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Channel: CESIM - Centro Studi e Iniziative di Marineo
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F. PESSOA, Il segreto del cercare

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Il segreto del Cercare è che non si trova.
Eterni mondi, infinitamente,
gli uni negli altri; senza fine decorrono
inutili. Noi, Dei, Dei di Dei;
in essi intercalati e perduti
neppure noi stessi nell'infinito troviamo.
Tutto è sempre diverso, e sempre avanti
agli uomini e agli Dei va l'incerta luce
della verità suprema.


Fernando Pessoa, Faust (Ultimo atto)

L'ORRORE DELLA VECCHIEZZA

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Simone de Beauvoir e i suoi critici
Rossana Rossanda
 
L’indegna vecchia signora è Simone de Beauvoir. Come in Francia, l’Italia puntualmente si duole che non ci abbia lasciato l’immagine d’un Sartre morente che le fosse apparso come Goethe agli occhi, un po’ offuscati, di Eckermann: il corpo d’un giovane iddio. Se ne duole anche Enrico Filippini, su “Repubblica” di domenica, anche se dice che non va bene; ma termina anche lui con lo stesso giudizio — per non parlare dell’elegante titolo («E poi tutto fu Nausea», gioco di parole pseudo-sartriano: ma, dei titoli, non sarà responsabile lui). Del resto, “il manifesto” ha fatto lo stesso. Non voglio tornare sulla Cerimonia degli addii, l’ho fatto su “Orsaminore”: ma chi, specie se uomo, legge “Orsaminore”? Una rivista di donne non si legge per definizione, neanche da parte di Enrico Filippini, che — non dubito, ci avrebbe almeno messo fra parentesi (salvo “Orsaminore”). Voglio solo chiedermi quale paura, dunque, abbiamo della malattia e del corpo che si deteriora, e non sempre per l’avvicinarsi della morte, da non poter attribuire che a una singolare durezza di cuore il parlarne? O siamo ancora così vittoriani da trovare «indecente» che si pani di mancanze, gambe tremanti, memorie cadute, barcollamenti e, dio non voglia, urine? O così inconsapevolmente ipocriti da non volere che il «grande», cioè quello che «si vede» — perché i piccoli restano invisibili sempre, giovani o vecchi che siano — resti fino all’ultimo decorosamente esente dagli oltraggi che ci infligge il ciclo della vita, in modo da non turbare l’immagine della nostra fine attraverso la descrizione della sua?
Si parla e riparla d’un nuovo rapporto, laico, ravvicinato, con il corpo, ma di esso accettiamo solo il profilo giovanilistico: di Sartre non si sarebbe mai potuto dire «hollywoodiano», ma ci viene sempre ricordato che la sua bruttezza era riscattata dall’intelligenza. Ma perché riscattata? E come mai corpo non sono anche le malattie del corpo, concepite tuttavia come «decadimento» rispetto alla nostra tuttora prassitelica idea dell’umana forma? Perché, se malato, va nascosto come una vergogna? Perché la testimonianza d’un impari dibattersi con il male non può essere attribuita a un tragico rapporto finale di tenerezza e dolore, ma solo a perversità o vendetta? O voyeurismo, appena non si somigli ai bronzi di Riace?
La verità è che per noi, così moderni, anzi postmoderni, il corpo resta vergognoso e segreto, per fortuna coperto dal guscio della pelle e da quello degli abiti, esponibile solo al suo meglio, perdonabile nella sua nudità solo se soggetto o oggetto di erotismo. Per il resto, da tener ben celato. Luogo della debolezza, della paura, dell’io indifeso.
Per questo, pavidi come siamo, la vecchiezza ci fa orrore; fa orrore anche alle femministe, che pur dicono di avere una diversa sensibilità, non astratta e crudele, ma ravvicinata e diretta col corpo, che sarebbe propria delle donne, come figlie più prossime della natura.
Ma la natura crea le forme della vita e regolarmente le distrugge; vita e morte, giovinezza e vecchiaia sono assolutamente e ugualmente naturali. Anche la malattia lo è. E non sempre siamo così fortunati da esser colpiti dalla freccia di Apollo o di Artemide, in modo da lasciare ai posteri, o solo ai nostri cari, l’ultimo colpo d’occhio su di noi assolutamente integri; solo, ma è una breve parentesi prima dei funerali, non vivi.
Davvero, per essere paesi che invecchiano per il decrescere della natalità e l’allungarsi della «speranza di vita», vi arriviamo con una cultura che al «vecchio» non può che far paura. Anzi, perché non consigliargli di coprirsi il volto, o la persona, con un velo, come il peccatore di Hawthorne — deperire è «peccato» —, stabilire che i municipi decentrino gli ospedali fuori vista come i cimiteri, e istituire per gli intellettuali un’unica censura, che ci protegga tutti dall’offesa alla morale, ai sentimenti e al comune senso del pudore, quando osassero parlare del disfarsi d’una «forma». Sia punito, e non solo dai recensori, chi ce lo ricorda come destino umano e quasi sempre ineluttabile.

"il manifesto", ritaglio senza data ma 1981

G. NUSCIS, USCIRE DALLA GABBIA

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Non una rivoluzione d’ottobre, servirebbe, ma la semplice, coerente applicazione della Costituzione repubblicana, con riferimento ai suoi “Principi fondamentali” (artt. 1 – 12).
Come uscire dall’attuale quadro politico ed economico paventato in questa intervista, e nelle cronache quotidiane? https://it.businessinsider.com/gli-italiani-stanno-investendo-soldi-fuori-dalla-penisola-per-paura-che-leuro-si-spacchi/
E’ davvero impossibile rompere con le scelte fatte fino ad oggi, tentando strade nuove, come questa? 
  1. Creare, partendo dai territori, un’autonomia economica (soprattutto alimentare ed energetica) valorizzando le risorse esistenti e limitando quanto più possibile le importazioni;
  2. garantire un lavoro (lavoro garantito) a tutti i disoccupati residenti da almeno 5 anni nel territorio nazionale (da retribuirsi con l’equivalente della soglia di povertà relativa di 780 euro netti mensili), attraverso una drastica e coraggiosa distribuzione delle risorse pubbliche e una tassazione con aliquota progressiva; prevedendo il ritorno alla gestione pubblica delle banche di risparmio, e di acqua, energia e trasporti; l’utilizzo collettivo di imprese fallite o in crisi create con contributi pubblici; l’esecuzione diretta di opere pubbliche non complesse da parte dei disoccupati, adeguatamente formati e coordinati;
  3. creare un nuovo sistema di sicurezza che garantisca a tutti una capacità minima di spesa – in quanto persone: che esistono, che lavorano o che non possono lavorare, che hanno lavorato a lungo e raggiunto una giusta anzianità – eliminando ogni privilegio e contributo lobbistico, contenendo l’eccessivo divario economico costituito da stipendi, pensioni e rendite spropositate;
  4. solo dopo una trasformazione sociale ed economica nei termini anzidetti, mettere le istituzioni europee in mora, affiché entro un dato termine le regole e le decisioni siano poste in essere *esclusivamente* da organismi democraticamente eletti dai cittadini (Parlamento europeo); col diritto, decorso inutilmente tale termine, di uscire dall’Unione europea. Non si può continuare a vivere schiavizzati dai potentati economici che si nascondono dietro le istituzioni europee e la magmatica normativa suggerita dagli studi legali dei potentati finanziari e lobbistici.
Nessuno può impedirci di migliorare la nostra Costituzione. Ma intanto che c’è, non è forse giusto che chi non la osserva ed applica, a dispregio dei giuramenti di fedeltà e del ruolo di rappresentanza istituzionale ricoperto, sia finalmente chiamato a risponderne?
GN

Testo tratto da https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2017/03/01/la-gabbia/

UMBERTO SABA, L' amore vero

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Ma l’amore, l’amore vero,
l’amore intero, vuole una cosa e l’altra;
vuole la fusione perfetta della sensualità
e della tenerezza: anche per questo è raro.


Umberto Saba

RIPENSANDO A EDOARDO SANGUINETI

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Ripropongo in tre momenti diversi un saggio di Angelo Petrella. Si tratta di un ritratto critico di Edoardo Sanguineti apparso nel 2005 sulla rivista Belfagor, n.359, pagg. 543-546. Questa è la prima puntata. La seconda è programmata per  l’8 marzo 2017 e la terza per il 15 marzo. L’immagine si riferisce ad una cartolina di Carol Rama inviata all’autore del saggio da Sanguineti. 
 B.C.

Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte

di Angelo Petrella

1. “Triperuno”: l’avanguardia e il suo superamento

La prima raccolta poetica di Edoardo Sanguineti può ben essere accolta come metafora della personalità dell’autore: una pulsione anarchica distruttiva puntualmente corretta da un vigile razionalismo progettuale. Non a caso, la carriera accademica di Sanguineti comincia, grazie a Giovanni Getto, poco dopo la pubblicazione dell’opera prima Laborintus. A più riprese, proprio la partecipazione ai lavori della Neoavanguardia creerà complicazioni nel mondo universitario. Il percorso intellettuale sanguinetiano risponde in effetti a quest’esigenza ribelle e antagonista, ma da praticarsi attraversando e utilizzando l’istituzione, in tutti i campi. Lo testimonia, ad esempio, la sua militanza comunista di non iscritto al partito pur ricoprendo diversi incarichi politici, prima come consigliere comunale e poi come deputato al parlamento; il tentativo di chiusura con l’ermetismo teso a rivalutare la linea crepuscolare della lirica italiana; non ultima, l’ostentata proposta di un anti-canone nella celebre antologia Poesia italiana del Novecento.
Il nome di Sanguineti è indissolubilmente legato all’esperienza del Gruppo 63, di cui fu uno degli ideologi e promotori, sebbene la sua prima produzione poetica indichi la necessità di un rinnovamento senza ancora aver coscienza dei futuri esiti neoavanguardistici. Laborintus viene dato alle stampe nel 1956 per l’editore Magenta, grazie all’interessamento di Luciano Anceschi: le reazioni del pubblico saranno poche e non molto lusinghiere, almeno fino alla pubblicazione dell’antologia I Novissimi nel 1961 (Andrea Zanzotto parlò addirittura di «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso»). Eppure, la prima raccolta sanguinetiana contiene elementi di grande novità non solo per la rottura con le linee dominanti della poesia italiana, ma anche per i modelli culturali e letterari europei a cui si riferisce. Gli anni Cinquanta sono anni in cui accanto al neorealismo in declino dominano la linea ermetica, quella montaliana e quella sabiana: Sanguineti vuole appunto chiudere con queste esperienze e, in definitiva, con la lirica, ovvero con il modello poetico per eccellenza della poesia borghese. Ma come metterlo in discussione? La via d’uscita è fornita dall’esempio delle avanguardie storiche, che rappresentano il punto massimo di contraddizione cui giunge la cultura borghese: solo attraversandole sarà possibile far esplodere dall’interno quelle contraddizioni e, con esse, il linguaggio tout court.
Questa tensione non è solo letteraria, ma innanzitutto culturale: al caos del mondo in preda alle trasformazioni sociali successive al dopoguerra corrisponde il caos linguistico e informale a cui tentare di dar forma. La sistematizzazione del disordine è la spinta propulsiva iniziale del progetto di Laborintus, che pure è consapevole dell’impossibilità di redimere il mondo attraverso il linguaggio: l’opera è tutta protesa verso la conquista di un significato assoluto, di una junghiana coincidentia oppositorum, di una palingenesi rivoluzionaria che viene però continuamente rimandata. Non resta che una realtà in frantumi, così come accadeva per gli autori del grande modernismo. Ma con una differenza fondamentale: se il frammento linguistico eliotiano serve a tentare di puntellare e sorreggere le rovine, se il plurilinguismo poundiano risponde alla tensione titanica di riassumere il mondo, il sanguinetiano «viaggio nell’inferno borghese serve solo a rivelare che nel suo orizzonte non si dà salvezza» (Romano Luperini 1981, 835). La frammentarietà di Laborintus comincia dalla materia dell’espressione e investe addirittura il piano visivo del segno linguistico: punteggiatura, numeri e disposizione grafica del testo appaiono esplodere e dilatarsi, quasi mossi da paura di annientamento. Il verso viene assemblato in modo asintattico, scardinando la regolarità in funzione di un ritmo tutto singhiozzante, ironico e corrosivo, ricco di figure del significante:

tu e tu mio spazioso corpo
di flogisto che ti alzi e ti materializzi nell’idea del nuoto
sistematica costruzione in ferro filamentoso lamentoso
lacuna lievitata in compagnia di una tenace tematica

Con Opus metricum (Rusconi e Paolazzi, 1961) Sanguineti ripubblica i testi di Laborintus assieme a quelli del nuovo ciclo Erotopaegnia. Questa seconda raccolta fa da contrappunto dialettico alla prima: la pulsione alla sublimazione diventa qui una descrizione eroicomica e grottesca di atti fisici ed erotici, dove ossessivamente ritornano temi inerenti alla nascita, alla penetrazione, alla maternità. Ciò che colpisce a una prima lettura è innanzitutto il recupero di un certo grado di narratività, dall’ictus molto reiterato, anche se continuamente frustrata da interruzioni. Questo movimento spezzato lascia intuire già quale sarà il percorso di ricerca successivo di Sanguineti: inserti, parentesi, finte esclamazioni, invocazioni, ricordi improvvisi e stralci di conversazione cercano di costruire un discorso comunicativo ma criticamente distanziato. In secondo luogo, nei testi di Erotopaegnia si nota un certo lirismo di stampo crepuscolare, ma abilmente camuffato dall’abbassamento ironico e dallo straniamento (questi sono gli anni in cui, d’altronde, Sanguineti lavora ad alcuni dei saggi che nel 1965 confluiranno in Tra liberty e crepuscolarismo). Quando però la lirica viene esibita esplicitamente e senza interruzioni, la poesia si trasforma in inno alla materialità dell’esistenza caricandosi di tensione oppositiva.
Nel 1964, sotto il titolo di Triperuno, Feltrinelli ripubblicherà le raccolte precedenti aggiungendovi il terzo ciclo di Purgatorio de l’Inferno: il titolo, tratto da una presunta e inedita opera di Giordano Bruno, allude a una tentativo di riscatto e di redenzione dal magma pullulante dell’esperienza umana e avanguardistica. Dopo aver toccato il fondo paludoso del linguaggio e della cultura borghese, alla ricerca insoddisfatta dell’utopia, è ora di «lasciarsi il fango alle spalle» e iniziare a ricostruire da capo la realtà. Cosa è accaduto rispetto alle prime due raccolte poetiche? Innanzitutto, il convegno di Palermo del 1963 ha decretato la nascita della Neoavanguardia: ed è singolare notare come la costituzione del Gruppo 63 sia cronologicamente posteriore al superamento sanguinetiano della fase anarchica e distruttiva. Nello stesso anno, infatti, Sanguineti pubblica sulla rivista Il Verri il saggio Per una nuova figurazione, celebrando il neofigurativismo dell’amico Enrico Baj e del gruppo dei pittori nucleari. Ci troviamo di fronte al compimento del progetto di trasformazione dell’avanguardia in arte da museo: il problema «era quello di capire quale tipo di comunicazione fosse possibile, una volta raggiunta la soglia del silenzio: abbandonare la scrittura o esplorare altre strade?» (Fabio Gambaro 1993, 79). Alla scelta rimbaudiana Sanguineti preferisce la seconda opzione, dedicandosi pertanto a sondare ogni terreno possibile a una rifondazione dello statuto iconico del linguaggio, anche se non realisticamente mimetico: la figurazione costituirà il terreno di partenza di tutte le successive vie di ricerca e sperimentazione.
Lo stile di Purgatorio de l’Inferno, pur ricco di interferenze, è infatti sostanzialmente comunicativo: le libere associazioni, la furia elencatoria o le continue incidentali non riescono a soffocare il discorso narrativo che si apre alla realtà attraverso scorci diaristici, a partire da situazioni personali, quotidiane o politiche. Da più parti, questo ottimismo è stato interpretato come falsa ricomposizione utopica della realtà attraverso la mitopoiesi: Alberto Asor Rosa, ad esempio, individuava in Purgatorio de l’Inferno una ricaduta nell’ideologia che rimanda messianicamente l’idea di rivoluzione e il confronto con i problemi concreti del presente (Asor Rosa 1973, 158-60). Questo tipo di giudizio riassume in verità troppo sbrigativamente la complessità di un’opera che si pone quesiti nuovi in un momento storico del tutto peculiare. La ricomposizione del mondo tramite la poesia non è mai appagata, ma è sempre motivo di tensione non soddisfatta: è un realismo non rispecchiato, dunque più brechtiano che lukacsiano. La mimesi, d’altronde, è bloccata sul nascere grazie al ricorso a un’atmosfera onirica, come a voler espandere e straniare la percezione della realtà: si ricordi che il 1963 è anche l’anno in cui Sanguineti dà alle stampe il romanzo Capriccio italiano e il testo teatrale Passaggio, per le musiche di Luciano Berio, in cui il sogno esercita un ruolo fondamentale. Diarismo, critica sociale ed onirismo costituiranno la matrice propria di tutta la poesia sanguinetiana almeno fino agli anni Novanta.


2. Figurazione e crepuscolarismo da “Wirrwarr” a “Postkarten”

La raccolta intitolata Wirrwarr (Feltrinelli, 1972), composta da T.A.T. e Reisebilder, viene data alle stampe dopo un lungo periodo di silenzio poetico. Negli anni successivi alla pubblicazione di Triperuno, infatti, Sanguineti ha dedicato molte delle sue energie alla stesura di saggi critici e teorici, di testi teatrali e di narrativa, nonché dell’antologia sulla poesia italiana. Eccezion fatta per le sette poesie di T.A.T., già pubblicate dall’editore Sommaruga nel 1968, il silenzio poetico è presto spiegato con il vuoto ideologico lasciato dall’esaurimento della spinta neoavanguardistica e sessantottesca: la condizione affatto incerta e provvisoria della poesia rende impossibile strappare indicazioni o ipotesi al futuro. Non a caso, il titolo tedesco della nuova raccolta può tradursi sia con il termine di «guazzabuglio» che con quello di «zibaldone», alludendo all’implicita dicotomia dell’opera che accosta l’arduo informalismo del primo ciclo al diarismo discorsivo del secondo.
T.A.T. sta per «Tests di appercezione tematica», ovvero le prove visive elaborate dallo psicologo Henry Murray: qui si assiste indubbiamente alla ripresa e all’esasperazione di quell’informalismo che si era manifestato già in Laborintus. La frattura tra segno e referente è decisamente consumata non solo al livello sintagmatico, ma addirittura al livello intraverbale. Il linguaggio è desemantizzato e tocca il limite di comprensibilità, testimoniando come unica verità l’impossibilità di significare univocamente. Già Walter Pedullà notava come i testi di T.A.T. servissero in qualche modo a «ibernare» l’esperienza della Neoavanguardia per tramandarne al futuro quanto v’era stato di più sconvolgente (Pedullà 1963, 563).
I cinquantuno componimenti di Reisebilder costituiscono invece il resoconto di un viaggio compiuto dall’autore tra Germania e Olanda nel 1971. Ciò che colpisce di questa raccolta è l’assoluto abbandono a un tono scorrevole e narrativo: le continue parentesi non creano più interferenza, sparisce quasi del tutto il plurilinguismo e le stesse citazioni variamente estratte da autori tedeschi hanno più la funzione appositiva che non quella straniante. Sanguineti porta avanti la linea diaristica ma svuotandola ormai delle tensioni che pure ancora riempivano Purgatorio de l’Inferno. In Reisebilder non c’è più nulla da distruggere o da difendere: il poeta si guarda nello specchio e riconosce nei propri lineamenti la perdita definitiva del ruolo intellettuale nella società post-sessantottesca. Non si dimentichi che nel 1971 esce Trasumanar e organizzar di Pier Paolo Pasolini, mentre tra il 1968 e il 1973 Zanzotto pubblica La beltà e Pasque, dove la polemica contro l’insufficienza della lingua si traduce in uno scioglimento del binomio significante/significato e nel tentativo di salvare il dicibile attraverso una lingua nuova e sperimentale. In Sanguineti, come si sa, il problema non si consuma tanto nel rapporto tra linguaggio e comunicazione, ma tra linguaggio e ideologia: finita l’epoca delle grandi utopie, Reisebilder decreta il fallimento del tentativo di riconciliare il linguaggio con la realtà, così come testimonia l’impossibilità di cantare tragicamente quel fallimento. L’unico modo di far poesia è in maniera abbassata, sottilmente ironica, quasi silenziosa. Sanguineti mostra di adottare la lezione crepuscolare (per altro ben sviscerata già nei saggi di Tra liberty e crepuscolarismo), ma abbassandone il registro polemico e temperando sia il patetismo radicale gozzaniano che la dissacrazione divertita palazzeschiana. Tutto è a posto così com’è, senza tragedia o pathos.
Postkarten (Feltrinelli, 1978) sembra poi sbloccare la situazione di stallo in cui era finita la poesia di Reisebilder, che ancora mostrava sensi di colpa per lo smarrimento di un’identità poetica: l’irrimediabilità della condizione prosastica della poesia viene ora adottata e introiettata quasi con gioia, al punto da lasciare spazio a situazioni anche comiche e grottesche. Il tono si fa decisamente colloquiale e la punteggiatura è ormai un mero strumento grafico per staccare i sintagmi l’uno dall’altro: ma, contemporaneamente, è insistente il ricorso sapiente a versi tradizionali anche se abilmente mascherati. Non si dà più alcuna condizione di rivolta e la parola poetica smitizzata e inutile sopravvive in un discorrere motteggiante, intellettuale e quasi precettistico, che galleggia sui frammenti del mondo, al punto da far rilevare a più d’un critico l’affinità col coevo Satura di Eugenio Montale. Sanguineti, attraverso il quotidiano, si libera dalla paura del vuoto ideologico dei primi anni Settanta e adotta un nuovo registro, alla ricerca di un’annullamento dell’identità finora avuta:

perché io sogno di sprofondarmi a testa prima,
ormai, dentro un assoluto anonimato (oggi, che ho perduto tutto, o quasi): (e
questo significa, credo, nel profondo, che io sogno assolutamente di morire,
questa volta, lo sai):
oggi il mio stile è non avere stile:

In questo senso Postkarten va letto come filiazione e dilatazione delle basi gettate nella raccolta precedente. Non è un caso che il volume feltrinelliano del 1975, intitolato Catamerone, includa l’intera produzione poetica di Triperuno e Wirrwarr: con questa operazione, Sanguineti suggella l’esperienza avanguardistica e a un tempo la gestazione di quella fase di trapasso post-sessantottesca. Reisebilder e Postkarten vanno letti come successiva progressione dialettica verso la distruzione dell’identità borghese del poeta, che verrà elaborata a partire dalle due raccolte successive.

[continua]


Testo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2017/03/01/ritratto-critico-edoardo-sanguineti-parte/

L'ANGELO E LA BESTIA NEI QUADERNI DI S. WEIL

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Simone Weil, Autoritratto (1930)

L'angelo e la bestia. I “Quaderni” di Simone Weil

 Enrico Filippini

«Non solo io penso che l’universo mi schiaccia, ma lo amo». «Rinunciare a tutto ciò che non è la grazia, e non desiderare la grazia». «Il tempo ci conduce sempre dove non vogliamo andare. Amare il tempo»... Per riparlare di Simone Weil, propongo uno sforzo prolungato e ripetuto di attenzione su queste poche frasi, scelte quasi a caso. Perché esso, molto più di una normale lettura, consente di penetrare subito le movenze interne, la temperatura e le ellissi del suo pensiero. Che è un pensiero tanto più grande e sterminatore, in quanto è sempre al limite del non-pensiero e dell’impraticabilità: è il pensiero che ci vuole. La mia idea è che il testo della Weil è un «testo d’uso», come un libro di cucina o L’imitazione di Cristo.
Quale testo? Qui, il testo dei Cahiers. Alla vicenda di Simone Weil (1909-1943), ho già accennato un’ altra volta (sulla Repubblica del 12 luglio 1981). Di essa bisogna ora ritagliare quel periodo, ormai già finale, che iniziò col soggiorno a Marsiglia e finì in un ospedale inglese, dove la Weil si lasciò morire di fame proprio quando stava iniziando la liberazione dell’Europa. Aveva passato la Settimana Santa del 1938 presso l’abbazia benedettina di Solesmes. Come sempre, era torturata da atroci mal di testa. Ma la liturgia e «l’eterno presente» del canto gregoriano resero quel soggiorno l’evento fondamentale dell’ultima parte della sua vita, segnata dalla «presenza personale di Dio», cioè di un «nulla» o di un «vuoto».
A metà giugno del 1939, i tedeschi entrarono a Parigi. La famiglia Weil decise di fuggire, raggiungendo prima Vichy, poi Tolosa, poi Marsiglia, col proposito di lasciare la Francia. Il disastro propiziò nella Weil l’esigenza di ripensare tutto ciò che aveva pensato e vissuto fino a li: a cominciare dal suo pacifismo, che ora le appariva un «errore criminale». Il soggiorno a Marsiglia si protrasse fino al 7 giugno 1942, e fu molto fecondo. Ad esso risalgono numerosi saggi sulla scienza, sull’Iliade e sulla Grecia in generale, sulla nozione di filosofia, sul concetto di valore, sulla lettura, sulla responsabilità della letteratura, sull’oppressione e sulla forza, ancora sulla scienza, nonché quelle meditazioni teologiche che verranno poi raccolte in due volumi postumi: Attente de Dieu e Pènsées sans ordre concernant l’amour de Dieu. Ma credo si possa dire che il meglio della sua riflessione fu affidata ai famosi Cahiers, i quali tuttavia ebbero una storia complicata.
Tra le numerosissime persone che la Weil frequentò in quel periodo, c’era il frate domenicano Jean-Marie Perrin, che era stato uno dei suoi interlocutori al momento dell’«incontro con Dio» e al quale il 7 giugno 1941 si presentò per chiedergli un lavoro di bracciante agricola; inoltre il filosofo cattolico Gustave Thibon, che era anche vignaiolo nell’Ardèche, e presso il quale andò a lavorare durante la vendemmia del 1941, massacrandosi di fatica e leggendo al suo ospite, la sera, i filosofi greci e i testi sapienzali indiani, a cui era stata iniziata dallo scrittore René Daumal.

Testamento letterario
Quando fu il momento di partire (per Casablanca e poi per gli Stati Uniti), fu a Perrin e a Thibon che la Weil consegnò gran parte dei suoi scritti e i quaderni marsigliesi. Non era una partenza come un’altra. Già nel '40, la Weil così aveva scritto a un amico di Vichy: «...benché non possa prevedere ciò che l’avvenire porterà, parto definitivamente. Non è solo a causa delle circostanze. Ho sempre pensato che un giorno sarei partita così». Sapeva che nulla sarebbe mai più stato come prima. La collocazione dei suoi scritti fu una specie di testamento letterario ed editoriale. A Perrin consegnò i «saggi spirituali». A Thibon undici quaderni tutti uguali, fittissimi di scrittura, che — insieme con gli altri sei, scritti più tardi in America e a Londra — costituiranno il corpo dei Cahiers.
Sarebbe complicato ripercorrere qui la storia editoriale di questi testi, come del resto di tutta la produzione della Weil. Ma una cosa va accennata. Nel 1947, Thibon trascelse dai Cahiers e pubblicò un piccolo libro, La pesanteur et la grace («La pesantezza e la grazia», o meglio «La gravità e la grazia»). È un piccolo libro assolutamente fulminante, benché Thibon fosse preoccupato dall’accoglienza che il cattolicesimo francese avrebbe riservato all’arroventata meditazione «mistica» della Weil. Ne consiglio caldamente la lettura. Ma nello stesso tempo è un libro del tutto arbitrario, perché concentra in un’unità testuale e di senso una scrittura spasmodica che tuttavia si vuole dispersa, discontinua e mescolata di altri temi e ossessioni: impoverendo enormemente l’orizzonte della Weil.

Più tardi, tra il '51 e il '56, l’editore Plon pubblicherà in tre volumi sedici dei diciassette quaderni, ma si tratta di un’edizione molto sommaria e priva di ogni apparato critico. Così si può dire che la prima vera edizione è quella a cui ora ha posto mano l’editore Adelphi con un primo volume di Quaderni, che ne contiene i primi quattro e che è stato quasi impeccabilmente curato da Giancarlo Gaeta; dico quasi, perché mancano le indicazioni di alcune fonti.
A prima vista, i Quadernipossono sembrare una scrittura privata: una raccolta di appunti, di pensieri a volte monchi e anche di trascrizioni. Ma è noto che la Weil pensava che dovessero venir pubblicati e che riteneva la forma di questi frammenti definitiva. Gaeta coglie bene il senso di questa frammentarietà quando nella sua introduzione afferma che essa corrisponde intimamente alla forma del suo pensiero filosofico: «Poiché tutto, a questo mondo, esiste “allo stesso titolo”, come nella pittura di Giotto, lo straordinario potere della scrittura dei Cahiers è nell’assenza di un punto di vista...; occorre che gli oggetti della riflessione si dispongano su piani molteplici, non coordinati gerarchicamente, lasciando libero spazio alla contraddittorietà dell’esistente...».
La mia idea è che ci sia anche un’altra ragione di grandezza. Innumerevoli studi hanno rilevato i rapporti del pensiero filosofico della Weil, non solo col platonismo, col marxismo e con la sapienza indiana, non solo con le matematiche moderne e con le geometrie non euclidee, ma anche con la filosofia accademica francese: con quella linea che da Maine de Biran, attraverso Largneau e Alain (suo maestro alla Normale) arriva a Merleau-Ponty. Di questi rapporti, come del resto di altri, sarebbe insensato non tenere conto. Ma l’essenziale è che nel vortice frammentato e vertiginoso dei Quaderni c’è una deflagrazione, dentro cui va in pezzi ogni possibilità di pensiero sistematico, unitario e finalizzato. Va in pezzi, anzi, il fondamento, la forma e la tendenziale cristallizzazione della cultura europea: tutto è rimesso in questione, anzi in sospensione nello spazio vuoto. La mia idea è, dunque, che, proprio per questa ragione il testo della Weil sia, oltre che un libro d’uso, uno dei massimi libri della filosofia (e della critica culturale e della sociologia e della psicologia) contemporanea.

Un bastone da cieco
Molto più difficile è riferire esaurientemente di che cosa parlano i Quaderni. E del resto non è neppure necessario. In un certo senso basterebbe rilevare alcune metafore costanti che sono come l’ago magnetico della bussola dentro lo scompiglio della ricerca e dello scavo: il «bastone da cieco» («Che quest’energia divenga un mezzo d’esplorazione del mondo — un bastone da cieco?», pag. 247), la «barca» («Una barca, strumento per afferrare interamente il mare, interamente il vento, e le stelle», pag. 209), la «leva»: «Nozione di leva applicata alla vita interiore (in funzione della nozione di energia)», pag. 259, la «bilancia»...
Ma volendo accennare, molto sommariamente e un po’ tradizionalmente, ai contenuti dei Quaderni, si può dire così: i Quaderni sono «un inventario della civiltà attuale» e contengono innanzitutto una critica della scienza moderna (spesso esemplificata nell’algebra), una comparazione della scienza moderna e di quella greca, e un’analisi dei rapporti di una scienza «tutta ridotta a segni» con la tecnica e con la «crisi della macchina» in Europa: «Macchina: il metodo si trova nella cosa, non nello spirito. Algebra: il metodo si trova nei segni, non nello spirito...». E per molti aspetti, questa critica della scienza si accosta a quella di Husserl e di altri pensatori degli anni Trenta. Di suo, oltre l’intensità e la concretezza, la Weil ci mette l’intuizione dell’origine religiosa di questa riduzione della scienza a gioco di segni: «L’uso dei segni in un primo momento è necessariamente religione», e l’intuizione della causa di questo stato di cose: «solo nei segni si può eliminare il caso, e far apparire la necessità».
I Quadernicontengono inoltre una critica del «pensiero collettivo» («Non esiste un pensiero collettivo»), una critica del lavoro industriale notevolmente originale rispetto a quella marxista tradizionale, una costante evocazione dell’arte, nutrita di notevolissime osservazioni (per esempio relative allospazio), digressioni sul progresso, sulla forza e sulla violenza, sul passaggio dall’«era industriale» all'era finanziaria», sull’hitlerismo e sulle sue somiglianze coi meccanismi di potere nella romanità, sulla guerra, sulla morte, sull’analogia, sull’apparire del mondo nell’esperienza, su quella nozione di «sventura» di cui si parla sempre a proposito della Weil, come del resto su quelle altre nozioni di «grazia», «pesantezza» o «gravità» a cui si è già accennato. Inoltre, i Quaderni contengono ampie esplorazioni del Bhagavad Gita e delle Upanishad, racconti e commenti di fiabe, intense e costanti rivisitazioni della filosofia platonica (in particolare del Timeo, del Filebo e della Repubblica) nonché della tradizione pitagorica (in particolare di Filolao), e naturalmente squarci di riflessione teologica e morale.
Ma mi rendo conto che un’elencazione, anche più dettagliata, non serve a nulla, e che in particolare non rende conto dell’incandescenza, dello stile filosofico-letterario della Weil. Forse è più utile citare un paio di esempi. Il primo potrebbe essere il seguente. Tutto questo primo volume è attraversato da una ricerca sul tempo, per così dire da una ricerca del tempo vivente. E fin dall’inizio la Weil intuisce che il tempo morto o pietrificato è il tempo dei segni e insieme dell’ossessione («L’ossessione è l’unica sofferenza umana», pag. 148, «Il tempo è il primo limite, l’unico», pag. 182, «Tutto ciò che turba l’uomo lo turba nel suo sentimento del tempo», pag. 204). La ricerca del tempo vivente è dunque superamento della «virtù negativa» e della parvenza ingannevole e alienata dell’ossessione: si tratta di accettare la «violenza del tempo» che «lacera l’anima», perché «attraverso la lacerazione entra l’eternità».
Questa visione del tempo è per un verso in rapporto con la rilettura di Platone e di Filolao, col tema del «limite» e dell’«illimitato» e del «finito» e dell’«infinito» nell’esperienza e e con quello di «ritmo», di una «musica» dell’esperienza che sta di là del «tic-tac» della musica meccanica, e quindi è in rapporto col tema di Dio e con la problematica teologica della Weil. Per un altro verso, poiché la filosofia della Weil è al tempo stesso una forma di e-sperienza personale e persino psicologica, questa visione è connessa con le costanti e durissime prescrizioni che s’imponeva: «Non essere mai vile davanti allo scorrere del tempo», con la necessità di vincere l’inerzia e la «pigrizia», e quindi con la terrificante disciplina e con la tensione a cui si sottoponeva.
Il secondo esempio potrebbe essere quest'altro, che allude a quella che si potrebbe chiamare l’«etica» della Weil, che è un’etica altamente paradossale, cioè all’altezza dei conflitti che l’epoca le proponeva. Questo primo volume è disseminato di proposizioni di questo tipo: «Nell’ambito dei sentimenti, più si dona, più ci si mette in una situazione di mendicità»; «A partire da un certo grado di oppressione i potenti arrivano necessariamente a farsi adorare dai loro schiavi»; «Desiderare l’amicizia è una colpa grave»; «La dedizione non è possibile senza asservimento»; «La virtù consiste nel custodire in sé il male che si patisce»; «Quel che si odia si potrà giungere ad amarlo»; «Mentire a se stessi risulta da una necessità vitale»; «Non ci si deve consolare con ciò che si ha di meglio in sé»; «E’ facile essere sulla croce quando vi si è inchiodati»; «E’ necessario essere molto puri per fare il male»; «La possibilità del male è un bene»; «Piuttosto che prendersi sul serio, peccare»... In generale, si tratta di una morale che si scosta notevolmente da quella cristiana, e il cui emblema potrebbe essere questo: «Chi fa l’angelo fa la bestia»...

Quando abbiamo perduto tutto
Tuttavia mi rendo conto che anche così adombrata, la filosofia della Weil è ancora altrove, e che quando si è detto tutto questo non si è detto quasi niente. La filosofia della Weil non sopporta sillogi e riduzioni a un senso. Me ne rendevo conto acutamente durante un convegno su di lei all’Istituto Stensen di Firenze (13-14 marzo), a cui partecipavano, tra gli altri, il teologo Jean-Marie Aubert, Gabriella Fiori, biografa italiana della Weil, Vilma Gozzini, Adriano Marchetti, Gilbert Kahn e Massimo Cacciari. Nonostante tutti gli sforzi da parte cattolica, la Weil non è collocabile dentro una normale prospettiva cristiana; e si può dire anche che, nonostante gli sforzi di Cacciari a quel convegno, la Weil non è normalmente collocabile neppure dentro la storia della filosofia.
Il problema, anzi uno dei problemi della Weil era di «fare del tempo un’immagine mobile dell’eternità»; e insieme la Weil sapeva di essere collocata in un punto altamente critico del tempo: «Non potresti desiderare di essere nata in un’epoca migliore di questa, in cui si è perduto tutto». Ora che ridiventa attuale, dopo che un’altra volta sono deflagrati i sistemi di pensiero lineari e conchiusi che ripresero corpo dopo la sua morte, la mia idea è che la sua «attualità» stia nella sua perfetta inutilizzabilità in direzione di ciò che si è perduto.

la Repubblica, 7 maggio 1982

LA PAROLA A EMMA DANTE

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Bestie di scena. Una conversazione con Emma Dante

All’inizio si chiamava Animali da palcoscenico, ma non andava bene perché l’animale da palcoscenico è l’istrione che il palco non si limita a calpestarlo ma se ne impossessa fino a farne il suo dominio. Allora poco a poco è affiorata l’espressione che si utilizza in Francia, «bêtes de scène», più ferina e radicale, una locuzione che rimanda agli animali da soma, alla loro obbligata – docile o rabbiosa – subalternità, alla loro fatica. In effetti Bestie di scena– il titolo dello spettacolo di Emma Dante, al Piccolo Teatro di Milano dal 28 febbraio al 19 marzo – è quanto di più essenziale, scabro e agonistico la regista palermitana abbia concepito dai tempi di Mpalermu, il suo esordio del 2001, se non da ancora prima, considerato che in Bestie di scena si avverte un impulso originario che sembra risalire a un tempo in cui non c’è ancora la messinscena ma solo un essere umano e la sua immaginazione, e dentro l’immaginazione i fantasmi, nuclei senza struttura, senza trama, senza discorso (al limite qualche verso), un tempo che non genera ancora un disegno compiuto ma l’equivalente delle pitture rupestri tracciate sulla volta di una caverna.
«Quando in Mpalermu ho raccontato la storia dei Carollo», dice Emma Dante, «una famiglia misera e sgangherata che si prepara per uscire senza varcare mai la sogliadi casa, la scena era spoglia ma c’erano dei legamie una piccola storia». I quattordici corpi–«Non attori», ribadisce più volte – che si muovono per il palco nero di Bestie di scena condividono con i Carollo una condizione, o meglio un’ossessione: «Non possono stare all’interno della scena vuota, ma non possono neppure andare via. Anche perché un fuori non esiste, al di là di quel perimetro inospitale non c’è nulla». Dunque si abita nell’inabitabile, e non essendoci più la famiglia i legami vengono meno, i corpi sono centrifughi e si smarriscono. «Diversamente da come ho proceduto negli altri spettacoli, sempre calibrando ogni movimento per comporre sulla scena geometrie, stavolta chi è sul palco è libero di stare dove vuole, mobile e perduto». Ne viene fuori uno sciamare anarchico di corpi-particelle, un pulviscolo di carne.
«Quando dalle quinte vengono scagliati in scena dei petardi» – per l’intero spettacolo due attori invisibili disseminano lo spazio di minacce, sempre in forma di materia concreta – «ho esplicitamente domandato di non teatralizzare la paura e i tentativi di difesa». Così si elimina l’affettazione che è propria del mattatore che domina il palco; a questi corpi ipersensibili tocca invece avere a che fare con un luogo variamente dispettoso, ironicamente vessatorio e indomabile. Tanto che la sensazione è di trovarsi davanti averi e propri organismi, creature tragicomiche che vivono in uno stato di perenne inermità.«Tutto ciò fa di Bestie di scena il mio spettacolo più libero e allo stesso tempo il più fragile, un corpo cagionevole che per uno spiffero può finire allettato con la febbre a quaranta. E non si tratta di una metafora ma di quanto è accaduto durante le prove e continuerà ad accadere quando lo spettacolo debutterà».
Una vulnerabilità che non si dà come rischio bensì come condizione se non addirittura come bisogno. Ciò che allora va fatto è togliere, ridurre: letteralmente spogliare. «La prima immagine di Bestie di scena coincide con dei corpi nudi in unospazio vuoto. Questa è l’origine, ciò a cui non potevo rinunciare, ho passato un anno per dare forma a questa visione». Un anno di lavoro condiviso con gli attori della compagnia. Molti silenzi, altrettanta pazienza. Soprattutto nessuna volontà di provocare: «Tanto più che non amo il nudo in teatro, mi mette a disagio». Finché è diventato chiaro che centrale non era il nudo bensì il denudamento: «La cosa più bella è stata scoprire la sparizione dell’enfasi che di solito accompagna il denudarsi estremo: ciò che abbiamo fatto è stato portarlo a qualcosa di prosaico».
Sempre procedendo «per assenze ed essenze», si è arrivati a fare a meno di ogni dialogo. «In questa microcomunità di imbecilli» – l’in-baculumè chi, senza il sostegno di un bastone, è disarmato – «nessuno ha qualcosa da comunicare». Se ogni corpo è imprigionato in un sistema di movimenti («Così come ognuno è imprigionato nel suo talento») ed è impegnato, con gli altri corpi, a fare e poi a disfare ciò che si è fatto e a rifare quanto si è disfatto (e quindi se si bagna si asciuga, se si sporca si pulisce, in un ciclo potenzialmente inesauribile), le parole non servono. A imporsi, tanto da far percepire Bestie di scena come uno strumento che nel sottrarre distilla, sono allora gli sguardi: quelli dei corpi in schiera sul limite del palco, quando scegliendo di non aggrapparsi al relitto dei vestiti accolgono il naufragio come unica condizione possibile – sguardi in cui leggiamo la supplica, il rimprovero, ma soprattutto una sbalordita delusione; e poi gli sguardi degli spettatori, di colpo concretissimi, una sostanza fisica che ha un peso e ha un volume.
Quando poi i nostri occhi riconoscono posture e movimenti che provengono da Mpalermu, La scimia, Le pulle, Le sorelle Macaluso, all’improvviso ci rendiamo conto che il luogo in cui siamo penetrati attraverso Bestie di scenaè la caverna dell’immaginazione di Emma Dante, e che quanto abbiamo visto è anche il catalogo delle sue ossessioni. La sua casa dei fantasmi. E allora ce ne restiamo in silenzio a guardare quei corpi eternamente intrappolati nella scena, nel trauma ein una strana disperata tenerezza, avvertendo che l’umano è questa cosa che non sa, desidera, teme, tenta, barcolla, si aggira, si ferma e ci guarda. Così, preistorico e presente. Nudo di parole. Nient’altro che una bestia di scena.

Questo pezzo è uscito sul Venerdì, che ringraziamo. Noi l'abbiamo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/wp/bestie-scena-conversazione-emma-dante/
Giorgio Vasta (Palermo, 1970) ha pubblicato il romanzo Il tempo materiale (minimum fax 2008, Premio Città di Viagrande 2010, Prix Ulysse du Premier Roman 2011, pubblicato in Francia, Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca, Stati Uniti, Inghilterra e Grecia, selezionato al Premio Strega 2009, finalista al Premio Dessì, al Premio Berto e al Premio Dedalus), Spaesamento (Laterza 2010, finalista Premio Bergamo, pubblicato in Francia), Presente (Einaudi 2012, con Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori). Con Emma Dante, e con la collaborazione di Licia Eminenti, ha scritto la sceneggiatura del film Via Castellana Bandiera (2013), in concorso alla 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Collabora con la Repubblica, Il Venerdì, il Sole 24 ore e il manifesto, e scrive sul blog letterario minima&moralia. Nel 2010 ha vinto il premio Lo Straniero e il premio Dal testo allo schermo del Salina Doc Festival, nel 2014 è stato Italian Affiliated Fellow in Letteratura presso l’American Academy in Rome. Il suo ultimo libro è Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Humboldt/Quodlibet 2016).

NUOVE CITTADINANZE

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La nuova cittadinanza

Sull’ultimo numero di “Tempo presente”, la rivista diretta di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte tra il 1956 e la fine del 1968, Silone scrisse un editoriale di commiato, sotto forma di racconto, intitolato Temi per un decennio.
Il decennio a cui Silone si riferiva era quello futuro, non quello passato, che pure era stato cruciale, in Italia e nel mondo. Nel decennio successivo, quello in cui “Tempo presente” non ci sarebbe più stato, uno dei temi centrali su cui riflettere per Silone sarebbe stato l’acuirsi delle contraddizioni interne al mondo comunista.
Prima fra tutte: la creazione di un’enorme classe burocratica che avrebbe oppresso sempre di più, anziché liberare dalle sue condizioni, la classe operaia. Quelle contraddizioni hanno poi raggiunto il punto di rottura nel decennio ancora successivo, vent’anni dopo cioè il racconto-editoriale di Silone, gettando le basi del mondo in cui siamo immersi. Il mondo dopo la caduta del Muro, e – per essere più precisi – il mondo dopo la caduta dell’assioma della “fine della Storia”. Quali potrebbero essere i temi per il prossimo decennio? Quali contraddizioni si acuiranno, quali raggiungeranno il punto di rottura?
Mantenendo l’attenzione sulla sola Italia, una delle maggiori contraddizioni riguarda sicuramente la scissione di fondo tra l’aumento costante della popolazione straniera (o di origine straniera) e la loro scarsa, o nulla, rappresentazione politica.
Secondo il Dossier Statistico Immigrazione 2016, gli stranieri nel nostro paese sono circa 5 milioni e mezzo di uomini e donne (a cui vanno aggiunti un milione di cittadini di origine straniera che hanno già acquisito la cittadinanza italiana). Provengono in maggioranza da Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina. Costituiscono l’8,3% della popolazione residente nella penisola, ma in una regione come l’Emilia Romagna arrivano addirittura al 12%.
Quando il Muro cadeva, e il bracciante sudafricano Jerry Masslo veniva ucciso a Castelvolturno, facendo scoprire all’Italia nello stesso tempo lo sfruttamento dei campi e il razzismo, erano ancora poche centinaia di migliaia di persone. È evidente che nell’arco di un quarto di secolo è avvenuta una profonda mutazione del paese.
Eppure alla crescita della popolazione di origine straniera, alla creazione di una nuova classe operaia e bracciantile straniera nel nostro paese, all’affermarsi di un ceto di piccoli imprenditori e commercianti, all’emergere delle seconde e delle terze generazioni residenti, non fanno ancora seguito adeguate forme di rappresentanza, che vadano al di là di tutte quelle espressioni puramente simboliche come i consiglieri comunali aggiunti (e quindi privi di voto).
La classe dirigente italiana (intendendo per classe dirigente non solo la classe politica, ma anche i vertici delle istituzioni e dei ministeri, i giornali, le università, le tv, i sindacati, le grandi aziende, le fondazioni, gli enti pubblici e privati…) è ancora prevalentemente bianca, di madrelingua italiana. Salvo rare eccezioni (la più nota, e allo stesso tempo isolata, è costituita dal ministro dell’integrazione del governo Letta, Cécile Kyenge) è ancora unicamente bianca, di madrelingua italiana.
Da dove nasce questa differenza profonda dal resto dell’Europa, dalla Francia, dalla Germania, dalla stessa Gran Bretagna che è uscita dall’Ue, dai paesi del Nord Europa? Cosa fa dell’Italia un paese ancora così impermeabile all’apertura verso la società plurale dei propri gruppi dirigenti?
Curiosamente chi parla di “casta”, non sottolinea mai questo aspetto – realmente castale – del potere e del sottopotere nostrani. Era molto più cosmopolita ed eterogenea la composizione delle camice rosse di Garibaldi durante la Spedizione dei Mille che non quella di qualsiasi consiglio comunale dalle Alpi alla Sicilia.
Eppure la contraddizione, a volte, emerge. Basta collegare tra loro eventi solo apparentemente distanti. Il movimento che è sceso in piazza in molte città italiane per chiedere una nuova legge sulla cittadinanza che superi gli steccati dello ius sanguinisè fatto soprattutto da ragazzi delle cosiddette seconde generazioni. Dai figli cioè, cresciuti e sovente anche nati in Italia, di chi ha fatto per primo il Grande Viaggio. E, a tutti gli effetti, loro sono “anche” di madrelingua italiana.
Un’altra contraddizione evidente emerge nel lavoro dei campi o nei poli della logistica. Laddove più gravi e “avanzate” sono le forme di sfruttamento lavorativo, più cosmopolita è la composizione di quella che a tutti gli effetti è una nuova classe operaia. Laddove lo sfruttamento poi raggiunge forme ulteriori, è facile constatare come essa sia radicalmente non-italiana. È così nei campi dove si raccolgono le arance o i pomodori. È così per i facchini che lavorano in subappalto per le grandi multinazionali di spedizioni pacchi.
La vicenda di Abd Elsalam, il facchino egiziano di 53 anni, travolto da un camion durante un blocco operaio davanti allo stabilimento della Gls di Piacenza, lo rivela appieno. Al di là degli eventi che hanno portato alla sua morte, e al fatto che presumibilmente il camionista che lo ha investito è stato esortato ad aggirare il picchetto, ciò che stupisce sono le condizioni di lavoro. Il contesto. Nell’azienda dove ha lavorato, su 140 dipendenti, non c’è un solo italiano. Sono tutti egiziani, algerini, tunisini, albanesi, macedoni… Pertanto non c’era neanche un solo italiano a prendere parte al blocco contro la Gls per il mancato rispetto di un accordo sindacale, la sera in cui è rimasto ucciso.
Proprio in questi contesti di lotta più aspra che altrove, sta emergendo una nuova generazione di delegati sindacali stranieri – sia nei sindacati confederali, sia in quelli di base. Iniziano a essere loro la prima forma di rappresentanza di un’Italia diversa. Ma, da qui a una rappresentanza più vasta ancora ce ne vuole. Finora, questo primo livello di emersione della voce dei nuovi italiani non ha ancora superato la dimensione locale o quella dei sindacati di categoria.
Allo stesso modo, in altri versanti, sono ancora scarsamente permeabili i piani alti della politica e della cultura. È difficile dire se nel prossimo decennio la contraddizione raggiungerà il punto di rottura, ma sicuramente essa si acuirà fino ad esigere una trasformazione degli assetti più asfittici della società italiana. Non sarà un percorso facile. Esso sarà costantemente interrotto e osteggiato dalla vecchia Italia, da quel cuore oscuro che teme, quasi con orrore, che il monolite possa essere scalfito.
In fondo, chi come a Goro e Gorino organizza barricate contro l’accoglienza di una decina di donne e bambiniè a questa idea di “contaminazione” che si oppone ferocemente (nel XXI secolo!). Ma, se sostenuto, questo percorso potrà aprire le porte a uno scenario diverso. La rappresentanza sindacale sarà ancora più plurale, e il movimento per una nuova legge sulla cittadinanza otterrà i suoi obiettivi. Forse ci saranno più assessori e capiredattori, presidi e docenti, deputati e conduttori di origine non-italiana… Non necessariamente, beninteso, avranno posizioni progressiste, o in linea con una ulteriore maggiore apertura della società italiana.
Alcuni potranno sostenere posizioni conservatrici o populiste, se non addiritture reazionarie, come buona parte della società italiana. Ma, proprio perché ogni società è un organismo complesso, è normale che sia così. Anormale semmai è pensare che esistano dei blocchi ben identificati e immodificabili, e che gli individui siano pedine che vanno a inserirsi dentro caselle prefissate. Poiché negli ultimi anni l’Italia, proprio mentre diventava un paese più plurale, è anche diventato un paese molto più rigido nei processi di mobilità sociale, è giunta l’ora di far saltare il tetto di cristallo. Altrimenti, alla fine del decennio, ci troveremo con un fossato enorme tra le nuove caste e il paese reale.
Questo pezzo è uscito sull’ultimo numero de Lo Straniero noi l'abbiamo ripreso da  http://www.minimaetmoralia.it/wp/la-nuova-cittadinanza/

Alessandro Leogrande è vicedirettore del mensile Lo straniero. Collabora con quotidiani e riviste e conduce trasmissioni per Radiotre. Per L’ancora del Mediterraneo ha pubblicato: Un mare nascosto (2000), Le male vite. Storie di contrabbando e di multinazionali (2003; ripubblicato da Fandango nel 2010), Nel paese dei viceré. L’Italia tra pace e guerra (2006). Nel 2008 esce per Strade Blu Mondadori Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud (Premio Napoli-Libro dell’anno, Premio Sandro Onofri, Premio Omegna, Premio Biblioteche di Roma). Il suo ultimo libro è Il naufragio. Morte nel Mediterraneo (Feltrinelli), con cui ha vinto il Premio Ryszard Kapuściński e il Premio Paolo Volponi. Per minimum fax ha curato l’antologia di racconti sul calcio Ogni maledetta domenica (2010).

L'OPERA DI YOUSIF LATIF JARALLA QUESTA SERA A PALERMO

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Questa sera, alle ore 21, 
nella chiesa san mattia dei crociferi
via torremuzza n. 28, Palermo

PAROLE di YOUSIF LATIF JARALLA
 MUSICA di RICCARDO PALUMBO


Ingresso libero

  

SANDRO PENNA, Mi nasconda la notte e il dolce vento

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Mi nasconda la notte e il dolce vento.
Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico antico fiume lento.
Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiu cosi lontani
sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore.
La luna si nasconde e poi riappare
lenta vicenda inutilmente mossa
sovra il mio capo stanco di guardare.
Sandro Penna

R. PANZIERI, VECCHIA E NUOVA CINA

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Pechino, La Città Proibita

Tra il settembre e l'ottobre del 1955 una piccola, ma importante delegazione del Partito Socialista Italiano si recò in visita in Cina. C'erano il segretario, Pietro Nenni, con la moglie Carmen e la figlia Luciana, Raniero Panzieri, responsabile della commissione culturale del partito, e Vincenzo Ansarelli in qualità d'interprete. Benché Nenni viaggiasse a titolo personale c'era in quella visita qualche segnale di disgelo anche da parte della Repubblica Italiana. Prima della partenza egli aveva incontrato il presidente della Repubblica Gronchi, il presidente del consiglio Segni e il ministro degli Esteri Martino, il che aveva suscitato polemiche da parte della destra. In Cina ebbe peraltro incontri politici al più alto livello, con il presidente Mao Tse Tung e con il primo ministro Chou En Lai. Tredici anni più tardi, da ministro degli Esteri nel governo Rumor, Pietro Nenni avrebbe aperto trattative formali per l'apertura di relazioni diplomatiche con la Cina comunista, che si conclusero positivamente nel 1970. L'Italia svolse nell'occasione un ruolo di battistrada rispetto alle altre nazioni occidentali.
Sul viaggio, oltre ai preziosi appunti nei diari di Pietro Nenni, fornisce notizie un articolo di Raniero Panzieri, pubblicato sul numero di novembre 1955 di Mondo Operaio (Note di un viaggio in Cina). Panzieri, peraltro, vergava nel corso della visita appunti personali, che furono pubblicati postumi con il titolo Diario cinese, del quale è già presente in questo blog un brano dedicato a Chou En Lai (http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2013/01/cel-comunista-moderno-giovane-forse-un.html). Qui riprendo il breve, ma molto sugoso, resoconto della visita della delegazione italiana alla cosiddetta Città Proibita, già sede del potere imperiale. (S.L.L.) 

Il miracoloso legame tra la vecchia e la nuova Cina

 Raniero Panzieri, 1955

Giovedì 6 ottobre.


Visita alla Città proibita, immensa, ora in parte sede del governo popolare, in parte museo, in parte bellissimo parco. Il direttore che ci accompagna è un tipo di intellettuale raffinato, vecchio stile, che a noi richiama l’immagine banale del mandarino. Alla fine della visita, quando ci spiegherà che cosa ha dovuto fare il governo per mettere in ordine la Città e il museo, quando ci dirà con lunghissime pause la depredazione e la devastazione compiute da Chiang Kai-shek, rivelando nello stesso tempo una forte e fine cultura storica e artistica, un gusto appassionato per l’arte cinese classica, ci rappresenterà ancora una volta il miracoloso legame della vecchia e della nuova Cina.



Purtroppo le opere di pittura, i bronzi, le porcellane, le giade, gli avori, quasi tutto è stato portato via da C. K. S. Il governo popolare sta ricomprando le opere quando e dove può, in America soprattutto. Vi sono tuttavia cose molto belle, una pittura soprattutto su seta, della dinastia Chang, lunghissima, con scene della vita in campagna e in città, che rivela una specie di fortissimo Bruegel. E dovunque, nella pittura in particolare, senti anche nelle opere di corte più stilizzate un’arte forte, piena di carica intellettuale e satirica, un’arte la cui raffinatezza non è quasi mai astratto bizantinismo. Ritrovi dappertutto nell’arte cinese il segreto dell’opera di Pechino, di uno spettacolo sviluppatosi all'ombra della Città proibita, sotto la protezione della corte, e tuttavia profondamente legato all’anima della nazione, impregnatissimo, e talora quasi apertamente espressivo di un atteggiamento di ribellione popolare ( gli eroi, la giustizia, la vendetta). E il profondo legame dell’arte figurativa, anche nelle arti minori, della decorazione, e dell’architettura con il paesaggio cinese, con la natura, è la conferma del suo carattere profondamente realistico.



Pomeriggio, visita nella via degli antiquari e ovvie scoperte. Liang è un amatore e ci spiega come questo sia il momento migliore per comprare cose antiche.



Visita alla stamperia d’arte. Ancora un simbolo della ricerca del governo popolare di riportare alla luce tutte le tradizioni artistiche e culturali, ma una ricerca in cui non c’è nulla di sforzato, di retorico, di propagandistico. In questo caso non ha fatto che fornire un aiuto e soprattutto valorizzare un artigianato artistico che stava per perire.

In Raniero Panzieri, L'alternativa socialista, Scritti scelti 1944-1956, Einaudi 1982

 

IL GIORNALISMO DI MATILDE SERAO

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Politica e sentimento. Il giornalismo di Matilde Serao 

Lucio Villari

Proprietario e direttore di un quotidiano romano, “Il Tempo” (giornale « fatto senza troppa finezza e senza troppi scrupoli » e tuttavia molto diffuso), Riccardo Joanna resiste alla pressione di alcuni Uomini politici che vogliono comprare il giornale per un milione di lire (siamo alla fine del secolo scorso). È il principio della fine: “Il Tempo” va a rotoli e Joanna, chiudendo la sua giornata, consiglierà, mestamente, un giovane amico apprendista a trovarsi un altro mestiere. «Non posso, disse questi con voce grave. — Farò il giornalista».
Questo direttore sconfitto è il protagonista di uno dei rari «romanzi del giornalismo» della nostra letteratura: La vita e le avventure di Riccardo Joanna (1887). In esso Matilde Serao ha manifestato la sua idea di un giornalismo vissuto, anzitutto, come «sentimento», come rapporto sensitivo, indi-pendente, perfino, dai contenuti, culturali o politici, che in un giornale vanno comunque versati e dal giornale debbono scaturire. Tale visione, ruvida e calda, la Serao la porterà con sé nella varia attività di giornalista e di direttrice congiungendola, con grande naturalezza, all’abilissimo mestiere del giornalista-marito Edoardo Scarfoglio, insuperabile confezionatore (insieme ai figli Carlo e Paolo) del “Mattino” di Napoli.
E quando, lasciato II Mattino, la Serao si trovò sola con se stessa e con la letteratura, rivendicò presto la sua identità fondando, nel 1904, un nuovo giornale, “Il Giorno”, che negli anni immediatamente precedenti l’avvento del fascismo volle mostrare un aspetto bonario della borghesia meridionale e fu, come è stato osservato, «il rovescio pacifico ed accomodante della medaglia del Mattino ».
Una medaglia, “Il Mattino”, da tenere gelosamente in collezione perché vi è sbalzata molta parte della storia d’Italia a cavallo tra i due secoli dalla «grande frustrazione» meridionale ai più violenti spiriti militaristici e imperialistici della borghesia di Crispi. Scarfoglio e la Serao si intendevano a perfezione quando si trattava di eccitare gli animi dei lettori a «egregie cose» quali le spedizioni coloniali e la sottomissione di inermi popolazioni abissine. Dalla penna della Serao fiorivano, talvolta con pseudonimi, guarda caso, maschili, articoli fiammeggianti (« Non vedete — scriveva nel 1895 —• come l'Italia vuole dare [in Africa] il suo sangue? Non vedete che vogliono morire e lo richiedono, ridendo e cantando"? »). A loro giustificazioni deve però dirsi che lo stato di approssimazione incosciente con cui i nostri governi liberali organizzavano aggressioni colonialistiche diminuiva di molto la responsabilità morale e politica n di alcuni giornalisti entusiasti.
“Il Mattino era comunque il giornale più diffuso del Mezzogiorno e aderiva molto bene sia alla tradizione che alle variazioni della società napoletana. «Gli Scarfoglio - dirà poi Gramsci — erano dei giornalisti nati, cioè possedevano quella intuizione rapida e “simpatica” delle correnti passionali popolari più profonde che rende possibile la diffusione della stampa gialla ». Ed è singolare che di ciò fossero capaci Scarfoglio e la Serao che non erano napoletani e ohe avevano maturato la loro esperienza di giornalisti in un clima sociale molto diverso, quello di Roma. Questo fa pensare che l’opinione pubblica meridionale, la «cultura media» del Mezzogiorno si trovassero, alla fine dell'Ottocento e agli inizi del secolo nuovo, in uno stato di ipersensibilità, di tensione politica, di volontà di «separazione» dal resto dell’Italia, insomma in una condizione tale da costituire il luogo ideale per un giornalismo tendente a formare più che a informare. E non è detto che questo non fosse il prodotto della depressione economico-sociale del Mezzogiorno; solo che quel misto di inquietudine e di dilettantismo, di popolarismo e di chic europeo di una certa Napoli che “Il Mattino” interpretava in modo agile e moderno formano qualcosa di più sottile, una particolare ideologia, venata di nostalgie conservatrici e di spiriti avventurosi e guerrieri, sulla quale sarebbe utile indagare non con puntigliosità scolastica ma semplicemente con curiosità storica intelligente.
La posizione politica della Serao giornalista, ad esempio, ha avuto delle evoluzioni che non sarebbero comprensibili al di fuori di quella trama ideologica «sui generis». Come direttrice del “Giorno” ella aderì, sostanzialmente, alle posizioni di Nitti, cioè a un certo radicalismo progressivo che lei però (ecco l’ideologia) riusciva a smussare con dei tocchi conservatori. Il disegno nittiano di un Mezzogiorno riscattato da un moderno capitalismo industriale veniva diluito dalla Serao in una visione più «dégagé» delle necessità dello sviluppo economico del Sud.
La grande fiducia nell’intelligenza dei meridionali, nel loro trasformismo politico, era anche alla base dell’atteggiamento del “Giorno” nei confronti del fascismo montante. Un fascismo che la Serao e i suoi collaboratori (tra i quali vi fu anche Luigi Salvatorelli) ritenevano potesse essere addormentato, prosciugato dei suoi elementi di violenza e restituito come strumento di potere neo-liberale e antisocialista. «Il fascismo — scriveva “Il Giorno” nel 1921 — è un errore che va a schiacciarsi contro un altro errore e dai quali, simultaneamente, il buon senso paesano ha il dovere di guardarsi ».
È facile parlare di qualunquismo «ante litteram», in verità questa posizione morbida e annoiata della Serao nei confronti del fascismo è stata il perno della maggior parte dell’antifascismo italiano, quell’antifascismo borghese del «buon senso» che ha orientato non solo molte coscienze durante la dittatura ma molte strutture di potere della nostra repubblica. Con i risultati che sappiamo.
Non dimentichiamo, infatti, che molte antipatie antifasciste nascevano, specie nel Mezzogiorno, non dal dissenso politico nei confronti della dittatura ma dal fastidio per quel tanto di «popolare» che vi era nelle opere e nei giorni del regime. L’esperienza politica e giornalistica dell’ultima Serao va dunque valutata come un documento importante della nostra storia contemporanea.
“la Repubblica”, 21 febbraio 1977

F. NIETZSCHE E B. SPINOZA

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Sono assolutamente sbalordito, incantato! Ho un predecessore, e quale poi! Spinoza mi era quasi sconosciuto: il fatto che io ne abbia sentito ora il bisogno è stato un “moto istintivo”. Non soltanto il suo orientamento complessivo coincide con il mio – nel fare della conoscenza l’affetto più potente – ma io mi riconosco anche in cinque punti fondamentali della sua dottrina; questo pensatore, il più singolare e il più isolato, è quello più vicino a me proprio in queste cose: egli nega la libertà del volere –; i fini –; l’ordine morale del mondo –; l’altruismo –; il male –; anche se le differenze naturalmente sono enormi, esse tuttavia risiedono più nella diversità dei tempi, della cultura e della scienza. In summa: la mia solitudine , che, come accade alle grandi altitudini, tante e tante volte mi ha tolto il respiro e mi ha fatto sgorgare il sangue, ora almeno è una solitudine a due. 
 
F. Nietzsche a Franz Overbeck, 30 luglio 1881





ALFONSO GATTO, Tutto dice e nulla sa

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Nel mondo l'uomo che guarda il lavoro
degli altri, e tutto dice e nulla sa,
in piedi con la sua catena d'oro ...

Nel mondo l'uomo che guarda il lavoro
degli altri, e tutto chiede e nulla dà,
in piedi con un sigaro di fuoco …

Ma tu bambino sai anche per poco
com'è contento un operaio, avrà
dentro le mani il filo del suo gioco,
la dolce lena dei volani, il canto …


da Il sigaro di fuoco, Bompiani, 1945

JEAN GENET LADRO D'AMORE

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Torna l’autobiografia dello scrittore francese che, dalla strada, conquistò Sartre e i salotti di Parigi. Ne presentiamo parte della prefazione.

Walter Siti

Ladro d’amore 

Chi ha conosciuto l’ossessione erotica non può rileggere Genet senza sentirsi personalmente coinvolto ma anche, purtroppo, senza sentirsi un disertore: al di là delle differenze caratteriali e di talento, ambientali e biografiche, Genet lo interpella direttamente, gli chiede conto degli escamotages con cui ha cercato di morire per rinascere, venendo a patti con la normalità della maggioranza e col passare degli anni. Genet scrive a partire da una condizione psicologica del tutto particolare e minoritaria, incontra personaggi estremi ma la sua scrittura tende al generale, all’assoluto: ha l’intemporalità di un classico.

Il romanzo della sua autobiografia non si intitola “diario di un ladro” ma “Diario del ladro”: non importano l’esattezza o la completezza delle informazioni, né la consequenzialità temporale e logica delle vicende, né tantomeno la giustificazione del medico o del sociologo, importa la fissazione di un mito. «La sua autobiografia» scrive Sartre «è una cosmogonia sacra: non racconta fatti, ma riti».
 
 
La scrittura di Genet non si abbassa alla cronologia, disprezza il servilismo della chiarezza, la banalità dei tessuti connettivi: va dritto a ciò che gli tronca il fiato. L’ossessione erotica è un esercizio prolungato di apnea, è l’attesa spasmodica e senza fine di quel che può solo deludere; l’ossessione nega la realtà ma ha bisogno di rinfacciare continuamente alla realtà la colpa di non essere sufficiente; è l’intensità vitale proiettata su ciò che è morto da tempo, o non è esistito che come mitica mancanza.

Genet ha trentaquattro anni quando conosce Sartre ed è stato scarcerato da pochissimo (gli resta qualche mese di condanna che non sconterà mai, e i suoi nuovi amici intellettuali gli otterranno, per l’ennesimo furto, la grazia presidenziale); ha già conosciuto Cocteau, folgorato dal poema Condannato a morte, e la sua fama di “scrittore criminale” si diffonde rapidamente a Parigi – le signore lo invitano nei loro salotti, deliziosamente titillate dal brivido di poter essere “rapinate” di qualche soprammobile.

Genet gioca la sua parte col misto di astuzia e imbranata ingenuità che gli è proprio; per essere un cronico, naturale dropout il suo successo editoriale sarà sorprendente: grazie a un abilissimo agente letterario le sue opere sbarcheranno negli Usa verso la metà degli anni Cinquanta e influenzeranno la beat generation.

Ma Genet è fisicamente, quasi geneticamente refrattario all’integrazione; lui stesso ne chiama a testimone la propria faccia, quel «naso schiacciato non dal pugno d’un uomo ma per aver urtato contro i cristalli che ci tagliano fuori dal vostro mondo». (Il “noi” si riferisce contemporaneamente ai delinquenti e agli omosessuali, in un nesso causale, elettrico e amoroso che Genet non metterà mai in discussione.)
Ma con Sartre le cose si fanno più complicate: non è solo un mentore, un protettore, un maestro; per Sartre, Genet è anche una cavia su cui applicare quel metodo di “psicanalisi esistenziale” a cui affida un ruolo notevole nella sua visione filosofica complessiva. Ci ha già provato con Baudelaire, si porta dietro da anni il progetto di un lavoro monumentale su Flaubert; l’esplosione improvvisa del “caso Genet” lo porta a scrivere (uscirà nel 1952) un libro di settecento pagine, Saint Genet comédien et martyr, che sarà per Genet stesso un segno di gloria raggiunta e una formidabile trappola. [...]

Il rapporto di dare e avere tra Sartre e Genet, nelle conversazioni tra il 1944 e il 1952, è molto complesso: a Sartre appartiene l’invenzione del “mito originario”, fissato nell’episodio di quando, all’età di dieci anni, il piccolo trovatello viene sorpreso a rubare dalla famiglia adottiva. Quello, per Sartre, è l’istante che tornerà sempre nella vita di Genet, inchiodandolo all’icona del “ladro”, costringendolo a diventare ciò che gli altri vogliono che sia, a recitare continuamente la parte di se stesso; da lì deriverebbero anche i modi della sua sessualità, “bloccata” sull’apparenza e attratta da esseri deboli che a loro volta recitano la parte dei bruti, in un claustrofobico gioco di specchi.

Lo sdoppiamento sarebbe la figura tipica della sua letteratura, la negazione di sé in quanto soggetto libero. L’acume critico è indubbio, coglie con precisione violenta il nodo centrale: e Genet lo riconosce, lo fa proprio, esagera in sartrismi. [...] Eppure, con la sorda ostinazione dell’autodidatta di fronte a uno dei maggiori intellettuali europei, Genet resiste a Sartre, gli oppone le proprie verità; su una cosa soprattutto non cederà mai, sull’asserita (da Sartre) priorità del furto rispetto all’attrazione omosessuale [...].

Quel che colpisce nell’ossessione di Genet è l’inestricabile complementarità tra autolesionismo spettacolare (simile a quello di certi mistici, Jacopone o i “santi folli” bizantini) e attrazione per l’autoritarismo assoluto e tirannico (i guardiani del bagno penale, i poliziotti, le SS); sadomasochismo, certo, ma intinto in una tenerezza che lascia esterrefatti. [...] «Il mio libro» scrive alla fine del Diario «divenuto la mia Genesi, contiene i comandamenti che non potrò trasgredire»; il Diario non è una biografia romanzata, è il romanzo della scoperta di sé, anzi dell’invenzione di sé.
    Jean Genet

I fatti empirici sono trattati con disinvolta sprezzatura: il periodo spagnolo è molto dilatato rispetto al vero, sui sei anni di servizio militare sostanzialmente si sorvola, si narra una diserzione dalla Legione Straniera in realtà mai avvenuta. Conta il succo, non la cronaca, il momento della memoria e quello della scrittura presente si confondono; hegelianamente (ma anche proustianamente) il reale conta solo in quanto è razionale.

Tutto questo varrebbe ben poco se non fosse sostenuto dalla scrittura abbagliante di Genet: uno stile fastoso, barocco, di una ricchezza metaforica che sfida l’eccesso a ogni pagina[...]. Le metafore barocche portano in sé la metamorfosi; tutto è in trasformazione nelle pagine del Diario: la Spagna diventa Belgio, gli uomini diventano donne, le galere dimore regali, l’inverno diventa primavera, i corpi altari, santi gli assassini – «la santità consiste nel costringere il diavolo a essere Dio».

Ottenere il riconoscimento del Male per via di bellezza, questa è la missione di Genet: «Del male imporrò la visione candida, dovess’io, in tale ricerca, lasciar la pelle, l’onore e la gloria». In un’epoca poststilistica come la nostra, in cui la «forma delle parole » sembra impallidire o si trasforma al massimo in un hashtag, leggere Genet significa ritrovare uno dei compiti fondamentali della scrittura, che è quello di farci complici dell’inaccettabile.

La Repubblica – 15 febbraio 2017


LA CITTA' DEI PORCI

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Città dei porci. Il supermercato

di Davide Orecchio

(La supercarne più rossa del rosso. Più sanguinosa di una vena recisa. Più tenera di un boccone di petali. Più nutriente di tre pasti completi. La mangiano gli uomini. Ai maiali, invece, disgusta ← la sua morbidezza, la sua fragranza. Il maiale rifiuta pancarnis.)
[…]
Sul marmo dei padroni e nel cartongesso dei servi. Dov’è la conurbazione degli avi e dei posteri. Nel solco dei padri e sulla calce dei figli. Un maiale si sveglia, riprende coscienza, scioglie le cispe, si ritrova in un parco urbano che sbocca, al di là di un rondò, sull’asfalto ed è tornato in città, e dalla calotta ne riconosce il diorama e le sopravie.
Apre lo sportello dell’ignipotens e mette piede sull’erba che non è la vegetazione di ieri, ora è domestica, sintetica per la microvita della macrocittà e che disastro, o forse fortuna, potrei tornare a casa, riposare un poco, chiarirmi le idee, ma come la trovo?, dove mi trovo?← pensa Felix e scorge un edificio al di là della siepe, della strada, e vuole raggiungerlo.
S’incammina per la callaia, esce dal parco, corre sul mucchioselvaggio ma non rintraccia nessuno. La città ha zone spurie di transito tra industria e servizi che sono intervalli, che se fossero un uomo non ne troveresti il carattere, che se fossero un libro diresti: non hanno carattere. L’edificio che Felix puntava non ha carattere → il magazzino impiombato e chiuso da chissà quanto tempo; le finestre sigillate da scuri che perdono farina di legno. Non c’è nulla. E nessuno. Non c’è lavoro, non c’è voce, non c’è produzione.
Passa oltre sul mucchioselvaggio tra decine di palazzi così. Qualcosa o qualcuno incontrerò, prima o poi, ma forse è meglio di no e si scoraggia, già debole per la denutrizione, avvilito mentre le forze l’abbandonano, scoraggiato dal fatto che ogni cosa o persona si sbricioli e dissipi mentre già entra in una strada stretta, e sulle finestre dei fabbricati si ripercuote il buio di stanze deserte, non c’è vita e morte neppure, i pluviali sono secchi: dove crescono ragnatele e si riparano i topi e le blatte.
Di chiavica in chiavica, di chiusino in caditoia Felix procede tristissimo. Traspira grasso dal grugno, il sudore delle fatiche subite e che insozzano. Portoni di piombo o alluminio. Ferrocemento, gesso. Neanche il passaggio di un extracarrus. Senza tempra, senza curiosità, si muove a caso, non sa dove andare, eppure cammina. La casa vuota è lui, la strada sgombera è lui, autore del cammino nella scopatura del quartiere tra le cui immondizie c’è ancora lui che trova se stesso con la rotta, il sogno, le anime perse.
Nella coda del topo vede se stesso. Nella poltiglia vede se stesso. Nell’angolo ceneroso. Nei serrami orlati di sudicio. Nella minestra di selci e brecciame. Lo sconforta la chiazza di urina asciugata. In ogni cosa storta suona l’allarme del suo fallimento. Incontra il vetro rotto e va con meno muscoli e ossa, quasi per l’inerzia della sua storia, come se gli bastasse strisciare. Al vecchio si rompe il femore e s’accontenta di stare seduto, e accetta il decubito come forma di vita. Al cieco è sufficiente l’ascolto e ci si aggrappa. Al porco non resta che il viaggio, la necrosi del viaggio, il tormento del viaggio, il dovere del viaggio in cancrena. Così Felix passa sfiorando ed è sfocato, e non sa dove va.
Sta perdendo il desiderio di farcela. Ora s’accorge che laggiù, a tre incroci da qui, due normoarto istruiscono porci, s’imbatte in daffare. Ma li guarda come si guarda la nebbia, il proprio sonno. E non li raggiunge. Cerca aiuto ma non chiede aiuto. Preferisce dondolarsi nel prospetto d’asfalto. Tiene gli occhi rauchi sulle zampe e prende una strada ancora più stretta e riscuote giusto un chiassuolo che gli offre dove incespicare. È buio, angusto, lurido. Il vento s’incanala e solleva carta straccia, pellicole di plastica, piume, peli come se li risvegliasse ma poi, quando si ritrae, finisce col posarli e cullarli. Tra poco il vento tornerà per il circo.
Si potrebbe immaginare un budello il cui compito non sia lasciar scorrere ma trattenere, e in quest’entrame a cielo aperto, ma scortato a destra e sinistra dalle pareti alte di palazzi senza colore, installare il cammino di un maiale tra le aderenze. Si potrebbe paragonare a un rantolo l’itinerario e volgere lo sguardo per non vedere le zampe umiliate da quello che pestano. Quanto pesti però esiste con la sua puzza e la materia che s’attacca e ti contamina, e ancora la cenere, il pulviscolo, lo sterco secco, la polvere avvizzita di aeternus, le mura che aumentano e incombono, il vomito di animali randagi, le piume di uccelli dissugati, ciascuna macchia con la sua origine organica, il dovere di avanzare ed esistere anch’esso come forma di esistenza, l’ostinazione del respirare come forma di esistenza cui nessuno tiene a parte te (la solitudine come forma di esistenza fragile), l’appetito e la nausea, lo sguardo e il ribrezzo, la debolezza e l’inerzia → tutto esiste sommandosi nel porco, finché appare una fessura nel muro che chiude l’approdo del vicolo, ossia il culo di sacco.
Un imbocco. Felix lo raggiunge e inizia a studiarlo. È aperto e consente il passaggio a chi si accoccoli sulle ginocchia. Nello studio della cosa Felix un poco si sveglia, riprende curiosità e si domanda: cos’è questo buco?, sarà il caso di entrare? L’apertura getta caldo a vampate e rumore d’aria spinta da un meccanismo. Dentro è buio, ma s’intravede un tubo che potrebbe essere la conduttura di un’areazione. Accanto, per terra, c’è il sigillo che qualcuno ha scardinato. Poi Felix vede scarti di confezioni, scatolame svuotato, fagioli, foglie di rucola, pane secco, bottiglie, una latta di zucchero, barattoli di caffè, ossa posate su vaschette di polistirolo macchiate di sangue. Avanzi sparsi per terra ai piedi di un muro rosso, come digeriti ed evacuati. Sembrano i resti di un pasto e lui si accovaccia, infila la testa nel tubo, poi una mano avanti, poi un ginocchio, poi l’altra mano e l’altro ginocchio ed è entrato.
Ora striscia nel condotto nero. Gocce d’acqua, vapore al rovescio, gli cadono addosso. Scivola sulle pareti innaffiate. Urta una spalla. Ansima. Si rialza. L’aria turbina ed è il rumore dell’antro. Si graffia un po’ le ginocchia, le mani un po’, i gomiti, starnutisce nell’umido, penetra il caldo. Va all’incontrario nel ventre, dall’uscita verso l’ingresso. Ora c’è luce. Qualcosa di luce. Si vede che l’altro capo è vicino. Ma se c’è luce resta anche buio, ossia l’una definisce l’altro e il contrario. Ma è vero che la luce aumenta e il buio cala.
Non è lunga, la tubatura. È già finita. Felix è al cospetto di una grata di resina. Posa l’occhio sulle feritoie. C’è un bagliore e ancora luce, ormai la sorgente, in uno spazio bianco, pulito, attorniato da scaffali bianchi colmi di merce che Felix, lontano, non riconosce. Ma dev’essere cibo. Ma dev’essere un forum. Dei normoarto. È la strategia. I magazzini del cibo allignano nei distretti della desolazione, antifecondano pericoli, assalti, proteggono il cibo sui nastri automatici ← robot smistano gli ordini verso i funghi, verso le orchidee; i porci non frequentano i forum, ai porci la pancarnis non interessa, i forum sono vietati ai porci ma Felix, disordinato dalle coincidenze, imbrogliato da enigmi, disanimato dagli accidenti, convinto di essere un naufrago vuole verificare, vuole sapere e decide di entrare e stacca la grata (alla rete della città la grata comunica che Felix sta entrando), volge il corpo, afferra il muro, cala le zampe, le poggia sullo scaffale più alto, poi sul penultimo, poi sul terzultimo intanto aggrappandosi all’ultimo, insomma viene giù finché atterra e subito corre a nascondersi in un angolo, così che i robot non lo vedano.
Nella corsia dei viveri. È tutto bianco. Anche le confezioni. È una gondola lunga, bianca, colma di ripiani carichi di merce impacchettata nel bianco. Felix poggia le spalle su una scaffalatura. Ha fame, ma non sa che mangiare. Non vede l’erba e le ghiande fra la mercanzia, tra le scorte di viveri, bevande, piatti pronti, biscotti, etichette, il marzapane, il leccume, le pappe e tutto il bendidio, cibo in scatola, in polvere, imbustinato, surgelato, precotto, macrobiotico, le vitamine, le proteine. Ma non vede l’erba e le ghiande. Suppone l’assortimento di pseudocarni, pseudopesci e molluschi → simulacri per il desiderio polifagico, normoarto di ingurgitare creature che volassero, pascolassero, nuotassero. Immagina il ristucco, la sazietà, la nausea e gli manca il fiato. Ha fame. Ma non vede l’erba e le ghiande. Anche il più innocuo dei pani potrebbe essere intruglio. Meglio astenersi.
Ma non sa cosa cerca, cos’è venuto a verificare. Nello spazio candido. Un montacarichi s’aziona e spaventa Felix. Teme il consumo e l’abbondanza che coglie nelle provviste. I forum dei grandifrogie non sono ricchi così. Tanto spreco lo disgusta anche. E cosa c’è dentro quelle buste, torna a chiedersi? Quale vivanda elaborata? Quali forme un tempo di vita e adesso di vitto? Espositori lunghi decine di metri, alti metri su metri, nel bianco. L’intensità della luce bianca gli dà l’emicrania. Nessuna finestra. La merce come deceduta, contenitore di ex pseudocreature raffinate in prodotti inerti e forse nutrienti o forse nocivi. Un cimitero di maschere. Una messinscena in forma di pacchetto e moltiplicazione di pacchetti: bianchi.
Felix capisce il segreto di questi luoghi: è che lo disgustano, non sono adatti al suo sguardo. Ma non vede l’erba e le ghiande. Ma non sa cosa sia la pancarnis. Non l’ha mai voluto sapere, ma è l’ora di verificare e gli pare d’aver sbirciato un traguardo; è lontano e gli sembra la forma di un nastro, un punto dove la corsia finisce. Dall’altra parte invece, verso destra, non c’è nulla se non il limite della sua vista, il declino dello sguardo (non) oltre la nebbia degli scaffali e sotto l’accanimento della luce, nel bianco. Quindi lui striscia verso sinistra senza fiducia, senza coraggio, senza rumore.
Una cordigliera di prodotti immobili, se non per l’aria condizionata che solletica custodie e sposta pellicole, presiede al gattonare di Felix che si fa avanti con la cautela della testuggine e gli sembra che non debba finire più, mano sinistra e ginocchio destro, mano destra e ginocchio sinistro. Non s’alza, non si ferma né indietreggia, nello stile della testuggine → il posto è deserto. I robot lo ignorano. Di cosa ha paura? ← del sistema che intuisce appena. Paura e ostinazione: è un mescolo che lo costringe ad avanzare seppure acquattato, però senza arresti, al modo della testuggine. Ancora rumori: montacarichi, traslazioni non viste ma udite, consegne in partenza sui droni, forse una risata o un messaggio vocale l’intimoriscono e convincono a restare chino.
Eppure va avanti, mano e ginocchio, mano e ginocchio, finché arriva al nastro, che è un nastro di carni. È gonfio di rocchi, di fette e tocchetti. C’è un tagliere. C’è un tritarcarne. C’è un trinciapollo. C’è una mannaia. Cosce di pseudovitello e pseudotacchino. Quarti di bue sintetico sullo sfondo. Bistecche, fettine, lombi, fese e girelli. È pronto per il filetto, se qualcuno lo chiede; e per il macinato.
Felix alza il muso e si accorge, però, che è tutta uguale, la carne, cambia nella forma ma non nella sostanza che smaglia, più che rossa è arancione, lucida e fosforescente, affettata sulle vasche di maiolica dove l’hanno sdraiata. Forse non è nemmeno carne, ragiona Felix. E invece lo è. Quello che non è, è che non è pseudocarne. È carne, è supercarne, è pancarnis: lo spiega un display sulla testa del nastro e di Felix, che ora legge, appunto, “Pancarnis”, e la riconosce; poi il novero seguita nelle sottospecie della “pancarnis al sapore di pollo”, e della “pancarnis al sapore di abbacchio”, e della “pancarnis al sapore di tonno”. La carne camaleontica. Prende le forme desiderate. Dal desiderio. Sembra che si prostituisca. Grazie agli aromi, agli impianti genetici. È pronta a non essere nulla, pur di essere tutto. Che strane abitudini hanno gli uomini – (riflette Felix) – di mangiare cose che hanno il gusto, di altre cose, di non pretendere, il vero, ma per dettato, coscienza, lavoro sembra che sbagli, perché sul display l’elencazione prosegue finché si rivela la “pancarnis nel suo sapore”, “l’originale sapore della pancarnis, che viene dal maiale della città”, “fresco, del quinto anno”, “stagionato, in salame”.
.
“Che viene dal maiale
della città”.

Qui non ci sono
l’erba e le ghiande.

“Fresco, del quinto anno.
Stagionato, in salame”.
“Capocollo, biroldo, àrista, cotica e coppa, lardo e guanciale, spalla, nicchio, ventresca, pancetta, zampone, roventino, culatello, strutto” → nella città, sul marmo dei padroni e nel cartongesso dei servi, dov’è la conurbazione degli avi e dei posteri, nel solco dei padri e sulla calce dei figli ← il maiale si vende, il maiale si compra, il maiale si mangia e il maiale cade sul pavimento del forum, è steso, ha le spalle contro il pavimento del mondo, ha gli occhi bene aperti sul mondo, ha la bocca bene aperta per il mondo che entra nella vita nuova di Felix che era il maiale senza memoria, senza sapere, che è il porco il quale oggi vede → un ologramma sulla testa del nastro e della pancarnis, come a riprodurre pubblicità del Novecento, mostra una donna dentro la casa di un fungo di città alta, nella sua zona di alimentazione, che taglia una fetta da un insaccato non molto diverso da quelli del capanno del bifolco nel bosco, e la offre a suo figlio che se l’infila in bocca, l’assapora, la scioglie e dice buona! con gli occhi.
{ “L’originale sapore della pancarnis, che viene dal maiale della città”. }
I normoarto dicono buona con gli occhi mentre dal pavimento del mondo, rannicchiato tra quello e lo scaffale come uno che giochi a nascondino, sdraiato pancia a terra e la fronte sul braccio, Felix urla No!; Cos’è questa vita? – piange Felix–, che sta succedendo? E l’ologramma prosegue. Il prosciutto dalle mani della madre al palato del figlio. Le ghiottonerie. I volti felici. La buona educazione dei normoarto. Le frasi fatte. Il sapore di carne. Il sapore nuovo. La mortalità. La ferocia. Il potere. La cosmesi. L’ipocrisia. Il prezzo della carne. Non voglio guardare, non voglio sapere. La luce bianca Astroeclissi™. Il colore arancione che smaglia. La verità. Il gusto dell’uomo, la sua gola. Il condimento, la conserva. I grani di pepe tra i denti, le scorie di pelle. Il grasso. Il sale, la sete.
E si sente piangere. Si sente un lamento. Viene dal basso. Tradisce un grugnito. Un pianto che si nutre del lamento e cresce per autogenesi. Si gonfia. Si fomenta. Allora si muove un robot. Viene avanti dal nastro, si tiene al centro del corridoio. Guarda in basso. Dove il pianto aumenta. Il pianto si sfoga. È desolato e ascoltandosi s’affligge. È un pianto che stride ed erutta. Si ascolta, non trova nient’altro da ascoltare e perciò piange. La fronte sul braccio per non vedere. La pancia a terra. Le ginocchia fredde. Il moccio interrompe il respiro. Fiotti di gemiti dalla gola usata per respirare, che invece prorompe.
Il robot si china, vede il maiale. I denti, la polvere, le unghie. La verità. L’abbandono. Il derelitto sotto lo scaffale. La vita come un movimento dal passato che poi imbocca il culo di sacco. Il pianto ha solo il pianto. Mangia pianto, beve pianto, lo respira. Il pianto rifiuto. Il pianto in rivolta, senza la forza né la violenza. Il pianto si rannicchia e non vorrebbe esibirsi, ma scoppia la reazione dell’individuo dentro la natura del corpo (per uscirne e gridare pianto): col pianto. Così ogni singhiozzo e convulsione sfugge a un domatore sconfitto. È stato inutile acquattarsi. Senza effetto piangere tra il muro e lo scaffale. È superfluo nascondere gli occhi nel braccio. Ormai il pianto è pubblico. Il lamento del porco nel forum degli uomini tra pezzi di carne e il robot. Il pianto spettacolo.
Il robot continua a osservarlo: un maiale accucciato che piange in un forum, dove non dovrebbe essere ← riceve il comando di portarlo via. E il pianto, che ascoltava il comando, aumenta in un grido. Adesso viene una percussione dal corridoio gondola. Passi, tacchi robotici. Oggetti spostati. Impazienza. Cade qualcosa. Il pianto non smette. Ora cambia ritmo per la stanchezza di corde vocali e trachea. I gemiti rimbalzano tra le pause come polpette. Silenzio, polpetta gemito, silenzio, polpetta gemito. Il pianto di Felix rovista nel corpo di Felix. Corre nelle caverne in cerca di consenso:è giusto che io pianga e mi disperi?, trova consenso e riemerge per enunciare il suo pianto.
Piangendo, il pianto si spiega. Chiunque ascoltandolo capirebbe perché piange. Ma come posso parlare il suono del suo pianto? Tu riesci a sentirlo? Il dettato? I segni non emettono suoni. E io sono debole. Penso a un soldato sulla spiaggia di sangue, il corpo maciullato, la gamba divelta; prima gridava, ma ora s’è sfiatato e tra poco rantolerà. Il pianto protesta. I passi sono il galoppo di un branco e ora si fermano. Il branco è arrivato. Altri tre robot che s’aggiungono al primo. Due afferrano la zampa destra di Felix. Due la zampa sinistra. Lo tirano. Un maiale tappeto. Felix pensa solo al pianto. Rifiuta di mettersi in piedi. Rammollisce, non cammina. I robot lo issano per la schiena e lo portano in alto. Le mani di plastica come puntelli e materassi per Felix che ora sta a pancia in su vicino al soffitto. Nella luce, nel bianco, nel pianto.
Inizia la marcia. Verso l’uscita. Felix vivo e lagnoso ma trincerato dietro agli occhi e nel pianto. Trasportato in silenzio. L’unico suono è il suo pianto. Felix esanime se non per il pianto che cola sui pori della pelle e la irriga ed entra per le labbra nella bocca che respira e geme; anche sui robot ne cola un poco. Lambiscono merci. Sul corridoio lungo. Salame e bistecche colmano il suo (non) sguardo. Felix portato sul dorso. Le braccia scivolano, penzolano, sfiorano le spalle robot. Nelle zampe inerti si arrende. Le zampe denunciano la forza che gli è mancata. Non sono zampe. Chiamale mani. Gli zigomi rossi. Il sudore. Una smorfia lo modifica a tal punto da sembrare un ghigno e si somma al piagnisteo che, cantilenato, assomiglia a uno sfottò, a un’isteria, a un piantoriso. Invece non ride affatto. Piange il suo pianto.
Il torace palpita. Mica solo il cuore. Il ventre, il petto e i polmoni. La carotide. La mandibola. La processione come una lenta nuotata sul dorso nella corsia. Se ci fosse acqua a portarlo e una leggera corrente, e non i robot, allora piangerebbe l’acqua che lo sospinge. Il pianto sarebbe il suo fiume. Ma anche adesso non è diverso, visto che piange. Ghermito, il grugno puntato verso il soffitto, la testa calva e rosa che ha perso il cappello, le fauci insalivate, le unghie svenevoli, il verro si concentra su quanto lo spezza, sebbene lo pensi con riserbo e senza dirlo se non col pianto: sono solo, chi non lo sarebbe se scoprisse di stare al mondo per lavorare e poi un giorno essere mangiato?
Ed ecco l’uscita. La luce naturale. La sfocatura della città bassa. Scendono una rampa di scale. Ora Felix s’irrigidisce e sembra un cadavere. Apre gli occhi. Vede le guglie di città alta. I robot lo posano su un ignipotens. Salgono con lui due robot. L’ignipotens s’invola. A bordo, Felix spegne l’ascolto della memoria avariata e dei fatti di oggi e di ieri, rifiuta le rievocazioni e i traumi che ora sono orfani della mente (la madre adottiva) e della realtà (la madre naturale). La realtà è la madre naturale di ogni turbamento, ma la madre adottiva è la mente che alleva e tiene in vita il ricordo del dolore, un’altra forma di dolore, finché si fortifica ed è adulto. Succede però che la madre adottiva si consenta pause e rifiuti il ricordo, come adesso Felix lo esonera.
Parlerà e piangerà ancora, e denuncerà? Silenzio, il maiale riposa.

DAVIDE ORECCHIO

Da  https://www.nazioneindiana.com/2017/03/03/citta-dei-porci-il-supermercato/?pk_campaign=feed&pk_kwd=citta-dei-porci-il-supermercato&utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+NazioneIndiana+%28Nazione+Indiana%29

Parte 1: l’appartamento, la città
Parte 2: una gita in campagna

(Foto: Pig slavesDoctor Who; fonte: http://tardis.wikia.com/wiki/Pig_slave)

LE TRE PASSIONI DI B. RUSSELL

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“Tre passioni, semplici ma irresistibili, hanno governato la mia vita: la sete d’amore, la ricerca della conoscenza e una struggente compassione per le sofferenze dell’umanità. Queste passioni, come forti venti, mi hanno sospinto qua e là secondo una rotta capricciosa, attraverso un profondo oceano di dolore che mi ha portato fino all’orlo della disperazione.

Per prima cosa ho cercato l’amore, perché dà l’estasi, un’estasi così profonda che spesso avrei sacrificato tutto il resto della vita per poche ore di una tale gioia. L’ho ricercato anche perché allevia la solitudine, la solitudine paurosa che induce l’io cosciente a affacciarsi rabbrividendo sull’orlo del mondo per fissare lo sguardo nell’abisso freddo e senza fondo dove non c’è più vita. L’ho cercato infine perché nell’unione dell’amore ho visto prefigurato, quasi in mistica miniatura, il paradiso che santi e poeti hanno immaginato. Questo è ciò che io ho cercato e benché possa sembrare cosa troppo buona per una vita umana, questo è ciò che infine ho trovato.

Con uguale passione ho cercato la conoscenza. Ho desiderato di conoscere il cuore dell’uomo. Ho voluto sapere perché le stelle brillano. Mi sono sforzato di rendermi conto della potenza già intuita da Pitagora, che assicura al numero il dominio sopra il fluire delle cose. In parte, in piccola parte, vi sono riuscito.

L’amore e la conoscenza, nella misura in cui sono stati possibili, conducevano su verso il cielo. Ma la compassione mi ha sempre riportato sulla terra. Gli echi di grida di dolore risuonano nel mio cuore. Bambini che muoiono di fame, vittime torturate dagli oppressori, vecchi indifesi considerati dai figli un peso insopportabile, e tutto quel mondo di solitudine, povertà e dolore trasformano in beffa ciò che la vita dell’uomo dovrebbe essere. Provo lo struggimento del non poter alleviare questi dolori, e anch’io ne soffro. Questa è stata la mia vita. Trovo che sia valsa la pena di viverla, e la rivivrei con gioia se me ne fosse offerta la possibilità.”

- Bertrand Russell, L’autobiografia 1872-1914

UN INTERESSANTE DOCUMENTARIO SULLE LOTTE CONTADINE DEL PASSATO

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Sabato 04/03/2017 alle ore 18,00 presso i locali del Castello di Marineo sarà proiettato un film-documentario sulla sommossa dei Fasci Siciliani del 1894, girato dalla RAI a Marineo e Corleone nel 1971 ed al quale ha partecipato un gruppo di ragazzi di Marineo. Seguirà un breve dibattito e delle testimonianze su quell’esperienza.
Cogliamo l'occasione per ricordare quanto abbiamo già scritto sull'argomento:




GIOVENTU' MASCHERATA, MORTIFICATA, INVECCHIATA.

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“Nella vita che viviamo ogni giorno sono poche le cose belle. Il lavoro difficilmente è bello. L’universo cittadino è insopportabile. La nostra esistenza è fatta di tante piccole cose mediocri o dolorose. Che cosa resterebbe di bello intorno a noi (oltre alla natura e alle opere d’arte?). La gioventù. Ebbene questa gioventù ci appare oggi mascherata, mortificata, invecchiata.”

Pier Paolo Pasolini - Intervista di Massimo Conti, «Panorama», 8 marzo 1973.

CORRUZIONE AD ALTISSIMO LIVELLO

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MA COSA AVEVA DI MAGICO IL GIGLIO FIORENTINO?

      Giungla d'appaltoèil titolo de "Il Manifesto"; ancor più feroce quello di “Repubblica”: Corruzione ad altissimo livello;scontato quello del“Fatto Quotidiano”:  Giglio oscuro. 
      Avrei preferito che Renzi venisse sconfitto politicamente piuttosto che da un’inchiesta giudiziaria. Ma, così vanno le cose nel Bel Paese, e non è la prima volta che accade una cosa simile! fv

        Di seguito potete leggere l'articolo di un editorialista di lungo corso che ha lavorato nei principali quotidiani nazionali che hanno spalleggiato, fino a ieri,  l’astro fiorentino:
 


 "Ora che il caso Consip-Romeo ha toccato il ministro Luca Lotti e Tiziano Renzi, si affacciano domande non trascurabili. Le accuse della procura appaiono precise e sostenute da prove non approssimative. E' ovvio che gli accusati e i sospettati hanno i loro diritti, il primo dei quali consiste nel non essere condannati anzitempo dalla macchina mediatica. Ma non si renderebbe un buon servizio alla verità edulcorando le notizie che arrivano dall'inedito asse Napoli-Firenze. Soprattutto perchè sta emergendo il reticolo di un sistema di potere famelico, spregiudicato e del tutto privo di etica pubblica. Qui si misura quanta retorica ci sia stata nell'approccio 'nuovista' degli ultimi anni, dietro il quale è mancato un reale rinnovamento morale del costume politico. E' lecito domandarsi le ragioni di questo cinismo senza valori che contribuisce a uccidere le speranze dei giovani. Poi non c'è da stupirsi se questi stessi giovani disdegnano la politica, e irridono il referendum sulle riforme presentate come il passaporto verso la Terra Promessa. (...) E' sempre buona norma tenere a bada i familiari, in Italia come in Francia. L'attivismo affaristico di Tiziano Renzi, al di là delle sue eventuali responsabilità penali nell'affare Romeo, appariva molto inopportuno già da tempo. Adesso è diventato il macigno su cui il figlio può inciampare nel momento più delicato della sua carriera politica. I nomi di Lotti e di Tiziano, l'amico più stretto e il padre, pongono Renzi di fronte ad una precisa responsabilità: chiarire quel che c'è da chiarire in una vicenda assai limacciosa, prendere le distanze dalla zona d'ombra, rispondere senza arroganza a quanti in queste ore gli rivolgono attacchi politici. Per esempio, Renzi deve spiegare perchè accettò un finanziamento da Alfredo Romeo per la sua Fondazione Open, quando Romeo era già noto alle cronache processuali. Nessun figlio deve pagare per le colpe del padre. Ma esistono situazioni in cui la reticenza può essere fatale, come adesso di fronte all'evidente risvolto politico dell'inchiesta di Napoli. Nè può bastare dire 'ho fiducia nei magistrati' e poi tacere ad oltranza. L'omaggio formale e generico alla magistratura è un vecchio manierismo che non porta lontano. Renzi ha sempre considerato l'opinione pubblica la fonte del suo potere, ben oltre i rituali di partito. Ma è proprio l'opinione pubblica che vuole vederci chiaro in questa torbida storia.
 ( Stefano Folli, Matteo Renzi esca dalla nebbia, La Repubblica, 2 marzo 2017)

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