di una potenza industriale e compiutamente neocapitalista. Perciò la pietas iscritta nella parola del poeta, vale a dire la capacità di accogliere i dati della sua esperienza diretta del mondo, non avrebbe potuto che essere, stante la potenza di un suo verso poi proverbiale, una pietà oggettiva. Di tutto questo era flagrante testimone, in quel numero del “Menabò”, il poemetto pubblicato in volume da Mondadori nel ’64, ritenuto da molti, sottotraccia, un classico e infatti come tale oggi riedito, La ragazza Carla (Il Saggiatore, “Le Silerchie”, pp. 63, € 16.00) con una partecipe prefazione di Aldo Nove che ne legge lo spazio ambiente in un set infernale “in cui il poeta funge da regista e, anzi, si sottrae anche alla funzione di sceneggiatore: il che ci fa pensare più al cinema che alla poesia, e alla definizione che Eizenstejn dette del cinema stesso come arte del montaggio”. Non è un caso che un giovanissimo Pagliarani, appena approdato a Milano, nell’immediato dopoguerra avesse pensato a un simile soggetto da inviare a De Sica e Zavattini per un film. Scritto fra il ’54 e il ’57, si tratta di un poemetto diviso in sette parti alla pari di una suite in versi liberi che alternano tonale e atonale; al centro c’è il romanzo di formazione di “Carla Dondi fu Ambrogio, di anni diciassette”, la quale abita in una casa di ringhiera lontana dal centro, vive con sua madre pantofolaia e la sorella Nerina, malmaritata. Carla ha smesso di studiare, è dattilografa in un ufficio intorno a cui sfavillano insegne luminose, traffici, merci (vita ferro città pedagogia, dice qui un asindeto micidiale) e dentro cui la attendono un lavoro ripetitivo e le viscide attenzioni del capufficio dal nome allusivo, il “Pratèk”. In realtà, Carla è una eroina che non sa di esserlo e insieme è un capro espiatorio della nuova città industriale di cui assorbe i ritmi ciclici della produzione, li subisce e diventa via via un necessario ingranaggio di essa. Nonostante un pallido o presunto fidanzato, Aldo, lei non ha nemmeno una vita sentimentale, la sua domenica le sembra così vuota che è costretta a prendere sonniferi per farla trascorrere in fretta. Di tanto benessere sopraggiunto, Carla deve accontentarsi di quasi nulla, di una blusa nuova, di un rossetto, infine del semplice spettacolo del benessere che è sempre, tuttavia, il benessere altrui. Pagliarani insegue il Bildungsroman di Carla, necessariamente fallimentare, da poeta epico e capace di assorbire le voci e le strida della città affluente per poi impaginarle in una vera e propria, stridente e percussiva, polifonia. E quanto a ciò, disse uno dei suoi critici maggiori, Fausto Curi, che “nella poesia di Pagliarani il lettore percepisce la atmosfera sociale della parola e che la parola di Pagliarani è in qualche modo, sempre, la parola altrui”. Carla appare spossessata della vita viva e va incontro al lettore quasi fosse, alla fine, un insetto inglobato nel quarzo durissimo della città industriale. La sua esistenza, valore d’uso, è divenuta tutta quanta valore di scambio come dicono i versi presaghi, pronunciati fuoricampo e persino sapienziali, che suggellano il poemetto: “Quanto di morte noi circonda e quanto/ tocca mutarne in vita per esistere/ è diamante sul vetro, svolgimento/ concreto d’uomo in storia che resiste/ solo vivo scarnendosi al suo tempo/ quando ristagna il ritmo e quando investe/ lo stesso corpo umano a mutamento”. Fatto sta, sia detto ora per allora, che forse nessun altro testo ha saputo tradurre con altrettanta intensità e vividezza allegorica il passaggio decisivo, in Italia, fra gli anni della Ricostruzione e del Miracolo, nessuno ha saputo dedurne con pari “oggettività” (questa, fuori dal suo abuso consueto, è proprio la parola-chiave di Pagliarani) il costo umano, immenso e per lo più silenzioso. Oggi lo commemora, alla lettera, il bellissimo film di Alberto Saibene, La ragazza Carla dal poema omonimo di Elio Pagliarani (dvd Museo Interattivo del Cinema- Rai Cinema, s.i.p.) con Carla Chiarelli e la partecipazione di Elio. Docile alla partitura poetica senza esserne la didascalia, il film è incentrato sul corpo/voce di Carla Chiarelli che sa tradurne con esattezza e grande naturalezza la polifonia e perciò la grana di una voce ora in grado di precipitare in chiose strette e lancinanti ora di dilatarsi, invece, in assembramenti descrittivi e in blocchi di prosa-prosa. Carla non si esprime in prima persona, non è mai in primo piano ma è sempre richiamata, incombente. C’è semmai in controluce la sua silhouette, il moto desultorio della sua parabola individuale e sociale, come un ritmo di dolorosa fatalità che le immagini di repertorio (un biancoenero classico e mai retorico, interni dignitosi ma poveri, esterni di vita quotidiana, ordinaria) assecondano e talora riportano al qui-e-ora, negli inserti dolcemente eppure efferatamente ironici di Elio come nelle immagini girate al presente, costellate di nuove solitudini, di esistenze spesso mutamente deragliate e opacizzate. Scrive Saibene nella brochure allegata al dvd: “Di fronte avevamo un capolavoro misconosciuto della poesia italiana del secondo Novecento che racconta una vicenda universale (il drammatico ingresso nella vita di un’adolescente) in un preciso tempo storico (la Milano del dopoguerra). Per ricostruire quel clima siamo ricorsi ai repertori d’epoca che abbiamo messo a specchio con l’identità della Milano di oggi, cercandone le analogie”. Per parte sua, Elio Pagliarani in una pagina autobiografica racconta che iniziò a scrivere il poemetto (“Di là dal ponte della ferrovia/una traversa di viale Ripamonti”) in un’aula di terza media milanese, nell’autunno del ’54, dopo avere dettato il titolo di un compito in classe, e che una ragazzina incuriosita venne subito alla cattedra per sbirciare nel foglio: era certo anche lei una ragazza Carla, del tutto ignara del proprio destino.

Pezzo  già  uscito su «Alias». Noi l'abbiamo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=26295

TEATRO VIVO A MARINEO

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Un Inno alla Vita da Marineo

19 febbraio 2017
In scena ieri, a Marineo, nel nuovo Centro Polifunzionale, l’Inno alla Vita: uno spettacolo
 del “Battello Ebbro” con la regia di Nino Triolo e la collaborazione di Rosa Alba D’Amato.
Circa 500 persone gremivano la sala, e sulla scena si sono alternati uomini, donne, bambini e bambine di Marineo: non attori né attrici, non ballerine né cantanti: erano persone. Persone che si esprimevano con grandissima passione, dedizione, con fervore, con incredibile entusiasmo, di fronte alla loro comunità, quella del loro paese, che applaudiva con entusiasmo le belle scene che si susseguivano, le poesie, i canti, le danze, le riflessioni sulla vita e sulla morte finalmente riunite insieme e rappacificate anche loro.
Accanto a me era seduto il parroco, giovane e brioso, partecipe e attento a tutti i dettagli: perché la cosa bella era che tutti conoscevano tutti, ieri sera. E quando a un certo punto è passato un bambino piccolo piccolo, con una camicia bianca da ometto, che portava un bicchiere d’acqua a un altro bambino e camminava a piccoli passi, un po’ traballante, la lingua di sguincio nella tensione di non versarne nemmeno una goccia, tutto serio e compenetrato in quel suo compito, il sacerdote ha sorriso e ha detto “u picciriddu”, con una tale tenerezza che veramente ho pensato che c’era amore lì dentro.
La Vita era la vera protagonista, quella Vita che ci accomuna tutti e ci unisce nel dolore e nella gioia di ogni giorno, nei conflitti, nelle dissonanze, persino nella morte, un “insetto schifoso” ma invisibile e impossibile da togliere, come diceva Nino, protagonista straordinario de “L’uomo dal fiore in bocca”.
Tutti conoscevano tutti: e il grande dono era quello di riflettersi gli uni negli altri, di applaudire chi era sulla scena e recitava cantava ballava suonava e lo faceva perché? Per tutti gli altri, lo faceva. Per quelli che non erano sulla scena – madri padri fratelli sorelle nonni nonne cugini cugine amici amiche…
Perché è la vita, lo faceva. Non si arrende mai, questa piccola compagnia del “Battello Ebbro”, guidata da un “comandante” come Nino Triolo, che fa le cose perché le fa e basta. Non si arrende di fronte alle difficoltà, le incomprensioni, i cavilli, le assurdità di ogni genere che tenderebbero a disgregarle, le piccole comunità, perché insieme si è forti, insieme si possono spostare le montagne, insieme si è pericolosi, per certuni che delle montagne hanno paura.
E Nino lo sa che un granello di sabbia è inerme e tanti granelli insieme fanno una montagna che invece è forte, e per questo le preferisce, le montagne, come la bella Rocca di Marineo o la sua Carmelina, che gli sta accanto da una vita e dei due non si sa chi è, il più forte.
E’ stato bello oggi sentirgli dire che già lui “L’uomo dal fiore in bocca” lo aveva recitato, nel 1970, insieme a Franco Virga; erano giovani allora, era diverso. “Allora abbiamo recitato il dramma di Pirandello, e io ero l’avventore. Ma ora, ora c’è una vita di mezzo, è diventata un’altra cosa. Ora l’ho sentito veramente“.
E si vedeva, dico io. Si vedevano certi suoi pensieri, si vedeva la commozione, si vedeva in trasparenza, Nino.  L’avventore, pure lui, sembrava vero, nel suo abbassare lo sguardo e non dire più nulla, nel suo fare un passo indietro e rispettare l’ineluttabilità di quel destino.
Grazie, diciamo a Nino e al Battello Ebbro, a tutti quanti di cui non conosco i nomi, a Virgilio Ferrara di cui mi permetto di condividere qui alcune delle bellissime foto e il video e che ringrazio, a Rosa Alba D’Amato, a tutti i bambini e le bambine e in particolare uno, il più presente di tutti, felice prima, durante e dopo lo spettacolo, lui che diceva Vita stando tutto teso, con tutta la forza del suo piccolo corpo e i pugnetti stretti, “Viiiiita”, diceva, con tante i, sorridendo come nessun altro.
Grazie perché quella che hanno fatto è stata una vera e propria restituzione, e non solo ai marinesi, ma a tutti noi, anche a quelli che non c’erano, anche a quelli come me che non sono di Marineo ma si sono sentiti abbracciati lo stesso.
Una sola cosa mi è parsa orribile: la dicitura “Centro Polifunzionale per immigrati regolari“. L’ha voluta il Ministero, questa dicitura.
Si poteva evitare.

Daniela Thomas

Video: Inno alla Vita


D. DOLCI, Passa talvolta un volto che ti incanta

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Sono uguali due rondini
se non sei rondine
due occhi uguali non esistono.
Due alberi uguali non esistono
fiori uguali, due petali -
due canti uguali,
due toni.
Due albe uguali non esistono,
tramonti uguali, due stelle,
ore uguali,
attimi.

Passa talvolta un volto che ti incanta -
tu non esisti più
oltre il rammarico che l'attimo
non potrà più ripetersi:
ma non sai quanto è sogno tuo
e quanto sia vero.

Danilo Dolci  da Il limone lunare, 1970

LEOPARDI PIU' FILOSOFO CHE POETA

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Più leggo e rileggo il diario di Giacomo Leopardi, denominato con un'antico termine Zibaldone, più mi convinco che ci troviamo di fronte ad un filosofo, forse, ancor più grande del poeta dei celebri Canti. Leopardi ha capito più cose della vita e della storia umana, di tanti altri. Eppure sapeva che non esiste maggior segno "d'essere poco savi e poco filosofi" che "volere savia e filosofica tutta la vita"!
Oggi vi propongo la lettura di due suoi brani tratti dal suo Diario:


 Il tempo non è una cosa. Esso è uno accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla; è uno accidente di questa esistenza; ο piuttosto è una nostra idea, una parola. La durazione delle cose che sono è il tempo. [...] Medesimamente dello spazio. [...] La conclusione si è che tempo e spazio non sono in sostanza altro che idee, anzi nomi.
(Zibaldone, 4233).

 ***

 noi non possiamo giudicare dei fini, né aver dati sufficienti per conoscere se le cose dell'universo sien veramente buone o cattive, se quel che ci par bene sia bene, se quel che male sia male; perché vorremo noi dire che l'universo sia buono, in grazia di quello che ci par buono; e non piuttosto, che sia malo, in vista di quanto ci par malo, ch'è almeno altrettanto? Astenghiamoci dunque dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo. Certo è che per noi, e relativamente a noi, nella più parte è cattivo; e ciascuno di noi per questo conto l'avria saputo far meglio, avendo la materia, l'onnipotenza in mano. Cattivo è ancora per tutte le altre creature, e generi e specie di creature, che noi conosciamo: perché tutte si distruggono scambievolmente, tutte periscono; e, quel ch'è peggio, tutte deperiscono, tutte patiscono a lor modo. Se di questi mali particolari di tutti, nasca un bene universale, non si sa di chi [...]; se vi sia qualche creatura, o ente, o specie di enti, a cui quest'ordine sia perfettamente buono; se esso sia buono assolutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà assoluta e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo sapere; che niuna di quelle che noi sappiamo, ci rende né pur verisimili, non che ci autorizzi a crederle. Ammiriamo dunque quest'ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza, che egli non sia il pessimo dei possibili.

(21 Marzo 1827) 


Giacomo Leopardidal suo Zibaldone di pensieri

Ezra POUND, Bambino nel cuore

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«Ho amato il mio Dio come chi, bambino nel cuore,
cerca profondi seni su cui riposare,
ho amato il mio Dio come fanciulla un uomo,
ma oh, ben questa è la cosa migliore:
amare il proprio Dio come un gagliardo
avversario che gioca dietro il velo»
 
Ezra Pound


MARILINA GIAQUINTA, Una luna fedele

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        Questo blog ha già segnalato l'originale produzione poetica di Marilina Giaquinta. In particolare alcuni suoi versi, pubblicati in http://cesim-marineo.blogspot.it/2016/10/sbarchi-clandestini-che-diventano.html,  hanno ricevuto un grande successo di pubblico, a Marineo, grazie anche alla bella interpretazione  che ne ha fatto Chiara Lo Faso, nell'ambito dello strardinario Inno alla vita, realizzato dal Battello Ebbro con la regia di Nino Triolo e Rosa Alba D'Amato.

         Stamane pubblichiamo un'altra sua poesia:



Una luna
fedele
e zita
mi correva
affianco,
e arronzava
luce
alla sanfasòn
allattando
un cielo
di sterminio nero,
roncola
dal filo pietoso
- la campagna illesa -
ci sberciava
un allakatàlla
di bava
appennuta
al chiacco
di lu firmamentu.
Accalarsi
voleva,
china
sembrava,
a darmi denzia,
a pròiermi
la mano.

A illudermi
che splendessi
anch'io.

Marilina Giaquinta

Come si impara a scrivere

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Le lettere e il volgare

di Giorgio Mascitelli

La lettera dei 600 docenti universitari al governo sulla crisi della conoscenza dell’italiano nelle giovani generazioni apparsa nelle scorse settimane ha avuto il merito indubbio di porre l’attenzione generale sul problema delle competenze linguistiche nazionali, argomento che di solito non occupa esattamente la prima pagina dei giornali; anzi tradizionalmente questioni del genere sulla stampa vengono affrontate a ridosso di ferragosto quando tutti sono in vacanza e le redazioni sono più libere nella scelta dei temi. Fatto il doveroso tributo al merito di aver debalnearizzato una questione cruciale, penso che proprio per la sua rilevanza il dibattito vada liberato da tutta un’aura moralisticheggiante.
Con questo non alludo soltanto alla lettera dei professori che quanto meno fanno proposte operative, ma a una certa ricezione dell’opinione pubblica. Per dirla tutta, se si vuole una scolarità di massa anche a livelli superiori, cosa a mio avviso auspicabile se non altro perché l’alternativa sarebbe allontanare precocemente dalla scuola chi ne ha più necessità, bisogna anche sapere accettare che alcune competenze siano più precarie: quando all’università tutti scrivevano senza errori, la frequenza a quella venerabile istituzione non era esattamente un fenomeno di massa. Ciò non significa che non si possa far nulla, ma che le proposte debbano tenere conto del contesto storico  in cui viviamo.
Per restare alla lettera dei 600, può essere utile ridare alle elementari qualche spazio in più all’educazione linguistica rispetto a quello previsto dai nuovi programmi, mentre l’idea di spedire come presidente di commissione per gli esami conclusivi dei vari ordini di scuola un docente dell’ordine superiore mi sembra più essere l’espressione di una  fiducia metafisica nella gerarchia che avere un’effettiva funzione nella risoluzione dei problemi sollevati.
In generale, tuttavia, gli errori più spettacolari nell’uso della lingua, quelli ortografici o certi sintattici come per esempio l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo, quelli che in qualche modo tutti riconoscono, salvo i diretti interessati, e hanno un’eco giornalistica e social, non sono necessariamente i più pericolosi per una fruizione piena e autonoma dell’italiano. La povertà lessicale, l’incertezza sulle varie sfumature semantiche della parola e, a livello più alto, l’incomprensione di certi meccanismi retorici del linguaggio quotidiano e l’inconsapevolezza degli aspetti connotativi ed emotivi della comunicazione costituiscono il più serio pericolo in questo senso. Ora per acquisire e sviluppare  questo tipo di conoscenze e competenze a scuola, non è importante solo  un’attività didattica  specifica, ma  offrire una serie di stimoli culturali che ne consentano l’apprendimento e l’applicazione  spontaneamente. In questo senso la tendenza dominante negli ultimi anni, di cui le prove INVALSI e PISA  sono le punte di diamante, a considerare la capacità e la preparazione linguistica una facoltà in sé completamente scissa da un processo di acquisizione culturale pare assolutamente inadeguata a prevenire queste forme di insufficiente capacità linguistica. Un esempio dei rischi di questa impostazione ce l’ha offerto Girolamo Di Michele (http://www.carmillaonline.com/2012/05/08/salvate-il-soldato-rigoni-stern/) analizzando un brano tratto da un racconto di Rigoni Stern e impiegato per le prove INVALSI alle superiori,  in cui il tentativo di valutare  il testo avulso dal suo contesto storicoculturale specifico come strumento di riconoscimento di una pura competenza linguistica conduceva gli autori della prova stessa, nel formulare le domande, a commettere errori anche marchiani.
L’educazione linguistica, specie nel ciclo delle scuole medie inferiori e superiori, è in qualche misura in mano non solo ai docenti di italiano, ma anche agli altri; penso per esempio al ruolo degli insegnanti di materie scientifiche nella definizione rigorosa dei concetti chiave delle loro discipline e, soprattutto, nell’evidenziare come termini d’uso nella lingua comune assumano significati particolari in determinati ambiti. Ovviamente il peso maggiore di questo lavoro spetta comunque a quelli di materie letterarie ed è allora importante seguire il suggerimento di Rossi Doria, che propone di inserire nel curriculum universitario  per accedere all’insegnamento un esame di grammatica e uno di linguistica; inoltre la conoscenza basilare della lingua latina ( essere in grado di fare traduzioni di media difficoltà) e di almeno una lingua straniera è un elemento imprescindibile nella formazione di un docente di italiano di tutto il ciclo medio; bisognerebbe anche favorire e valorizzare nel periodo universitario e in quello di apprendistato esperienze, anche brevi, di insegnamento dell’italiano a stranieri.
Nei dibattiti seguiti alla pubblicazione della lettera dei 600 molti hanno citato il fatto che in Italia il 70% della popolazione sarebbe costituita da analfabeti funzionali, un paio di volte qualcuno addirittura è arrivato a parlare di analfabeti tout court. Credo che l’origine di questi dati sia determinato dal rapporto PIAAC, un’indagine internazionale del 2013 sul livello di uso nella popolazione adulta dei paesi OCSE della lingua, delle competenze matematiche e di altre ancora, per accostarsi alle informazioni  e usarle efficacemente ‘al fine di partecipare in modo efficace nella società’. Caratteristica di questa indagine è di suddividere in sei fasce la popolazione cosicché ‘gli individui sono considerati abili, in maggiore o minor misura nella competenza in questione, invece di essere o solo “abili” o “solo non abili”. In altre parole, non esiste una soglia che separa coloro che hanno la competenza in questione da quelli che non l’hanno’ ( Rapporto Nazionale PIAAC 2014 p.23). La fascia inferiore al livello 1 è quella ai limiti dell’analfabetismo, la 4 e 5 rappresentano la piena padronanza, la fascia 3 è quella che indica il raggiungimento di competenze considerate  fondamentali per gli obiettivi sopra esposti.  Ora in Italia il 70% della popolazione raggiunge la fascia 2 o quelle inferiori, mentre in paesi come la Germania è il 52% e in Danimarca il 50% e la media OCSE è del 49%. Questo significa che il campione italiano, selezionato al 53% tra persone prive del diploma di scuola superiore, non ha problemi di analfabetismo, ma di insufficienti abilità complesse, che diventano nella società moderna fondamentali. Preciso questo fatto perché un certo gusto per il sensazionalismo pregiudica la comprensione del problema.
Questa ricerca offre anche un altro dato significativo e cioè che le prestazioni migliori sono quelle della fasce di età più giovani: sembra di capire, aldilà dei pur comprensibili fattori biologici e storici, che man mano che ci si allontana dal periodo scolastico queste abilità diminuiscono. E’ chiaro che il tipo di esperienza sociale, sia nel mondo lavorativo sia nei consumi culturali, di molti connazionali non favorisce il mantenimento e lo sviluppo delle abilità raggiunte nel periodo scolastico.  Tra le ragioni, verosimilmente,  una struttura produttiva e quindi occupazionale incentrata su attività poco qualificate o tradizionali che non abbisognano di particolari abilità complesse e dunque poco stimolanti su questo piano e  e un modello di consumi culturali in cui la televisione continua a fare la parte del leone, affiancata di recente dagli smartphone che rendono difficile la lettura in rete di testi minimamente complessi. In particolare l’avvento della televisione commerciale ha cancellato qualsiasi funzione educativa di questo medium, che in qualche misura aveva avuto  nella prima fase della sua esistenza ( si pensi a trasmissioni come Non è mai troppo tardi), e ha promosso un italiano sciatto e al tempo stesso stereotipato, privo cioè di quell’inventiva che la vecchia lingua popolare ancora intrisa di dialetto talvolta aveva.
In questo contesto è evidente che la scuola si trova a operare in condizioni di sostanziale assenza di altre agenzie formative che possano condividerne gli sforzi e anzi ha di fronte un assetto sociale che va in tutt’altra direzione.  Così la questione dell’italiano diventa la questione italiana ossia di un paese, che pur avendo potenzialità enormi, coltiva quasi programmaticamente un’obsolescenza e un arretramento delle proprie forme di vita, ivi comprese anche quelle del settore produttivo. In tutto ciò la saggezza di Bertoldo dei nostri ceti dirigenti, intesi non solo come politici ma anche come imprenditori, banchieri e tecnici,  secondo la quale con la cultura non si mangia,  gioca un ruolo non secondario.

Testo pubblicato il 21 febbraio 2017 su https://www.nazioneindiana.com/

PASOLINI, Per essere poeti, bisogna avere molto tempo

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Se torna il sole, se discende la sera,
se la notte ha un sapore di notti future,
se un pomeriggio di pioggia sembra tornare
da tempi troppo amati e mai avuti del tutto,
io non sono più felice, né di goderne né di soffrirne:
non sento più, davanti a me, tutta la vita...
Per essere poeti, bisogna avere molto tempo:
ore e ore di solitudine sono il solo modo
perché si formi qualcosa, che è forza, abbandono,
vizio, libertà, per dare stile al caos.
Io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte
che viene avanti, al tramonto della gioventù.
Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano,
che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace.

'' Al principe '', da La religione del mio tempo.

I NUOVI ASINI, UN MANIFESTO DI E PER I GIOVANI DEI NOSTRI ANNI

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E’ uscito il n. 35-36 de Gli Asini, rivista di educazione e intervento sociale diretta da Luigi Monti che unisce riflessione teorica e pratica didattica. Questo è l’ultimo numero della vecchia rivista e il primo dei nuovi Asini, “un numero di passaggio“, come spiega la redazione, “che serva a chiarire chi siamo e cosa vogliamo“. In allegato a questo numero, per tutti gli abbonati, La religione dell’educazione, una breve antologia pedagogica di Aldo Capitini. Vivalascuola propone l’indice della rivista e, per gentile consessione della redazione, che ringraziamo, il manifesto programmatico della nuova serie.

Indice
(clicca sull’indice per andare subito all’articolo)
.I nuovi Asini, un manifesto di e per i giovani dei nostri anni
Indice della rivista

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I nuovi Asini, un manifesto di e per i giovani dei nostri anni
Siamo un gruppo di giovani di buona volontà che hanno avuto molti privilegi e possibilità – studiare, viaggiare, conoscere – e di cui sappiamo di dover rendere conto. Detestiamo il vittimismo, la lagna e cerchiamo di sfuggire alle trappole del narcisismo e del finto individualismo, oggi dominanti. E per nostra fortuna ci ricordiamo del “pessimismo della ragione e ottimismo della volontà” di cui ha parlato un vecchio maestro, e del “volontarismo etico” di un altro grande. Siamo in buona parte studenti raramente inseriti nel “mondo del lavoro”, ma anche educatori e operatori sociali presenti in varie città e regioni; siamo persone già attive o “in lista di attesa”; siamo attivisti e ci consideriamo, volenti o nolenti, “intellettuali” che cercano di dare a questa parola il suo giusto significato di persone che sanno servirsi del dono dell’intelletto e ai quali non basta aver letto e leggere tanti libri. Non ci chiudiamo nelle nostre città e regioni, vogliamo essere anzitutto italiani ma anche cittadini del mondo, sappiamo di appartenere a una sorta di “ceto medio e basso, universale” che sa di avere un peso e una responsabilità nelle sorti del pianeta. Quale che sia stata la nostra origine nazionale o di classe. Apparteniamo a più confessioni religiose, ma siamo anche (capitinianamente) “liberi religiosi”, laici, atei, vicini ai giovani immigrati di altre confessioni, di altre fedi. Non amiamo i “buoni”, anche se ci troviamo spesso a lavorare insieme a loro: molte lodevoli attività che ieri si sono imposte in ragione della crisi o della fine di un modello di militanza politica, si sono lasciate trascinare dalla scomparsa del welfare preoccupandosi più della propria sopravvivenza di singoli, di associazioni, di gruppi e perdendo spesso di vista le finalità e idealità che avevano motivato la loro presenza pubblica, le loro iniziative in favore degli emarginati e di tutti i bisognosi di attenzione e assistenza, dei bambini, degli adolescenti e degli immigrati, secondo il vecchio motto, che ci è molto caro, di “aiutare gli altri perché si aiutino da soli”. Molte associazioni sono probabilmente irrecuperabili, altre lavorano sul filo di rasoio del ricatto politico ed economico, altre ancora cercano faticosamente di mantener viva la loro diversità, coscienti dell’utilità e necessità del loro impegno umano e sociale, pedagogico e politico, assistenziale e propositivo.
Siamo preoccupati per le sorti del mondo e del paese, coscienti della nostra assoluta debolezza; preoccupati per il destino delle vittime delle guerre e delle dittature, per la spietatezza dei poteri economici, politici e militari in quasi tutti i paesi del pianeta, e di quelli economici e mediatici soprattutto nei nostri paesi. Poteri che distruggono la natura, mettono in forse la sopravvivenza stessa del pianeta e si accaniscono sui più poveri, i più indifesi, gli ultimi, i piccoli: intere popolazioni. In paesi come il nostro – dominati dalla finanza e dai suoi pretoriani politici – si governa grazie all’asservimento e all’avvilimento delle coscienze con una capillare opera di intima corruzione attuata dai mezzi di comunicazione, i vecchi e oggi i nuovi e nuovissimi, coi loro sistemi educativi. In questo contesto, che ci vede insieme vittime e complici, siamo preoccupati per la nostra stessa sorte, per il futuro che questi poteri ci preparano.
Siamo disgustati dall’ipocrisia dei politici, degli intellettuali, dei finti moralisti e denunciatori, dei risolutori libreschi dei massimi problemi, dei megalomani che predicano su giornali e tv, nelle università e in ogni altro ordine scolastico, politico, religioso; dai finti educatori, dai diseducatori; dall’ignavia, dalle false consolazioni, dalla smania di apparire; dalle nostre stesse complicità, dirette e indirette, con un sistema di potere fintamente democratico (la democrazia dei manipolati, dei frastornati, degli egoisti, degli stupidi), che ci manipola, guida e opprime, e con una sinistra che ha totalmente abdicato alla sua diversità; dai funzionari del potere e dai funzionari della cultura (professori, giornalisti).
Cosa vogliamo? Crediamo sia nostro dovere: resistere con legami forti tra di noi ma evitando ogni logica di gruppo chiuso, setta o partito. Aperti soprattutto a coloro che vengono dopo di noi (ai fratelli minori, ai nuovi cittadini) affinché trovino chi sappia ascoltarli, dando quell’esempio di coerenza tra il dire e il fare, fra mezzi e fini, di cui difettano politici, educatori, genitori. Crediamo sia nostro dovere reinventare modi belli, esigenti, efficaci di stare insieme maschi e femmine, fratelli maggiori e fratelli minori, dedicandoci a imprese comuni, elaborate e attuate in gruppo, nel rifiuto del divismo e del leaderismo, dell’esibizionismo dei singoli; studiare per capire dove ci stanno spingendo e come ci stanno ingannando, capire cosa sarebbe giusto fare, come reagire; far sapere agli altri chi siamo usando gli strumenti a nostra disposizione (rivista, casa editrice, convegni, manifesti, manifestazioni, proteste); portare un’attenzione particolare alle arti e alle forme della comunicazione, nella convinzione che i nuovi e i nostri linguaggi devono distinguersi non solo per le persone e le cose di cui si occupano, ma perché il come è altrettanto importante del cosa; re-imparare dai maestri di ieri, più chiari sul rapporto tra il fare e il dire (dei nomi? scrittori e pensatori – e citiamo solo gli italiani ma potremmo fare cento altri nomi ugualmente significativi – come Sciascia, Calvino, Pasolini, i due Levi, Silone, Morante, Ortese, Chiaromonte, Zanzotto, Bobbio, Fortini, e educatori come Capitini, don Milani, Vinay, Dolci, Zucconi, Zoebeli, Mazzolari, e qualche, più raro, politico), e dalle associazioni e dalle iniziative che li hanno avuti promotori o protagonisti, anche se in tempi molto diversi dal nostro, più chiari del nostro; rivendicare un ruolo di minoranza etica attiva che intende reagire ai mali del mondo nei limiti delle sue poche possibilità, non solo con l’analisi e con la denuncia, ma elaborando adeguate forme di intervento e di lotta, legandosi alle pratiche buone degli altri, cercando quando possibile il rapporto diretto con i lettori della rivista attraverso una pluralità di iniziative sul territorio nazionale, tutte da inventare; insistere sul metodo non perché ce l’abbiamo già, ma perché sappiamo che, in quest’epoca di mutazioni così gravi e forse definitive, non serve rifarsi al vecchio, nonostante quanto di buono c’è da impararne, bensì inventare un modo nuovo in grado di reagire al nuovo che ci opprime. Tra una cultura che addormenta e una cultura che sveglia, scegliamo decisamente la seconda. La rivista “Gli asini” spera di poter contribuire alla formazione di movimenti, associazioni, gruppi attivi in Italia e in collegamento con quanto accade altrove, a rendere più limpidi i nostri e i loro progetti, a far sì che l’intervento sociale, pedagogico, politico, e la produzione culturale e artistica, si pongano all’altezza dei bisogni fondamentali espressi dall’epoca tormentati in cui viviamo, dove la distanza tra chi ha e chi non ha e tra chi conta e chi non conta si è fatta abissale. La nuova “Gli asini” non sarà una rivista “normale”, ma uno strumento di conoscenza, di riflessione, di assunzione di responsabilità, di invito all’azione, di crescita e consolidamento di un’area di pensiero e di intervento attiva e propositiva. [torna su]
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Indice della rivista
Casa nostra
Noi asini
I giovani contro Renzi di Gli asini
Dopo il referendum. Un vocabolario minimo per cercare di capire di Mauro Boarelli
Terremoti di Piergiorgio Giacchè
Legalizzare la cannabis di Antonella Soldo
Venosa, Basilicata di Savino Reggente
Pianeta
Kurdistan, con la sabbia negli occhi di Stefano Nanni
I miraggi insondabili dei giovani africani di Alessandro Jedlowski
Disobbedienti in Francia di Gabriele Vitello
Ai nostri amici di Comitato invisibile
In Ucraina: l’Europa e i suoi confini di Andrea Gava
Trump, o l’incubo americano di Maria Nadotti
Italo-maghrebini ad Amburgo di Fiorenza Picozza
Educazione e intervento sociale
Le nostre contraddizioni di Marco Triches
Giovani immigrati sull’Appennino di Elena Canestrari e Carolina Purificati
La telecamera a scuola di Alessandro Penta
La ricerca come altra pedagogia di Debora Marongiu
Un’antologia per le superiori di Nicola De Cilia
Poco di buono
L’epoca dei cretini intelligenti di Goffredo Fofi
Burattini di Piergiorgio Giacchè
Le statue viventi di Patrizio Dall’Argine
Corpi neri, potere bianco di Bruno Montesano
Cinema e seconda generazione di Suranga Katugampala incontro con Gabriele Vitello
Annie Ernaux e la nostra storia di Federica Lucchesini
L’Europa inabitabile di Sara Honegger
Tre Omini dalle parti di Pistoia di Rodolfo Sacchettini
Tragedie dell’infanzia. Un film e un fumetto di Goffredo Fofi
I doveri dell’ospitalità
Una minoranza virtuosa, i Valdesi di Paolo Ricca incontro con Goffredo Fofi e Nicola Villa
Due storie vere di Taddeo Mecozzi
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Le illustrazioni di questo numero sono di Claude Barras e di Matthias Lehmann[torna su]

CETTA BRANCATO DOMANI A PALERMO

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Giovedì 23 febbraio 2017, ore 19, al Conservatorio di Musica di Palermo, Marco Betta presenta ECLISSE di Cetta Brancato.

HAN SHAN, Canto alla luna chiara

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I saggi mi respingono,
gli sciocchi, li respingo io,
poiché non sono né sciocco né saggio,
ignoriamoci reciprocamente.
Cade la notte, canto alla luna chiara,
spunta l'alba, danzo con le nuvole bianche,
come potrei tener chiusa la bocca e composte le mani
e star seduto in sussiego coi capelli che ricadono sciolti?


Han Shan / Montagna Fredda/epoca Tang (618-907)






B. SALVIA, Abbiamo nel cuore un solitario amore

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Abbiamo nel cuore un solitario
amore, nostra vita infinita,
e negli occhi il cielo per nostro vario
cammino. Le spiagge i cieli, la riva
su cui sassi e rovi e il solitario
esquisèto, e colli erbosi grassi
rioni, città dispiegate come
belle bandiere, e nude prigioni.
Questa è la nostra vita. Questi nostri
volti vagabondi come musi
di cani ci somigliano. Il vento
il sole le corolle rosse e blu,
i sogni mai sognati i nostri sogni.
Questa è la nostra vita e nulla più.


 Beppe Salvia

GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA LINGUA MADRE

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Giornata della Lingua Madre
Nell’idioma, l’identità dei popoli

Il 21 febbraio è la data scelta dall’Unesco per promuovere la diversità linguistica
Le iniziative in tutto il mondo e il progetto del laboratorio creativo «Fabrica»

In spagnolo si dice lengua materna, in francese langue maternelle, in inglese mother tongue, in sanscrito matribhasha, in italiano lingua madre, e si festeggia ogni anno il 21 febbraio. La Giornata Internazionale della Lingua Madre dell’Unesco è una data particolare, dedicata all’importanza dell’identità e della pluralità dei linguaggi, e rispecchia un’istanza di multiculturalità e di apertura alle civiltà vicine e lontane. Anche la lingua, come molti altri elementi culturali, deve essere infatti preservata e rispettata, perché è un fulcro dell’identità di ogni popolo, un «luogo», in qualche modo, in cui si riversano tradizioni, costumi, radici materiali e immateriali. 

Lo Shaheed Minar di Dacca, in Bangladesh

Ma perché si celebra proprio il 21 febbraio? L’Onu ha stabilito nel 1999 di celebrare tale data perché il 21 febbraio 1952 gli studenti scesero in piazza a Dacca, nell’allora Pakistan, per sostenere il Bengali Language Movement per la difesa della lingua bengalese: molti vennero uccisi dalle forze dell’ordine durante le dimostrazioni, ma la loro protesta sopravvisse. I genitori dei giovani e gli altri sostenitori del movimento per la lingua continuarono a tenere vivo il ricordo dei «martiri di Dacca», costruendo un monumento ai caduti nel campus dell’università, lo Shaheed Minar, ripetutamente abbattuto dalle autorità; fino alla dichiarazione di indipendenza del Bangladesh, quando il monumento fu ricostruito nella forma attuale.
Già quattro anni dopo la manifestazione di Dacca, il bengalese era stato riconosciuto come lingua ufficiale nell’allora Pakistan. Si tratta di un esempio di quanto la lingua sia strettamente connessa all’identità di un popolo, e di quanto il destino della sua cultura sia intrecciato alle vicende storiche.

Un’immagine della Gif «Torre di Babele» di Roberta Donatini, Italia (Fabrica)

Alla Giornata sono dedicate molte iniziative in tutto il mondo, a partire dalle manifestazioni e dalle offerte floreali che si svolgono proprio a Dacca, davanti al monumento per i giovani caduti. In India, la Giornata ha ispirato un progetto del governo che rendere disponibili online le risorse culturali nelle numerose lingue ufficiali dell’India. In Italia tra le iniziative l’evento che si svolgerà martedì 21 febbraio a Cosenza, alla Biblioteca Nazionale, col patrocinio del ministero dei Beni culturali: l’incontro «La lingua italiana nella canzone a 50 anni dalla morte di Luigi Tenco», con Pierfranco Bruni. 


Proprio ai temi della Lingua Madre sono dedicati i lavori di alcuni giovani borsisti residenti a Fabrica, centro di ricerca sulla comunicazione ideato nel 1994 da Luciano Benetton (fa parte di Benetton Group). I creativi under 25 hanno realizzato sul tema dell’evento Unesco diverse clip video. I lavori sono: il video Giornata internazionale della lingua madre dell’americano Alexis Gallo e di Wai Hon Chan, di Hong Kong; la gif video intitolata Torre di Babele della borsista italiana Roberta Donatini; il video Pardon? di Fuse Tsang, di Hong Kong e il lavoro Lost in Computation, dello svedese Jonas Eltes, che mostra due intelligenze artificiali in dialogo in svedese e in italiano con traduzioni di Google Translate. I lavori saranno pubblicati sia sul sito fabrica.it, sia sulla pagina di Facebook del centro.


CORRIERE DELLA SERA, 20 febbraio 2017 (modifica il 21 febbraio 2017)
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A COLLOQUIO CON JEAN-PIERRE VERNANT

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Ingres, Giove e Teti (1801)

La coscia di Zeus. A colloquio con Jean-Pierre Vernant 

Enrico Filippini

Questa volta, Jean-Pierre Vernant è venuto nella nostra città (dove viene abbastanza spesso) per partecipare a un convegno che inizia oggi nella Sala del Consiglio della II Università, a Tor Vergata, sul tema Corpo degli Dei, corpo degli uomini, coordinato da Charles Malamoud, Mario Perniola e Riccardo Scrivano. Un tema, evidentemente, non di tutti i giorni, visto che gli Dei sono spariti, o almeno così pare... Sono spariti gli Dei, professor Vernant? "Ah, questo è da vedere...".
Qui da noi, tra noi monoteisti, quando si parla di Dei si pensa soprattutto agli Dei dell'antica Grecia. E lei è un grecista. Allora mi consenta una domanda un po' generale: fino a qualche anno o a qualche decennio fa, quando si parlava dell'antica Grecia, si pensava ai grandi studiosi tedeschi e, in seconda istanza, inglesi. Oggi c'è un interesse evidente per gli studi francesi. Penso, oltre che a lei, a Marcel Detienne, a Pierre Vidal-Naquet, anche a Paul Veyne... "Sì", risponde il settantaduenne e vigoroso ex professore del Collège de France, che di questi "nuovi grecisti"è stato il capofila, "c'è stata una tradizione tedesca storica e filologica molto forte, che è durata fino all'inizio della seconda guerra mondiale: basti ricordare i nomi di Werner Jaeger, di Hermann Fraenkel e di Bruno Snell. Poi negli studi classici c'è stato un cambiamento. E per quanto riguarda la Francia - la ringrazio del suo apprezzamento - bisogna ricordare innanzitutto il lavoro di Louis Gernet, grande ellenista e membro della scuola sociologica francese di ispirazione durkheimiana, che cominciò a vedere la Grecia non più come un "miracolo" unico e da imitare, com'era per l'umanesimo tradizionale, ma come una esperienza tra le altre, come la Cina, l'India, la civiltà assiro-babilonese".
A quest'interesse hanno contribuito anche altre discipline? "Certamente: da noi come in America, la linguistica, la semiotica, l' analisi del racconto e la storia delle mentalità, per non dire dell' etnologia".
E lo strutturalismo degli anni Sessanta? E Lèvi-Strauss? "Anche, anche! Io, che sono il più vecchio, sono stato il primo a venir definito strutturalista. Infatti avevo applicato il metodo strutturale alla tragedia. Ma con la consapevolezza che esso non bastava: bisognava capire anche le condizioni storiche della produzione e della ricezione della tragedia, grande fenomeno espressivo che, tuttavia, durò appena un secolo".
A questa correzione contribuì il marxismo? "In parte. Ma il marxismo ha troppe porte, troppe finestre, troppe vie di entrata e di uscita. Cos'è il marxismo? Il mio, nella mia giovinezza, non fu quello cristallizzato di cui spesso si parla, o di cui si parla poco in Francia e troppo in Italia, ma appunto una maniera di approccio storico, niente di più".
Veniamo agli Dei... "Ecco, due anni fa, il Cnrs, che è l'equivalente del vostro Cnr, ha varato un progetto di studi che raggruppa vari tipi di ricercatori e che ha come oggetto il politeismo. Noi siamo monoteisti, come lei diceva, ma bisogna chiedersi: c'è una differenza strutturale tra i due gruppi di religioni, quelle politeiste e quelle monoteiste? Lei capisce la complessità del problema: confrontare tutte le religioni politeiste dell'Egitto, dell'Asia, dell'Africa, nonchè quelle greco-romane e una religione, quella ebraico-cristiana, dove c'è un Dio trascendente, unico, col quale si ha un rapporto personale. Da qui la presenza al nostro convengo di un indianista, Charles Malamoud, di un sinologo, Jean Levy, di un'orientalista, Elèna Cassin, di un africanista, Marc Augè, eccetera”.
E il corpo che c' entra? "I vari gruppi di studio si sono occupati di problemi particolari, uno dei quali è il corpo degli Dei o del Dio: ci si lavora da due anni coi colleghi di Roma II".
Già, gli Dei del politeismo avevano un corpo: la coscia di Zeus, il busto di Apollo, i fianchi di Venere... Ma, se ben ricordo, Detienne ricorda che nel 1724 Fontenelle, nella sua "Origine delle favole", affermava che si trattava di menzogne ovunque accreditate, "fatta eccezione per il popolo eletto, presso cui una speciale grazia della Provvidenza ha conservato la verità". Dunque, noi monoteisti... "Per noi monoteisti, per noi ebrei e cristiani, il politeismo è idolatria: gli Dei pagani sono rappresentati con corpi umani, o con semplici organi, o addirittura come animali. Ma questi "idoli" che cosa significano? Perché ci sono Dei mostruosi, o grotteschi, o orrendi? Pensi a Dioniso, a Priapo, alla Gorgona. Si possono descrivere, ma una volta descritti ci si deve domandare: cosa c'è dietro? In queste forme di pensiero, una divinità è una presenza, ma la religione è anche un culto, cioè una serie di gesti che ordina il rapporto tra l'uomo e la divinità. E questo rapporto è innanzitutto un rapporto corporale: pensi a Omero, a cosa sentono gli eroi nel corpo, nelle gambe, nei polmoni...".
Però... "Lo so: qui c'è il primo paradosso: la divinità si presenta nella sua corporeità, ma nello stesso tempo è anche altrove, assente, sfuggente. Lo chiamerei il paradosso dell' idolo". Sì, ma... "Certo, occorre fare un passo avanti, decisivo. Io dico che gli Dei hanno un corpo, e lo dico come se sapessi che cos'è un corpo. Perché? Perché nel solco del pensiero successivo greco e poi cristiano, io credo di sapere che il corpo è quella tal cosa, estranea, oggettiva e materiale che è separata dall'anima. In Platone il tema è trattato con molte precauzioni, ma nei medici suoi contemporanei molto meno. Tenga presente che originariamente il vocabolo soma designava il cadavere. Ma prima, nell' era degli Dei, per esempio in Omero, come hanno mostrato, non so, Frankel e Snell, gli organi corporei erano indissolubilmente connessi con funzioni psichiche: pensi al sangue, alla bile, al respiro... Voglio dire: il vocabolario corporale era per i greci antichi un codice con cui essi esprimevano un rapporto con se stessi, con gli altri, e col divino. Pensi al panico, alla collera, al furore...".
Sto pensando all'"Iliade". "Appunto, un testo come l'Iliade è, tra l'altro, una messinscena della presenza divina realizzata col vocabolario della corporeità... Naturalmente lei mi potrebbe chiedere: qual è l'analogia tra la corporeità umana e quella divina? Nel caso greco, quest'analogia è imperfetta nel senso che gli uomini non hanno un vero corpo, ce l'hanno inferiore, debilitato, preso nei cicli naturali, mortale; mentre sono gli Dei che incarnano i veri valori corporali: giovinezza, forza, agilità... Anche se, per un ennesimo paradosso, essi sfuggono ai valori corporali: sono ubiqui, immortali, onnipotenti. Anch'essi sono qui e altrove: sono indici simbolici che mostrano come sfuggire al codice corporale...". Siccome però noi siamo monoteisti, volevo ricordarle la frase di Fontenelle... "Certo, nel cristianesimo e, prima, nell'ebraismo, c'è un grande sforzo di non-figurazione: Dio non ha più corpo, anche se ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza. Ma in realtà, il popolo eletto, che ha un patto con Dio, è il corpo di Dio, più o meno come lo sarà la Chiesa. In secondo luogo - come lei monoteista e cristiano sa - il cristianesimo assegna un posto fondamentale all'incarnazione, per cui la corporeità non è più solo presenza (di un toro, di un serpente, di un corpo apollineo e via dicendo), ma un codice che permette di pensare il peccato, la colpa, la mancanza... Fontenelle si sbagliava: la situazione non cambia, il problema del corpo rimane".
Lei vede dunque una continuità tra politeismo e monoteismo. "Da questo punto di vista sì. Io non faccio della filosofia religiosa, ma solo dell'antropologia religiosa comparata. Col monoteismo, il problema del corpo si sposta ma insieme si rafforza: pensi che alla fine dei tempi ci sarà la resurrezione della carne. Lei alludeva prima alla medicina. Col cristianesimo si crea, in un certo senso, una doppia medicina: quella che riguarda il corpo terreno e quella che si compie nel corpo celeste...".
Professor Vernant, io ho letto un suo testo, molto bello, sul passaggio dal pensiero mitico al pensiero filosofico in Grecia, e ho notato che lei presta attenzione, come anche prima diceva, ai fattori storici di questi cambiamenti. Voglio chiederle: anche il pensiero del corpo è legato alle funzioni di potere? Per esempio: Minosse è re, e dunque sacerdote. Com'è noto, sua moglie Pasifae partorisce il Minotauro dopo essersi accoppiata, nascosta dentro la "falsa vacca", col toro bianco. Tuttavia, è gelosa di Minosse, molto dedito ad amori adulterini. Così gli fa un incantesimo, e il suo sperma si trasforma in un getto di ragni, serpenti, scorpioni, che devastano il ventre delle sue amanti... Voglio dire: nel mito di Minosse, che è un racconto del potere, il corpo ha molto a che fare. "Non c'è dubbio. Nella Grecia antica, il corpo ha sempre un ruolo essenziale quando il personaggio in questione ha un ruolo regale, cioè fino alla fondazione della polis. Come, più tardi, per i santi, o per i re di Francia, i cui corpi devono recare i segni della presenza divina nella loro persona. Pensi alle innumerevoli reliquie...". Poi però, un po' prima e un po' dopo la fondazione della "polis", nasce un altro corpo, quello che ci ritroviamo qui... "Sì, forse. Ma evidentemente questo sarebbe l'argomento per un' altra intervista".

“la Repubblica”, 23 gennaio 1986 

A PALERMO UNA MOSTRA D'ARTE PER RICORDARE RUGGERO II

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Ecco gli artisti chiamati a ricordare Ruggero II


Domenica 26 febbraio alle ore 17,00, sino al 7 marzo, paintings, sculptures and photographs degli artisti Marzia Acquaro, Aluà Christian Aloi, Simonetta Ardizzone, Umberto Benanti, Filippo Calvaruso, Nello Costa, M. Antonietta Emma, Giuseppe Faretina, Gianfranco Fiore, Jopul, Stefania Leonardi, Fabio Pannizzo, Giovanna Piazza, Barbara Risica, Catia Sardella, Zeudi Termini, Vanessa Pia Turco, Vanda Zizza, daranno avvio a “Ruggero II”, un progetto artistico ideato dal critico dell’arte Paolo Battaglia La Terra Borgese, atto a rinnovare la memoria del Conte e Re di Sicilia 863 anni dopo il giorno della sua scomparsa a Palermo, il 26 febbraio 1154. Dichiara la direttrice artistica Vanessa Pia Turco: “Sarà una mostra lungo le scale della sede palermitana della Mondadori, un posto prestigioso, sito nel cuore della città di Palermo. E sarà anticipata da incontri rientranti nel proposito di lavoro e di pianificazione del percorso espositivo. Presupposto comune, come suggerisce il titolo, è infatti l’idea di un confronto reticolare tra opere d’arte, saperi e punti di vista, che inquadra l’attenzione sui 50 anni intercorsi tra il 1105 ed il 1154 in Sicilia. Ho affidato la cura dell’evento alla pittrice Zeudi Termini”.
Abbiamo intervistato telefonicamente il Critico dell’arte Paolo Battaglia La Terra Borgese che a suo giudizio inappellabile e insindacabile premierà un Artista con un testo critico: “Ottima la scelta del percorso scale: i 15/20mila visitatori settimanali di Mondadori a Palermo saranno uno strumento di esperienza unico e straordinario per la visibilità di ogni artista. Come nel teatro greco antico, la scala, il meccanismo che serviva agli attori, nella finzione scenica, per discendere sotto terra, sarà ora per gli artisti alla Mondadori l’elevazione ad una vetrina superiore in un luogo dove la cultura trova dinamiche importanti e fondamentali per la nostra società”.
Chiara Fiume, Consultant Artist and Cultural Events per Premio Arte Pentafoglio, l’Ente che ha pianificato l’evento: “La storia dell’arte è un percorso che attraversa il tempo e lo spazio, che ci fa conoscere gli artisti, il loro mondo, le loro opere. Oltre 35 quadri tra dipinti e fotografie d’arte daranno immagine a forme, colori, volumi e spazi per onorare Ruggero II. Il Comune di Palermo ha patrocinato l’evento e abbiamo invitato il sindaco Orlando a presenziare durante il vernissage”.

 Da http://www.4live.it/2017/02/palermo-ecco-gli-artisti-chiamati-a-celebrare-la-memoria-di-ruggero-ii/

Josè Ortega y Gasset sull'amore

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Poiché l’amore è l’atto più delicato e totale dell’anima, esso rifletterà lo stato e la natura dell’anima medesima. Le caratteristiche della persona innamorata devono essere attribuite all’amore stesso. Se l’individuo non è sensibile, come può esserlo il suo amore? Se la persona non è profonda, come può esserlo il suo amore? Il nostro amore è esattamente come siamo noi. Per questa ragione troviamo nell’amore il sintomo più significativo di quel che una persona è veramente.

(Josè Ortega y Gasset)

Charles Bukowski, Non ho smesso di pensarti

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Non ho smesso di pensarti,
vorrei tanto dirtelo.
Vorrei scriverti che mi piacerebbe tornare,
che mi manchi
e che ti penso.
Ma non ti cerco.
Non ti scrivo neppure ciao.
Non so come stai.
E mi manca saperlo.
Hai progetti?
Hai sorriso oggi?
Cos’hai sognato?
Esci?
Dove vai?
Hai dei sogni?
Hai mangiato?
Mi piacerebbe riuscire a cercarti.
Ma non ne ho la forza.
E neanche tu ne hai.
Ed allora restiamo ad aspettarci invano.
E pensiamoci.
E ricordami.
E ricordati che ti penso,
che non lo sai ma ti vivo ogni giorno,
che scrivo di te.
E ricordati che cercare e pensare son due cose diverse.
Ed io ti penso
ma non ti cerco


Charles Bukowski

I regimi non nascono dal nulla

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Le scene di guerriglia urbana viste ieri a Roma mi hanno fatto tornare alla mente queste parole di Pasolini:



Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili. 

Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari
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