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S. RONCHEY, La presa di Costantinopoli come seduzione

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Panagiotis Zografos , La presa di Costantinopoli

“Bisanzio sei già mia”. La presa di Costantinopoli come seduzione 

 Silvia Ronchey


Ci sono giorni che possono cambiare la storia, date che diventano un simbolo, un ologramma, un mantra. L’11 settembre 2001, la caduta delle Torri Gemelle, per esempio, che ha impresso al XXI secolo il sigillo di quello che viene chiamato uno scontro di civiltà, comunque di un nuovo evo. O anche date meno agghiaccianti, ma ugualmente emblematiche, come quelle cui si è soliti riferire la nascita dell’evo moderno: il 1492, quando la scoperta dell’America proiettò lontano dall’area d’irradiazione dell’ex impero romano, poi bizantino, le rotte commerciali per secoli contese tra le repubbliche mercantili; o il 1517, quando Lutero affisse le sue novantacinque tesi sul portale della chiesa del castello di Wittemberg. Ma questi due eventi sono strettamente legati a un terzo, anzi, se ne potrebbero considerare epifenomeni. Se volessimo indicare il vero inizio della modernità, l’evento che ha cambiato rotta ai traffici mediterranei spingendoli a ovest, che ha tolto al papato l’antagonista secolare dell’ortodossia lasciando spazio alla Riforma protestante, dovremmo indicare un’altra data: il 29 maggio 1453, quando Costantinopoli cadde in mano ai turchi osmani di Mehmet II Fâtih, il Conquistatore. Questo è il giorno che ha inserito violentemente l’islam nella dinamica geopolitica europea, dove l’impero ottomano si insedierà, continuando peraltro a intrecciarsi alla tradizione grecoromana. Perché il 29 maggio 1453 è la data di una caduta o di una conquista, a seconda dell’ottica con cui la si vuole guardare.
“Quando l'ombra dei riccioli scompigliati della notte simile a un indiano scese sulla guancia bianca del giorno, i combattenti della jihâd traversarono il fossato e appoggiarono scudi e scale alte come il cielo alle mura delle torri. La battaglia durò fino al mattino, fino a che l’Armata Greca dell’Alba non ebbe irrorato di sangue la piana dell'aurora per contendere la Fortezza Celeste dalle dodici torri al Comandante Negro del Crepuscolo che l'aveva occupata”. Così racconta lo storico turco Tursun Bey nella sua Cronaca del Padre della conquista, il capolavoro della letteratura ottomana antica, di cui finalmente esce oggi da Mondadori la traduzione italiana integrale, fortemente voluta da Pietro Citati e affidata a Luca Berardi, sotto il titolo La conquista di Costantinopoli.
E’ incantata, quasi allucinata, la descrizione dell’assalto all’alba del 29 maggio 1453, così crudamente e tragicamente riportato invece da Isidoro di Kiev, uno dei testimoni oculari bizantini, rocambolescamente sfuggito alla strage. La conquista di Costantinopoli fu un trionfo di sangue e di morte, ma l’occhio ottomano la paragona a una seduzione. Fortezza inespugnata, hortus conclusus dietro le altissime mura di Teodosio, nel folto dei suoi giardini, la Polis è la “la Città vergine”. Per lei il giovane sultano prova un'attrazione fisica, come per una donna desiderata in modo incontenibile. Il simbolismo sessuale ricorre ossessivamente nello strano linguaggio di Tursun Bey, in cui la poesia si mescola alla prosa e il persiano all’arabo e al turco: «L'immagine della sposa novella, la conquista di Costantinopoli, era divenuta la compagna inseparabile delle sue notti».  E’ esplicitamente erotica la descrizione stessa della Città: grande fessura profonda tra il Mar Nero e l'Ak Deniz, è un immenso organo sessuale femminile “che può accogliere nel suo seno infiniti vascelli, e contiene giardini meravigliosi e odora dei soffi profumati del nord e del nord-est”.
Per tutto l’assedio, del resto, il ventenne Mehmet si astiene dai piaceri sessuali. Costantinopoli è “la compagna inseparabile delle sue notti”. La prosa di nuovo si contrae in versi: “Spero di espugnarti con il cannone dei miei sospiri”.
Se la frenesia di conquista di Mehmet è, ad occhi ortodossamente islamici, “provvidenziale” perché ispirata dall’“ordine dell’incomparabile Bontà Divina”, motore della storia, nella spiritualità islamica, animata dal “grande vento del platonismo”, a sua volta l’ordine divino si traduce, nella realtà terrena, in eros mistico, proprio come vediamo l’ordine celeste e zodiacale rispecchiarsi, per Tursun Bey, in uno stato di continuo presagio e di vero e proprio delirio astrologico.
Il simbolismo zodiacale, l’attenzione al cielo, alle sue congiunzioni, ai suoi segni, delineano la topografia e la cronologia dell’assedio, condizionano gli stati d’animo e determinano anche l’azione bellica: “Con zelante fervore in qualche giorno i soldati ottomani ridussero ad appiattirsi al suolo alcune torri, che prima costituivano una linea parallela alla costellazione dell’Ariete”.
La struttura dell’accampamento del sultano rispecchia un ordine non solo gerarchico ma anche esotericamente cosmico: “Al centro fu posta la sala del trono, simile al Mondo, adorna come il Padiglione dell’Eden. Le tende dei giannizzeri formavano un cerchio tutt'attorno e la circondavano così come l'alone circonda la luna”.
Ancora oggi la bandiera turca rispecchia la congiunzione di necessità provvidenziale e geometria astrale nel cielo di quella notte: una falce di luna calante, com’era il 29 maggio 1453, con accanto la fulgida stella mattutina della sospirata Città.
Panagiotis Zografos , La presa di Costantinopoli
Appendice
L'assedio a Santa Sofia visto dai Cristiani e dagli Islamici
L’OCCHIO GRECO
“Tutti i viali, le strade e i vicoli erano pieni di sangue e di umore sanguigno che colava dai cadaveri dei civili sgozzati e fatti a pezzi. Dalle case venivano trascinate fuori le donne, nobili e libere, l’ancella insieme alla padrona, a piedi nudi. Avresti dovuto vedere la più infima soldataglia turca scovare e spartirsi fanciulle giovanissime e nobilissime, laiche e religiose. Nella chiesa che si chiamava di Santa Sofia, e che ora è una moschea turca, buttarono giù e fecero a pezzi tutte le statue, le icone e le altre immagini di Cristo, dei santi e delle sante. Saliti come invasati sul ripiano dell’ambone, sulle are e sugli altari, si facevano beffe, esultando, della nostra fede e dei riti cristiani e cantavano inni e lodi a Maometto.
Abbattute le porte dell’iconostasi, agguantavano tutte le suppellettili sacre e le sante reliquie e le gettavano via come cose spregevoli e abbiette. Preferisco passare sotto silenzio ciò che hanno fatto nei calici, nei vasi consacrati, sui drappi. I paramenti intessuti d’oro con le immagini di Cristo e dei santi li usavano come giacigli per i loro cani e per i loro cavalli”.

(Lettera di Isidoro di Kiev a Bessarione, spedita da Candia il 6 luglio 1453. )

 Gentile Bellini, Ritratto del sultano Mehmet II
L
L’OCCHIO TURCO
“Mentre il sultano passeggiando visitava le file di abitazioni, le strade e I mercati di quell’antica metropoli e vasta fortezza, espresse il desiderio di visitare la chiesa chiamata Aya Sofya, che è modello del paradiso: O sufi, se cerchi il paradiso,/ Aya Sofya del paradiso è sommo cielo.
Dopo aver goduto dello spettacolo delle meravigliose e strabilianti opere d’arte presenti sulla superficie concava della cupola, il Sovrano dell’Universo salì sulla sua superficie convessa: la scalò come Gesù – l’Alito di Dio – ascese al Quarto Cielo. Dopo avere ammirato, dalle gallerie che sono fra i suoi piani, il pavimento simile a un mare ondoso, uscì all’esterno della cupola. Quando vide la degradazione e la rovina degli edifici annessi, pensò all’instabilità e alla volubilità del mondo. Considerò che la sua fine è la rovina, e malinconicamente, dalla sua favella che diffonde zucchero, scaturì questo distico: Il ragno tira le tende alla finestra di Cosroe,/ il gufo suona la musica di guardia nel palazzo di Efrâsyâb.

(Da Tursun Beg, Conquista della fortezza di Costantinopoli, pp. 81-82. )

 Testi ripresi dal blog di 

W. SZYMBORSKA, Al mio cuore...

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W. Szymborska

Anch'io ringrazio il cuore mio ...fv

ANNA KARENINA VISTA DA A. ASOR ROSA

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Secondo Asor Rosa Anna Karenina  dimostra che i capolavori hanno bisogno di amori tragici. Una tesi interessante, ma forse un po' troppo unilaterale.

Alberto Asor Rosa

Anna Karenina


Nei mesi scorsi ho letto per la seconda volta, dopo cinquant’anni, “Anna Karenina” di Lev Tolstoj. Cinquanta? Che dico: almeno sessanta. La copia preistorica, che possiedo ancora, è quella Einaudi con la traduzione di Leone Ginzburg (e una sintetica, ma al tempo stesso bellissima, introduzione di Natalia Ginzburg). Il mio testo, rigorosamente di seconda mano, come era d’obbligo in quei tempi difficili, porta la data del 1949; ma brevi e attendibili ricerche portano alla conclusione che la prima edizione sia del 1946. Dunque, per quanto mi riguarda, gli anni dell’università o, più esattamente, della Facoltà di Lettere a Roma: quando leggere un testo di Tolstoj, o di Dostoevskij, o di Balzac, o di Stendhal, poteva non solo procurare un immenso piacere allo spirito ma aprire un orizzonte che prima non c’era, ossia cambiare la vita. Oggi l’Anna Karenina l’ho riletta nella nuova traduzione (sempre Einaudi) di Claudia Zonghetti, diversissima dalla prima: più fluida, scorrevole, avvolgente, quella di Ginzburg; più coincisa ed essenziale e decisamente più modernizzante, quella di Zonghetti.

Non ho nessuna competenza, naturalmente, per entrare nel merito della qualità e del rispetto del testo originario da parte dei due traduttori (mi risulta che nel merito ferva una polemica). Mi limito a osservare, ai fini di questo mio sprovveduto discorso, che le due traduzioni presentano due libri profondamente diversi fra loro.
Questo ci mette di fronte al mondo misterioso e affascinante della traduzione, il quale, non solo, bontà sua, rende possibile la trasmissione di universi letterari, che altrimenti resterebbero incomunicabili; ma al tempo stesso li formalizza secondo modi e abitudini, che rispondono di volta in volta a bisogni e consuetudini diversi. Fra la comparsa della traduzione Ginzburg e quella della traduzione Zonghetti passano, come ho già sommariamente accennato, settant’anni, ossia un’intera fase storica.

Nel frattempo è cambiata anche la lingua del traduttore, cioè, se si può ancora definire così, l’italiano. Si può leggere l’opera nello stesso modo? Nel testo originario probabilmente sì. Ma quel che ne risulta dalle traduzioni, a quanto sembra, altrettanto ovviamente no. Se poi si aggiunge alla temporalità delle traduzioni la temporalità del lettore, – leggere lo stesso libro a vent’anni non può essere la stessa cosa che leggerlo a ottanta, e questo allora vale anche per il testo originario – la poliedricità delle interpretazioni possibili aumenta a dismisura.

La lunga premessa mi serve a giustificare perché io mi sia concesso il lusso di ragionare in pubblico di un capolavoro come l’Anna Karenina. In fondo, io qui, spogliato di ogni specialismo, sono uno qualsiasi di quei milioni che in passato e nel presente hanno letto e continuano a leggere, o a rileggere, questa grandiosa opera. Che ne diresti, lettore d’imbastire questa volta un discorso più ravvicinato fra noi?

Anna Karenina, nella sua accezione vulgata, è la storia dell’amore, colpevole e disperato, fra l’eroina eponima del romanzo e il brillante, ovviamente nobile e ricco, ufficiale della Guardia Aleksej Vronskij. Una prima lettura, tanto più se generazionalmente precoce, non può non focalizzarsi pressoché esclusivamente su questa vicenda centrale e capitale. La mia impressione più recente è che non sia esattamente così, e per due motivi, in cui, forse, soprattutto si concentra la grandezza del narratore, e che vanno ambedue nel senso di una gigantesca moltiplicazione della macchina narrativa.

Il primo è che, nel senso più letterale del termine, qualunque sia il punto di partenza dell’episodio in questione, la narrazione si allarga a macchia d’olio, ramificando in tutte le direzioni, tutte libere a loro volta di espandersi in tutte le direzioni, ma al tempo stesso tutte governate da un superiore assetto strategico; la moltitudine dei personaggi, anche loro tutti capaci, se necessario, di venire di volta in volta in primo piano; la ricchezza inaudita degli ambienti esterni circostanti, dalla società nobiliare e cortese, che continua comunque a rappresentarne il fulcro riservato e pressoché esclusivo, alla multiforme e depressa realtà contadina, anch’essa però capace, nella sua apparente millenaria arretratezza e chiusura, di suggerire un diverso modo di vivere e d’interpretare le cose.
In secondo luogo, – e questo davvero, penso, può essere colto solo da un occhio sufficientemente adulto – non è vero che il romanzo poggi le sue fondamenta soltanto sulla storia dell’amore infelice fra Anna e Vronskij. Ci sono almeno altre due coppie (e anche questo è un modo peculiare di guardare il mondo da parte di Tolstoj) che ne fiancheggiano le vicende, assumendo su di esse, in momenti specifici della narrazione, e soprattutto nelle conclusioni, addirittura il sopravvento.

Sono quelle di Oblonskij, mite, anzi buono, ma al tempo stesso irrimediabilmente superficiale e vanesio, e incline alle più disparate avventure femminili, e di sua moglie Dolly, sfiorita anzitempo in seguito alle sette maternità (cinque figli superstiti, cui si dedica anima e corpo), ferita a fondo dalle leggerezze del marito e tuttavia incapace di liberarsene; e di Levin, anche lui aristocratico, ma anche convinto proprietario terriero, che dedica ai suoi beni una cura attenta e lungimirante, e di sua moglie, la dolcissima Kitty, che, dopo l’infatuazione iniziale per Vronskij, si sprofonda nel rapporto matrimoniale come in un confortante paradiso, rallegrato a un certo punto an- che dalla difficile ma inebriante esperienza della maternità.

Ancor più significativo, secondo me, è che il romanzo si apra con le vicende di Oblonskij e di Dolly (le prime cinquanta pagine) e si chiuda con quelle, del resto coltivate a lungo anche in precedenza (le ultime cinquanta) di Levin e Kitty, le quali oltre tutto assicurano all’opera, intensa e drammatica, un inaspettato lieto fine. La storia, sventurata e terribile, di Anna e Vronskij, s’incastona così nelle altre due, quella mediocre e patetica di Oblonskij e Dolly e quella affettuosa e positiva di Levin e Kitty.

L’impressione di eccezionalità e di sfortuna suscitata dalle vicende dei primi due si accentua ancora di più se si tiene presente che fra le tre coppie corrono addirittura rapporti di contiguità famigliare: Oblonskij, infatti, è fratello di Anna; e Dolly sorella di Kitty. Si direbbe che a restar fuori, isolato, sia soprattutto Vronskij. È così o è solo una mia impressione? Entriamo per questa strada nel vivo del romanzo.

Anna lascia per Vronskij il melenso marito Karenin ma anche l’adoratissimo figlio; Vronskij lascia per Anna la sua brillante carriera di ufficiale della Guardia. La loro passione è illimitata; ma, mentre li avvicina oltre misura fra loro, sfiorando sempre di più l’ossessione e l’eccesso, li distanzia in modo irrimediabile dal resto del mondo. In questo modo, non si può esser felici, si dev’essere per forza sventurati. Sono pensieri di Anna che va verso la disperazione finale: «Quando finisce l’amore comincia l’odio…»; e: «Pensò che lo amava e lo odiava alla follia».
Seconda domanda: per Tolstoj è impossibile che amore e felicità scaturiscano dalla colpa? La domanda (penso) è legittima, ma la cosa non incide sulla potenza e, direi, sull’onestà illimitata del punto di vista tolstojano. L’autore che ne fornisce la chiave fin dalle prime due (leggendarie) righe del romanzo: «Le famiglie felici si somigliano tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a modo suo». È per questo, si direbbe, che una storia romanzesca, come lui la concepisce, è fatta soprattutto di storie infelici, e quelle felici possono comparire solo a contraltare, magari ottimistico, di quelle infelici.

Questa così evidente dichiarazione di poetica – come si diceva una volta – spiega fin dall’inizio il processo di moltiplicazione narrativa, di cui abbiamo già parlato; ma al tempo stesso giustifica sul piano etico (non più semplicemente letterario) il punto di vista dell’autore. È molto più difficile capire, interpretare e spiegare un capolavoro che un libro mediocre.

Ma se un’ipotesi nel caso suo può esser tentata, io penso che sia questa: i grandissimi scrittori non decidono mai da che parte stare. Soltanto i mediocri scelgono, per questo sono così facilmente interpretabili. I russi in questo sono stati maestri. Un loro romanzo non è mai un solo romanzo: è sempre una molteplicità di romanzi.

Tolstoj è Oblonskij, è Dolly, è Levin, è Kitty, è Anna, è Vronskij; e di ognuno di loro lui assume di volta in volta caratteristiche, pensieri e passioni. È come se, rinunciando a giudicare, stesse dentro ognuno dei personaggi rappresentati, trovando in quello in quel momento, e non in altri, il corrispettivo, per quanto temporaneo e discutibile, della propria visione del mondo. Chi legge, o rilegge, e non perde la bussola cammin facendo, si trova o ritrova ogni volta di fronte al grande caleidoscopio del mondo.

La Repubblica – 1 febbraio 2017

IN MEMORIA DI CALOGERO MARRONE

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La via che la città di Palermo ha dedicato a Calogero Marrone


Pubblichiamo la documentazione inviataci dall' amico Piero Carbone  perchè riteniamo doveroso ricordare un uomo giusto dimenticato da tanti:


L’Istituto Comprensivo Statale Maredolce di Palermo, nella volontà di celebrare la memoria di “un giusto tra le nazioni” e di socializzare al territorio le nobili gesta di un eroe della Nostra Terra, intende esprimere il proprio impegno morale attraverso una manifestazione che avrà luogo Il 15.02.2017 alle ore 9:00.
 Gli alunni dell’ICS “Maredolce” insieme gli alunni dell’ICS “Bonagia-Mattarella”, raggiungeranno (a piedi), con una marcia, da Piazza Maria SS di Pompei a via Calogero Marrone, sita nel periferico quartiere di “Bonagia”, a Palermo.

Al corteo prenderanno parte il Sindaco di Palermo, i rappresentanti dell’A.N.P.I., di Scorta Civica, dell’Istituto Studi e Ricerca “Calogero Marrone”, dell’Associazione Maredolce, della Scuola Media “Odoardo Focherini” di Carpi; don Angelo Mannina titolare della Parrocchia Maria SS di Pompei; il Commissario della Polizia Municipale Rosolino Molica e l’Ispettore Capo della Polizia Municipale  Rosa Mazzamuto;è stato invitato il Sindaco di Favara.
Per l’occasione è stata ripulita la Via Marrone che versava in uno stato di degrado e abbandono.
I ragazzi dei due istituti scolastici eseguiranno canti e daranno vita a un flash mob.
Su un grande lenzuolo bianco verranno apposte simbolicamente le firme dei partecipanti quasi a sottoscrivere un impegno a sostenere e coltivare  i valori della memoria, della cultura, della bellezza, della legalità.

(docente referente: prof. Piero Carbone cell. 338 1117609)


Palermo 10.02.2017                                                                        Il Dirigente Scolastico
                                                                                              (Prof. Vito Pecoraro)

  
Un corteo per la via ritrovata di Calogero Marrone

Il tutto parte, si può dire, da una via: fin dal 2015 un docente dell’Istituto Comprensivo Maredolce di Palermo nota che, nel quartiere Bonagia, la via dedicata a Calogero Marrone, un giusto tra le nazioni originario di Favara che a Varese ha salvato molti ebrei e antifascisti a costo della propria vita, è in condizioni poco decorose: ricoperta da erbacce e rovi selvatici risulta impraticabile poiché occupata da sfabbricidi e rifiuti ingombranti di ogni genere. La scuola, guidata dal dirigente Vito Pecoraro, protesa nella sua opera di educazione alla legalità e alla riappropriazione del territorio, come ha già fatto nel corso degli anni con il castello di Maredolce, idealmente l’adotta e nel gennaio del corrente anno intraprende una serie di iniziative che sfoceranno nel corteo commemorativo del 15 febbraio.

Contemporaneamente estende l’iniziativa alla scuola Mattarella- Bonagia  nel cui territorio ricade la via Marrone e parte la richiesta agli organi e  alle istituzioni competenti per la pulizia della strada che versa in condizioni precarie e la rendono impraticabile.

Il 27 gennaio, alunni dell’Istituto Maredolce e una rappresentanza dell’Istituto Mattarella- Bonagia  si recano, con un pullman messo a disposizione dalla scuola, a Favara per partecipare alla “manifestazione conclusiva delle scuole favaresi in onore di Calogero Marrone e di tutte le vittime della Shoah”, indetta dal Comune: sfilano per le vie cittadine al ritmo delle percussioni con cartelloni recanti messaggi di pace e di tolleranza e nel teatro San Francesco eseguono l’Inno di Maredolce, il canto ebraico “Un az der rebe zingt” e una riduzione del Principe felice di Oscar Wilde nella lingua dei segni; in tale occasione viene reiterato pubblicamente l’invito al sindaco di Favara di partecipare al corteo di Palermo.  

Nello stesso giorno,  il Presidente dell’Istituzione Ricerca e Studio “Calogero  Marrone”, l’ex sindaco di Favara Saro Manganella, vola a Varese per partecipare alla cerimonia di intitolazione di una via all’eroe favarese e testimonia la celebrazione della Giornata della Memoria a Favara anche con la partecipazione delle delegazioni scolastiche palermitane.
Il 13 e 14 febbraio e il 2 marzo presso Sala Teatro ICS Maredolce i ragazzi assisteranno allo Spettacolo dei Pupi della Legalità di Angelo Sicilia incentrato sulla vita di Calogero Marrone e verrà proiettato il PPT“Storia della Shoah”.

In particolare, nella giornata del 14 febbraio, il prof. Giuseppe Bellodi docente della Scuola Media “Odoardo Focherini” di Carpi (Modena) porterà una testimonianza sul giusto tra le nazioni Odoardo Focherini che nel 2013 è stato proclamato beato.

Nell’attesa degli eventi programmati giungono buone notizie e positivi riscontri: la RAP, con l’ausilio di ruspe, ha intrapreso l’opera di pulizia e bonifica della via Marrone; danno conferma della loro partecipazione al corteo del 15 febbraio: Leoluca Orlando, Sindaco di Palermo; Rosario Manganella, Presidente della Istituzione Ricerca e Studio Calogero Marrone” di Favara;  Angelo Ficarra dell'Anpi regionale; M. Consuelo Spera Volontaria Scorta Civica; Padre Angelo Mannina parroco della Parrocchia Maria SS. Di Pompei; Domenico Ortolano Presidente dell’Associazione Maredolce; il docente Giuseppe Bellodi in rappresentanza della scuola media “Odoardo Focherini” di Carpi (Modena); il Commissario della Polizia Municipale Rosolino Molica e l’Ispettore Capo della Polizia Municipale  Rosa Mazzamuto.

Il corteo muoverà alle ore 9:00 da Piazza Maria Santissima di Pompei, dopo aver assistito ad  un flash mob a cura dei ragazzi dell’Istituto Mattarella-Bonagia. Quindi, le scolaresche degli Istituti Maredolce e Bonagia-Mattarella, le autorità, i rappresentanti delle Istituzioni scolastiche, civiche, culturali nonché con i genitori degli alunni e quanti vorranno liberamente unirsi ad esso. Ancora una volta i ragazzi sfileranno con i cartelloni recanti messaggi conto il razzismo, di pace e accoglienza in sintonia con le motivazioni che hanno portato a designare Palermo capitale nazionale della cultura 2018. Precederanno i ritmi della Tribal Band dell’Istituto Maredolce.  
Dopo aver attraversato le vie Papa Giovanni XXIII, Ermellino, Visone, ci si soffermerà in via Calogero Marrone dove la Corale dell’Istituto Maredolce eseguirà l’Inno di Maredolce in italiano e in siciliano, l’Inno nazionale, l’Inno alla gioia in francese. A suggello della simbolica manifestazione, su un grande lenzuolo bianco verranno apposte le firme da parte di tutti gli intervenuti quasi a sottoscrivere un impegno a sostenere e coltivare  i valori della memoria, della cultura, della bellezza, della legalità.

Affinché la manifestazione non sia fine a se stessa, in previsione di un cammino educativo, civico e culturale che non s’arresta ovvero di altre, possibili iniziative, una lettera sarà inviata al sindaco di Varese, avv. Davide Galimberti, con la seguente motivazione: “InformarLa della nostra iniziativa ci sembra dovuto, non solo perché Calogero Marrone è stato cittadino di Varese dove ha vissuto, operato e gli è stata intitolata recentemente una via, ma anche per evidenziare come la nostra azione, già principiata a Favara il 27 gennaio scorso, in occasione della celebrazione della Giornata della Memoria, trova nella città di Varese il naturale completamento.
Disponibili a futuri rapporti di collaborazione e scambi culturali.”

Alla organizzazione e realizzazione delle suddette attività hanno concorso in diversa misura e con diversi ruoli i dirigenti e i docenti degli Istituti Maredolce e Bonagia-Mattarella guidati rispettivamente da Vito Pecoraro e Vincenza Muratore.
I docenti dell’Istituto Maredolce: Antonio Contorno, Vincenzo Di Salvo, Vincenzo Galante, Nancy Luppina, Maria Saladino, Antonello Scarpulla; Salvina Buffa e Giovanna Di Benedetto (scuola primaria Oberdan); referenti: Pietro Carbone, Giusi Vitale.
I docenti dell’Istituto Mattarella- Bonagia  : Vincenza Caruana, Elvira De Simone, Rosa Frontini, Concetta Melia,  Anna Tardio, Palma Rinaldi; referente: Vivian Cordova.
(P. C.)

INIZIA OGGI AL LICEO UMBERTO DI PALERMO IL CONVEGNO SULLA SICILIA

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     Prende avvio questa mattina il Convegno sulla  Sicilia che c'è organizzato dal Liceo Umberto di Palermo. Il Convegno, rivolto alle ultime classi del Liceo ed aperto alla Città, come si evince dal programma, metterà a confronto diversi studi e riflessioni sui mille volti della nostra isola.
      Domani pomeriggio toccherà a noi parlare di Leonardo Sciascia, un grande scrittore di cui  avvertiamo la mancanza particolarmente oggi, in un momento in cui tanti intellettuali sembrano diventati ciechi e muti. fv

L' OCCIDENTE HA PERDUTO L'IDEA DI FUTURO

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Per cambiare il mondo occorre prima pensarne uno differente. In questo sta il carattere profetico del pensiero utopico. Ma oggi chi è in grado di pensare un futuro che non sia la ripetizione in peggio del presente? Un saggio di Massimo Cacciari e Paolo Prodi (recentemente scomparso) analizza la crisi della società attraverso il declino proprio delle categorie di “profezia” e “utopia”

Roberto Esposito

Guida al nuovo occidente che ha perduto l’idea di futuro

In molti oggi parlano di crisi dell’Europa e dell’Occidente. Ma ben pochi risalgono alla sua origine scavando tanto a fondo nel corpo della nostra tradizione, come fanno Massimo Cacciari e Paolo Prodi nel loro Occidente senza utopie (il Mulino). Ciò che, pur nella diversità degli strumenti, incrocia i loro sguardi è da un lato il rifiuto di categorie lineari come quella di laicizzazione; dall’altra il coraggio di dichiarare il fallimento del progetto moderno. La grande tradizione che è nata dalla tensione tra Atene e Gerusalemme e che, attraverso Roma, è sfociata nel diritto pubblico europeo, è arrivata a termine e non è possibile riattivarla, se non passando per la piena consapevolezza di quanto è accaduto. Se non si ha la forza, come scrive Paul Valéry, di fissare gli spettri che ci lasciamo alle spalle, non basteranno incontri di vertice o rifondazioni istituzionali per riprendere quel cammino interrotto.

I due paradigmi su cui gli autori misurano la distanza che separa il presente dalle sue radici, sono quelli di profezia e di utopia. Senza la potenza critica che hanno sprigionato nei secoli, alla nostra civiltà mancherebbe un lievito decisivo. Eppure il loro orizzonte è stato profondamente diverso. La profezia – al centro del saggio di Prodi – ha espresso una critica del potere che ha aperto lo spazio di libertà per la creazione della democrazia. È lo spirito profetico che per la prima volta, in Israele, ha separato il sacro dal politico, rompendo l’identificazione teologico- politica tra potere e legge. Profeta è colui che, da un punto marginale, ha l’autorità per contestare il potere regale e sacerdotale.
Il divieto ebraico di pronunciare il nome di Dio va inteso anche come difesa da ogni indebita sacralizzazione del potere. Ma anche la distinzione cristiana tra quel che è di Cesare e quel che è di Dio conserva, fino a un certo momento, la distinzione. Tuttavia la figura del profeta non resiste a lungo. Già ridotta nel Medioevo a quella del predicatore, è presto espulsa fuori dall’“accampamento” cristiano, nelle frange ereticali. Tradotta in un impossibile progetto politico da Savonarola, a partire da fine Settecento si fa da un lato anelito rivoluzionario e dall’altro contatto personale con Dio. Dopo la parentesi dei totalitarismi, interpretabili come forme perverse di religione politica, nell’attuale dominio della finanza globale sembra venuto meno ogni impulso profetico. E con esso l’anima stessa dell’Occidente.

Un percorso diverso, ma altrettanto esaurito, quello dell’utopia, ricostruito genealogicamente da Cacciari. Intanto essa non va confusa con le mitologie, antiche e medioevali, di ritorno alle origini. L’utopia si strappa dal passato per radicarsi nel proprio tempo con la potenza di un progetto volto al futuro. Da qui il rilievo che in essa hanno la scienza e la tecnica. Se si passa dall’Utopia di Moro alla Città del sole di Campanella, alla Nuova Atlantide di Bacone, questo elemento costruttivo, sistematico, viene sempre più in primo piano.
Organizzazione economica, incremento del sapere e tolleranza religiosa sono le precondizioni di una società armonica e pacifica. Ma è proprio questo progetto di neutralizzazione dei conflitti a entrare presto in contrasto con la realtà altamente conflittuale dell’Europa moderna. Non solo la politica, ma anche lo sviluppo dell’economia e della scienza passano per un continuo susseguirsi di crisi che rompono ogni immagine di armonia.

Se le utopie ottocentesche di Fourier e Proudhon presuppongono la crisi della forma-Stato, Marx mette impietosamente a nudo il carattere ideologico dell’utopia. Mentre ancora Bloch persegue una proiezione salvifica verso il futuro, Benjamin revoca in causa ogni modello progressivo. Contro il principio- speranza di Bloch e la coscienza di classe di Lukács, egli nega che la redenzione possa passare per la prassi. Solo l’irrompere del divino nella storia può produrre novità radicale.
Ormai l’idea di rivoluzione implode su se stessa insieme a quella di riforma. La via per il futuro è sbarrata. E dunque cosa resta da fare? La risposta di Cacciari, già da tempo avanzata, è quella di un dualismo assoluto. Autonomia del politico, sempre più ridotto a tecnica amministrativa, da un lato. E attesa di un Dio impossibile dall’altro. Weber e Wittgenstein: limpidezza dello sguardo e sobrietà delle parole. Tra i due, l’ascolto dei segni enigmatici con cui il Nuovo può sempre annunciarsi.
La Repubblica – 13 settembre 2016

Massimo Cacciari e Paolo Prodi
Occidente senza utopie
il Mulino
euro 14 

LA SICILIA DI LEONARDO SCIASCIA

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      Questo pomeriggio, a partire dalle ore 15.30, nella splendida cornice del Teatro delle Arti, presso la sede succursale del Liceo Umberto (in via Perpignano, angolo viale della Regione Siciliana), si svolgeranno i lavori (aperti a tutti) della seconda giornata del Convegno Umbertino.

      Anticipo di seguito una parte della relazione che esporrò:


 LA SICILIA DI LEONARDO SCIASCIA
 Francesco Virga


      Un documento importante, per capire con quali occhi Leonardo Sciascia ha guardato la sua isola,  si trova in  Feste religiose in Sicilia:  un libro di fotografie di Ferdinando Scianna, ormai introvabile, pubblicato dall’editore Leonardo da Vinci di Bari  nel 1965. Per capire meglio il testo introduttivo al volume, curato da Sciascia, ci vorrebbero anche le foto. Scaturiscono infatti anche dall’attenta osservazione di queste ultime le affermazioni dello scrittore sulla  scarsa religiosità del popolo siciliano.
     Sciascia  ironicamente prende le mosse dal “più grande errore di governo” compiuto nel 1783  dal viceré Domenico Caracciolo, nel tentativo di ridurre da cinque a tre i giorni di festa che la città di Palermo era solita celebrare in onore di santa Rosalia. Il viceré riformatore, che era riuscito ad annientare il Tribunale dell’Inquisizione e si accingeva a scardinare i privilegi feudali, appena osò toccare i fasti di santa Rosalia, di colpo si trovò a perdere il favore di tutti i ceti popolari  e i nobili  subito ne approfittarono per assumere il patrocinio della massiccia  reazione. Con la sua tagliente ironia lo scrittore  chiosa così l’episodio:

"La cultura siciliana (quella che Giovanni Gentile caratterizza e definisce nel saggio Il tramonto della cultura siciliana) pure contribuì con alti lai, con rampogne e satire; e persino in sede storica, per tutto il secolo successivo ed oltre, non fu risparmiato al Caracciolo,[…], biasimo e vituperio. […]. E il Pitrè, cent’anni dopo, gode dello scorno di Caracciolo […]. Né con minore irritazione ricorda l’episodio lo storico Isidoro La Lumia […]. Ed è curioso vedere questi due ultimi studiosi, risorgimentali e presumibilmente massoni, levarsi in postuma indignazione contro una disposizione, motivata e giustificata, che tendeva più a ridurre, come misura di contingenza, un dispendio che ad abolire una tradizione. Tutto sommato, più sereno è il giudizio del benedettino Giovanni Evangelista Di Blasi, testimone diretto della vicenda: e ne parla come di un errore politico […]. Quest’errore, comunque, si sono ben guardati dal ripeterlo i successivi viceré e luogotenenti, i prefetti savoiardi  e della Repubblica, i gerarchi fascisti, i massoni, i radicali, i socialisti, i comunisti. I cortei dei Fasci Siciliani si aprivano con le bandiere dell’Internazionale e le immagini dei santi patroni; e i comunisti sono sempre stati, nei paesi, tra i primi e più zelanti sostenitori delle feste religiose”.

       Sciascia, subito dopo, ricostruisce brevemente   le vicende attraverso cui Santa Rosalia si afferma come patrona di Palermo e si sofferma a spiegare illuministicamente le ragioni per cui i ceti popolari hanno da sempre privilegiato il rapporto coi Santi rispetto a quello con Dio:

“Che i santi avessero, tutti, uguale potere di intercessione e che il Redentore fosse il più potente di tutti, non era nozione che potesse aver corso in un popolo vessato da una particolare feudalità. Sulla quale […] veniva esemplata la gerarchia celeste: e come i gabelloti, gli sbirri, i famigli erano, per la loro stessa vicinanza e presenza, più potenti del feudatario chiuso nella sua dorata dimora cittadina o nel castello inaccessibile; come il viceré era effettualmente più potente del re (un antico proverbio dice ‘ncapu a lu re c’è lu viceré), così i santi, più vicini alla terra per il fatto di essere stati mortali, dovevano indubbiamente essere più potenti di Dio”

       A questo punto lo scrittore utilizza due  gustosi racconti – uno di Serafino Amabile Guastella, definito “acuto studioso di costumi popolari”, ed uno di Giovanni Verga – per arrivare ed esporre le tesi principali sostenute nel saggio. Secondo Sciascia la cultura siciliana, intesa in senso antropologico, mostra una “totale refrattarietà a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica”:

     "Già il Gentile notava come il materialismo fosse il carattere originale e peculiare della cultura siciliana: ma fermava il suo discorso alla cultura espressa, per così dire, in opere d’inchiostro; non spingeva la sua indagine alla cultura degli strati popolari infimi"

     Sciascia, oltre che dalla osservazione diretta del modo in cui il popolo siciliano partecipa alle feste religiose, di cui le foto di Scianna sono documento, sembra trarre gran parte delle sue conclusioni da Le parità e le storie morali dei nostri villani pubblicate dal barone Serafino Amabile Guastella nel 1884. Il libro è un vero e proprio antivangelo, una summa della refrattarietà del popolo siciliano al cristianesimo.

     Occorre ricordare che, anche  per questo suo scritto, Sciascia  venne violentemente  attaccato dalla gerarchia cattolica siciliana del tempo,  guidata dal Cardinale Ruffini. Da quì la replica garbata e ironica dello scrittore che si trova nello stesso testo:

"a noi i siciliani non sembrano nemmeno cattolici: ma forse abbiamo, del cattolicesimo, una visione più rigorosa di quella che ne hanno gli alti prelati, i quali proclamano ( e fino all’anno scorso, da parte del cardinale arcivescovo di Palermo, in una lettera pastorale largamente discussa dalla stampa) cattolicissima la Sicilia. Certo è, comunque, che cristiana la Sicilia non può dirsi."

      Mentre sulle pagine de  L’ORA  è molto più duro:

Imbattendosi in certe mie pagine in cui considero la refrattarietà dei siciliani alla religione, qualche imbecille ritiene che io ne tragga chi sa quale fierezza e godimento, mentre il presupposto della mia indagine è questo: che dove non c’è religione non ci sono rivoluzioni religiose: e un popolo che non ha fatto una rivoluzione religiosa difficilmente farà una rivoluzione civile. E la storia e la condizione della Sicilia l’abbiamo sotto gli occhi: per come volevasi dimostrare #

Ma gli attacchi subiti negli anni sessanta da parte della gerarchia cattolica hanno lasciato il segno nella memoria dello scrittore. Così circa quindici anni dopo del Cardinale Ruffini ci lascerà un ritratto feroce, anche se corrispondente alla realtà, che non possiamo dimenticare:

         “Il Cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo, è stato probabilmente l’ultima forte personalità chiamata a gestire le cose della Chiesa secondo il vecchio stile; e l’ha fatto intervenendo in tutti i campi, rivendicando proprietà che, da certi documenti in suo possesso, dovevano tornare alla Chiesa; costruendo luoghi di culto ovunque gli sembrasse opportuno(…); intervenendo nella formazione delle liste della DC; non esitando mai a dire la sua in occasione di assegnazioni di cariche pubbliche  e nella nomina di professori universitari; infine dando sulla voce a tutti coloro che parlavano di mafia, di cui giungeva al punto di negarne l’esistenza. Un vero cardinale del Rinascimento: Nativo di Mantova, è perfettamente riuscito a darsi una mentalità siculo-mafiosa” (da  La Sicilia come metafora)

             Francesco Virga



LA STORIA SECONDO H. DE BALZAC

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Opera di Dai Dudu, Li Tiezi e Zhang An




"Vi sono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata, la storia ad 'usum delphini', e la storia segreta, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa". 

Honoré de Balzac

UN NUOVO LIBRO SU ALDO MORO

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Gianpasquale Santomassimo

La determinazione del grande mediatore


Il centenario della nascita di Aldo Moro ha dato vita a ricostruzioni e ripensamenti che hanno consentito di andare oltre il «caso Moro», ossia di superare l’attenzione esclusiva ai «misteri» veri o presunti della sua tragica fine, che pure resta inevitabilmente il nucleo dell’attenzione prevalente dell’opinione pubblica attorno alla sua figura. Riemerge così la valutazione della sua dimensione politica, che è quella di uno dei grandi e indiscussi protagonisti della storia repubblicana. 

Tra i libri usciti di recente, quello di Massimo Mastrogregori (Moro, Salerno Editrice, pp. 439, euro 26) si presenta come una biografia complessiva, non solo politica, che assegna eguale spazio alla trattazione della sua formazione e maturazione come all’esplicarsi pieno della sua attività di uomo di partito e di governo.

Si parte dall’affermazione che nella sua personalità vi sia «qualcosa di enigmatico»; che rimane tuttora, e che contrasta col modo che abbiamo acquisito di intendere e immaginare oggi i leaders politici. 

Innanzitutto era un personaggio assai poco «televisivo», che rifiutava di essere truccato prima delle tribune politiche, appariva impacciato e mai sintetico nell’esposizione dei concetti (nei comizi era molto più comprensibile, ma il suo tono era pur sempre quello di un conferenziere più che di un tribuno). Non conosceva le lingue, tranne il francese e un po’ di tedesco «tecnico» dei libri giuridici. Eppure fu a lungo ministro degli Esteri, con risultati notevoli, e in quella veste viaggiò in tutto il mondo (ovunque, tranne che in America Latina). Non guidava l’automobile. Si rifugiava al cinema (prediligendo, come sappiamo, western) quando era troppo oppresso da un’agenda pesante di impegni. 

Riuscì a mantenere costantemente una doppia vita: politico e docente universitario, impegno quest’ultimo assolto fino alla fine con scrupolo e con grande capacità di ascolto. E proprio la capacità di ascolto sembra uno dei tratti distintivi della sua personalità, e sono in molti a ricordare i suoi lunghi silenzi nei colloqui con i collaboratori, sempre ricevuti singolarmente e mai in gruppo, come pure il prendere la parola per ultimo nelle riunioni politiche, dopo aver ascoltato tutti, proponendo una «linea» di mediazione accettabile. 

La sua formazione era avvenuta nelle strutture laicali della Chiesa, nelle peregrinazioni della sua famiglia tra Maglie, Potenza, Taranto e Bari. Dirigente della Fuci e dell’Azione Cattolica, in rapporto con monsignor Montini, aveva osservato un blando filofascismo, senza lo zelo di un Fanfani, ma la sua visione del mondo, come quella di gran parte degli italiani, era stata terremotata dalla catastrofe del 1943. 


L’approdo alla Democrazia Cristiana era stato tormentato, per l’ostilità anche generazionale da parte dei vecchi popolari, e si dice avesse svolto approcci anche con i socialisti e addirittura con i comunisti.

Ma una volta eletto all’Assemblea Costituente diverrà uno dei protagonisti della giovane generazione cattolica nell’intenso lavorio che avrebbe portato all’elaborazione della Carta, apprezzato anche da Togliatti per la sua opera di intelligente mediazione. 

E proprio come grande mediatore era destinato ad affermarsi nella Dc, nei ruoli politici e di governo ricoperti nel corso del tempo, fino alla sua ascesa alla segretaria del partito e dal 1963 alla guida del primo centro-sinistra «organico». 

Un grande mediatore, ma anche uomo fermo nel suo proposito di fondo, che sarà sempre l’immissione delle masse nello Stato, prima con l’inclusione dei socialisti nell’area di governo, poi ponendosi il compito più arduo dello stabilire un rapporto con i comunisti. Con un corollario sostanziale, però: mantenere l’unità di tutta la Dc, che era condizione preliminare per esplicare quella strategia. Negli ultimi giorni della sua vita si trovò a ripetere spesso la frase: «il destino non è più nelle nostre mani», ma si trattava in realtà della accentuazione di una consapevolezza che aveva sempre avuto, e non aveva mai assecondato l’idea di una autosufficienza del partito cattolico nella gestione del paese. 

Mastrogregori individua due fasi distinte nella sua attività politica, e situa il tornante nel 1968. Personalmente, ricordo di aver letto con sorpresa i suoi editoriali sul «Giorno» in quell’anno, che evidenziavano – e da parte del Presidente del Consiglio in carica – attenzione e comprensione molto diverse rispetto al modo di porsi di gran parte del quadro politico di governo. Fu quello nella vita di Moro un momento di svolta che aprì una fase nuova, che lo portò a una valutazione estremamente sensibile di quanto di nuovo si muoveva nella società, a una «strategia dell’attenzione» nei confronti del Pci, e a divenire oppositore interno nel suo partito, assumendo di fatto la leadership della composita sinistra democristiana.


«I problemi… – scriveva a Piero Pratesi nel febbraio 1969 – mi sono abbastanza chiari; ma trovo una grande difficoltà ad immaginare soluzioni attendibili nel reale contesto storico in cui viviamo. La tormentosa esperienza del governare mi ha fatto toccare mille volte il dato di questo limite e ciò fa da freno ad ogni visione libera, creativa ed appagante della rivoluzione sociale, quale l’intelligenza e il cuore suggeriscono. E tuttavia questi problemi ci sono e richiedono soluzioni nuove». 

Già nelle prime pagine del libro Mastrogregori prende posizione in maniera netta su un luogo comune che si è diffuso dopo la tragedia del rapimento e dell’omicidio, affermando di non credere alla «favola che Moro è stato ucciso perché stava preparando il compromesso storico coi comunisti». Cosa tecnicamente inoppugnabile, sia perché la disperata ignoranza dei suoi assassini impediva qualunque discernimento tra posizioni politiche interne al mondo democristiano, sia perché non rientrava certo tra gli obiettivi di Moro realizzare la strategia scelta da Enrico Berlinguer. Moro si sarebbe proposto il compito più limitato ma essenziale di realizzare una «tregua armata» tra Dc e Pci. Eppure nella fase che precede immediatamente il suo sequestro, come l’autore rileva, Moro sottolineava che l’intesa pur limitata non era «una mera tregua di significato negativo», non era alleanza politica ma «accordo programmatico»: che però era quanto bastava per risvegliare i sospetti e le ostilità che da molte parti gravavano sulla sua persona. 

Un'ultima annotazione: andrebbero finalmente sfatate le leggende sul linguaggio di Moro. Non pronunciò mai l’espressione «convergenze parallele», divenuta proverbiale come citazione obbligata sul «bizantinismo» della lingua della Prima Repubblica, che fu in realtà invenzione nel 1960 da parte di Eugenio Scalfari, che a Moro fu sempre ostile. Certamente non sapremmo immaginarlo nella dimensione di un politico che oggi comunica attraverso i tweet. Il suo linguaggio era certamente complesso, ricco di sfumature che volevano offrire un’interpretazione della realtà non semplicistica né scontata, ma era sempre comprensibile, e talvolta esplicito e limpido nelle sue affermazioni. 

Come nel suo ultimo scritto da uomo libero, l’articolo dedicato al decennale del Sessantotto che portava con sé in Via Fani al momento dell’agguato: «una specie di rivoluzione, di cui sono certamente riflessi i fatti operai del ’69… una straordinaria esperienza che ha contrassegnato la nostra epoca, dato uno spessore nuovo alla democrazia, difeso tutto ed anche la sinistra dalle cristallizzazioni ritardatrici e devianti».


Il Manifesto – 7 febbraio 2017

MARINEO AMA ANCORA LA VITA

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Scultura di Salvatore Rizzuti




INNO ALLA VITA

Spettacolo teatrale
Regia Nino Triolo
Aiuto Regista Rosa Alba Damato

Marineo Centro Polifunzionale  alla Rocca

18 febbraio 2017  ore 20,30



In questo spettacolo, attraverso incontri immaginari con uomini, donne e bambini, appartenenti a diversi ceti sociali, razze e culture diverse, con i delusi, con i coraggiosi, abbiamo voluto affrontare il vero senso della vita, i valori veri della vita .

Scavando nei mali che quotidianamente ci affliggono, scopriamo che, in fondo, la vita è veramente bella e vale la pena di viverla.

L’attaccamento che l’uomo ha alla vita viene marcato ancora di più nel finale con  “L’Uomo dal Fiore in bocca” di Luigi Pirandello, dove troviamo tutta la filosofia pirandelliana sulla vita.

La bellezza della vita ci viene raccontata e rappresentata con canti, balli, poesie, teatro e con la presenza di due sculture del Prof. Salvatore Rizzuti, che fanno parte integrante dello spettacolo. 
Interverranno Annamaria Migliorino, Gianpiero Cataldo, Gabriele Trentacoste, Walter Bonanno, Alessio Migliorino, Filippo Fragale, Rosanna Princiotta e con Carmelina Battaglia, Tania Azzara, Francesca MT Di Marco, Fulvio Pulizzotto. Regia di Nino Triolo con l'aiuto di Rosa Alba D'Amato. 
       Il Battello Ebbro                                                                                                         Nino Triolo  

P. PICASSO, Ci vuole tempo per diventare giovani

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Dipingere non è un'operazione estetica: è una forma di magia intesa a compiere un'opera di mediazione tra questo mondo estraneo e ostile e noi. Ogni bambino è un'artista. Il problema è poi come rimanere un'artista quando si cresce. Ci sono pittori che dipingono il sole come una macchia gialla, ma ce ne sono altri che, grazie alla loro arte e intelligenza, trasformano una macchia gialla nel sole. I colori, come i lineamenti, seguono i cambiamenti delle emozioni. Ci si mette molto tempo per diventare giovani. Il genio di Einstein ci ha condotto ad Hiroshima. La gioventù non ha età. La pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto.

                                                Pablo Picasso




LA CRISI SECONDO GRAMSCI

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La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.

Antonio Gramsci

LE MASCHERE DI EUGENIO MONTALE

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Chissà se un giorno butteremo le maschere
che portiamo sul volto senza saperlo.
Per questo è tanto difficile identificare
gli uomini che incontriamo.
Forse fra i tanti, fra i milioni c'è
quello in cui viso e maschera coincidono
e lui solo potrebbe dirci la parola
che attendiamo da sempre. Ma è probabile
che egli stesso non sappia il suo privilegio.
Chi l'ha saputo, se uno ne fu mai,
pagò il suo dono con balbuzie o peggio.
Non valeva la pena di trovarlo. Il suo nome
fu sempre impronunciabile per cause
non solo di fonetica. La scienza
ha ben altro da fare o da non fare.


Eugenio Montale: "Quaderno di quattro anni"

M. MARTONE, La morte di Danton

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Su “La morte di Danton” di Mario Martone

Al culmine del breve, incandescente discorso in cui cerca di ribattere alle accuse che gli vengono mosse dal Tribunale della Rivoluzione, Georges Danton sfiora il nocciolo delle cose. Siamo a Parigi, nell’aprile del 1794. Dopo aver liquidato l’ala sinistra degli hebertisti, Robespierre intende puntellare il proprio potere eliminando proprio Danton, colui che incarna l’altra faccia della Rivoluzione, l’anima più libertaria e pragmatica, tanto da apparigli come il più pericoloso degli avversari.
Nell’aula di tribunale, dopo aver indirizzato contro Robespierre, Saint-Just e «i loro boia» la medesima accusa che loro stessi gli hanno lanciato (tradire, cioè, il processo rivoluzionario), Danton si rivolge a quel pubblico che a lungo lo ha amato come il leader più umano, e passionale, dei moti parigini. Si rivolge alla porzione di popolo assiepata ad assistere a una gogna politica dall’esito già segnato, e conclude il suo discorso con parole che non potevano essere più lucide, più crude, e allo stesso tempo distanti dalla morale dei due «santi» della Rivoluzione che vogliono farlo condannare a morte in quanto «controrivoluzionario»: «Fino a quando le orme delle libertà saranno le tombe? Voi volete pane, e loro vi lanciano teste! Voi avete sete, e loro vi fanno leccare il sangue dai gradini della ghigliottina!»
Danton non è un santo. E non è neanche un moderato. Ha condiviso con i giacobini e i cordiglieri tutti gli eccessi rivoluzionari dalla fine del 1792 in avanti, li ha sollecitati in prima persona. Ma quando il Terrore inizia ad avvitarsi su se stesso, è uno dei primi a cogliere (dall’interno dello stesso movimento rivoluzionario) la sua involuzione. C’è un momento in cui la Rivoluzione, che sembra agire e disporre dei singoli individui, persino dei suoi leader, piuttosto che esserne governata, inizia a divorare se stessa. Irreggimentandosi, il fiume in piena assume le stesse forme e gli stessi metodi polizieschi dell’Antico regime che ha voluto abbattere. Nella speranza di raddrizzare a tappe forzate il legno storto dell’umanità, crea una nuova dittatura
L’enorme tema del fallimento della Rivoluzione francese (e, con essa, di tante altre rivoluzioni) è al centro del dramma Morte di Danton, scritto nel 1835 a circa quarant’anni da quegli eventi dal ventunenne Georg Büchner,  in fuga dalla polizia dell’Assia per la sua militanza politica, e ora portato in scena, grazie alla regia di Mario Martone, al Teatro Carignano di Torino e al Piccolo Teatro Strehler di Milano. In occasione dello spettacolo, il testo di  Büchner è stato nuovamente tradotto da Anita Raja per Einaudi.
Morte di Danton non è solo un dramma che scandaglia la fase più cruenta del Terrore. È la pietra di paragone della dissipazione di tante altre rivoluzioni, specie novecentesche, a cominciare dall’altra grande Rivoluzione, quella russa. Quel tribunale del popolo che non prevede alcuna reale possibilità di difesa, quella purga orchestrata all’interno di un gruppo dirigente composito e plurale contro un proprio compagno, quel dissidio insanabile tra il virtuoso Robespierre e il libertario Danton sono alla base della somma frattura che si crea ogni volta – anche in altre epoche e in altri paesi – tra spirito rivoluzionario e ordine rivoluzionario. Detto con altre parole: tra la rivolta e la sua successiva istituzionalizzazione.
Che la fine di Danton parli di quella di tanti altri, mandati al gulag o davanti a un plotone di esecuzione, lo aveva capito anche Andrej Wajda in un suo bellissimo film del 1983, Danton. Lo stesso Martone, in fondo, parte dal medesimo assunto.
Leggendo il testo di Büchner è impossibile non pensare ad altri libri novecenteschi che hanno raccontato il «dio che è fallito», e i paradossi di ogni dittatura rivoluzionaria. Si legge Morte di Danton e si pensa subito a La fattoria degli animali di George Orwell, a Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, a Uscita di sicurezza di Ignazio Silone, a L’uomo in rivolta di Albert Camus.
Soprattutto, a me viene da pensare a Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge, anarchico vicino ai bolscevichi, poi fatto deportare da Stalin, tra i primi a rendersi conto dell’involuzione del leninismo già dopo la sanguinosa repressione della rivolta dei marinai di Kronštadt. Scrive amaramente Serge nelle sue Memorie pubblicate in Italia dalle edizioni e/o, a proposito dell’Unione sovietica degli anni Venti: «Eravamo, in verità, già quasi schiacciati dal nascente totalitarismo. La parola “totalitarismo” non esisteva ancora. La cosa ci si imponeva duramente senza che ne avessimo coscienza. (…) Le grandi idee del 1917 che avevano permesso al partito bolscevico di trascinare le masse contadine, l’esercito, la classe operaia e l’intelligencija marxista, erano evidentemente morte.»
Non c’è niente di più bruciante che assistere al fallimento di una rivoluzione, alla spirale cupa della violenza del nuovo ordine, specie se in quella rivoluzione vi si sono riversate tutte le proprie forze, e soprattutto se la si rifarebbe daccapo, senza pensarci su due volte, perché nell’Antico regime non c’è nulla, ma proprio nulla, di buono da preservare. Il dramma politico di Danton è tutto in questo scacco.
Tuttavia nel Danton di Büchner c’è qualcosa di ancora più apocalittico. Alle spalle del rivoluzionario che vorrebbe mantenere, o ricondurre, lo spirito della rivoluzione su binari non autoritari, alle spalle dell’uomo indulgente nei confronti delle debolezze umane (innanzitutto le proprie), traspare lo sguardo del pessimista radicale. Quello di chi confida a Camille Desmoulins nel buio della galera, ormai consapevole dell’epilogo del processo: «Non c’è speranza nella morte; essa è soltanto una putrefazione più semplice, mentre la vita è una putrefazione più complessa, più organizzata, è tutta qui la differenza!» Quello di chi, già all’inizio del dramma, non ha più la forza di ascoltare i propri compagni che cianciano di nemici, alleanze e assetti da dare al nuovo stato, tanto da confidare mestamente alla moglie: «Con la loro politica mi hanno sfinito».
Büchner non descrive solo il vicolo cieco della politica del terrore, nata dalla necessità di difendersi dagli assalti della reazione, e poi degenerata per l’assenza di qualsiasi contrappeso o autocritica interni. Descrive qualcosa di più complesso: il paradosso che nasce, in alcuni frangenti storici, dall’eccesso di politica, quell’eccesso che finisce per sottomettere ogni angolo della sfera privata, anche il più intimo, al sogno di modellare un mondo e un uomo nuovi. Se in ogni tentativo di arrestare o sanare l’ingiustizia del mondo, la leva della politica diviene inevitabilmente eccesso, se ogni azione sfocia nella forza, allora la Storia non può che essere un cumulo di fallimenti e nuovi regimi che nascono da quei fallimenti? Che a interrogarsi su tale dilemma sia l’uomo dalle molte facce Danton, colui il quale aveva creduto che la rivoluzione potesse avere un esito diverso, rende il testo teatrale di Büchner un cantiere aperto a infinite riletture.
Non è un caso che a portare in scena Morte di Danton sia proprio il Martone che nel film Noi credevamo di qualche anno fa ha raccontato il fallimento del Risorgimento italiano come rivoluzione nazionale e la sconfitta di quei repubblicani mazziniani, che avrebbero non solo voluto unificare l’Italia, ma trasformare profondamente le sue strutture. Tuttavia le «riletture» potrebbero proseguire anche per il Novecento, e anche al di fuori dei confini europei. In Fantasmi, ad esempio, il libro di Tiziano Terzani edito da Tea che raccoglie le corrispondenze e gli scritti sulla Cambogia della metà degli anni settanta, è possibile recuperare una delle autopsie più lucide della «visione radical-giacobina di un gruppo di dirigenti guerriglieri», che per edificare un mondo nuovo non esitò a provocare uno dei più atroci genocidi della seconda metà del secolo scorso. Venendo al XXI secolo, non è difficile intravedere la stessa dinamica rivoluzione-terrore-controrivoluzione nel fallimento delle primavere arabe che si sono susseguite dal Maghreb al Medio Oriente. Lo spiega, e potrebbero citarsi anche altri libri, Giuseppe Acconcia nel suo Egitto democrazia militare (Exorma, 2013), laddove scrive che Piazza Tahrir da laboratorio di politica di strada è poi diventata il centro della repressione. Lo sostiene chiaramente lo scrittore egiziano Sonallah Ibrahim nella prefazione al volume: «Piccole organizzazioni di sinistra hanno giocato un ruolo centrale nella preparazione delle rivolte del 25 gennaio 2011. Sebbene sotto slogan di sinistra, le rivolte sono state spontanee, senza una leadership organizzata. Questo ha permesso ai Fratelli musulmani, un vecchio partito conosciuto per le sue posizioni reazionarie, la violenza e l’opportunismo, di conquistare il potere. Una volta ancora, le masse non organizzate si sono rivoltate, sotto gli stessi slogan nel giugno 2013. Questa volta i militari hanno conquistato il potere.» E sono iniziate le sparizioni di centinaia di attivisti antiautoritari…
Ma, allora, ci sono state rivoluzioni capaci di non ricorrere alla morte-di-Danton? Se lo chiede Hannah Arendt in uno dei suoi libri più belli, Sulla rivoluzione (Einaudi), un’analisi filosofica serrata tesa a individuare quelle istituzioni e quei corpi politici che – anche in seguito a una rottura rivoluzionaria – riescono a garantire «lo spazio entro cui la libertà può manifestarsi». Come preservare il «tesoro» di ogni rivoluzione, senza darla vinta a tutti coloro i quali sostengono – da sempre – che bisognerebbe lasciare il mondo e le sue divisioni così come le si trova, per evitare gli sconquassi e gli eccessi successivi? Più che nelle rivoluzioni europee, Hannah Arendt individuò nella rivoluzione americana l’unico esperimento capace di non sfociare nel disastro e nel terrore. Intravede uno spiraglio nel repubblicanesimo di Thomas Jefferson: solo tramite un sistema di garanzie costituzionali che non faccia scempio delle pluralità degli esseri umani è possibile evitare che i «governi d’emergenza» si trasformino in regimi stabili.
Curiosamente, il modello americano si affaccia anche nel dramma di Büchner attraverso le parole di Thomas Paine, il rivoluzionario americano autore dei Diritti dell’uomo, che visse a Parigi in quegli anni e fu mandato in carcere dal Comitato di salute pubblica per essersi opposto all’esecuzione del re. In uno dialogo del dramma è proprio Paine a parlare dell’imperfezione del mondo e del fallimento di ogni morale politica che, anziché trovare i modi di convivere con questo dato ineliminabile delle cose umane, e da qui provare a costruire un ordine politico diverso, prova invece a rimodellarlo gettando l’intera società in una fornace.

 Questo pezzo è uscito su Pagina 99, noi l'abbiamo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/wp/la-morte-danton-mario-martone/

LA SICILIA che non c'è più...


G. RITSOS, Mi fa male il tempo

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Mi duole in petto la bellezza, mi dolgono le luci
nel pomeriggio arrugginito, mi duole
questo colore sulla nube – viola plumbeo,
viola repellente, il mezzo anello della luna
che brilla appena – mi duole. E’ passato un battello.
Una barca, i remi, gli innamorati, il tempo.
I ragazzi di ieri sono invecchiati. Non tornerai indietro.
Serata grigia, luna sottile – mi fa male il tempo.


Ghiannis Ritsos

GIORDANO BRUNO E' ANCORA VIVO: Anche noi vogliamo libertà di ricerca.

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Noi vogliamo una filosofia libera,
una libera ricerca scientifica,
mentre voi imponete la vostra volontà di sopraffazione
noi vogliamo l'autonomia del pensiero e della scienza da ogni autorità
religiosa civile o accademica
voi volete soffocare ogni manifestazione dello spirito,
così possono essere scacciati per sempre dalla Sorbona e da ogni università
i Bigotti ed i Pedanti, Amen, Amen, Amen....
Questa università non aperta a tutti non è giusta
le cattedre ai sapienti, non ai dogmatici!
I banchi a disposizione di chiunque abbia amore per le scienze,
un insegnamento veramente libero.
Una società in cui il lavoro delle mani
e quello dell'ingegno siano onorati in egual misura
soltanto in questo modo può nascere l'HOMO NOVUS.


Giordano Bruno (Nola, 1548 – Roma, 17 febbraio 1600)

STATO E MAFIA SECONDO LEONARDO SCIASCIA

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      Leonardo Sciascia ci ha dato la chiave migliore per comprendere il fenomeno mafioso. Fin dagli anni cinquanta del secolo scorso ci ha indicato il metodo per coglierne il cuore: “non è partendo dalla razza che si può gettar luce sul fenomeno: bisogna, ancora e sempre, partire dalla storia e risolverlo in essa”

      Lo scrittore di Racalmuto, fin dal suo primo importante libro Le parrocchie di Regalpetra, ha denunciato il comportamento cinico mostrato  dalle truppe anglo-americane in Sicilia, subito dopo lo sbarco a Licata  del luglio 1943, quando, per assicurare l’ ordine pubblico,utilizzarono parecchi uomini d’onore.                       
         Sciascia tornerà  a parlare dell’aiuto decisivo dato dagli americani alla rinascita mafiosa in Sicilia, alla fine della seconda guerra mondiale, in una delle sue ultime interviste:  

“ la mafia, che era stata combattuta dal fascismo – due mafie non avrebbero potuto coesistere! – si è avvantaggiata dallo sbarco americano in Sicilia. Insediati dagli americani, i mafiosi, oltre al prestigio che    hanno tratto dalla liberazione della Sicilia, hanno esercitato un potere politico quotidiano: presiedevano alla distribuzione di pane e viveri, offrivano forniture e coperte, fornivano la penicillina, il ‘rimedio miracoloso’ di cui è difficile oggi immaginare cosa poteva significare in quel tempo. Il pane, la penicillina, le coperte… ecco il potere di cui i mafiosi si erano trovati investiti dagli americani!”.
 
         Leonardo Sciascia è stato tra i primi a considerare fallimentare l’esperienza dell’Autonomia concessa dal Governo centrale alla Sicilia all’indomani del crollo del Fascismo. Più precisamente lo scrittore di Racalmuto, fin dagli anni sessanta, ha sostenuto, con buone argomentazioni, che:

il fallimento dell’autonomia regionale si può senz’altro attribuire al fatto che è stata intesa e maneggiata come un privilegio, una franchigia, che lo Stato italiano, sotto la pressione del movimento separatista, concedeva alla classe borghese-mafiosa.

          Sciascia aveva le idee molto chiare; e quando parlava di  “classe borghese-mafiosa”  o di  “borghesia mafiosa”  sapeva quel che diceva:

“E’ una borghesia mafiosa, quella siciliana, anche là dove non sembra. Una borghesia che opera senza una visione del domani, a sfruttare determinate situazioni così come un tempo si diceva  delle zolfare : A RAPINA. Lo sfruttamento a rapina delle zolfare era quello degli esercenti che si preoccupavano di cavare quanto più materia possibile senza curari né dell’avvenire delle zolfare né della sicurezza di chi vi lavorava. Ora questa classe sembra inamovibile. Successe all’aristocrazia, si comporta , anche  e più grossolanamente, come l’aristocrazia. Per questo i siciliani non credono più alle idee “. (sottolineature mie)
           

       Eppure lo stesso Sciascia non si è mai stancato di avvertire:  

“ La Sicilia non è la mafia, in Sicilia c'è la mafia ma la Sicilia non è la mafia(...).Quì la mafia non sarebbe durata tanto a lungo se non fosse stata aiutata da un patto con lo Stato, che naturalmente non è un patto steso a tavolino ma è un patto da vedere in quella che Machiavelli chiamava 'la realtà effettuale delle cose'.   

        Francesco Virga


TAHAR BEN JELLOUN SPIEGA IL TERRORISMO

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Il terrorismo spiegato ai nostri figli. Intervista a Tahar Ben Jelloun

di Matteo Cavezzali

Intenso narratore e saggista, Tahar Ben Jelloun è uno degli intellettuali nordafricani che negli anni si è fatto meno scrupoli prendere posizioni nette nel dibattito europeo sul rapporto tra terrorismo e Islam. Vincitore del premio Goncurt nel 1987 con La Nuit sacrée lo scrittore marocchino residente a Parigi è oggi considerato una delle voci più autorevoli del mondo islamico in occidente.
In questi giorni è uscito il suo ultimo libro “Il terrorismo spiegato ai nostri figli” (La Nave di Teseo), presentato per la prima volta in Italia a Ravenna per l’anteprima di ScrittuRa Festival.
Qual è secondo lei il luogo comune più pericoloso legato al terrorismo di matrice islamica?
«È l’amalgama tra una religione, l’islam, e il terrore che diffonde lo pseudo “Stato Islamico”. Le persone non distinguono tra una civiltà e la barbarie che utilizza l’islam per fini politici».
Ha dedicato diverse sue opere ai giovani come “Il razzismo spiegato a mia figlia” e ora “Il terrorismo spiegato ai nostri figli”. In Francia l’immigrazione è alla quarta generazione, mentre in Italia la scuola multietnica è un fenomeno relativamente recente. Che cosa possiamo imparare dai risultati e dagli errori compiuti in Francia?
«La Francia è responsabile della sua cattiva politica, anzi di una vera e propria assenza di politica rispetto ai figli degli immigrati, che sono francesi ma che non vengono riconosciuti pienamente come tali non sono integrati nel tessuto sociale e culturale. Il risultato è che sempre più giovani si allontanano dalla Francia, non necessariamente per diventare terroristi, ma per tentare la sorte altrove, nel paese d’origine dei loro genitori o in paesi lontani come il Canada o altri paesi europei. I più fragili tra loro, coloro che hanno debolezze psicologiche o una forte determinazione a “vendicarsi” seguono i reclutatori di Daesh. L’Italia dovrebbe avere una politica più solidale, più generosa e soprattutto incentrata sulla cultura e il lavoro. Non bisogna abbandonare quei figli di immigrati. Bisogna occuparsene perché il terrorismo non li attiri».
Il tema razzismo è al centro di molto del suo lavoro. Che legame c’è tra il clima di intolleranza che serpeggia in Europa e il reclutamento di terroristi?
«Sono proprio l’intolleranza, il razzismo, la mancanza di vigilanza da parte dei genitori, i fallimenti scolastici, la delinquenza, il vuoto sentito in Europa, sommati alla propaganda efficace di Daesh a far sì che alcuni giovani partano per la fare la jihad».
L’Islam è una cultura composta da molti elementi e con una storia millenaria, come racconta in numerose sue opere, come si è trasformato con le migrazioni?
«L’islam è un dogma, non cambia. Gli immigrati arrivano con un islam semplice che è anche la loro cultura e talvolta la loro identità. Ma tutto dipende da come si leggono e si interpretano i testi. La maggior parte degli immigrati non ha alle spalle studi importanti. La loro cultura è talvolta limitata a ciò che i loro genitori gli hanno insegnato nei loro rispettivi paesi. Ma l’immagine che hanno dell’islam è non violenta, ma pacifica».
Il terrorismo di matrice islamica in Europa nasce anche dalla frustrazione di chi sperava di raggiungere qui una vita migliore che non è riuscito ad ottenere?
«La frustrazione è talvolta, non sempre, alla base: si dice loro, la vita in Occidente è senza Dio, “hanno ammazzato Dio”, “noi vi offriamo una vita dove Dio guiderà i vostri passi e vi darà tutto ciò che l’Occidente non vi ha dato”. Meglio ancora, dicono loro: “In Europa avete fallito la vostra vita, nello Stato Islamico avrete successo in vita e nella morte!”. Talvolta questa propaganda ha successo!»
Molti terroristi sono giovanissimi, cosa li affascina dell’Isis al punto da essere disposti a morire?
«I giovani voglio avventura, rischio, cambiamento. La propaganda promette loro tutto questo. Sono affascinati da un discorso che l’Europa non ha mai fatto a loro. Alcuni sono disperati, altri annoiati, altri alla ricerca di qualcosa di nuovo e altri ancora sono pervasi dall’odio e dal desiderio di vendetta verso questo Occidente che non ha saputo trattenerli».
Come può l’occidente rispondere al dilagare di questa terribile seduzione?
«L’Occidente deve fare un’analisi di tutta la sua politica. L’immigrazione con il ricongiungimento familiare contiene questo rischio di deriva. Deve capire meglio l’islam e la sua civiltà. Per questo serve un maestro fin dalla scuola primaria per insegnare le religioni, le loro storie, le loro somiglianze e la loro importanza. Bisogna anche lavorare con le famiglie che hanno difficoltà con i loro figli sui quali non hanno più autorità».
Se i paesi europei non si occupassero dei conflitti in medio oriente questo secondo lei sarebbe sufficiente a ridurre il numero degli attentati?
«Sì, il conflitto israelo-palestinese è il nodo di questo problema; il terrorismo nel nome dell’islam è una delle conseguenze delle umiliazioni subite dai palestinesi dall’occupante israeliano. Fino a quando Israele perseguierà la sua politica di colonizzazione e di occupazione illegale dei territori dove continua a costruire case senza rispettare la legge e il diritto, il mondo arabo e musulmano sarà umiliato e quindi in conflitto».
Come si può spiegare tanta violenza a dei ragazzi? Primo Levi parlando dell’olocausto scrisse che “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Crede che si potrebbe dire la stessa cosa del terrorismo?
«Sì, Primo Levi ha ragione. Bisogna conoscere e spiegare, e questo non significa scusare o accettare».
(traduzione di Federica Angelini)

da pubblicato venerdì, 17 febbraio 2017

L' IRONIA AL POLITECNICO DI TORINO

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"La disoccupazione è a zero", l'ironia dello studente conquista il Politecnico

La platea ci ha messo un po' a capire quanta ironia ci fosse nel discorso che Marco Rondina, rappresentante degli studenti e esponente del collettivo Alter.Polis, ha tenuto durante l'inaugurazione dell'anno accademico del Politecnico di Torino. Il giovane ha infatti iniziato a descrivere una situazione idilliaca per l'università italiana e soltanto quando ha parlato di "disoccupazione giovanile ormai prossima allo zero" tutti i presenti hanno capito il senso del messaggio. Applauditissimo, Rondina ha poi cambiato registro evidenziando lo scarso investimento dell'Italia nelle sue strutture accademiche e ha concluso proponendo al ministro Calenda (presente in platea) un "rinascimento dell'Università italiana" 

STEFANO PAROLA su  La Repubblica  del 16 febbraio 2017

Il video che riprende il breve intervento dello studente lo trovi in  http://video.repubblica.it/edizione/torino/la-disoccupazione-e-a-zero-l-ironia-dello-studente-conquista-il-politecnico/267975/268381

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