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DOCUMENTARIO DI FRANCO MARESCO SU LETIZIA BATTAGLIA
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AL TEATRO DITIRAMMU VA IN SCENA LA STORIA D'ITALIA
Storia dell'unita'd'Italia...di quella che sui libri non la trovi
10-11-12 marzo al teatro ditirammu palermo
bisogna prenotare..il teatro e' piccolo
Di Maurizio Bologna
Violino Katia Calogero Katia Tuzzolino Raineri
Chitarra Salvo Capizzi
Percussioni Alessio Tarantino
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Cosa è la CONSIP?
Molti non sanno cosa sia la CONSIP. Proviamo a spiegarlo in poche parole, anche per comprendere meglio l’indagine in corso della Magistratura che ha condotto all’arresto di un imprenditore napoletano e agli accertamenti in corso sulle responsabilità di tutti gli altri soggetti coinvolti nella vicenda.
La CONSIP è la centrale unica acquisti della pubblica amministrazione , una s.p.a. con un azionista unico che è il ministero dell'Economia e delle Finanze.
Che la CONSIP - salutata dai soliti noti come strumento che avrebbe garantito trasparenza negli appalti ecc - fosse un baraccone era noto a molti. In tempi non sospetti le solite cassandre hanno provato a segnalare che la consip sarebbe diventata un ulteriore strumento di accentramento di potere e affari e quindi un catalizzatore di corruzione ...ma sappiano quale fine fanno in questo paese le cassandre... non basta copiare e male la normativa dei paesi del nord europa per risolvere l'atavico problema del malaffare, di politici/dirigenti corrotti, è tutto un sistema che deve essere cambiato fin dalle fondamenta, non serve a nulla mettere toppe e toppe su un vestito ormai consunto per salvare le apparenze...
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CHI DICE MAI...
foto di John Thomson
Un anno fa:
Chi dice mai
Che sono io che lo voglio
Questo distacco, questo viver lontano da te?
Le mie vesti odorano - ancora dello spigo che mi donasti,
La mia mano tiene ancora la lettera che m'inviasti,
Intorno alla vita porto sempre una doppia cintura;
Sogno che essa ci lega entrambi in un unico nodo.
Non lo sapevi tu che la gente nasconde l'amore
Come un fiore troppo prezioso per essere colto?
Wu-ti dei Liang
(464-549 d. C.)
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CARCERE E MAFIA NEI CANTI POPOLARI RACCOLTI DA ANTONINO UCCELLO
Antonino Uccello
Il sistema mafioso nei canti popolari e nel teatro. Studi e considerazioni in merito
Il fenomeno mafioso fu denunciato socialmente per la prima volta in un teatro, nel lontano 1863, con
l’opera di Giuseppe Rizzotto intitolata I mafiusi di Vicaria. ![16388549_10209920866436864_160948430_o]()
Fu un successo con ben 300 repliche sul territorio, e Rizzotto vestì per la prima volta il mafioso d’una accezione negativa, delineandone la mentalità e facendo, così, un meticoloso lavoro pedagogico.
Per ben comprendere un fenomeno così complesso come quello mafioso, altrettanto importante a livello demologico, storico e pedagogico è il lavoro svolto dall’antropologo e poeta Antonino Uccello che raccolse tra le carceri dei vari paesi dell’entroterra siciliano i canti dei carcerati e dei malavitosi riscontrando non poche difficoltà nella sua fase di ricerca.

Fu un successo con ben 300 repliche sul territorio, e Rizzotto vestì per la prima volta il mafioso d’una accezione negativa, delineandone la mentalità e facendo, così, un meticoloso lavoro pedagogico.
Per ben comprendere un fenomeno così complesso come quello mafioso, altrettanto importante a livello demologico, storico e pedagogico è il lavoro svolto dall’antropologo e poeta Antonino Uccello che raccolse tra le carceri dei vari paesi dell’entroterra siciliano i canti dei carcerati e dei malavitosi riscontrando non poche difficoltà nella sua fase di ricerca.

Per lui, “una serie di apologhi, di canti e proverbi popolari documentano in modo impressionante lo stato di sfiducia verso la giustizia, che sta alla base delle fortune mafiose tra la popolazione.”
Inoltre, prosegue dicendo che “ogni canto, oltre a costituire un documento di primaria importanza, è espressione di un dramma al contempo individuale e collettivo, di cui anche ognuno di noi deve avvertire in parte il peso di una propria responsabilità “. Questi i presupposti della preziosissima fotografia lasciataci dallo studioso siciliano Antonino Uccello.
Dalla lettura del suo volume intitolato Canti di carcere e di mafia ristampato e aggiornato per la seconda volta nel 1974 si evince che il modello mafioso di quegli anni somiglia in modo impressionante a quello attuale. La forma mentis malavitosa è rimasta pressoché invariata. Il canto, visto come una produzione poetica d’enorme valore, qui presentato, ad esempio, non sembra affatto poco attuale
Inoltre, prosegue dicendo che “ogni canto, oltre a costituire un documento di primaria importanza, è espressione di un dramma al contempo individuale e collettivo, di cui anche ognuno di noi deve avvertire in parte il peso di una propria responsabilità “. Questi i presupposti della preziosissima fotografia lasciataci dallo studioso siciliano Antonino Uccello.
Dalla lettura del suo volume intitolato Canti di carcere e di mafia ristampato e aggiornato per la seconda volta nel 1974 si evince che il modello mafioso di quegli anni somiglia in modo impressionante a quello attuale. La forma mentis malavitosa è rimasta pressoché invariata. Il canto, visto come una produzione poetica d’enorme valore, qui presentato, ad esempio, non sembra affatto poco attuale
Particolare è, l’uso del termine caminannu, con il quale si vuol intendere un fraterno camminare verso il figlio, intricarsi in una situazione alquanto complicata, unitamente al termine zittu, che anticipa appunto la disponibilità di essi a raggiungere l’obiettivo in modi leciti o meno.9Sti cammari sirrati su’ canali,
a nuddu amicu meu viju viniri;
chiddi chi mi purtanu lu manciari
sunnu li me’ parenti, e sentu diri:
– Zittu, figghiuzzu meu, nun dubitari,
ca stamu caminannu pri nesciri.
All’ultimu mi sentu cunnannari:
sangu nun mi nn’arresta ‘nta li vini.Queste camere serrate son canali,
nessun mio amico vedo venire;
quelli che mi portano da mangiare
sono i miei parenti; li ascolto dire:
– Zitto, figlio mio, non dubitare,
stiamo sbrigando tutto per farti uscire.
Infine mi vedo condannare:
sangue non me ne resta nelle vene.
Il secondo canto, dettato ad Uccello da Bombaci Pasquale di Canicattini, mostra, invece, un botta e risposta omertoso tra due malfattori. Nella scena, uno dei due è appena stato arrestato
– O tu ca va, e-bbèniri num-puoi,Omertà, voglia di impunità, scarsa considerazione delle proprie colpe, sono temi ancora attuali. È una mafia che cambia restando uguale a se stessa.
c’ha fattu vientu prima o puru puoi? –
O tu che vai (in galera), da dove non potrai tornare,
hai confessato (“fatto vento”) di già o hai intenzione di farlo?
– Tu runa a-ccacciari si ‘uoi
ca vientu nun ni fazzu nné-pprima nné puoi! –
Tu bada ai buoi
ché io non ho parlato prima né intendo farlo poi!
Tra le pagine, in luce la correlazione tra mancanza di cultura e banditismo. Si fa accenno, infatti, ad uno studio condotto da Danilo Dolci. Tale studio appurava che nella zona di Partinico – Trappeto – Montelepre di 33.000 abitanti complessivamente, dei 350 fuorilegge solo uno aveva entrambi i genitori con la quarta elementare e che proprio in quelle zone si registrava maggior incidenza del banditismo a livello regionale.
Uno dei tanti modi per combattere questo sistema ben incardinato nella società è, infatti, la cultura. Lo stesso magistrato Antonino Caponnetto sosteneva che “la mafia teme più la scuola della giustizia, l’istruzione toglie l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa” e non è stato l’unico ad affermare ciò, in quanto, già diverso tempo addietro lo stesso scrittore e poeta Gesualdo Bufalino affermò che la mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari.
Oriana Fallaci, grande giornalista e scrittrice, diede un senso profondo a questa parola così tanto inflazionata quale è la Cultura, collegandola alla libertà, alla dignità ed alla coscienza civile. Per la scrittrice, Cultura significa anzitutto creare una coscienza civile, fare in modo che chi studia sia consapevole della dignità. L’uomo di cultura deve reagire a tutto ciò che è offesa alla sua dignità, alla sua coscienza. Altrimenti, continua, la cultura non serve a nulla.
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LA RIVOLUZIONE DEL 1917 PARTI' DALLE DONNE
La Rivoluzione partì dalle donne russe
«L’appello diretto a scendere in piazza era venuto da un certo Linde che scrisse così il suo nome nella storia della rivoluzione. Scienziato, matematico, filosofo, Linde era al di fuori dei partiti, era un convintissimo fautore della rivoluzione e desiderava ardentemente che la rivoluzione stessa mantenesse quanto prometteva». Così Lev Trockij nella Storia della rivoluzione russa, pubblicata nel 1932, descrisse il promotore di una dimostrazione durante la rivoluzione che cento anni fa abbatté l’autocrazia zarista.
La rivoluzione ebbe un inizio imprevisto a Pietrogrado il 23 febbraio, secondo il calendario giuliano vigente in Russia, corrispondente all’8 marzo del calendario occidentale. La giornata era incominciata con un pacifico corteo di operaie, studentesse e signore della borghesia, per celebrare la giornata internazionale della donna, mentre migliaia di donne e di operai in sciopero protestavano per la mancanza del pane, insieme ad altre migliaia di operai sospesi dal lavoro per la serrata delle fabbriche. Gli approvvigionamenti della capitale erano ostacolati dal blocco delle ferrovie per un inverno molto gelido. Nelle settimane precedenti la temperatura media era di -12 °C. La mattina del 23 febbraio un sole splendente e una temperatura mite favorirono la partecipazione delle masse alle dimostrazioni di protesta. Uno storico ha osservato che il fattore climatico «svolse un ruolo tutt’altro che indifferente negli eventi storici di quel periodo» (Richard Pipes, La rivoluzione russa, Mondadori 1995). Le fotografie mostrano donne che sfilano gioiosamente. Ma nel pomeriggio, quando alle migliaia di manifestanti si aggiunsero ancora centomila operai in sciopero, avvennero i primi scontri con la polizia. Nei due giorni successivi gli operai in sciopero erano quasi duecentomila e gli assalti della polizia furono più violenti, con numerose vittime fra i manifestanti. La protesta per il pane si trasformò in un’insurrezione popolare contro l’autocrazia. Era iniziata la «rivoluzione di febbraio».
Da tre anni la Russia era in guerra contro la Germania. Sconfitta dopo sconfitta, il più numeroso esercito del mondo, con quasi due milioni di vittime, era allo stremo, come erano allo stremo il proletariato urbano e i contadini, che formavano la massima parte dei centosettanta milioni di sudditi dello zar Nicola II. Nel 1913, lo zar aveva solennemente celebrato il terzo secolo di regno della dinastia Romanov: tre anni dopo, nessun prestigio rimaneva alla monarchia tarata e corrotta, con un despota inetto e debole, irremovibile solo nella sua ossessione autocratica, che gli impedì di accorgersi dell’agonia del suo regime.
Non se ne accorse neppure la zarina, altrettanto dispotica, che il 25 febbraio aveva scritto al consorte, lontano dalla capitale: «Si tratta di un movimento promosso da teppisti... Se facesse un po’ più di freddo sarebbero rimasti tutti a casa».
Nicola II ordinò di reprimere le agitazioni con le armi, convinto di poter stroncare la rivolta nel sangue, come aveva fatto nel 1905. Invece i soldati si ammutinarono e si unirono agli operai in rivolta. Un’immensa folla armata travolse ogni resistenza poliziesca. La violenza dilagò nella capitale con migliaia di vittime fra la polizia, i rivoltosi e la gente comune.
Il 2 marzo lo zar abdicò e due giorni dopo l’autocrazia crollò. Il potere statale fu assunto da un governo provvisorio formato da esponenti della Duma, il parlamento russo, che abolì la pena di morte, emanò un’amnistia generale, concesse libertà di stampa e di riunione, annullò le discriminazioni di religione, di razza e di classe, adottò il suffragio universale, e si impegnò per far eleggere un’assemblea costituente. Tuttavia, il suo operato fu sottoposto di fatto al controllo del comitato dirigente del Soviet, il Consiglio dei soldati e degli operai, che divenne un potere indipendente dal governo statale.
La «rivoluzione di febbraio» fu un’insurrezione popolare che nessuno aveva previsto, preparato e promosso. I capi dei partiti che da decenni lottavano per la rivoluzione furono colti di sorpresa. Trockij era a New York, Stalin in Siberia, Lenin a Zurigo. All’inizio del 1917, il quarantaseienne capo del bolscevismo aveva detto a un’assemblea di giovani operai: «Noi vecchi non vedremo forse le battaglie decisive dell’imminente rivoluzione»; quando apprese dai giornali svizzeri che in Russia era scoppiata la rivoluzione, disse alla moglie: «È sbalorditivo! È una cosa tanto incredibile e insperata!». Uno dei pochi dirigenti bolscevichi che era Pietrogrado il 25 febbraio, esclamò: «Ma quale rivoluzione? Date agli operai qualche etto di pane e il movimento si esaurirà».
Il collasso dell’autocrazia avvenne per una rivoluzione «senza capi, spontanea e anonima», osservò nel 1935 William H. Chamberlin uno dei primi storici della rivoluzione russa. Eppure, come sempre è accaduto nei grandi avvenimenti, ci fu anche l’intervento risolutivo dell’individuo: come quel «certo Linde», citato da Trockij come l’organizzatore di una dimostrazione armata, fatta il 20 aprile 1917, per incitare il Soviet a prendere il potere contro il governo provvisorio, accusato di voler proseguire la guerra imperialista. Lo stesso episodio è ricordato da Chamberlin, che parla della «grande popolarità e ascendente tra i soldati» di Linde. Ma altri storici hanno ignorato il suo ruolo nella rivoluzione russa. Dall’oblio lo ha riscattato Orlando Figes nel suo splendido libro La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924 (Corbaccio 1997), dove ha messo in risalto la parte decisiva del giovane sergente «nell’imprimere una svolta alla rivoluzione di febbraio», capeggiando l’ammutinamento dei soldati.
Nel 1922, il giornalista Nikolaj Suchanov, nelle Cronache della rivoluzione russa (Editori Riuniti 1967), definì «il soldato Linde» «un bolscevico». Linde era un rivoluzionario democratico: «La democrazia è una cosa che va difesa e per la quale si deve combattere», aveva scritto mentre si recava al fronte per ordine del Soviet con il compito di ricondurre alla disciplina i soldati disertori che spargevano il terrore. Con coraggio, Linde li affrontò cercando di persuaderli a rientrare nei ranghi e combattere in difesa della libertà conquistata dalla rivoluzione popolare. Ma alcuni disertori bolscevichi lo accusarono di essere un agente zarista e lo linciarono.
Intanto, il 3 aprile, il capo dei bolscevichi era giunto a Pietrogrado, dopo aver attraversato la Germania in treno col consenso del governo tedesco. Deciso a conquistare il potere, nel suo programma rivoluzionario noto come le Tesi di aprile, Lenin proclamò che la Russia era diventata «il Paese più libero del mondo». Otto mesi dopo, la libertà conquistata dal popolo con la rivoluzione di febbraio fu annientata, con la rivoluzione di ottobre, da Lenin e dal partito bolscevico.
Da IL SOLE24ORE, Domenica 5 marzo 2017
© Riproduzione riservata
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ANALISI DELLA STRUTTURA DI UNA FAMOSA FAVOLA
La più celebre delle favole nasconde molti significati perchè quei nani vengono da molto lontano, da una Grecia arcaica sospesa fra mito e magia. Altrettanto degno di approfondimento sarebbe "l'esoterismo" implicito nei cartoon di Walt Disney, iniziato alla Massoneria e dunque aperto all'influenza della Tradizione.
Raffaele K. Salinari
Biancaneve e i sette maghi
Nel 1812 viene pubblicata nella raccolta Kinder und Hausmärchen (Fiabe dei bambini e del focolare), a cura dei fratelli Grimm, la storia di Biancaneve ed i Sette Nani. La trama è nota: la mamma della bambina muore dandola alla luce ed il padre si risposa con una donna malvagia, una vera e propria strega che vuole ucciderla. In altre versioni, decisamente più “psicoanalitiche” e gotiche, è la mamma stessa che impazzisce di gelosia di fronte alla bellezza della figlia e la vuole morta. Fatto sta che dopo ben due tentativi andati a vuoto, oltre che assoldando un killer che però ha il cuore tenero, la madre/matrigna riuscirà a darle una mela avvelenata che la fa sprofondare in un sonno di morte.
La bara di cristallo
E allora dorme Biancaneve nella sua teca di purissimo cristallo: la pelle bianca come la neve e le guance rosse come il sangue sono incorniciate dai capelli, neri come l’ebano. Così la volle sua mamma (è questo desiderio eugenetico che la farà impazzire?) prima che lei nascesse. Ed ora la bella ragazza sembra morta anche se il suo aspetto resta splendido e incorrotto.
Eppure sino a quell’infausto incontro con la strega la vita era scorsa tranquilla nella casetta del bosco, dove la bambina inseguita dal male aveva trovata finalmente rifugio presso i Sette Nani. Ma la madre/matrigna cattiva, grazie allo specchio fatato, aveva scoperto che la ragazza era viva e in salute. Travestitasi da vecchia venditrice, allora, si era presentata alla casa dei Nani e per ben due volte aveva cercato di uccidere Biancaneve, prima stringendole una cintura in vita fino a toglierle il respiro, poi facendole passare tra i capelli un pettine avvelenato.
In entrambi i casi, però, la giovane si era salvata grazie all’intervento dei Nani, che riescono a rianimarla con le loro arti di guaritori. Ma, purtroppo, il terzo tentativo andrà a segno: una mela avvelenata verrà mangiata da Biancaneve che cadrà in catalessi tanto profondamente da farla apparire morta. E così i Nani si preparano a seppellirla; però il tempo passa e lei è sempre tanto bella… sarà anche per via della triade cromatica, nero bianco e rosso, che individua le varie fasi dell’Opera alchemica? Chissà.
E così, affinché la terra bruna non reclami quel corpo in animazione sospesa, viene costruita questa meravigliosa teca di cristallo che permetterà di vegliare la bella ragazza, se necessario sino al risveglio. Il suo sacello è dunque un manufatto che certamente ha del magico: non è facile tenere insieme delle lastre di cristallo e farle rimanere così trasparenti ed ermetiche per «tanto tanto tempo», come ci dice la favola del sonno di Biancaneve.
Ma chi l’ha costruita questa meraviglia? E come? Certamente sono stati i Nani: i Sette Nani amici e protettori di Biancaneve; abili artigiani e minatori, conoscitori degli antichi segreti che giacciono nella profondità della terra, scavatori di gemme preziose, sono anche fabbri provetti, signori incontrastati della metallurgia e soffiatori di vetro, dominatori del fuoco che plasma i metalli e ne fonde insieme le parti.
Ma chi sono veramente i Sette Nani, da dove vengono? Sappiamo bene che Walt Disney era un visionario che traeva le sue creature dalla letteratura per ragazzi ma, al tempo stesso, la sua appartenenza massonica ne facevano di fatto un iniziato a contatto con molti degli aspetti della Tradizione. Ancora si narra della sua ibernazione nelle viscere di Disneyland in attesa del risveglio (come Biancaneve e la Bella nel bosco addormentato?).
Per questo, se alcuni dei suoi personaggi sono rivisitazioni di protagonisti delle favole classiche, Peter Pan con la sua ninfa Wendy, la Bella nel bosco addormentato (questo è il titolo originario) e Biancaneve appunto, altrettanti deuteragonisti sono invece scelti perché vengono da molto più lontano, perché il loro essere emana ancora l’aura delle origini, del divino. E spesso questa deriva dalla Grecia arcaica sospesa tra mito e magia: è il caso dei nostri Sette Nani.
Lasciando da parte le evidenze numerologiche legate al sette, sulle quali non ci addentriamo perché sin troppo palesi , cerchiamo invece di risalire ai loro antenati, ai loro ascendenti mitologici: se ne studiamo le caratteristiche arriviamo chiaramente a collocarli all’interno della cosmologia della Grecia omerica.
I Telchini di Rodi
Loro sono, infatti, la trasposizione moderna, colorata e gioiosa, degli assistenti di Efeso, il dio fabbro che forniva agli dei gli strumenti del potere o delle loro gesta. Sono i Telchini di Rodi, esseri che la mitografia ci descrive come naniformi, dalle fattezze deformi, come del resto lo era il loro padrone e mentore, capaci di fulminare con lo sguardo o «gettare il malocchio» su quanti si opponevano al loro volere, ma anche di produrre, agli ordini di Efeso, dei manufatti unici e favolosi, dotati di una potenza magica ineguagliabile persino dagli dei stessi.
La loro nascita è antichissima: avrebbero addirittura inventato la falce usata da Crono per evirare il padre Urano, forgiato il primo tridente di Poseidone, ci narrano Diodoro Siculo e Svetonio (Περὶ βλασφημιῶν 4, 49). Si tramanda che in origine, prima di diventare sette, fossero tre, chiamati Oro, Argento e Bronzo, in ricordo del materiale scoperto da ciascuno e che furono infine disarmati dalla pioggia di Zeus o dalle frecce di Apollo.
Una prima ricostruzione etimologica del loro nome viene da Svetonio, che tramanda un altro appellativo diffuso per indicare queste creature, Thelgines, che deriverebbe dal verbo greco θέλγω, “incantare, ammaliare”, con riferimento alla loro natura stregonesca. In effetti si è evidenziato lo stretto legame esistente tra i Telchini e le Sirene, altre creature magiche e pericolose. (Cfr. D. Musti, I Telchini, le Sirene. Immaginario mediterraneo e letteratura da Omero a Callimaco al romanticismo europeo, Pisa 1999).
Ma i loro manufatti magici di eccezionale valore e potenza non si limitano certo al tridente di Poseidone o al falcetto che evirò Urano, dal cui membro caduto nelle acque, non lo scordiamo, nacque in seguito Afrodite, dato che afros significa non solo spuma ma anche sperma. E allora vediamone alcuni.
Demetra e Atena
Il mito narra che Demetra donò a Trittolemo, figlio di Celeo re di Eleusi, il segreto del grano per fare il pane, così come Dioniso diede a Icario quello del vino. Ma Atena, la dea guerriera, nata già in armi dalla testa del Padre Zeus, non volle essere da meno ed insegnò all’umanità come arare la terra con l’aratro per rendere il chicco di grano fecondo.
Atena dunque – dea della saggezza e patrona degli eroi guerrieri ma non della guerra, governata dall’ottuso e brutale Ares – domanda ad Efeso di forgiare il primo aratro. E così il fabbro divino inventa lo strumento col quale ella potrà donare agli agricoltori la prima e basilare tecnologia per dominare i prodotti della terra.
Ma, narra Servio nel suo Commentario dell’Eneide, che in Attica viveva un tempo una fanciulla di nome Murmix. Atena la teneva in grande amicizia perché era vergine come lei ed aveva una grande abilità manuale. Ma un giorno l’amicizia cedette il posto all’odio, come spesso accade nelle relazioni ineguali tra dei e uomini. Ecco perché: Murmix, che era al corrente dell’invenzione di Atena, l’aratro, ebbe l’audacia di rubarne il manico e si recò presso gli uomini dichiarando che esso era il pezzo mancante che avrebbe permesso loro di coltivare con perizia la terra.
La vendetta di Atena non si fece attendere: i Telchini si incaricarono di recuperare il manico e di fissarlo nuovamente all’aratro, mentre Murmix veniva trasformata in formica, condannata a vivere rubando di quando in quando un chicco di grano.
Atena deve dunque questo ruolo di «divinità tecnologica» ad Efeso ed ai suoi assistenti Nani ma, come sappiamo, in realtà deve loro molto di più: la sua stessa nascita.
La sua genesi, infatti, è tutta legata all’abilità di Efeso, anche se la relazione tra le due divinità non viene abbastanza illuminata di quella luce mitologica che, invece, tanto potrebbe ancora insegnarci. La dea è figlia di Zeus e della sua prima moglie Metis, una Titanide nata da Oceano e Teti. Metis è la divinità dell’intelligenza accorta, dell’astuzia, della capacità di valutare a colpo d’occhio una situazione, della strategia bellica. Sul piano umano l’eroe della metis è indubbiamente Ulisse, non a caso sempre protetto ed aiutato da Atena.
E così quando Metis resta in cinta di Zeus egli, ci racconta Esiodo nella sua Teogonia, semplicemente la inghiotte, perché?
Ebbene il futuro re degli dei sapeva bene che la stessa sorte che lui aveva inflitto al padre Crono poteva toccare a lui se gli fosse nato un erede abbastanza intelligente, astuto e indipendente da prendere il suo posto. Decide così di assimilare la dea dell’astuzia e di partorirne personalmente la figlia, legandola così a sé. Atena, infatti, sarà sempre legatissima al padre, arrivando a disprezzare le donne comuni ed anche le altre divinità femminili.
Ma chi farà “partorire” Zeus? Sarà appunto Efeso, forgiando prima di tutto una particolare ascia di bronzo e poi utilizzandola a colpo sicuro per spaccare in due la testa del cronide per farne uscire la figlia. Anche in questa occasione chirurgico ostetrica, saranno i suoi Nani a cercare i metalli nelle viscere della terra per creare uno strumento così potente, si badi bene, da fessurare il cranio del re degli dei.
Se pensiamo, allora, non solo a quanta abilità tecnica ci vuole per un manufatto del genere, ma a quanta potenza magica, superiore finanche alla forza divina, per farlo funzionare, capiamo che le figure “minori” che si muovono sullo sfondo delle narrazioni spesso rappresentano in realtà le Potenza archetipiche che rendono perenne la mitologia stessa.
Avrebbe trionfato Achille, pur nella sua fine tragica, come eroe indiscusso dell’Iliade, senza le famose armi? Cosa sarebbe stata la mitica figura se la madre Teti non fosse andata da Efeso a chiedergli di forgiarle? E senza i Nani dove avrebbe preso il metallo la particolare tonalità lucente che lo ha reso terribile, se questi non avessero infuso in esso la loro sapienza magica?
Si dice che le armi di Achille gettassero uno «sguardo penetrante» sui nemici; ebbene chi ha dato questo sguardo alle bronzee ermi del pelide se non i Telchini che possedevano il potere dello sguardo incantatore?
Tutto ciò deve farci riflettere su come la mitologia possa essere riletta, perché la nostra interpretazione è ancora decisamente superficiale, legata agli effetti ma lontana dall’indagare gli archetipi che li hanno determinati.
Bellerofonte e Pegaso
Un altro eroe che non avrebbe potuto compiere la sua impresa senza i Telchini è Bellerofonte. Sappiamo che il suo scopo era combattere ed annientare la Chimera, il mitico animale dalle diverse nature.
«Era il mostro di origine divina, leone la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco: e nondimeno, col favor degli Dei, l’eroe la spense» (Iliade, VI, 180-184).
Sappiamo che il mostro devastava il territorio di Patara e che il re di Licia Lobate ordinò a Bellerofonte di ucciderlo.
Ora solo l’aiuto di una animale possente ed indomabile poteva aiutare l’eroe nell’impresa: il cavallo alato Pegaso. Nato dal sangue della Gorgona Medusa, il cui capo era stato mozzato da Perseo, il mitico destriero non si faceva imbrigliare da nessuno.
E allora, ancora una volta, entrano in gioco i Telchini, i Nani magici che diventeranno poi i protettori di Biancaneve. Sono loro, infatti, a fornire ad Atena il morso dorato che permetterà a Bellerofonte di governare la sua cavalcatura e portare a compimento l’impresa.
Senza il magico morso da loro forgiato nessuno avrebbe potuto costringere il cavallo alato ad essere cavalcato e guidato.
E qui entra in gioco un altro particolare della storia di questi Nani assistenti di Efeso, e cioè il loro aspetto fisico. Abbiamo detto che sono naniformi e che somigliano anche in parte al loro padrone, che notoriamente aveva i piedi storti per via della caduta dall’Olimpo. Ma la deformità, specie se mitologica, ha sempre un significato emblematico ed a volte ambivalente; in questo caso la capacità dei Telchini di poter frequentare gli abissi marini in quanto metamorfici e dunque, all’occorrenza, dotati di pinne e chele.
Qui il parallelo tra i Nani di Biancaneve, Efeso ed i Telchini si arricchisce di interessanti particolari. Ad un certo punto della favola raccolta dai Fratelli Grimm, in una delle sue tante versioni, si descrivono i Nani come uniti ai loro strumenti di lavoro da un legame particolare, quasi simbiotico, come se questi fossero «prolungamenti dei loro stessi arti».
Ebbene i Telchini – ci dice H. Herter che nel suo splendido libro monografico Telchinen riporta l’opinione di Diodoro siculo e di Nonno di Panopoli nelle Dionisiache – hanno alla bisogna sia pinne per immergersi in mare, come le foche, o addirittura vere e proprie chele come i granchi, che consentono loro sia di scendere nelle profondità marine sia di estrarne materiale che si trova solo nelle caverne subacquee. Queste loro caratteristiche, dunque, al di là della deformità, come i Sette Nani di Biancaneve, li rendono però speciali e specificamente adatti a compiere lavori altrimenti impossibili.
Non dimentichiamoci che anche Efeso era descritto con i «piedi da granchio» cioè storti kullopodÍon.
Come ci ricorda M. Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nella Grecia antica, i granchi venivano stimati in grandissima considerazione, specie a Rodi, dato che essi venivano ritenuti quelli che ancoravano l‘isola al fondale marino. A Lemno, invece, altra isola, l’epiteto karkÍnon indicava sia la chela del granchio sia le tenaglie del fabbro, chiudendo così in cerchio analogico tra i Telchini ed Efeso.
Altro particolare mitologico interessante, diremmo quasi lamarckiano, cioè dove è l’organo a fare la funzione, i piedi del fabbro erano adattissimi, per questa loro deformazione granchiforme, a muoversi di lato così da consentirgli di passare da un mantice all’altro velocemente. Anche in tedesco esiste l’espressione krebsgang, usata da Hegel, che significa appunto camminare di lato come un granchio.
Le scarpe della matrigna
Biancaneve. La sua bara trasparente, ad un certo punto, si aprirà dopo una caduta, senza rompersi, e la bella ragazza verrà liberata dalla mela avvelenata che le era rimasta nella gola. Ancora una volta l’abilità dei Nani si rivela fondamentale anche perché, non lo dimentichiamo, l’avevano già salvata altre due volte, sempre mercé le loro arti magiche.
Ma il ruolo metallurgico, ed a questo punto anche vendicativo dei Nani-Telchini, non finisce certo con il risveglio di Biancaneve. Ed infatti sappiamo come finisce la fiaba, almeno nelle versioni originali raccolte dai Grimm: la matrigna cattiva è costretta ad indossare per il ballo del matrimonio un paio di scarpe arroventate che la costringono a ballare sino a che non cadrà morta in terra… indovinate un poco chi le ha forgiate?
Da Il manifesto – 4 marzo 2017
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F. LO PIPARO RICORDA TULLIO DE MAURO
Un gramsciano lontano dall’accademia
di Franco Lo Piparo
Tullio De Mauro aveva diverse qualità. Una era ineguagliabile. Il suo stile di vita corrispondeva alla sua produzione scientifica. Quando da giovane laureato sono andato a presentarmi da lui per fargli leggere la tesi fui accolto come mai nessuno dei professori cosiddetti democratici mi aveva accolto. Mi sono sentito subito a mio agio.
Siamo nell’autunno del 1969 nell’Università di Palermo. De Mauro non era solo un bravo professore. Era un intellettuale che interveniva sui giornali e creava opinione. Era noto fuori d’Italia. Aveva al suo attivo opere fondamentali, tradotte in varie lingue, e su cui molte generazioni di linguisti e filosofi del linguaggio si formeranno, non solo in Italia: Storia linguistica dell’Italia unita, 1963; Introduzione alla semantica, 1965; traduzione e commento del Cours de inguistique générale di Ferdinand de Saussure, 1967.
Era anche cattedratico giovanissimo e questo lo rendeva ancora più affascinante. Almeno a noi che respiravamo l’aria del Sessantotto. Naturalmente quello che per noi era fattore attrattivo non era ben apprezzato dai colleghi glottologi anziani. Amava raccontarmi con una punta di orgoglio che fu bocciato da arcigni e ignoti professori al suo primo concorso universitario. Il pezzo forte delle sue pubblicazioni era quello che da tutti è considerato un classico della storiografia linguistica: Storia linguistica dell’Italia unita. La motivazione della bocciatura fu che non si trattava di opera scientifica ma di un pamphlet politico.
La stupidità, tutta accademica, degli arcigni professori a modo suo aveva visto bene. De Mauro fu un linguista gramsciano, quanto di più lontano si possa immaginare dall’accademia. Quell’opera valutata negativamente dall’accademia, oltre che una inedita ricostruzione della storia delle vicende linguistiche dell’Italia unita, è anche un programma teorico che affonda le sue radici nei Quaderni di Gramsci.
L’ascendenza gramsciana, però, di quell’opera l’ho capita dopo, molto dopo. È accaduto quello che accade ai classici. Intercettando lo spirito profondo e nascosto di altri classici (i Quaderni nel caso specifico) costringono a rileggere con sensibilità nuova i testi che hanno ispirato il nuovo approccio. Un virtuoso corto circuito.
Alcune delle colonne portanti dell’approccio gramsciano di De Mauro alle lingue provo a elencarle.
(1) Le lingue esistono in quanto sono parlate o sono state parlate. Sembra banale ma non lo era nel panorama linguistico degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e credo che non ne siano ancora del tutto chiare tutte le implicazioni teoriche. Questo vuol dire che in ogni lingua è leggibile la storia dei conflitti e delle conquiste o delle sconfitte dei suoi parlanti.
(2) Non esiste la lingua ma la coppia lingua-parlanti. E i parlanti parlano e/o scrivono non per eseguire regole grammaticali ma per affrontare problemi che linguistici non sono.
(3) Ciò vuol dire che il senso delle parole e dei modi di dire è il protagonista delle vicende linguistiche. La semantica è la parte del linguaggio che guida le altre.
De Mauro questo lo spiega già in opere giovanili come l’Introduzione alla semantica e nella interpretazione che dà del Cours di Saussure e delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Lo approfondirà ancora meglio in Minisemantica (1982), altra opera di diffusa circolazione internazionale.
I tre pilastri esposti qui in maniera sommaria sono riassumibili nella costitutiva natura politica delle lingue. Erano due gli autori da cui De Mauro traeva suggerimenti e ispirazioni.
Uno era l’Aristotele che faceva derivare la specificità delle lingue storiconaturali dal fatto che l’uomo è animale che può vivere solo come parte di una città. “Città” in greco polis, donde la definizione di uomo come animale politikón che letteralmente significa per l’appunto “animale per natura cittadino”. L’altro era Antonio Gramsci che spiega diffusamente e analiticamente come nessun potere-egemonia può essere esercitato senza la cooperazione linguistica e, per questo, chiarisce in maniera incontrovertibile la politicità di ogni questione linguistica.
La lettura in parallelo della Storia linguistica di De Mauro e dell’ultimo Quaderno a noi noto, scritto da Gramsci nella clinica Cusumano nell’aprile 1935, è molto illuminante. Il titolo di quel quaderno era, se mi è consentito di invertire il prima e il dopo, molto demauriano: Lingua nazionale e grammatica.
L’impalcatura filosofica che qui ho tratteggiato De Mauro l’ha declinata in numerosi saggi di alta teoria ma l’ha anche tradotta impegno politico quotidiano. Convinto che la crescita individuale e collettiva non è separabile dalle abilità linguistiche è stato un attentissimo analista dei livelli culturali in cui è stratificata una società.
Penso proprio che De Mauro aveva ragione ad essere orgoglioso della bocciatura al concorso universitario perché linguista politico. Non sapendo gli arcigni glottologi che col loro giudizio univano De Mauro con Aristotele.
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G. VACCA ALL'ISTITUTO GRAMSCI SICILIANO
I "Quaderni" di Antonio Gramsci scritti nelle carceri fasciste
Prosegue all'Istituto Gramsci Siciliano il seminario sul grande pensatore sardo con due incontri coordinati da Giuseppe Vacca:
- Mercoledì 8 marzo 2017 ore 16.30
Sentieri gramsciani (IV incontro): Presentazione del volume Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci, di Giuseppe Vacca (Einaudi, 2017).
Sentieri gramsciani (IV incontro): Presentazione del volume Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci, di Giuseppe Vacca (Einaudi, 2017).
- Giovedì 9 marzo 2017 ore 16.30
Presentazione del volume Gli intellettuali nella crisi della Repubblica, a cura di Ermanno Taviani e Giuseppe Vacca (Viella, 2016)
Entrambi gli appuntamenti si svolgeranno nella sede dell’ Istituto Gramsci Siciliano (Cantieri culturali alla Zisa - Via Paolo Gili, 4 Palermo)
Istituto Gramsci Siciliano
Associazione Onlus
Sala di lettura Cantieri Culturali Zisa
via Paolo Gili, 4 - 90138 Palermo
Tel 091591523 - 091591557 fax 0916513952
www.istitutogramscisiciliano.it
info@istitutogramscisiciliano.it
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JACQUES LACAN e CATHERINE MILLOT
La vita con Lacan di Catherine Millot
di Guido MicheloneJacques Lacan, parigino (1901-1981), resta tra le figure intellettuali di maggior spicco nella Francia del XX secolo: noto come psichiatra alternativo e docente universitario, diventa famosissimo negli anni Sessanta per i Seminari all’École de la Cause Freudienne, in cui elabora direttamente teorie rivoluzionarie concernenti l’inconscio e il linguaggio.
Associato spesso allo strutturalismo e a un gruppo di studiosi come Michel Foucault, Roland Barthes, Philippe Sollers, Julia Kristeva, Maurice Blanchot che operano un profondo rinnovamento nella cultura d’Oltralpe, presto ammirata in tutto il mondo, Lacan opera una brilante sintesi fra la psicanalisi di Freud e la semiologia di Saussure, anteponendo la nozione di inconscio e procedendo verso l’abbandono della centralità del soggetto come chiave d’interpretazione del modo d’essere dell’uomo e della sua storia. Per Lacan dunque la rivoluzione freudiana consiste nel detronizzare l’Io, riconoscendo nell’inconscio la voce autentica dell’individuo, giacché chi parla nell’individuo non è propriamente l’Io, ma l’inconscio. Partendo dall’ “Interpretazione dei sogni”, l’inconscio è “strutturato come un linguaggio“, è “desiderio che diviene linguaggio” e l’analisi dell’inconscio, per Lacan, si pone quindi quale decifrazione strutturale di tale linguaggio.
Di tutto questo però non v’è traccia nel nuovo libro della psicanalista Catherine Millot, classe 1944, la quale, l’anno scorso racconta i suoi anni a fianco di Lacan, come amante, studentessa, ricercatrice (e futura collega): si decide a parlarne una volta raggiunta l’età dell’amato ai tempi della relazione (quando lei non è ancora trentenne). Ne vien fuori un ritratto pulito di un personaggio geniale e difficile, affabile con le persone ma al tempo stesso alquanto taciturno, insofferente delle lunghe attese al ristorante o in coda nel traffico. Lacan è l’uomo di cultura sia dalla capacità quasi devozionale di concentrazione assoluta sia dai mille interessi, ripartiti fra l’approccio alle lingue antiche e l’amore per le città italiane (Roma, Venezia, Milano). La Millot si sofferma volentieri su aspetti del privato quasi sconosciuti, dalla guida spericolata in automobile ai tuffi in piscina a ogni stagione, in un tentativo di descrivere un rapporto sentimentale che però nel libro sfugge, non si sa se per l’imperscrutabilità del maestro nei confronti dell’allievo o proustianamente per un tempo perduto e ora in parte recuperato, quarant’anni dopo un amore forse vero da parte di entrambi, certo molto sofferto nell’animo di un’autrice che ancor oggi non dimentica gioie e dolori di quegli anni, comunque formidabili.
Recensione di Guido Michelone del libro di Millot Catherine, Vita con Lacan, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, pagine 97, euro 12.
Da https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2017/03/07/vita-con-lacan/
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PASOLINI: L' ISOLA PULITA IN UN MARE ORRIBILMENTE SPORCO
Nel settembre del 1985 la Federazione Giovanile Comunista Italiana, nel decennale della morte del poeta, organizzò a Roma un grande meeting dedicato a Pier Paolo Pasolini, dal titolo La disperata passione di essere nel mondo. Uno dei temi di più intenso dibattito, nel corso della manifestazione e nella stampa comunista di quei giorni, fu il Pasolini “impegnato”. Si parlava di Pasolini, ma si parlava direttamente e indirettamente anche del Pci, che – come si diceva a quel tempo – Enrico Berlinguer aveva lasciato a metà del guado. Qui riprendo una cronaca curata da Federico De Melis per “il manifesto”.
Il poeta conteso. Pasolini nella crisi del Pci
Federico De Melis
Il travaglio del Pci davanti al dilemma «fuoriuscita dal» o «gestione del» capitalismo ha trovato modo di esprimersi, la settimana scorsa, al meeting La disperata passione di essere nel mondo, organizzato a Castel Sant'Angelo a Roma dalla Fgci per il decennale della morte di' Pasolini. Occasione per una discussione più stratificata sarà invece, dal 15 ottobre, la megamanifestazione romana Una vita futura, organizzata dal «Fondo Pasolini».
Se la denuncia intorno alla quale ruota l'opera di Pier Paolo Pasolini dagli ultimi anni '60 alla metà dei '70 è quella dell'«omologazione culturale», cioè della distruzione delle culture «particolaristiche» sotto il segno del consumo, appare evidente perché ancora oggi il Pci, e nella fattispecie la sua federazione giovanile, si interroghi così ansiosamente con quell'opera.
Lo ha evidenziato Alberto Asor Rosa nel corso del suo intervento al dibattito di giovedì scorso «'Fuori dal Palazzo'. Intellettuali e potere»: gli anni che vanno dal '68 al '75 hanno rappresentato la stagione d'oro della sinistra italiana, ed è in particolare in questi anni che prende forma lo scandalo pasoliniano per l'«universo orrendo» dei bisogni indotti e spersonalizzanti. Nella sua Abiura alla trilogia della vita (compresa in Lettere luterane), scritta qualche ora prima del trionfo comunista alle elezioni regionali del giugno '75, Pasolini prevedeva quel trionfo, ma insieme lo interpretava come un progresso non reale, ma apparente, che rinviava a modificazioni nel corpo culturale del paese di cui piuttosto ci si sarebbe dovuti disperare: modificazioni peraltro irreversibili in quanto avevano cancellato (e non integrato) il passato rappresentato dal mondo contadino, e avevano sostituito ad esso, in forma di simulacro (a celare e rimuovere il vuoto dei fondamenti e dei valori), la società dei consumi.
Per quanto si possa interpretare in modo eterodosso l'opera di Pasolini, questo è il punto: era completamente disorganica al Pci perché il male italiano lo ravvisava in quelle condizioni senza le quali i comunisti non si sarebbero posti come possibilità alternativa per la guida del paese. A poco vale in questo contesto l'immagine pasoliniana del partito comunista come isola pulita in un mare orribilmente sporco.
Ma liquidare Pasolini in quanto «nostalgico» e «reazionario», considerando pura esercitazione" retorica la sua distinzione tra «progresso» e «sviluppo» (questa l'idea di Asor Rosa: lo sviluppo neocapitalistico italiano è stato necessario al progresso) significa rimuovere il travaglio del partito comunista di fronte al dilemma della «terza via».
Asor Rosa afferma che «in ogni salto di civiltà — e la rivoluzione dei consumi lo è — ci sono elementi di barbarie» e che il problema è semmai quello di «allevare», «educare» questi elementi, e non di rifiutare quel salto. Di questo passo il ruolo del Pci rischia di ridursi a una gestione più democratica della società postmoderna e nulla più. Al contrario Pasolini chiedeva al Pci di assumersi il ruolo di partito di «conservazione», di resistenza alla «prima vera rivoluzione di destra», quella del neocapitalismo. Con la sua metafora del Palazzo — ha detto Pietro Ingrao a confonto con Asor Rosa — Pasolini ha intuito la crisi della politica esplosa negli anni successivi con l'incolmabile separazione tra un ceto politico che si autoriproduce per vie esogene e manipola tutto ciò che è fuori e la vita quotidiana degli individui. Questo in risposta ad Asor Rosa che aveva parlato invece di un ceto intellettuale disperso in tanti palazzi e della necessità di chiedersi piuttosto come ci si sta e come ci si deve stare, invece che cullare il sogno di un intellettuale «fuori dal Palazzo».
In due pagine che l'Unità ha dedicato domenica 15 settembre al meeting della Fgci Alfonso M. di Nola, storico delle religioni, comunista, si chiede se i giovani omologati e disumanizzati di cui parlava Pasolini negli ultimi anni fossero una realtà o non piuttosto una meccanica trasposizione ideologica di un'esperienza strettamente personale:«Egli, testimone del tempo, è stato trascinato dall'emozione, ha rinunziato all'approfondimento delle concretezze storiche che erano nei giorni delle nuove generazioni operaie e nella costruzione della democrazia». Stessa obiezione muove di Nola a Pasolini a proposito della distruzione delle culture «particolaristiche»: sembra quasi che la sua lente, troppo adiacente a quelle realtà per eccessiva passione, avesse cancellato ogni residuo di speranza, derivante dalla capacità di avere uno sguardo più panoramico sul mondo. Quelle realtà non avevano in Pasolini, determinazioni storiche ma si configuravano piuttosto come il mito dell'«età del pane», sbocciato negli anni materni di Casarsa.
Edoardo Sanguineti, intervenendo anch'egli sulle pagine dell'“Unità”, parla a questo proposito di una «passione» che «si è subito rivolta, dai primi testi, verso un mondo, verso una 'realtà', che fosse raffigurabile come naturalmente estranea all'orizzonte borghese», dunque già prima e già meglio che «preconsumistica, quale poi diventerà, assolutamente pre-borghese e pre-industriale». Contro l'«idealismo» pasoliniano Sanguineti invita alla rilettura dei primi passi del Manifesto di Marx ed Engels, quelli dell'«elogio della borghesia e della rivoluzione capitalistica», e sembra implicito, nella sua argomentazione, che la rivoluzione neocapitalistica e insieme l'attuale rivoluzione postindusriale si configurino come una «necessità» storica nel possibile passaggio a una forma di società socialista. Sanguineti salta a pie pari, con ciò, tutte le teorie sulla fine della modernità come fine della storia, di cui è partecipe anche Pasolini quando prefigura, in toni apocalittici, l'«entropia borghese», l'universale pervasività della borghesia.
Gianni Borgna, dal canto suo, difende o costruisce dalle pagine del quotidiano comunista l'immagine di un Pasolini perfettamente inserito nelle coordinate del suo tempo. E lo fa ricorrendo ai testi, che estrae dall'opera pasoliniaia gli scritti organici al Pci: Pasolini contro la cultura della povertà e a favore di quella comunista, Pasolini «indignato» per il consumismo italiano ma non per il consumismo «in generale», Pasolini schierato al fianco dei moti studenteschi (paragonati alla resistenza), oppure contro i moti studenteschi, ma solo contro quelli italiani e francesi, che hanno ignorato la tradizione operaia che avevano alle spalle.
È in questa direzione che si è mosso nei giorni scorsi il meeting dei giovani comunisti, entrati in forte polemica con Asor Rosa, il quale li ha accusati di disputarsi le spoglie di Pasolini con Comunione e liberazione. In un intervento di ieri su “La Repubblica” il loro segretario Pietro Folena insiste con l'immagine di un Pasolini «moderno», il quale oggi si sarebbe schierato contro un conformismo che «non è più la trasgressione, ma una nuova sottile obbedienza a regole di ineguaglianza, individualismo, forza, brutalità». Questa distinzione tra il conformismo di ieri e di oggi appare un po' pretestuosa perché forse le «regole» denunciate da Folena erano anche dentro le trasgressioni degli anni '70 e d'altra parte il «nuovo conformismo» non ignora certo la trasgressione. Pasolini ha voluto dire che non esistono conformismi nuovi e vecchi, ma esiste il conformismo, nel cui universo ordine e trasgressione, disobbedienza e obbedienza risultano termini intercambiabili o dosabili a piacimento e senza residui. Parlando dei giovani non conformisti Pasolini lamentava la solitudine a cui erano destinati quei pochissimi ragazzi costretti a crescere culturalmente e politicamente sempre contro qualcosa, senza solide radici a cui allacciarsi: e sono per lo più, scriveva, i giovani comunisti.
La dimensione storica e anche politica che Pasolini sentì l'urgenza di abbracciare si doveva necessariamente scontrare con un apriori mitico, com'è per ogni scrittore da almeno due secoli. È la contraddizione di cui tanto si parla a proposito di Pasolini, in lui certo più trasparente perché aveva deciso di «buttare il suo corpo nella lotta». È la contraddizione di cui parla la sua grande amica Laura Betti, e ogni volta aggiunge che tuttavia sempre rientrava, la curva spezzata sempre ritrovava il suo cerchio, un mondo a tutto tondo, caldo e compatto, perfettamente interiorizzato che non trovava fuori.
“il manifesto”, 25 settembre 1985
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EGON SCHIELE (1890-1918)
Morì a 28 anni dopo aver dipinto il dolore e la miseria dell'uomo e smascherato l'ipocrisia di un impero alla fine.
Leonetta Bentivoglio
I tormenti di Schiele
Fu così generosa di capolavori la sua fulminea vita (1890-1918) che Egon Schiele ha conquistato un ruolo di figura-chiave, estrema e avveniristica, nelle arti d’inizio Novecento. Il suo vigore espressionista s’estende molto al di là degli anni che lo videro attivo. E ha un’urgenza perennemente attuale il suo intento di riflettere le brutture e le violenze subìte e inferte dalla natura umana, come ci racconta la mostra dell’Albertina di Vienna, prologo alle celebrazioni del centenario della morte.
Ci sono opere che “parlano” soprattutto agli specialisti e a chi conosce le coordinate di un creatore. Quelle di Schiele no, perché coinvolgono l’osservatore in un dialogo profondo che tocca con potenza un immaginario condiviso. I corpi torbidi e le donne nude ed esterrefatte, col sesso esposto e pulsante; le teste fragili e reclinate, con occhi colmi d’interrogativi esistenziali; i ritratti scheletrici e ritorti, come estratti da un martirio; gli amanti avvinti in una spaventosa estraneità reciproca: tutto in Schiele ha il dono di una comunicatività immediata. La sua anti-estetica respira di per sé, sospinta da un senso maledetto della vita, da un rapporto senza filtri con l’inconscio e dal rifiuto di canonici ideali di bellezza. Ciò che gli preme è indagare le lacerazioni di un mondo consunto dalla propria ipocrisia squarciando i veli calati sulle pulsioni sessuali, sulla miseria e la depravazione, e sugli aspetti esausti dell’impero austro-ungarico, che slitta verso un inesorabile “cupio dissolvi”.
La parabola dell’artista austriaco copre meno di un decennio, dal 1909 al ’18, come testimonia questa mostra straordinaria, col suo ricco itinerario di disegni, acquerelli, gouache, fotografie. Il viaggio parte dagli esordi di Egon, entrato sedicenne all’Accademia di Vienna, il cui conservatorismo lo disgusta.
L’influsso del florilegio curvilineo di Klimt emerge nei primi disegni sinuosi. Ma presto si dirige in un altrove scandito da autoritratti folli e allucinati e da adolescenti secche e perturbanti, scarlatte nella chioma e col cespuglio scandaloso del pube in primo piano. La sterzata espressionista è evidente.
Dominano gli ocra, i neri, i rossi e i pallori verdognoli, come nel diabolico ritratto del pittore Max Oppenheimer. Si moltiplicano le assenze: vedi l’acquerello del Violoncellista cui manca lo strumento, indicato solo dalla postura e dalle mani; o il vuoto de L’abbraccio, dove la donna implora un partner che non c’è. Nella Ragazza nuda seduta è la posizione a evocare la sedia, come l’eco di un oggetto perso ma sentito nell’invisibilità.
Schiele lascia Vienna nel 1910 per fondare una colonia di artisti nel villaggio boemo di Cesky Krumlov, dove si applica a disegni di bambini poveri e fanciulle spettrali nelle loro ruvide nudità che frugano nei nostri sguardi con erotismo complice. Una fetta importante della sua produzione riguarda la sua modella e amante Wally Neuzilm, splendida e tremenda nei languori e nelle masturbazioni, nelle calze arrotolate sulle cosce vaste, nelle natiche ondose dilaganti sul foglio. È il periodo in cui Schiele trionfa in mostre a Vienna, Budapest, Monaco, Dresda e l’Aia. Negli ossessivi autoritratti s’afferma il segno delle dita formanti una V che replica il gesto benedicente del Cristo Pantocratore bizantino.
Nel ’12 Schiele viene accusato ingiustamente dal padre di una delle sue piccole modelle di molestie alla figlia. È un trauma per l’artista. La polizia irrompe nel suo studio, brucia una copiosa messe di scabrosi disegni e lo spedisce in carcere, dove Schiele registra visionariamente la cella claustrofobica, il corridoio che pare un accesso all’inferno e il grigio ferrigno delle sedie. Dopo il rilascio crea paesaggi ariosi di mare e campagna e una serie di allegorie su Francesco d’Assisi, molto ammirato da Schiele, d’indole spirituale pur nell’ardore dei sui demoni.
Egon allontana Wally per sposarsi senza convinzione con Edith Harm, che ci restituisce come algida e cattiva, dominata dalla ferocia degli occhi e dal bosco della chioma. Risalgono al ’15 alcuni pezzi impressionanti, come gli intrecci di corpi femminili che cantano un’ode intensa e non priva di conflitti all’amore lesbico; e come l’autoritratto con la moglie, che lo carpisce rabbiosamente di schiena, in un’unione abbarbicata e soffocante dove il contatto tra gli sguardi è escluso.
Durante la guerra lo distaccano in un campo di prigionia a Muehling in cui erano internati i russi: il tanfo, la solitudine e la disperazione dei prigionieri non sfuggono ai suoi disegni angosciosi. Nel ’18 la quarantanovesima mostra della Secessione sancisce la massima consacrazione di Schiele. Poco dopo la moglie muore di febbre spagnola, seguita in breve dal marito. Nella foto sul letto di morte, Egon ha un volto nobile e struggente, di delicata e ormai calma bellezza.
Il Manifesto/Alias – 5 marzo 2017
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DACIA MARAINI RICORDA LEONARDO SCIASCIA
Non è facile oggi festeggiare la "giornata della donna". Siamo stanchi di ricordare la storia di questa giornata a, ancor di più, della retorica costruita intorno ad essa. Così stamattina, mentre cercavamo una intervista di Dacia Maraini, rilasciata nel lontano 1975 al giornale L'ORA, in cui polemizzava con l'ipotesi del matriarcato avanzata Leonardo Sciascia, abbiamo trovato l'articolo che la stessa scrittice dedicò alla memoria del grande scrittore siciliano il giorno della sua morte. fv
Dacia Maraini - Un giorno Sciascia entrò nella città delle donne
Un uomo che non sorride dovrebbe essere un uomo triste. Ma Sciascia non lo era. Un uomo che non arriccia mai le labbra, che non apre la bocca in un moto di allegria, dovrebbe essere un uomo malinconico e cupo. Eppure Sciascia non lo era.
Il suo astenersi dal sorriso aveva un carattere di gravità, come solo gli isolani più arcaici, schivi nel sentimento (qualsiasi sentimento, che sia di gioia o di dolore) usano fare. Una ritrosia gelosa, una segretezza generosa che non gli impediva, anzi lo aiutavano, ad allungare uno sguardo attento e pudico sugli altri tutti.
Curioso che anche Pasolini fosse affetto da questa forma di ritrosia del sorriso. Soprattutto della risata, quasi che ridendo di potesse perdere qualcosa di prezioso di sé. Le sue risate, come quelle di Sciascia, erano mute e tragiche; non chiamavano alla complicità, ma alla sospensione di ogni giudizio.
Una volta abbiamo discusso pubblicamente con Sciascia, sui giornali, sopra quello che lui chiamava il “matriarcato” delle donne siciliane. La sua idea era che sotto questo grande sventolio di pistole, fucili, carabine, ci fosse una fermo disegno di ordine, tenuto stretto alle basi (e quindi nella struttura familiare) da esperte mani di donna.
Era un piacere discutere con lui, per quanto si potesse essere in disaccordo, perché il suo discorso era sempre inatteso, imprevedibile e quindi stimolante, e inoltre puntava verso l'altro, non cadeva mai nel disprezzo o nel malanimo.
Ricordo i suoi primi libri letti agli inizi degli anni Sessanta. La sorpresa di una prosa piana, limpida, in un momento corrusco della storia letteraria italiana, in cui il piacere del racconto sembrava essersi perso per sempre, la psicologia era vista con sospetto e ogni descrizione passava per noioso naturalismo.
Ma Sciascia non si lasciava incantare dalle sirene dell'avanguardia letteraria. Andava avanti col suo inquieto, ideologico realismo minimale trasportando sulle pagine quel sorriso che non gli spuntava volentieri sulle labbra. Un sorriso, come dice Pirandello, che comporta “simpatia per l'altro”. La differenza tra umorismo e comicità, Pirandello la intendeva proprio così: l'umorismo si mette dalla parte della persona di cui si ride, mescolando comprensione e giudizio, la comicità si mette contro colui di cui si ride, tenendosene fuori, lontano.
Un libro mi ha sorpreso più di altri, fra quelli di Sciascia, un libro recente e precisamente La strega e il capitano. Non solo per la precisione irridente con cui ha indagato nelle minutaglie della storia, fra le parole appena accennate di Manzoni e di Verri, non solo per la forza con cui ha denunciato le ipocrisie interessate delle classi colte nei confronti delle loro serve (streghe o maliarde con cui prima “negoziano” e poi accusano di demonismo), ma anche perché ha ritrovato e fatto sue, dopo solitarie elaborazioni personali, alcune delle idee che da anni le donne, a gruppi o da sole, portano avanti.
Ai tempi del sommovimento ideologico femminile, Sciascia era rimasto “a guardare” con un sorriso chiuso dentro la bocca, di sospetto e di preoccupazione. Poi, da uomo curioso e aperto qual era, anche se con l'aria di occuparsi d'altro, si era messo a riflettere sul concetto della diversità femminile, del razzismo di sesso, fino a scrivere con mano veloce e sapiente questo piccolo capolavoro sulle “ragioni delle donne”.
“Questo è il punto; Caterina Medici credeva di essere strega o quanto meno aveva fede nelle pratiche di stregoneria. Ma forse una fede meno intera di quella dei suoi accusatori; poiché in fatto di stregoneria, l'inquisitore e l'inquisito, il carnefice e la vittima, partecipavano dell'eguale credenza: ma streghe e stregoni, dal vedere tante loro pratiche non sortire alcun effetto, qualche dubbio dovevano pure averlo, mentre ovviamente non ne avevano coloro che li temevano o che di pratiche stregonesche si credevano affetti, e ancora di più i padri inquisitori, i giudici”.
Una intuizione straordinaria: le donne che si confessavano streghe, che rivelavano mille avventurosi peccati (dal “negozio” col diavolo ai voli sulle scope, dai cuori strappati ai petti dei bambini sostituiti con palle di fieno ai malanni mandati col pensiero) erano in realtà le vere giocatrici, le artiste di una simulazione consapevole rischiosissima perché ne andava della loro vita. Eppure questa vita la regalavano ai carnefici con la grandezza istrionica di chi per una volta sola nella vita si sente presa sul serio, ascoltata e potente, anche se di un potere negativo che si rivolterà contro di lei.
L'Inquisizione non poteva bruciare un corpo se non era confesso. Perciò si insisteva tanto sulla confessione. E per ottenerla si usava regolarmente la tortura. Le donne incriminate, pur di non soffrire, aggiungevano confessioni alle confessioni, fino a entrare, come suggerisce bene Sciascia, “nella perversa circolarità” che si era stabilita tra inquisitori e inquisiti, fra torturatori e torturati.
Le perversioni venivano “suggerite” dai torturatori e fatte proprie dalle torturate con un dispiego di fantasia che lascia stupefatti e ammirati.
“Caterina aveva già confessato” in casa del senatore Melzi. Ma fu torturata ancora dal Santo Ufficio. Non per sapere il vero. “Il Senato e la Curia non volevano la verità, volevano creare un mostro che perfettamente si attagliasse al grado più alto di consustanziazione diabolica, di professione del male di cui i manuali di demonologia, classificandoli e descrivendoli, deliravano. Si voleva insomma costringere Carolina, coi tormenti, a uguale delirio. E Caterina non può che accontentarli”.
Caterina continua infatti a raccontare storie di repertorio, come un personaggio dell'”Enrico IV” o del “Come tu mi vuoi”, in una adesione recitata e innocente allo stesso tempo, alla crudele volontà sociale del suo ambiente. Come se dicessero: tu vuoi che io sia questo e lo sarò ma con molta più immaginazione, più intelligenza, più imprevedibilità di quanto tu non ti aspetti, fino a sorprenderti sul tuo stesso terreno e così farti testimone passivo della mia grandezza.
Spesso libri fulminanti questi di Sciascia, lavorati a lungo nel pensiero, scritti rapidamente nei mesi estivi a Racalmuto, come lui stesso ha ripetuto più volte. Libri che dilatano miracolosamente la realtà più minuta. Scene dipinte su una capocchia di spillo. Ma talmente vive da apparire a grandezza naturale. Vicino in questo procedimento a Borges, di cui amava lo stile indagatorio nei confronti delle zone dimenticate della storia, nei confronti dei Nomi che costituiscono la rete simbolica del tempo, nei confronti dei lapsus della storiografia ufficiale, pur non condividendo il suo platonismo e la sua geniale fumisteria.
Con Sciascia perdiamo una parte della Sicilia migliore, quella che sa giudicare con lucidità anche i mali più vicini, quella che sa riconoscere i propri errori e cambiare idea nel mezzo di una battaglia per puro amore della verità, quella che sa rimboccarsi le maniche e “andare a vedere” anche per conto di chi è troppo pigro o troppo impaurito per farlo.
(da l'Unità, 22 novembre 1989)
Il suo astenersi dal sorriso aveva un carattere di gravità, come solo gli isolani più arcaici, schivi nel sentimento (qualsiasi sentimento, che sia di gioia o di dolore) usano fare. Una ritrosia gelosa, una segretezza generosa che non gli impediva, anzi lo aiutavano, ad allungare uno sguardo attento e pudico sugli altri tutti.
Curioso che anche Pasolini fosse affetto da questa forma di ritrosia del sorriso. Soprattutto della risata, quasi che ridendo di potesse perdere qualcosa di prezioso di sé. Le sue risate, come quelle di Sciascia, erano mute e tragiche; non chiamavano alla complicità, ma alla sospensione di ogni giudizio.
Una volta abbiamo discusso pubblicamente con Sciascia, sui giornali, sopra quello che lui chiamava il “matriarcato” delle donne siciliane. La sua idea era che sotto questo grande sventolio di pistole, fucili, carabine, ci fosse una fermo disegno di ordine, tenuto stretto alle basi (e quindi nella struttura familiare) da esperte mani di donna.
Era un piacere discutere con lui, per quanto si potesse essere in disaccordo, perché il suo discorso era sempre inatteso, imprevedibile e quindi stimolante, e inoltre puntava verso l'altro, non cadeva mai nel disprezzo o nel malanimo.
Ricordo i suoi primi libri letti agli inizi degli anni Sessanta. La sorpresa di una prosa piana, limpida, in un momento corrusco della storia letteraria italiana, in cui il piacere del racconto sembrava essersi perso per sempre, la psicologia era vista con sospetto e ogni descrizione passava per noioso naturalismo.
Ma Sciascia non si lasciava incantare dalle sirene dell'avanguardia letteraria. Andava avanti col suo inquieto, ideologico realismo minimale trasportando sulle pagine quel sorriso che non gli spuntava volentieri sulle labbra. Un sorriso, come dice Pirandello, che comporta “simpatia per l'altro”. La differenza tra umorismo e comicità, Pirandello la intendeva proprio così: l'umorismo si mette dalla parte della persona di cui si ride, mescolando comprensione e giudizio, la comicità si mette contro colui di cui si ride, tenendosene fuori, lontano.
Un libro mi ha sorpreso più di altri, fra quelli di Sciascia, un libro recente e precisamente La strega e il capitano. Non solo per la precisione irridente con cui ha indagato nelle minutaglie della storia, fra le parole appena accennate di Manzoni e di Verri, non solo per la forza con cui ha denunciato le ipocrisie interessate delle classi colte nei confronti delle loro serve (streghe o maliarde con cui prima “negoziano” e poi accusano di demonismo), ma anche perché ha ritrovato e fatto sue, dopo solitarie elaborazioni personali, alcune delle idee che da anni le donne, a gruppi o da sole, portano avanti.
Ai tempi del sommovimento ideologico femminile, Sciascia era rimasto “a guardare” con un sorriso chiuso dentro la bocca, di sospetto e di preoccupazione. Poi, da uomo curioso e aperto qual era, anche se con l'aria di occuparsi d'altro, si era messo a riflettere sul concetto della diversità femminile, del razzismo di sesso, fino a scrivere con mano veloce e sapiente questo piccolo capolavoro sulle “ragioni delle donne”.
“Questo è il punto; Caterina Medici credeva di essere strega o quanto meno aveva fede nelle pratiche di stregoneria. Ma forse una fede meno intera di quella dei suoi accusatori; poiché in fatto di stregoneria, l'inquisitore e l'inquisito, il carnefice e la vittima, partecipavano dell'eguale credenza: ma streghe e stregoni, dal vedere tante loro pratiche non sortire alcun effetto, qualche dubbio dovevano pure averlo, mentre ovviamente non ne avevano coloro che li temevano o che di pratiche stregonesche si credevano affetti, e ancora di più i padri inquisitori, i giudici”.
Una intuizione straordinaria: le donne che si confessavano streghe, che rivelavano mille avventurosi peccati (dal “negozio” col diavolo ai voli sulle scope, dai cuori strappati ai petti dei bambini sostituiti con palle di fieno ai malanni mandati col pensiero) erano in realtà le vere giocatrici, le artiste di una simulazione consapevole rischiosissima perché ne andava della loro vita. Eppure questa vita la regalavano ai carnefici con la grandezza istrionica di chi per una volta sola nella vita si sente presa sul serio, ascoltata e potente, anche se di un potere negativo che si rivolterà contro di lei.
L'Inquisizione non poteva bruciare un corpo se non era confesso. Perciò si insisteva tanto sulla confessione. E per ottenerla si usava regolarmente la tortura. Le donne incriminate, pur di non soffrire, aggiungevano confessioni alle confessioni, fino a entrare, come suggerisce bene Sciascia, “nella perversa circolarità” che si era stabilita tra inquisitori e inquisiti, fra torturatori e torturati.
Le perversioni venivano “suggerite” dai torturatori e fatte proprie dalle torturate con un dispiego di fantasia che lascia stupefatti e ammirati.
“Caterina aveva già confessato” in casa del senatore Melzi. Ma fu torturata ancora dal Santo Ufficio. Non per sapere il vero. “Il Senato e la Curia non volevano la verità, volevano creare un mostro che perfettamente si attagliasse al grado più alto di consustanziazione diabolica, di professione del male di cui i manuali di demonologia, classificandoli e descrivendoli, deliravano. Si voleva insomma costringere Carolina, coi tormenti, a uguale delirio. E Caterina non può che accontentarli”.
Caterina continua infatti a raccontare storie di repertorio, come un personaggio dell'”Enrico IV” o del “Come tu mi vuoi”, in una adesione recitata e innocente allo stesso tempo, alla crudele volontà sociale del suo ambiente. Come se dicessero: tu vuoi che io sia questo e lo sarò ma con molta più immaginazione, più intelligenza, più imprevedibilità di quanto tu non ti aspetti, fino a sorprenderti sul tuo stesso terreno e così farti testimone passivo della mia grandezza.
Spesso libri fulminanti questi di Sciascia, lavorati a lungo nel pensiero, scritti rapidamente nei mesi estivi a Racalmuto, come lui stesso ha ripetuto più volte. Libri che dilatano miracolosamente la realtà più minuta. Scene dipinte su una capocchia di spillo. Ma talmente vive da apparire a grandezza naturale. Vicino in questo procedimento a Borges, di cui amava lo stile indagatorio nei confronti delle zone dimenticate della storia, nei confronti dei Nomi che costituiscono la rete simbolica del tempo, nei confronti dei lapsus della storiografia ufficiale, pur non condividendo il suo platonismo e la sua geniale fumisteria.
Con Sciascia perdiamo una parte della Sicilia migliore, quella che sa giudicare con lucidità anche i mali più vicini, quella che sa riconoscere i propri errori e cambiare idea nel mezzo di una battaglia per puro amore della verità, quella che sa rimboccarsi le maniche e “andare a vedere” anche per conto di chi è troppo pigro o troppo impaurito per farlo.
(da l'Unità, 22 novembre 1989)
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PIRANDELLO E LE DONNE
Marta Abba sulla spiaggia di Castiglioncello indossava uno scandaloso due pezzi, addirittura leopardato, mentre tutta l'intellighenzia che allora popolava i bagni si interrogava sulla natura del rapporto tra lei, assai giovane, e il sessantenne Luigi Pirandello dal grande cappello bianco. Non è certo un libro di gossip quello che Luigi Filippo d´Amico ha pubblicato per Sellerio (L'uomo delle contraddizioni, Pirandello visto da vicino, pagg. 175, euro 10). Con grande delicatezza lo sceneggiatore, pittore, regista (Bravissimo, San Pasquale Baylonne, L'arbitro, Amore e ginnastica, l'episodio di Gugliemo il dentone nei Complessi...) racconta tante piccole storie private del drammaturgo siciliano, legate indissolubilmente ai suoi capolavori.
D'Amico è stato un osservatore privilegiato: fin da bambino la sua famiglia tramite gli zii Alberto Cecchi, Antonio Baldini, Silvio d'Amico era legata ai Pirandello e lui stesso ha sposato una delle due figlie di Lietta. La suocera era una miniera di particolari, un archivio della memoria importante quanto la passione (e la conoscenza) che Luigi Filippo d'Amico ha per l'opera del nonno di sua moglie. Ed è proprio la passione, il suo pulsare quasi sempre doloroso, che lega gli episodi, spesso inediti, riportati da Luigi Filippo d'Amico e che si ritrova in tutti i romanzi, i drammi, le novelle. Sentimenti forti, carnali, "repressi" da una rigida cortina di pudore che hanno avuto il loro unico sfogo nelle creature inventate. E d'Amico, attraversando la parabola letteraria e personale del premio Nobel - i suoi continui disagi economici, il difficile rapporto con la politica, con il cinema, con i capocomici, i soggiorni all'estero, gli insuccessi prima e poi la gloria internazionale - ripropone tante figure femminili vere o di "carta" che hanno segnato la vita di Pirandello a cominciare dalla consorte, Antonietta, malata di mente che comprometterà per sempre il suo rapporto con le donne ("Una volta accompagnai mia moglie a visitare la nonna ricoverata in casa di salute. Indossava un vestito nero, accurato, con merlettini bianchi alle maniche e un cappello... Pronta - dicevano la monache - ogni giorno nell'attesa che Luigi venisse a riprenderla. In terra, infatti, vidi una valigia"). Ecco le allieve del Magistero dove Pirandello insegnava: «tra le scolare, faceva strage... Ci voleva tutto il riserbo, la serietà dell'uomo, il suo senso di responsabilità, perché quella lezione non si trasformasse in una corte d'amore».
Ecco Marta Abba: «Nell'estate del´32 non avevo ancora otto anni e mi innamorai di lei» scrive d'Amico «fui sedotto da un odore - così diverso da quello di mia madre e delle mie sorelle - che gli olii solari non annullavano del tutto (è l'odore, pensai, delle vere donne)». Quando la conobbe il Maestro aveva già chiuso da anni i suoi rapporti con l'altro sesso; ne fu travolto ma «quasi fosse un padre, in un testamento olografo istituisce la Abba erede per un sesto, oltre ai diritti delle opere scritte da lei».
In Diana e la TudaPirandello - sottolinea d'Amico - inserisce uno scoperto richiamo, anche se probabilmente solo vagheggiato, ai suoi rapporti con la Abba e «in una lettera del 1926 indirizzata alla diva, allude ad una "atroce notte" a lei ben nota (erano a Como per una recita); ancora una volta aveva pensato al suicidio, ma: la coscienza dettava l'ordine imperioso di scrivere». Chissà se il drammaturgo aveva considerato "atroce" l'offrirsi di una giovane donna a un vecchio o, al contrario, quell'atroce poteva riferirsi a lui che aveva insidiato Marta. L'attrice comunque sposò nel 1938 un milionario di Cleveland, chiedendo, e ottenendo, poco dopo un redditizio divorzio.
“la Repubblica”, 8 marzo 2007
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SPOSE BAMBINE
Il dramma delle spose bambine senza diritti
Il matrimonio precoce è una violazione dei diritti umani fondamentali e influenza tutti gli aspetti della vita di una ragazza: nega la sua infanzia, ne compromette l’istruzione limitando le sue potenzialità. Sono circa una su tre (cioè 70 milioni) le donne nei Paesi in via di sviluppo, che si sono sposate prima dei 18 anni. Se la tendenza attuale proseguirà, entro il 2020, 142 milioni di bambine si sposeranno prima di aver compiuto la maggiore età. Si tratta di 14,2 milioni di bambine sposate ogni anno, vale a dire 37.000 ogni giorno (dati Unicef).
Ti racconto una storia
Nessuna tutela per le spose bambine in Bangladesh. Nel paese con la più alta percentuale di spose bambine di tutta l'Asia, il governo ha approvato la legge che consente alle minori di 18 anni di sposarsi per volontà dei genitori, in «circostanze particolari e per il loro superiore interesse». A nulla sono servite le numerose proteste e gli appelli diffusi dalle principali organizzazioni umanitarie.
In Bangladesh è stata approvata una legge che consente alle minori di 18 anni di sposarsi per volontà dei genitori. Protestano le organizzazioni per i diritti umani, preoccupate soprattutto per la poca chiarezza che traspare dal testo del provvedimento.
Il matrimonio precoce è una violazione dei diritti umani fondamentali e influenza tutti gli aspetti della vita di una ragazza: nega la sua infanzia, ne compromette l’istruzione limitando le sue potenzialità. Sono circa una su tre (cioè 70 milioni) le donne nei Paesi in via di sviluppo, che si sono sposate prima dei 18 anni. Se la tendenza attuale proseguirà, entro il 2020, 142 milioni di bambine si sposeranno prima di aver compiuto la maggiore età. Si tratta di 14,2 milioni di bambine sposate ogni anno, vale a dire 37.000 ogni giorno (dati Unicef).
Ti racconto una storia
Nessuna tutela per le spose bambine in Bangladesh. Nel paese con la più alta percentuale di spose bambine di tutta l'Asia, il governo ha approvato la legge che consente alle minori di 18 anni di sposarsi per volontà dei genitori, in «circostanze particolari e per il loro superiore interesse». A nulla sono servite le numerose proteste e gli appelli diffusi dalle principali organizzazioni umanitarie.In Bangladesh è stata approvata una legge che consente alle minori di 18 anni di sposarsi per volontà dei genitori. Protestano le organizzazioni per i diritti umani, preoccupate soprattutto per la poca chiarezza che traspare dal testo del provvedimento.
Terzo film di una trilogia congegnato sul destino miserando delle vedove indiane è il film
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Y. LATIF JARALLA, Chi muore ogni giorno non festeggia
Il poeta Yousif Latif Jaralla oggi ci ricorda che c'è poco da festeggiare:
Un brutto sogno
A te non serve dire: Buona festa, o Buon 8 marzo.
Tu muori ogni giorno.
Chi muore ogni giorno non festeggia, non ride e non brinda, disperato, spera solo che sopravviva all'orrore della sua cattiva sorte.
A te non servono le mimose: non ha più una casa,un letto o un giardino, cerchi solo un tronco, o il resto di un muretto che reggerebbe la tua schiena stanca.
Cerchi solo un'ombra, qualsiasi ombra, che ti avvolge, come una madre, o un amante, per un breve sonnellino. E svegliarti dopo, e scoprire, che il tutto era un brutto sogno.
La guerra ei lutti erano un brutto sogno
la paura,
La fuga,
L'esilio e la morte
erano tutti un brutto sogno.
I solchi sull'anima,
e ill tuo cuore offeso
erano un brutto sogno.
Il tuo corpo imbrattano con il sudiciume di questo mondo, di questo tempo, era un brutto sogno.
Tutto era un brutto sogno.
La tua casa è ancora lì, e tu sei seduta nel tuo giardino, circondata da tuoi figli e e abbracciata dai sorrisi di chi ti ama.
Ma ....
non è cosi,
non è cosi.
è tutto reale.
per te non esiste nessun ombra,
per te non esiste nessun muretto,
la tua strada è ancora lunga
e tu sei tutta una fatica..
dire a te “Buona festa delle donne” suonerebbe come una beffa, o peggio ancora, un' offesa.
....
Buona fortuna sorella, e buona sorte.
Yousif Latif Jaralla
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ANTONIETTA ZUCCARO IN MEMORIA DI VINCENZA BENANTI
Ecco i versi in dialetto marinese che Antonietta Zuccaro ha dedicato alla compaesana Vincenzina Benanti morta nell' incendio della fabbrica americana in cui lavorava. In quell'incendio, avvenuto il 25 marzo 1911, in una camiceria di New York, persero la vita ben 146 persone. Di queste la maggior parte erano giovani donne, molte di origine italiana. Vincenza Benanti era nata a Marineo nel 1889 e si era trasferita con la famiglia negli Stati Uniti nel 1906.
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I. ILLICH, L'uomo in bicicletta
Ecco la mia bici!
L’uomo in bicicletta può andare tre o quattro volte più svelto del pedone, consumando però un quinto dell’energia: per portare un grammo del proprio peso per un chilometro di strada piana brucia soltanto 0,15 calorie.
La bicicletta è il perfetto mezzo per accordare l’energia metabolica dell’uomo all’impedenza della locomozione. Munito di questo strumento, l’uomo supera in efficienza non solo qualunque macchina, ma anche tutti gli altri animali.
IVAN ILLICH, Energia ed equità
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RICARDO MOLINA, Gelsomino e amore
Opera di Andrey Remnev
Gli uomini che cantavano
il gelsomino e la luna
mi hanno lasciato in eredità il loro dolore,
il loro amore, il loro ardore, il loro fuoco.
La passione che consuma
le labbra come una stella,
la schiavitù di
una bellezza così fragile.
E la malinconia
di desiderare in eterno
una voluttà la cui essenza
è durare un momento.
Ricardo Molina, "Poeta arabo" da "Elegía de Medina Azahara"
il gelsomino e la luna
mi hanno lasciato in eredità il loro dolore,
il loro amore, il loro ardore, il loro fuoco.
La passione che consuma
le labbra come una stella,
la schiavitù di
una bellezza così fragile.
E la malinconia
di desiderare in eterno
una voluttà la cui essenza
è durare un momento.
Ricardo Molina, "Poeta arabo" da "Elegía de Medina Azahara"
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Yves Bergeret torna in Sicilia
L'antico teatro greco di Siracusa
“Carena” approda a teatro
Yves Bergeret torna in Sicilia per realizzare un progetto non solo ambizioso, ma che immerge in maniera definitiva e irreversibile la scrittura sua e di tutti nella realtà contemporanea: portare in scena a Catania (in collaborazione con la brava regista Anna Di Mauro) il suo poema Carène, ancora inedito a stampa – ma di cui Yves stesso nel suo spazio Carnet de la Langue-Espace e Francesco Marotta (eccellente traduttore in italiano del poeta francese) sulla Dimora del Tempo sospeso hanno offerto degli ampi estratti.
Carèneè un’Odissea contemporanea, i suoi eroi-Ulisse sono persone in carne e ossa che vivono ancora adesso, ancora in questi istanti la loro realtà di migranti; i nomi degli eroi del poema richiamano per assonanza i nomi reali dei migranti con i quali Yves è entrato in contatto in Sicilia, dai quali si è fatto raccontare le singole storie personali, con i quali ha lavorato ai suoi tipici poemi figurati, con i quali è rimasto in contatto anche quando periodicamente si è allontanato dalla Sicilia per periodicamente farvi ritorno, scrivendo come in presa diretta Carène, i cui Ulisse-migranti, Ulisse-marinai-della-vita sono nello stesso tempo giovanissimi migranti maliani e senegalesi e antichissimi uomini che portano nella loro carne e nella loro stratificata memoria millenni di civiltà e di migrazioni. È così che Alaye, uno dei protagonisti del poema, si chiama in realtà Ali e Husséni Séni, due giovani migranti che, nella loro non facile vita quotidiana, posseggono una volontà inflessibile di studiare e di trovare la propria strada, fungendo anche da mediatori culturali tra i propri compagni di migrazione e la complicatissima realtà siciliana e italiana cui sono approdati (realtà, occorre sottolinearlo, non sempre benevola nei loro confronti, ma talvolta – e uso a ragion veduta tali parole – razzista e schiavista), oppure provando ad essere menti capaci d’osservare, analizzare, comprendere e far comprendere la migrazione in ogni suo aspetto, in ogni suo risvolto geografico e politico: e i flussi migratori sono anche, in molti casi e in certe situazioni, mero commercio di persone, una compravendita di esseri umani (non importa la loro provenienza, età, sesso) ridotti a merce sottoposta a tariffe, ricatti, minacce quando necessario.
Nel progetto in fase d’attuazione Ali collabora con l’équipe quale vero e proprio consigliere culturale, essendo egli capace di sviluppare un’articolata riflessione sulla realtà migratoria e sui suoi rapporti con le popolazioni locali, mentre Séni è molto attento ai rapporti tra territori di provenienza e territori d’approdo.
Yves stesso, radicalmente antagonista del tipo dell’intellettuale europeo sedentario e compiaciuto di sé e della propria erudizione, è uno scrittore migrante, incapace di rimanere fermo a lungo in un luogo, ancor meno nelle soffocanti pareti di uno studio: l’alta montagna, il mare, il deserto, lo spazio che si dilata abitato contemporaneamente dal vento-luce e dall’occhio curiosissimo dell’essere umano, dai richiami degli uccelli e dalla fantasia illimitata del poeta, dalla morte violenta di tantissimi fratelli in umanità e cultura e dal desiderio di comprensione e d’incontro, questi spazi vastissimi accolgono Carène e ne restituiscono l’eco necessaria che bussa, violenta e inconciliata, alle porte della coscienza occidentale. E non ci si meraviglia, allora, che parole scritte con l’inchiostro sulla carta vogliano farsi personaggi che agiscono e parlano con voce d’esseri umani, persone che mostrano sé stesse (il loro corpo, il loro passato, il loro presente) ad altre persone – le parole del poema sono infuocate e solenni, dolci e disperate, coraggiose e umanissime; la Sicilia, terra dalle contraddizioni più profonde e dagli slanci più inattesi, vera regione di confine tra un mondo spinto alla disperazione e un altro spesso chiuso e incapace di comprensione, ospita questo poema-in-atto che non appartiene alla moda, pur diffusa, di certa letteratura europea che si china, condiscendente e pietosa, sulla realtà delle migrazioni: Bergeret non solo va a parlare e vive con i migranti, ma con loro crea concretamente poesia e pittura, con loro dialoga anche in versi e in pittura, ne cerca e ne sollecita l’essenza profonda di giovani uomini assetati anche di bellezza e di conoscenza – perché c’è pure questo in Carène e in tutto il lavoro di Yves, la dimostrazione non teorica o velleitaria, ma fattiva e riscontrabile nella realtà che chi attraversa prima il deserto a rischio continuo della vita e poi su di un fragilissimo guscio di noce il Mediterraneo non cerca soltanto un approdo di pace e un lavoro che gli dia il pane, ma, da essere umano, nutre e reca in sé anche desideri e valori molto più alti rispetto ai bisogni basilari per la sopravvivenza.
È così che la parola cultura riacquista la propria dignità spesso perduta o tradita e il proprio significato che è quello del coltivare ciò che, in ognuno di noi, è umano, è così che le genti migranti fanno udire le loro voci, che nel poema di Yves hanno anche movenze di litania e di canto comunitario, di elegia e di ribellione, di tradizione e di slancio verso nuovi orizzonti, venendo a creare una cultura meticcia, cioè ricca di slancio e di fantasia, di bellezza e capace di costruire davvero, non retoricamente, la pace.
(Tratto da qui)
https://rebstein.wordpress.com/2017/03/08/carena-approda-a-teatro/
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