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L' IRONIA DI BRUNO MUNARI

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Bruno Munari al Museo Fico di Torino. La mostra fuga ogni malinteso sulla versatilità del designer milanese: ognuno dei suoi «giochi» risalta per necessità progettuale e un raro senso della semplicità che, così vide Argan, si produce dall’ironia .

Maurizio Giufrè

Munari, un bambino grande fra realismo e evasione
“Munari è un uomo piccolo, il suo volto magro ha l’impressione chiara e sempre vagamente stupefatta di un bambino. Ride volentieri degli stravaganti ordigni ma li prende molto sul serio». Così nel 1948 Dino Buzzati presentava Bruno Munari ai visitatori della Galleria Borromini di Milano. In poche righe un ritratto perfetto perché contiene i due basilari aspetti del suo fare creativo: il mondo giocoso e favolistico dell’infanzia e quello esatto della tecnica, accomunati dalla ricerca, dal metodo, dall’esperienza. Nel loro reciproco interagire si svolge l’affascinante carriera di artista e di designer di Munari.

Si può convenire con Claudio Cerritelli che la sua sia stata arte «totale», come spiega già nel titolo la mostra da lui curata al Museo Fico di Torino: Artista totale Bruno Munari (fino all’11 giugno), perché «relativa al metodo d’indagine più che alla somma delle esperienze effettuate». Ma occorre ricordare che questo «passare da una cosa a un’altra come se niente fosse» (così una volta ci disse) non piacque a molti critici e causò spiacevoli malintesi.

Occorre, infatti, insistere che in Munari i principi univoci dell’estetica razionalista sono stati sempre saldi e sempre verificati nei confronti dei cambiamenti della realtà, lontano da ogni genere di sperimentalismo che non avesse ben chiare le proprie finalità. Questo punto nodale rinvia al confronto tra realismo ed evasione, che ancora prima della critica delle avanguardie resta ancora lì irrisolto e che dobbiamo tenere a mente per collegare il poliedrico «mestiere» di Munari, tra arte pura e arte applicata, tutte e due da lui sviluppate secondo metodo e ragionamento per essere trasmesse a qualificati «progettisti creativi».

Per comprendere bene il significato di quest’aspetto occorre superare le prime sale dedicate al Munari epigono del Futurismo (L’ospedale delle macchine, 1929; Futurista, 1931) e di «altre influenze» (L’ipercritico, 1930; Due linee bianche, c. 1930), per giungere all’ambiente alto e luminoso che accoglie le sue Macchine inutili. Dopo avere attraversato il lungo corridoio dove ritroviamo i suoi famosi Negativi-Positivi, gli altrettanti geometrici olii delle Curve di Peano (anni settanta) e i fogli sovrapposti della serie Los Alamos (1958), sono le «sculture» di Munari, appese o poggiate, a rendere chiara la sua idea che «l’invenzione è una modalità connecessaria del suo fare, ma non lo esaurisce, e nemmeno da sola riuscirebbe a definirlo veramente» (Carlo Ludovico Ragghianti).

Insomma, ancora con Ragghianti, non è la «trovata», o meglio la «novità degli oggetti come tali che fa l’autenticità e la forza di Munari». Piuttosto i suoi interessi pluridisciplinari concorrono, guidati dall’indole, a non cadere dentro quei «processi intellettualistici» propri dell’astrattismo o dell’estetica delle forme pure. Il rimedio è la costruzione di un «universo esatto e favoloso» in grado di misurarsi (progettualmente) e di intervenire (didatticamente) nella realtà di là da qualsiasi precettistica normativa.

Quanto ciò sia vero è facile appurarlo in catalogo (Corraini Edizioni) nell’intervista del curatore con Gillo Dorfles, nella quale il critico milanese, fondatore con Munari nel 1948 del M.A.C. (Movimento Arte Concreta), afferma: «a differenza di Soldati, Reggiani o Veronesi che si impegnavano a fare opere non figurative ma pittoricamente importanti, a Munari interessava poco che fossero importanti, in quanto non figurative».

Purtroppo il guardare «dal di fuori» i «compagni d’azione» è stato intesa in seguito – Dorfles lo testimonia – con l’equivoco di una «doppia personalità»: da un lato la veridicità della tecnica (il design), dall’altro gli «scherzi sociali» o il «divertimento giocoso» (l’arte). Il gioco, però, non può essere inteso come semplice divertissement, ma come lo stratagemma per desacralizzare l’arte e addentrarsi così «in una realtà non utopica e non idealizzata» (Fossati), dove la meraviglia dell’«equilibrio degli opposti» si compie attraverso un processo rigoroso e disciplinatissimo che combina intuizione e regola, casualità e certezza, superfluo e necessario.
In modo agevole e chiaro tutto ciò è evidente nel piano superiore del museo dove i «codici» dell’arte di Munari sono accostati ai suoi prodotti di design. L’«utilità» di una serie di questi – dai semplici Cubi alla lampada Falkland per Danese ad Abitacolo per le Edizioni Robots (1972) fino al paravento Spiffero per Zanotta (1988) – sfidano l’«inutilità» di altri: dalla sedia Singer per visite brevissime di Zanotta (1945) alle Forchette parlanti.

Con lo stesso procedimento, nell’editoria e nella grafica, i suoi Libri illeggibili contendono la loro legittima funzione percettiva e immaginifica con le copertine delle collane Einaudi (Menabò, Saggi, NUE, ecc.), di riviste («La Lettura») o di LP (Ricordi). Ancora «ovvie» ma non banali, e solo in «apparenza illogiche», sono le ricostruzioni delle Scritture illeggibili (anni settanta) a confronto con i fogli Alberi: elaborazioni grafiche ispirate dal vero ideogramma giapponese (anni novanta).

L’ironia di Munari si genera, come fece notare Giulio Carlo Argan, «dalla semplificazione e dalla specularità». Le sue attenzioni sono rivolte a scoprire cosa c’è da imparare dalla natura e come tradurre in tre dimensioni le scoperte, ma senza «l’ironia degli oggetti e dei soggetti verso se stessi – sempre Argan – entrambi sarebbero immobili e immutabili» e il mondo ideale di Munari – «un asilo-nido per adulti» – è lì per farci «essere semplici senza essere rozzi»: un insegnamento da custodire con impegno.

Il manifesto – 5 marzo 2017

SAN GIUSEPPE NELLA TRADIZIONE POPOLARE SICILIANA

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       I santi, come si sa, occupano un posto centrale nella cultura popolare siciliana. San Giuseppe, poi, è stato sempre uno dei santi più amati dal popolo siciliano. Anche noi, oggi, lo vogliamo ricordare con l'aiuto di due articoli di Francesca La Grutta e di Angelo Cucco, già pubblicati in altri siti,  e con  alcune preghiere e filastrocche, in dialetto marinese, che l'amica Anna Fragale ci ha permesso di riprodurre in questo blog. Cominciamo da queste ultime:



San Giuseppi quann' era nicu
Sinni ja a cogghiri ficu
E di quantu nn' avia manciatu
Si sinteva disturbatu!

San Giuseppi giovanutteddu
S'accatta` serra e marteddu
E pi non muriri di fami
S'allocau nn'un falegnami!


San Giuseppi 'nsantitati
Cu Maria vinni spusatu
Matrimoni e viscuvati
Di lu celu su calati!


San Giuseppi a Nazaretti
Cu Gesuzzu e Maria stetti
E furmaru la Sacra Famigghia
Ca nni duna timuri e cunsigghia!


San Giuseppi l'ebanista
Fu lu primu socialista
Nni fu tantu nfervoratu
Ca funnau lu...sinnacatu!


 *****

La Madinnuzza 'ncammara sidia
Li robi a San Giuseppi puntiava
Pizzudda vecchi e novi ci mittia
A comu li putia accummidari...San Giusippuzzu di fora viniaPurtava un panareddu di cirasi...Lu Bammineddu all'incontru ci ja:"Mamma, mamma, mamciamu ca veni lu tata?"."No Figghiu, mancia tu ca si picciriddu,Ca ju aspettu a to patri vicchiareddu...Ti conzu na culla all'arbulicchiuPi fariti sintiri lu cantu di l'aceddu!"...Passunu li Tri Rimaggi e dicinu vidennu lu Figghiu di Maria:"...Quantu è beddu!!!".


*****

Quannu la Madunnuzza cucinava
ogghiu e putrusinu ci mittia...
Lu ciavuru facia curriri San Giuseppi di la putia...
doppu manciatu Maruzza si puliziava e 'ncasa di Sant'Anna si nni ja Picchi a la nascita di Gesù si priparava e idda cosi boni ci 'nsignava...Passa lu tempu e lu Bammineddu nascipi lavarici a tutti l'omini li grasci...E quannu fu grannuzzua la putia si nni ja"Bonu vinutu figghiu di MariaPigghia la sirricedda ca sirramu"E tutti li lignicedda a forma di cruci li facia!"Chi stati facennu figghiu di Maria?":A Iddu San Giuseppi ci dicia...E Iddu c'arrispunnia duci, duci:"A l'omini ha sarvari cu la Cruci!"
 
*****

La Madinnuzza 'ncammara sidia
Li robi a San Giuseppi puntiava
Pizzudda vecchi e novi ci mittia
A comu li putia accummidari...
San Giusippuzzu di fora vinia
Purtava un panareddu di cirasi...
Lu Bammineddu all'incontru ci ja:
"Mamma, mamma,
mamciamu ca veni lu tata?".
"No Figghiu, mancia tu ca si picciriddu,
Ca ju aspettu a to patri vicchiareddu...
Ti conzu na culla all'arbulicchiu
Pi fariti sintiri lu cantu di l'aceddu!"
...Passunu li Tri Rimaggi
e dicinu vidennu lu Figghiu di Maria:
"...Quantu è beddu!!!".

Fonte: la memoria di Anna Fragale (Marineo)


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                                       I mestieri scomparsi
                 C’era una volta e c’è ancora oggi ... l’Arte Bianca
                                       I Pani di San Giuseppe
                                      di Francesca La Grutta


“La cultura umana, la tecnica di frantumazione ed il consumo dei cereali sono strettamente legati fin dall’antichità al problema della nutrizione. Gli uomini primitivi non hanno conosciuto attrezzi per frantumare il grano poiché avevano mandibole talmente forti da rompere anche le noci. Solo in seguito, quando la forza della mandibola retrocesse ed aumentò l’intelligenza, l’uomo si avvalse delle pietre per frantumare il grano. Le prime notizie precise risalgono ai Sumeri, popolo che per primo si affacciò alla storia verso il 4.000 A. C. Nelle loro città, il tempio, che era sempre vicino al palazzo reale, fungeva da deposito delle granaglie ed il Grande Sacerdote ne era il custode.
I primi mulini a mano preistorici erano costituiti di un piatto di roccia di grande resistenza sul quale veniva sparsa una manciata di frumento per volta. I chicchi venivano frantumati con altra pietra dura, focaia, di forma rotondeggiante o piatta. Dalle prime pietre si passò ad un rudimentale mortaio composto da un trogolo e da un pestello, sistema ancora in uso in Africa e presso le popolazioni primitive. Il sistema, in verità grossolano, venne migliorato dagli Egiziani che incominciarono a ripassare su un contenitore piano e cilindrico, i granuli più grossi, in modo da ridurli per poter usare il prodotto così ottenuto anche per i bambini. Il primo tentativo di sfruttare il movimento rotatorio di due pietre circolari sovrapposte, di cm. 30 c. a., chiamate mole, fu realizzato dai greci, nel 3000 A.C. Bisognerà aspettare i Romani, però per poter parlare di vera e propria tecnica artigianale della “attività molitoria”. Presso gli Egiziani, i Greci e i Romani, i mulini erano mossi principalmente da animali, ma anche da schiavi, cittadini poveri, condannati. I mulini ad acqua furono un’invenzione del bacino orientale del Mediterraneo, la loro esistenza risale al I secolo A. C. Durante il tempo di Ottaviano Augusto, gli stessi, come ci tramanda Plinio, furono ampiamente costruiti a Roma sfruttando ruscelli e corsi d’acqua. Nel III e IV secolo d. C. , vi erano tre tipi di mulino: mulino a mano ( molae manuarie), mulino ad animale (molae iumentariae) e mulino ad acqua (molae acquariae). Anche Leonardo da Vinci, vegetariano, studiò i mulini ad acqua in ogni loro dettaglio. Quasi tutti i mulini con tramoggia, alla fine del secolo XVIII, erano ad acqua, esclusi quelli olandesi le cui pale delle ruote venivano azionate dal vento. Nella prima metà del XIX secolo, si raggiunse l’optimum delle cognizioni tecniche in materia di mulini e si ottennero i massimi risultati con le macine per mulini a pietra. Tra le novità introdotte, da evidenziare l’impiego di macine di quarzo più dure e capaci di reggere l’aumento della capacità di rotazione, la costruzione di parti in ghisa e acciaio al posto del legno, l’utilizzo di energie alternative come il vapore e l’elettricità. Il passaggio dalle macine a pietra al mulino a cilindri, nel XIX secolo, avvenne per l’appunto grazie all’invenzione della macchina a vapore e alla scoperta dell’elettricità. Ormai il cereale non viene più schiacciato e “confricato”, ma passa attraverso coppie di cilindri rotanti di ghisa dura. In tal modo viene realizzato un prodotto più raffinato e viene ridotto il surriscaldamento delle farine e, conseguentemente, il loro deterioramento. Oggi nell’industria alimentare, per mulino si intende l’intero impianto di trasformazione del frumento in sfarinati. Si dice che tre sono le persone che possono portare il camice bianco: i sacerdoti, i medici e i mugnai. Da sempre il mugnaio ha prodotto la farina e il fornaio e il pastaio hanno prodotto pane e pasta. La panificazione da sempre è stata considerata un’arte, comunemente definita Arte Bianca, ma quella che veramente è un’arte è la realizzazione dei panuzzi votivi .In Sicilia si realizzano panuzzi in occasione di molte feste religiose, ma quelli più famosi, e forse anche più belli, sono quelli che le donne realizzano in casa già un mese prima del 19 marzo, festa di san Giuseppe. Una tradizione, quella della festa di San Giuseppe, che affonda le radici nella mitologia greca con un preciso richiamo al culto di Demetra. La celebrazione della festa di San Giuseppe, il 19 marzo, risale al 1400 e si concretizza nella cultura popolare con la preparazione dei pani chiamati 'Cene di San Giuseppe' per ricordare l'ultima cena di Gesù con gli apostoli. San Giuseppe in Sicilia si conferma uno dei santi più amati, a giudicare dai numerosi festeggiamenti di cui è oggetto. E quella di San Giuseppe è una delle feste più tipiche e suggestive della tradizione dell'Isola. Un intreccio di fantasia e di abilità materiale, perché questa solare celebrazione del pane, quindi della fertilità e dell’abbondanza, apre anche le porte alla primavera. Feste che hanno il sapore di un risveglio dal torpore dell'inverno dato che il 19 marzo coincide con l'equinozio di primavera. Nei primi del 1600 San Giuseppe compare nel calendario romano universale e fino all'anno 1977 la data figura tra le festività religiose nazionali. I Pani votivi della Sicilia, vere sculture elaboratissime, oltre a raffigurare frutta, fiori, animali, mostrano dei costanti richiami simbolici alla sacralità di una festa che unisce al fervore religioso lo spirito di rinnovamento della terra nel momento che precede la primavera. Un culto che quasi sicuramente ha origini arcaiche: i culti della fertilità della terra in onore delle divinità delle messi: Demetra nella mitologia greca, Cerere in quella romana. A Demetra si attribuisce anche la nascita del pane, alimento di maggiore attenzione durante questa festa in quasi tutti i paesi della Sicilia. I pani vengono ricamati con varie forme che richiamano la natura, fiori, piante, animali, oppure le forme della religiosità cristiana, angeli, scale, sandali, corone di spine, croci, bastone e giglio di San Giuseppe. Aiutata dalle donne del quartiere, amiche e conoscenti, la donna, che ha fatto il voto di confezionare i panuzzi, lavora giorni e giorni per modellare con vera creatività ed arte tutto il pane. Si impastano quintali di farina, si lavora la pasta fino a che diventa omogenea, si divide in tocchetti e con vera maestria si procede alla modellazione figurativa, usando arnesi comuni come temperini, pettini con fitti denti, aghi, ditali, forbicine e un attrezzo metallico a pinza dentata. I pani del Santo vengono così creati dalle sapienti mani delle donne più esperte e alla fine saranno creati veri capolavori in miniatura. Tutti questi capolavori, prima della 'nfurnata’ (cottura in forno), vengono resi lucidi da una pennellata di chiara d'uovo battuto con succo di limone e, quando il colore dorato ricopre le teglie, la cottura è ultimata. Tutta la fatica dei preparativi viene offerta come un tributo d'amore a San Giuseppe, modello per ogni sposo cristiano. Il pane benedetto da un sacerdote viene poi donato ad amici e parenti che per un anno lo conserveranno nella loro casa come una reliquia . La donna che ha fatto il voto di realizzare i pani può anche preparare nella sua casa , il giorno di San Giuseppe , un altare che realizza allo scopo di chiedere una speciale protezione del focolare domestico e della famiglia dalle avversità. Sugli altari vengono posti pani a forma di croce, la colomba simbolo della pace, il pavone che indica l'immortalità, la palma che indica la redenzione, il pesce simbolo del Cristo, l'agnello che ricorda il sacrificio divino .Sugli altari compaiono spesso anche i caratteristici piatti dove sono cresciuti germogli di frumento, elemento anch'esso di forte simbolicità. Gli altari di ringraziamento sono elemento presente in quasi tutte le culture che si susseguirono in Sicilia, e che incisero nei costumi di varie località dell'isola.. Alcune storiche dominazioni hanno inoltre conferito un personale contributo alla tradizionale decorazione degli altari. Ad esempio, agli arabi si deve l'usanza di arricchire l'allestimento con la presenza di agrumi. In genere l’altare si prepara al centro della sala grande della casa , viene addossato a una parete interamente rivestita con un drappo bianco, deve avere cinque ripiani degradanti, tutti ricoperti di candidi lini ricamati, e si appende in alto un quadro raffigurante la Sacra Famiglia.
Ai lati si dispongono delle mensole con bianche tovaglie ricamate su cui si poggeranno oggetti simbolici di significato costante e di facile lettura: caraffe di vino, vasi di fiori, garofani e ‘balacu’ (violaciocche), frutta, fette di rossa anguria di gesso, lumini, candelabri, vasi con pesciolini rossi, arance e limoni alternati al pane. Ai piedi dell'altare si stende un tappeto dove vengono posati un agnello di pane, di gesso o di cartapesta, in riferimento al sacrificio di Cristo, un'anfora con acqua e un bianco asciugamano, disposto a forma di ‘M’, per ricordare la purificazione e dei piatti con germogli di frumento, che inneggiano alla terra .Questi sono tutti simboli presenti anche nei “sepolcri pasquali” perchè il tempo che intercorre tra la festa di San Giuseppe e la Pasqua, in genere, è breve . Una volta, in tempi lontani , c’era anche U mmitu di San Giuseppi , una usanza questa che oggi si sta riprendendo . U mmitu nasce originariamente come voto di ringraziamento o come voto per propiziasi una grazia. A farlo è in genere una persona devota, che si è impegnata con San Giuseppe a fare un pranzo di beneficenza, (cci prumettu di inchiri i panzuddri a tri picciriddri – prometto di riempire la pancia a tre bambini), per tre bambini poveri che rappresentano la Sacra Famiglia. U mmitu scioglie quindi una promessa, si adempie un voto fatto per fede e si segue la tradizione che ha, da sempre, un cerimoniale, fatto di gesti rituali, preghiere, canti, legato ad una simbologia assai complessa. La cena di San Giuseppe, folklore e rito insieme, è una dimostrazione esteriore di quella religiosità semplice, autentica, spontanea, singolare e piena di valore antropologico, solidarietà e fratellanza. Dopo la questua penitenziale fatta, a volte a piedi scalzi, per tutto il paese di porta in porta, se il voto è pubblicizzato, o a proprie spese se la promessa è: ‘fazzu u mmitu pi chiddu chi pozzu’ (faccio un pranzo per quello che posso) , la padrona di casa prepara , aiutata dai vari membri della famiglia e dalle amiche e vicine di casa, il pranzo, che deve essere di cento portate, deve prevedere nelle varie portate la presenza di tutte le primizie e deve essere servito dagli uomini . I mmiti più belli li ho sempre visti serviti nelle corti dei bagghi (Villapetrosa e Digerbato ) dove veniva, e ancora viene, montato un palco con un tavolo ricoperto da una tovaglia di lino ricamata al quale siedono un anziano che rappresenta San Giuseppe, vestito con un saio marrone e con un bastone in mano, , una giovanissima donna che rappresenta la Madonna, ricoperta da un manto di seta azzurra, e un bambino, che rappresenta Gesù, vestito con un saio candido. Queste tre persone povere mangiano tutto quello che possono mangiare ( cento portate ) e poi portano a casa tutto quello che è stato preparato ed è rimasto . Una tradizione questa che permetteva, e ancora permette, ai meno abbienti di poter avere di che cibarsi per qualche settimana. Oggi l’Arte bianca viene riproposta nelle scuole, nelle parrocchie, nelle famiglie e u mmitu, anche se sempre meno frequentemente, è qualcosa che si sta cercando di conservare nel tempo, per cui possiamo dire : C’era una volta …. Ancora c’è. 

Francesca La Grutta, articolo pubblicato nelle pagg.
12-13 de Il Vomere (Marsala)13 Marzo 2016.





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SAN GIUSEPPI SIDDIATU
alcune tipologie di voto al Santo Patriarca
di
Angelo Cucco

San Giuseppeè una delle figure più care alla devozione popolare siciliana e sono tante le feste che si celebrano in suo onore, molte delle quali, si scindono in due parti distinte ma complementari: una strettamente legata alla Chiesa (con processioni, solenni liturgie ecc.) e una marcatamente più popolare che prevede l’impegno del devoto nella realizzazione di tavole riccamente imbandite, fuochi rituali ed altre macchine festive. Ci occuperemo principalmente di questa seconda modalità di festa cercando di riassumere un argomento molto complesso e vario.

IL VOTO
Alla base di queste realizzazioni festive sta di solito un voto contratto da un singolo o una famiglia. Questo voto è vincolante e deve essere necessariamente sciolto, il Patriarca infatti è benevolo con i suoi devoti ma esige quanto promesso. Molti racconti di voti mancati per dimenticanza mettono in guardia dal promettere un altare, offerte di cibo, la tavula e poi non curarsene. Comune è, ad esempio, quello secondo cui l’immagine di San Giuseppe offeso (affunciatu) o triste (siddiatu) sia apparsa sul fondo del tegame a chi aveva dimenticato di assolvere al voto. Altrettanto comuni sono i racconti di sogni o “apparizioni” in cui il Santo redarguisce il devoto anche bastonandolo.
Il voto dunque come principio di un legame, la promessa, il patto con u Patri a Pruvidenza, nella consapevolezza che, quanto donato, ritornerà e che in ogni bisogno presente e futuro il Santo non abbandonerà i propri devoti: “Nta lu bisognu e nta nicissità San Giusepppi n’aiutirà!” “comu purtasti a Maria in Egittu, aiutatini nto bisognu strittu!
E’ bene ricordare che, oltre alle modalità di voto che andremo ad analizzare, ne esistono altre non meno importanti e diffuse: l’offerta di denaro, l’offerta di ex-voto o gioielli, l’offerta di candele, il seguire la processione a piedi scalzi, l’indossare un abito particolare (detto vutu).

OFFERTE ALIMENTARI
Il voto più comune è sicuramente l’offerta di cibo. Si offre cibo ai cantori che cantano in giro la novena o le parti di San Giuseppe, si può offrire del pane benedetto a chi ne fa richiesta, si può collaborare con offerte alimentari all’allestimento di un altare oppure, e questo è l’uso più diffuso, si può allestire un pranzo (solitamente giorno 19 ma non obbligatoriamente) per un certo numero di persone o bambini bisognosi. Le varie denominazioni assunte da queste figure – i Santi, i viriginiddi, la sacra famiglia, apuostuli ecc.- denunziano l’alterità della loro posizione: In quel momento, a pranzo, si recano figure sacre. Non a caso, a volte , indossano abiti particolari e si rievoca la fuga in Egitto con la reiterata richiesta di ospitalità. Il pranzo dei Santi ha una struttura precisa e prevede momenti rituali di grande intensità emotiva.
Per sciogliere questo voto, che spesso comporta la necessità di ingenti risorse, il devoto compie delle questue (tavula addimannata) e si fa aiutare da un gran numero di amici, vicini di casa e parenti. Nessuno nega il proprio contributo, perché a San Giuseppe non si dice mai di no!. Tutto il lavoro che si svolge è detto “u traficu di San Giuseppi” . All’aspetto caritativo che connota la festa si affianca anche un aspetto sociale di rinsaldamento dei legami, di fare comunità.
Aiuto maggiore serve nei casi in cui si contrae voto a tavula aperta ossia senza un numero prefissato di invitati: chiunque arriva deve essere servito.
Nei casi in cui invece il numero è fisso, l’ingresso delle pietanze nella stanza in cui si consuma il pranzo è spesso segnalato da scoppi di mortaretti e invocazioni gridate di “Evviva u Patriarca San Giuseppi”.
A Palermo, per strada, si allestiscono delle grandi tavolate che accolgono i bisognosi e in cui viene offerto un pranzo completo.
In genere è interdetto l’uso della carne perché San Giuseppe cade sempre in periodo quaresimale.

ALTARI, TAVULE, CENE, MENSE.
All’offerta alimentare si accompagna spesso la costruzione di sontuosi apparati domestici che recano alla sommità l’immagine del Santo e assumono vari nomi nei diversi paesi – tavule, altari, mense, cene ecc.- ed anche diversa struttura. Il principio è tuttavia comune: mettere in mostra la prosperità e il rigoglio naturale in onore di San Giuseppe. Non a caso infatti la festività cade a ridosso dell’equinozio di Primavera e segna un forte momento vitalistico e di confine, di rinascita e di richiesta di prosperità. Per comodità espositiva, quando generalizziamo, useremo il termine altari.
I cibi esposti su questi altari (sia cotti che crudi) possono variare, ma lo schema è sempre quello di una questua iniziale e una redistribuzione ai bisognosi. Immancabili sono comunque il pane, le arance -con il loro significato cosmogonico- e le primizie (gli stessi alimenti trovano spazio anche sui fercoli processionali). Il pane, alimento per eccellenza della tavola, si plasma con le più varie forme che vanno dall’universo naturale, a simboli della sacra famiglia, a parti del corpo del Santo (barba, mano, faccia), agli strumenti del lavoro (che ricordano anche quelli della passione), a simboli cristiani (croci, ostensori, calici) e cosmici (la spirale).
Famosi sono gli artistici pani di Salemi con cui si ricoprono enormi altari detti Cene. Ma altrettanto particolari sono, ad esempio, i pani di Salaparuta e Poggioreale riccamente intagliati su una base di marmellata di fichi (squartucciati). Anche a Palermo è uso fare pani dalla forma particolare per allestire gli altarini, mentre un pane particolare con i pizzi è detto di San Giuseppe.
Alimenti crudi (soprattutto vegetali) figurano in tutte le espressioni votive di Sicilia come a Giarratana, Corleone, Santa Caterina Villarmosa, Prizzi, Montemaggiore, Montelepre, Niscemi, Terrasini ecc. e, gradualmente, si sta diffondendo l’uso di inserire, in apposite stanze, offerte alimentari a lunga conservazione.
Sugli altari votivi, che si aprono solitamente il 18 sera e vengono visitati con ammirazione e devozione, possono trovare posto anche uno straordinario numero di pietanze cotte e dolci. A Borgetto (dove gli altari sono detti Mense), Partinico, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Leonforte vige la regola dell’abbondanza e sulla tavola si dispone di tutto, anche olio, vino, acqua ecc. A a Poggioreale e Salaparuta fanno bella mostra tantissimi tipi di dolci, e, nel secondo comune la cura della simmetria è millimetrica.
Negli altari di San Giuseppe possono prendere posto anche piantine di grano germinato decorate con caramelle e confetti (come a Castelbuono, Salemi, Niscemi) prefigurazioni di un’abbondanza che deve ancora arrivare.
Non mancano i sempre verdi (alloro, erbe aromatiche, palme), palese richiamo vitalistico.
Tutto ciò che è presente su queste strutture verrà re-distribuito ai bisognosi secondo varie formule.
Il luogo dove è allestito l’altare diviene sacro. Chi entra non deve chiedere permesso ma salutare il Santo con un segno di croce o, come a Terrasini, acclamando “Evviva u Patriarca San Giuseppi” a cui si risponde con un triplice “Evviva”.

VASTUNI, CANNISTRU E STRAULA
In onore a San Giuseppe si costruiscono anche vere macchine festive.
Un esempio è costituito dal Vastuni di Villabate, una struttura a stendardo-albero ricoperta di fiori, frutta e offerte votive che è condotto in processione per le strade del centro abitato e le cui soste sono festeggiate con offerte di cibo e vino, sparo di mortaretti e momenti di convivialità.
I Cannistri, preparati a Sant’Angelo Muxaro e a San Biagio Platani, sono strutture (solitamente 3) a tempietto riccamente ornate di frutta e fiori al cui interno è custodito il pane votivo. I Cannistri sono posti su piccoli fercoli e portati in processione prima del pranzo dei Santi.
A Straula di Ribera è invece una macchina festiva costruita in alloro e ricoperta di pani votivi. Sul prospetto, simile ad una edicola votiva, è incastonata l’immagine del Santo e trova posto anche l’agnello pasquale. Questa interessante struttura è posta su un carretto e portata in processione -durante la cavalcata dell’alloro- la Domenica precedente la festa.

FUOCHI RITUALI
La sera del 18 è comune in tanti paesi accendere grandi falò in onore di San Giuseppe. Questi fuochi, detti anche vampe o luminarie, sono interpretati in vario modo. Alcuni sostengono servano a riscaldare il passaggio della sacra Famiglia in fuga, altri li interpretano come omaggio al Santo, altri ancora come modo gioioso di vivere la vigilia.
In realtà sono fuochi rituali che segano un momento liminare nel ciclo dell’anno, non dimentichiamo infatti che ci troviamo a pochi giorni dall’equinozio! Il fuoco ha inoltre valore purificatore e sacrale, e trattandosi di un fuoco vigiliare mette in mostra tutte queste qualità.
Tramite il fuoco, comunque, si può offrire al Santo: è il caso degli oggetti nuovi o utilizzabili che vengono accatastati insieme al resto della legna. Le vampe, a volte ancora organizzate da ragazzini, possono assumere anche grandi proporzioni. In molti casi era tollerato anche qualche furtarello rituale di legna o materiale da ardere. Anche a Palermo, nonostante diverse interdizioni e in piena città, si accendono numerose vampe con grande partecipazione popolare.

CAVALCATE
Ultima manifestazione di devozione semi-privata (ad oggi spesso organizzata da enti o associazioni) è costituita dalle cavalcate in onore di San Giuseppe.
Un esempio è la retina di Caccamo che ha le caratteristiche di offerta e questa.
Particolare è invece la cavalcata che si svolge a Scicli il sabato seguente la festa del Santo. Oltre ai cavalli bardati in maniera tradizionale, sfilano dei cavalli coperti da grandi manti artisticamente infiorati con ghirigori, disegni e immagini della sacra famiglia.
Cavalcate si fanno anche a Ribera, Cianciana e Valguarnera.
Le cavalcate sembrano uscire fuori dallo schema del voto, un tempo tuttavia anche questo poteva rientrare nel meccanismo votivo: qualora la grazia fosse stata concessa si sarebbe decorato l’animale e partecipato alla cavalcata portando doni al Santo o si sarebbe questuato a cavallo in suo onore.
Vorrei concludere questo breve testo citando una quartina tratta dal “tistamentu di San Giuseppi” che si canta a Castelbuono. In questo testo, che narra appunto le ultime volontà di San Giuseppe, è lo stesso Santo ad indicare sia le modalità di voto gradite (la tavulata) che le figure da privilegiare per le offerte alimentari (orfani, vedove e bambini poveri):
“e vi lassu l’orfaneddri
i cattivi e i virgineddri
Sempri sia pi iddri cunsata
A mia gloria na tavulata!”

Angelo Cucco



CORSI E RICORSI STORICI

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Marco Aurelio

Spesso ci viene da pensare che la situazione attuale dell'Occidente somigli sempre più alla lenta decadenza dell'impero romano. E questo rende le cronache di Erodiano, autore minore del terzo secolo d.C., non prive di interesse anche per un lettore comune.

Carlo Franco

Dalle cacce di Commodo alle crudeltà di Massimino

Dal regno di Commodo all’ascesa di Gordiano III (180-238 d.C.) l’impero romano attraversò una fase piuttosto difficile, cui seguì, finita la dinastia dei Severi, una crisi ancor più grave. E poiché «crisi» è una parola tematica dei nostri anni, si comprende quale interesse oggi possa esservi per Erodiano, che narrò quella crisi antica. La sua Storia dell’Impero romano dopo Marco Aurelio è tornata ora disponibile (Einaudi «Nuova Universale», prefazione di Luciano Canfora, pp. XVI – 296, € 28,00), riprendendo la traduzione e le note pubblicate nel 1967 da Filippo Cassola.

Napoletano per origine e formazione, Càssola (1925-2006) insegnò per molti anni a Trieste, occupandosi del mondo antico intero, dalla Grecia antichissima (La Ionia nel mondo miceneo, 1957) alla repubblica romana (I gruppi politici romani nel III secolo a.C., 1962) e all’impero. La sua edizione di Erodiano e gli studi che l’accompagnarono mostrano anche il suo impegno filologico: a Càssola si deve anche la preziosa edizione degli Inni omerici per la Fondazione Valla (1975). L’ampiezza degli interessi e il taglio della ricerca sono evidenti scorrendo i suoi Scritti di storia antica. Istituzioni e politica (1993).


Quanto a Erodiano, anche se oggi non è tra le celebrità della storiografia classica, egli ebbe notevole fortuna in età moderna. Fu tradotto da Poliziano nel 1493 in latino (e per questa via letto da Machiavelli), e poco dopo fu disponibile in tedesco, francese e inglese. In Italia ebbe due versioni cinquecentesche (1522 e 1551), cui seguì quella pubblicata da Pietro Manzi nel 1821, e ripresa nel 1823. Il lavoro di questo letterato di Civitavecchia, appassionato di antichità e amico di Stendhal, ricevette alcune aspre critiche: la sua colpa era di aver tradotto Erodiano nello stile degli storici toscani del Cinquecento. Ma un tono tra Machiavelli e Guicciardini sembra adatto a rendere le scene di battaglia, i drammatici discorsi, le torbide congiure e le moraleggianti sentenze che Erodiano dissemina in abbondanza: anche la versione di Càssola adotta una patina arcaizzante, attenuata in lieve misura nella ristampa.

La frequenza delle traduzioni mostra che Erodiano godette a lungo di buona fama come storico: Edward Gibbon, per esempio, ne trascrisse interi discorsi nella sua Storia della decadenza e caduta dell’impero romano. Invece perdette molto credito sotto i colpi della filologia germanica: ma soprattutto come scrittore. Wilamowitz lo giudicò un imitatore senza valore («ein nichtiger Nachahmer»), mentre Eduard Norden, nella sua ricerca sulla prosa d’arte antica, lo liquidò con impazienza per lo stile, giudicato piuttosto banale: e si basò solo sul primo libro dell’opera – su otto –, aggiungendo: «gli altri non li ho letti».

Il disprezzo ha coinvolto a lungo anche il valore di Erodiano come storico: ma ad una analisi più equilibrata gli errori e le omissioni a lui imputate (come il silenzio sulla constitutio antoniniana) sono meno rilevanti di quanto era apparso. Nella sua chiara ed esaustiva introduzione, Càssola fa proprie le riserve circa Erodiano scrittore, quando scrive che il suo stile «è quanto di peggio possa immaginarsi: nessun autore è riuscito come lui nella difficile impresa di conciliare i più vieti artifici della retorica con un linguaggio povero, sciatto e banale»; Canfora riconosce invece allo scrittore «solida formazione letteraria» e alla sua prosa «grande chiarezza». Sul punto giudicheranno i lettori, tenendo conto del fatto che, in coerenza con l’impianto della collana, nell’attuale edizione non è presente il testo greco a fronte.

Quel che è certo è che, stile a parte, l’interesse per Erodiano è stato assai alto negli ultimi decenni, come mostrano le traduzioni in inglese (1969), russo (’72), olandese (’73), ceco (’75), spagnolo (’85), francese (’90) tedesco (’96). E intensa è stata anche la ricerca, dalle fonti (quanto Erodiano conosceva Dione Cassio?) alla attendibilità storica (il suo racconto va preferito alle svagatezze aneddotiche dei biografi della Storia augusta); dalla concezione storiografica (fu a suo modo un «tucidideo», secondo la moda teorizzata da Luciano nel Come si scrive la storia) alla visione politica (un uomo d’ordine, fautore della dignità del senato e dell’imperatore). Questo lavorio critico non appare però nel volume einaudiano: unica integrazione ai materiali raccolti da Càssola nel ’67 è la menzione della recente edizione critica del testo greco (2005).

   Commodo

Erodiano, storico della crisi, narrò i fatti del tempo suo: l’impero che passava dalle bizze di Commodo al rigore di Pertinace, dalla determinazione di Alessandro Severo alle follie di Elagabalo, fino alla crudeltà di Massimino. Il racconto ha un passo vario: concentrato sulle dinamiche di palazzo, meno attento all’amministrazione, talora rapido sulla politica estera, si distende però in pagine di scrittura efficace, eredi di grandi modelli seppure non stese con uno stile accurato. Difficile restare indifferenti alla descrizione delle cacce di Commodo nell’anfiteatro, al quadro dell’incendio di Roma nel 192 (quello in cui Galeno perse alcuni suoi libri), al racconto del lungo e inutile assedio posto ad Aquileia da Massimino Trace nel 235.

I materiali presenti nell’opera mostrano diversa qualità, e ciò potrebbe dipendere da una incompleta revisione formale: più difficile stabilire se e quando Erodiano parla di eventi dei quali era stato personalmente testimone (talora lo asserisce, ma non sempre convince). E comunque, oltre a qualche bella pagina, lo storico attira interesse perché presenta il proprio punto di vista sul periodo analizzato.

Il punto di vista di un greco, forse dell’Anatolia, al quale appaiono lontani sia gli «orientali» della Siria sia le terre d’Italia, così come gli sono incomprensibili i riti di Elagabalo per il dio Sole. Ma anche di alcuni usi romani egli parla in dettaglio ai suoi lettori, come di cosa sconosciuta, pur dopo secoli di dominazione; e così si trova nel libro Quinto una famosa descrizione della cerimonia della consecratio, che faceva dell’imperatore morto un (vero) dio.

    Eliogabalo

Politicamente, Erodiano era un outsider: quando parlava dei senatori non poteva dire «noi», come faceva invece Dione Cassio. Però, testimone di una Roma che «non funzionava più» come prima, aveva una visione chiara dell’impero. Non a caso la sua opera si apre con un quadro tutto elogiativo del regno di Marco Aurelio: in lui si riassumevano tutte le qualità del buon imperatore, giusto principe dei popoli e capace guida degli eserciti. Quel che i successori non riuscirono più a essere, in tutto o in parte.

Erodiano si poneva come fautore della disciplina e dei ceti abbienti, e denunciò le depredazioni e il crescente peso della rapace fiscalità. Diffidava degli imperatori che erano solo dei soldati e mancavano di cultura politica. Condannava i dominatori che esercitavano arbìtri e crudeltà tiranniche. Considerava un danno la scelta di sussidiare i barbari, invece di tenerli sotto controllo militare effettivo. Era un moralista che non amava gli eccessi del vizio nei potenti, e non lesinava qualche predica ai suoi lettori.

Come storico, si tenne lontano dagli eccessi della propaganda e della denigrazione, che pur gli dovevano essere ben noti. Fu attento al tema del consenso, ma gli ripugnavano i regnanti che facevano spettacolo di se stessi. Il suo racconto di Commodo che decapita gli struzzi durante le cacce nell’anfiteatro è straniante: in Italia si sono visti uomini di governo cucinare risotti in televisione o prodursi in analoghe prodezze. Le epoche di crisi fanno emergere leader degenerati, apparentemente grotteschi, e invece rovinosi per sé e per la collettività.


Il manifesto/Alias – 12 marzo 2017

E' MORTO DEREK WALCOTT

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E' stato il più grande poeta caraibico, spesso paragonato ad Omero per la serena classicità dei suoi versi. Di sé diceva: Sono solo un negro dai capelli rossi che ama il mare.
Raffaella De Santis
È morto Derek Walcott, poeta dei versi meticci
Era il poeta dei confini, dei versi meticci. Diceva di stare “tra la Grecia e il pantheon africano”. Derek Walcott è morto all’età di 87 anni nella sua abitazione sull’isola caraibica di Santa Lucia, dove era nato il 23 gennaio 1930, nella città di Castries. Era cresciuto in quella piccola isola vulcanica, sentendosi sempre un essere di frontiera, un meticcio dagli occhi verdi, “né abbastanza nero, né abbastanza povero”.

Il suo destino sembra scritto nella storia dell’isola e della sua famiglia. Quando era bambino la madre Alix declamava Shakespeare dentro casa. Del padre invece, che aveva perso quando aveva un anno, gli era rimasta una biblioteca, ricca di libri di poesia. È lì che aveva scoperto Walt Whitman, la leggera musicalità delle Foglie d’erba. Iniziò presto, seguendo un istinto infantile a scrivere versi. Una poesia al giorno. Cercava di imitare lo stile dei grandi, Whitman, Milton, Auden. E poi, più tardi, Dante, Joyce, Eliot. Si esercitava attraverso l’imitazione, come farebbe un pittore di bottega. La sua poesia nasceva da questo impulsivo e paziente artigianato.
Così quando poi era andato a insegnare a Boston, ai suoi allievi aveva cercato di spiegare una cosa spesso sottovalutata, che nella poesia la tecnica è fondamentale: “Bisogna imparare il mestiere, maneggiare gli schemi. Bisogna esercitarsi misurandosi con gli schemi degli elisabettiani e di Milton, con l’esuberanza di Omero e l’esattezza di Pope”. Per lui i modelli erano stati i grandi poeti della tradizione occidentale. Tra le sue opere più importanti c’è Omeros (scritta nel 1990 e in Italia pubblicata da Adelphi) in cui Walcott fa rivivere la forma del poema epico contaminandola con le storie caraibiche dell’isola di Santa Lucia. Non risparmiando il passato coloniale. Santa Lucia era stata una colonia britannica e questo aspetto influenzò la vita e il lavoro di Walcott.

Eppure, nonostante fosse la lingua coloniale, scelse di scrivere in inglese. Un inglese limpido, elegante. Ma la scelta non voleva dire sudditanza, semmai rimarcava la sua estraneità a qualsiasi appartenenza. “Sono nessuno” diceva. La sua era una storia di schiavi deportati dall’Africa, dolorosamente impastata di identità multiple, frammentate. E non tornò indietro dalla scelta di scrivere in inglese, neanche quando negli anni Settanta il movimento nero Black Power provò a criticarlo. Walcott rispose a modo suo, con un verso: “Non ho altra nazione che l’immaginazione”.
Fu Josif Brodskij, suo grande amico, a capire quanto importante fosse la sua poesia e a difenderlo dalla visione riduttiva di poeta caraibico. Prima che gli venisse assegnato il Nobel per la letteratura, nel 1992, Brodskij attaccò “la ritrosia dei signori critici ad ammettere che il grande poeta della lingua inglese è un nero”.
Walcott aveva pubblicato la sua prima raccolta di versi a 19 anni. S’intitolava semplicemente Poems e già c’era il suo stile: grande musicalità, amore per i paesaggi, nuvole, spiagge. Insomma, i Caraibi. Ai quali poi avrebbe aggiunto considerazioni storiche, sul passato coloniale dell’isola, e anche meditazioni metafisiche.
Nel 1962 pubblicò In a Green Night. Tra i suoi libri più belli ci sono: The Castaway and Other poems (1965), The Gulf (1970), Another Life (1973). In italiano sono disponibili, tra gli altri: Mappe del nuovo mondo, Egrette bianche, La voce del crepuscolo, Prima luce e Il levriero di Tiepolo (tutti pubblicati da Adelphi).
Forse però per capire chi era Walcott conviene citare qualche suo verso. Il suo autoritratto più bello lo regala lui stesso: “Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, ho avuto una buona istruzione coloniale, / ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese, / sono nessuno, o sono una nazione”. 
http://www.repubblica.it/

L. N. TOLSTOJ, Che fare?

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Esce in una nuova traduzione, da Fazi, il saggio del 1882 «Che fare, dunque?», dove Tolstoj denuncia le condizioni di vita del proletariato urbano russo. Come per il più famoso libro di Lenin (che non scrive nei “medesimi anni” visto che allora ne aveva poco più di dieci, ma due decenni più tardi e in una Russia molto diversa) il richiamo è al capolavoro di Cernysevskij che dal 1862 fu il libro di formazione di almeno due generazioni di intellettuali rivoluzionari russi.
Valentina Parisi
Viaggio nei bassifondi dove la rivoluzione è una risposta tardiva
In un giorno imprecisato dell’autunno 1901 Anton Cechov confidò a Ivan Bunin riferendosi a Lev Tolstoj: «…quello che più mi colpisce in lui è il disprezzo che nutre per noi scrittori. Ci considera dei bambini. Per lui i nostri racconti, le novelle, i romanzi sono solo giochi puerili». Con la sua innata sensibilità, Cechov coglieva un aspetto della cosiddetta «conversione» tolstoiana, forse meno visibile di altri, ma non per questo meno essenziale, e cioè quella critica spietata che, a partire dai primi anni ottanta, il conte di Jasnaja Poljana aveva indirizzato non solo verso il proprio ceto, ma anche e soprattutto nei confronti dei suoi colleghi letterati.
Una polemica ispirata non tanto da motivazioni di ordine estetico, quanto da una consapevolezza ben più radicale e tragica della vanità che si cela spesso dietro l’ambizione di scrivere. Tali recriminazioni sembravano paradossalmente ingiustificate alla luce dei rinnovati interessi sociali dimostrati dagli scrittori russi dopo l’abolizione della servitù della gleba nel 1861. Eppure le argomentazioni di Tolstoj – nate da una crisi esistenziale molto acuta – scavavano ben più in profondità, fino a minare le basi stesse su cui si fondava l’esistenza dell’intelligencija in quanto classe a se stante.
Com’è possibile infatti pensare di ammaestrare il popolo, se non si condivide con lui la stessa disperata lotta quotidiana per la sopravvivenza? Che diritto ha l’intellettuale di sottrarsi alla fatica fisica in nome di una sua presunta eccezionalità? E come possono artisti, pensatori o scienziati cambiare davvero le cose, se per primi, pur di potersi dedicare in tutta tranquillità alla ricerca o alla creazione, sfruttano senza nemmeno rendersene conto gli sforzi di chi li sfama?
Interrogativi impietosi che l’autore poneva a se stesso, ancor prima che agli altri, e che emergono in tutta la loro urgenza in Che fare, dunque?, riproposto ora da Fazi dopo una lunga assenza dagli scaffali nella nuova traduzione di Flavia Sigona (pp. 246, euro 20,00). Composta intorno al 1882, questa serrata disamina delle circostanze che determinano le diseguaglianze e l’ingiustizia sociale proietta sul piano collettivo quel che nella Confessione, scritta poco prima, era sofferta analisi interiore e discesa senza infingimenti nel proprio io.
Il punto di partenza è, ancora una volta, un dato di natura biografica: «Mai, in vita mia, avevo abitato in città. Quando nel 1881 mi trasferii a Mosca, restai stupito di fronte alla miseria urbana: conoscevo la povertà nelle campagne, ma quella cittadina era per me nuova e incomprensibile». Questo sbigottimento trapela in modo evidente dalle pagine in cui lo scrittore lascia a piedi la sua residenza di Chamovniki per vagare nei sobborghi operai, fino a raggiungere i luoghi più malfamati della Mosca proletaria, come il mercato della Chitrovka o il dormitorio Ljapin, descritti qualche anno dopo da Vladimir Giljarovskij nelle sue cronache di «nera» e nei suoi bozzetti.
Ma, a differenza di Giljarovskij, Tolstoj è totalmente immune da qualsiasi compiacimento naturalista, da qualunque concessione, seppur inconsapevole, al fascino oscuro dei bassifondi. Prevale piuttosto un disorientamento che si traduce prima in incredulità e poi in vergogna, di fronte allo stridente contrasto con le proprie sfarzose condizioni di vita. Se la prima, istintiva reazione sarà donare ai bisognosi quel che Tolstoj chiama «il mio stolido denaro», di lì a breve il romanziere si renderà conto che la carità resta fine a se stessa se non si accompagna a una più ampia riflessione sulle cause economiche e sociali che determinano la diseguaglianza, nonché a un radicale ripensamento dei propri comportamenti.

L’autore punta dunque il dito contro il principio della divisione del lavoro che ha sollevato intere classi (l’aristocrazia e l’intelligencija innanzitutto) dalla necessità dello sforzo fisico, finendo così per aggravare le condizioni di asservimento e di miseria in cui versa il popolo. Ricorrere il meno possibile alla manodopera altrui e svolgere da sé gran parte delle azioni indispensabili per provvedere a se stessi e ai propri cari diventa, in questa ottica, la conditio sine qua non per mettere fine allo sfruttamento e procedere alla ridistribuzione dei beni.

Il quadro che Tolstoj disegna dopo le sue incursioni nei bassifondi non è dunque particolarmente dissimile da quello tracciato nei medesimi anni da Lenin. L’emancipazione dei contadini dal giogo del servaggio non solo non ha significato l’eliminazione della schiavitù, ma ha portato a un massiccio fenomeno di inurbamento, con il conseguente passaggio da strategie feudali di asservimento a quelle che caratterizzano la moderna società capitalistica.
A questo proposito, stupefacente è l’intuizione tolstoiana dell’inevitabilità di una rivoluzione operaia, ribadita anche nei diari: «La rivoluzione non è ciò che può accadere, bensì ciò che non può non accadere. Ed è sorprendente che non sia già scoppiata». Ed è proprio questa prospettiva a rendere ancora più urgente la necessità di un rinnovamento radicale delle coscienze che Tolstoj interpreta nel senso del precetto evangelico: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha e chi ha del cibo faccia lo stesso».
Logico corollario di questa metamorfosi è il nuovo ruolo attribuito all’uomo di cultura, scalzato dal suo piedestallo e richiamato al dovere del lavoro manuale. Solo la rinuncia alla sua posizione di immeritato privilegio consentirà all’artista di creare opere comprensibili a tutti, perché dettate non dall’ambizione, bensì da una reale necessità interiore.
Spinto dal proprio insopprimibile massimalismo etico, Tolstoj consegna dunque ai posteri una visione dell’arte in cui il valore estetico è una diretta emanazione non del talento, bensì della purezza della propria posizione ideologica. Un programma che, per il tramite di Gor’kij e Lunacarskij, verrà ripreso dal realismo socialista e che negli anni novanta dell’Ottocento avrebbe fatto esclamare a uno sconsolato Cechov che per Tolstoj Maupassant o un Semenov qualsiasi sono la stessa cosa.
il manifesto/Alias - 5 marzo 2017

LE NOTTI DI FRANCESCA DI MARCO

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Ecco i versi di Francesca Di Marco che hanno ricevuto la "menzione d'onore" nella sez. Poesia in dialetto del Premio Nazionale L'ARTE IN VERSI della Regione Marche:

NOTTI

Luna russa, di sangu ‘nfucata
Tu lu vidisti comu fuv’arrubbata
A mia stissa, a la me dignità,
a la me arma, a la me libbirtà.

U ciriveddu cunfusu,
u cori cuntusu,
l’occhi stanchi
e i manu vacanti.

Li sensi mancanu e u fetu m’acchiana
Omini chi sbriognanu e nuddu li stana
Ti pigghianu e ti squartanu
Ti cunsumanu e ti eccanu.

Comu l’omu addiventa bestia
Puru s’ha dittu no a’ ‘la prima molestia?
Comu l’omu, di fimmina natu,
a mia, fimmina, m’ha ammazzatu?

Cielu nivuru d’aciddazzu,
corbi nivuri e carcarazzi,
fudda di pinseri nna’ ‘la me testa
a me vriogna è chiddu c’arresta.

Unciu li manu e i mettu ‘mpreghiera
Ma mancu pensu cchiù a com’era,
grapu lu cori, unciu lu pettu
gridu cchiù forti senza rispettu

di la luna, muta, ca un cunsola,
di sta notti, longa, ca nun vola;
di cristallu, accuminciu a lacrimari,
mi susu: ss’a ferita m’è sanari

Francesca Di Marco


Luna rossa, di sangue infuocata/ tu l’hai visto come sono stata derubata/a me stessa, alla mia dignità/ alla mia anima, alla mia libertà./ La mente confuao, il cuore ferito/ gli occhi stanchi e le mani vuote/I sensi mancano e il fetore sale/ uomini che violentano e nessuno li stana/ ti prendono e ti squartano/ ti consumano e ti gettano./ Come l’uomo diventa bestia/anche se hai detto di no alla prima molestia?/Come l’uomo, da donna nato/ a me, donna, ha ammazzato./Cielo nero di uccellacci, corvi neri e gazze/ folla di pensieri nella mia testa/la vergogna è ciò che mi resta./ Unisco le mani e le metto in preghiera/ma neanche ci penso a com’era/apro il cuore, gonfio il petto/grido più forte senza rispetto/della luna, muta, che non consola/di questa notte, lunga, che non vola;/di cristallo, inizio a lacrimare/mi rimetto in piedi, questa ferita devo sanare

W. BUTLER YEATS, I miei sogni

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Se avessi il drappo ricamato del cielo,
intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,
i drappi dai colori chiari e scuri
del giorno e della notte
dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,
stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:
invece, essendo povero, ho soltanto sogni;
e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
cammina leggera perché
cammini sopra i miei sogni.


William Butler Yeats

LA METAFISICA OGGI NON SA PIU' DI COSA OCCUPARSI

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Egon Schiele, Ragazza nuda accovacciata (particolare)



        Per parlare di puttane e bordelli non credo che occorra scomodare la filosofia. Ma, curiosi  e desiderosi come siamo di conoscere orizzonti nuovi, proviamo a leggere quest'articolo pubblicato su http://www.leparoleelecose.it/?p=26643

Metafisica della puttana reale

di Paolo Godani

Per molto tempo la filosofia, e in particolare la metafisica, si sono organizzate stabilmente, con la sicurezza della talpa nella sua tana, nella forma del trattato. Oggi che, per queste discipline almeno, il genere del trattato “scientifico” è diventato quasi solo il derisorio nome accademico di un oggetto indefinibile, situato tra la rassegna bibliografica e il quaderno di appunti, la filosofia ha un bisogno imperioso di cercare nuove forme di espressione.
Tra i pochi impegnati in questa ricerca, alcuni (per esempio Giorgio Agamben) ricordano come, da Parmenide a Lucrezio, i filosofi ancora percepissero la stretta parentela che li legava ai poeti, e come la percepissero, stranamente, proprio nel momento in cui pretendevano di comporre un’opera scientifica; altri tentano invece di reinventare uno stile per la filosofia mettendo le sue categorie alla prova di una molteplicità di eventi minimi o marginali, della storia o dell’esistenza. È ciò che fa, per esempio, Jacques Rancière, quando organizza i suoi testi attorno a quelle che chiama scene (come accade esemplarmente in Aisthesis. Scènes du régime esthétique de l’art, Galilée 2011) e che sono situazioni o momenti, in loro stessi quasi insignificanti, ma capaci nondimeno di presentare, come sulla scena di un teatro o sullo schermo del cinema, una svolta nel modo di pensare.
Sembra voler combinare entrambe le strategie Laurent de Sutter, in un testo, Metafisica della puttana, tradotto ora da Aldo Prini per la collana “Scienza” delle nuove e preziose edizioni Giometti & Antonello di Macerata.
Si tratta di un libro di poco più di cento pagine, organizzato in cinque parti, con un una cinquantina di brevi capitoli, che manifesta un’ormai rarissima attenzione e passione per la scrittura. Il lettore viene portato, senza soluzione di continuità, da Bukowski, con cui si apre il capitolo 0, a Bukowski, nella Coda che chiude il libro, passando per Baudelaire Godard, Berg, Joyce, Genet, come se le scene attraversate avessero il ritmo dei diversi movimenti di una partizione musicale, o come se si trattasse di Variazioni su un unico tema, quello della puttana.
Chi è, ammesso che possa essere un qualcuno, questo strano essere che a suo tempo popolava i bordelli? Che tipo di relazione intrattiene, con lei, il cliente di una prostituta? E soprattutto, che cosa cerca e che cosa gli rivela di sé quel rapporto? Laurent de Sutter, senza girarci troppo attorno, spiega che nella modernità la putain o la coquette ha sempre a che vedere nientemeno che con la verità. Più precisamente, con l’inestricabile intreccio di verità e apparenza, di realtà e illusione, di simbolico e immaginario, che costituisce il nostro mondo, e nel quale la puttana emerge come il reale allo stato puro.
Già Simmel, in un testo del 1909 sulla Psychologie der Kokotterie, aveva notato che la coquette– come ricorda Sutter – è “la donna che lascia credere di essere disponibile, ma presenta sempre ‘un’ultima segreta restrizione della propria anima’, che si limita a far immaginare. È questo quasi-niente sottratto alla possibilità del possesso ad essere oggetto del desiderio, e quindi causa dello sconvolgimento da esso prodotto – perché esso corrisponde a ciò che non avremo mai” (p. 72). La “civetta” insomma è colei che, nella sua esplicita esposizione, nella manifesta finzione che nondimeno fa realmente sorgere il desiderio, rende evidente sino a che punto l’illusione e la realtà siano inseparabili; al contempo, in lei si fissa un punto cieco, una casella vuota che è ciò a partire da cui tutto lo spettacolo si gioca, ma anche il luogo che di quello stesso gioco non potrà mai fare pienamente parte.
Da qui, Sutter giunge a formulare un vero e proprio “principio della civetteria”, che suona così: “ c’è verità solo nello sconvolgimento di un ordine; e c’è verità solo quando il motore dello sconvolgimento è il desiderio. Per questa ragione – d’altronde avviene lo stesso nella psicanalisi – pagare la puttana è così importante. Se il denaro è lo strumento dell’impossibile possesso, di conseguenza esso diventa anche la misura di quanto non può essere posseduto” (p. 73).
Questo qualcosa che non può essere posseduto sembra avere il suo luogo di residenza nel bordello o, più precisamente, il quello che Sutter chiama “il bordello del reale” (p. 61). Qui, in un paragrafo nel quale si parla di Lacan con Joyce e altri, il Reale si presenta come l’opposto della realtà: è non solo “il limite del basso”, ma è soprattutto l’incarnazione dei bassifondi, cioè anche “la parodia della città”. Il bordello è “il luogo del reale in un mondo completamente immaginario, ovvero completamente strutturato dalle distinzioni immaginarie operate dalla polizia in nome di una verità che non è nient’altro che un nome”; è per questo che “è sempre stato percepito come insopportabile da tutti coloro che accettano la verità soltanto come ordine, il tempo come norma, lo spazio come divisione. Il bordello– conclude Sutter forse parodiando Heidegger – è lì dove la cosa succede, indipendentemente dall’edificio, dalla camera o dalla cornice della porta entro cui qualcuno, per un istante, incontra una puttana” (ibidem).
Nondimeno, il Reale non è un altrove. Non è forse proprio questo che ci insegna il bordello di cui Sutter fa una sorta di rivelatore della realtà? L’idea della puttana, quella che consente di farne una metafisica, è l’idea di un mondo nel quale tutto è esposto e tutto è a disposizione, un mondo interamente risolto nell’equivalente generale e fantasmatico di un desiderio infinito – che però manca sempre il proprio soddisfacimento. Per questo la nostra realtà, che si regge sull’esposizione e la disposizione della merce, ha le apparenze di un bordello. Ma, per la stessa ragione, solo il bordello reale, quello in cui l’insoddisfazione del desiderio non è foriera soltanto di frustrazione, ma produttrice di una tensione verso ciò che si sottrae a ogni scambio possibile, può strappare il velo della finzione che governa la realtà. Così si pone, per Sutter, anche il problema politico della prostituzione. Non si tratta di guardare la puttana dal punto di vista del suo sfruttamento (come faceva ancora Aleksandra Kollantaj nelle Basi sociali della questione femminile, 1909), cioè, in fondo, di adottare lo stesso sguardo, seppur capovolto, del cliente borghese, “incapace di capire che, nel momento in cui andava a letto con Lulu, egli riceveva il suo amore, un dono che non dipendeva dal suo denaro ma dal suo essere” (p. 39). Non si tratta dunque di liberare la puttana, bensì di pensarla (spiega Sutter con Karl Kraus) come “la liberatrice”. Solo lei, infatti, offre gratuitamente il suo amore, anche a qualcuno che, avendo dato denaro in cambio, non si rende conto averlo ottenuto. “Se una rivoluzione-Lulu è esistita – si legge a proposito dell’opera di Berg – è stata una rivoluzione invisibile, una rivoluzione dello sguardo quale organo della percezione delle superfici” (ibidem), perché l’amore di Lulu, come l’amore venduto, donato e trattenuto da ogni prostituta, implica al contempo l’elevazione di quanto è superficiale e l’oblio del suo essere superficiale, cioè, insieme, la consapevolezza che l’amore, come la verità, si paga, e la verità che l’amore non si dà senza un “oblio del denaro” (p. 36).
Nonostante il piacere del testo, viene il sospetto che anche questa puttana, con il suo bordello, non sia che una metafora del (bordello) reale. E non perché, in fondo, tutto quanto si possa dire sul Reale sia sempre un modo per sviare il suo incontro, o perché il Reale si possa soltanto vivere e non pensare, ma perché ci sono discrete possibilità che l’esperienza reale del bordello sia più una triste copia che una parodia dell’esperienza “borghese”, del suo ordine e della sua polizia. È indubbio che il bordello, nel buon costume poliziesco che definisce le persone per bene, sia stato espulso ai margini della città e della civiltà, come se queste ultime non fossero anche, con ogni evidenza, l’incarnazione stessa della menzogna e della truffa (o del “vero” che “tenta di forcludere la verità”, p. 102); ed è altrettanto indubitabile che la nostra saggezza, come quella di Bukowski, non può che detestare “l’ordine, la polizia, l’evidenza, la regolarità, la regola, la norma, il gusto, il buono, il bene” (ibidem); ma appunto per questo dovremmo forse sapere che è illusorio fare affidamento ad ognuno dei contrari di quei termini per uscire dall’ordine del “Bene”. Bisognerebbe ammettere non solo che l’irruzione del Reale non può avere un suo domicilio stabilito, neppure se si tratta di un bordello, ma forse che il Reale non assomiglia neppure a qualcosa come un’irruzione, a un evento sopra-numerario che, per il solo fatto di essere fuori dagli schemi, sarebbe capace di sconvolge l’ordine costituito.
Davvero reale è forse soltanto lo sguardo distratto con cui una prostituta rivela che lì, nel suo bordello, non sta succedendo proprio niente di diverso da quanto succede fuori, niente di sublime, nessuna verità all’orizzonte, un lavoro come un altro, con il solito, tranquillo vociare che si sente in un mercato – da cui talvolta, come si sa, non solo il desiderio, ma neppure la pura dépense è esclusa.

Articolo ripreso da 
 



L'alternativa popolare di Alfano

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Alfano crea
ALTERNATIVA POPOLARE.
Un partito che preserva i valori del fondatore,
collocandosi alternativamente 
a destra, sinistra e centro. 

Salvatore Cacciola

Da www.prugna.net



F. FORTINI, Viva la rosa della primavera

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L'aria è fina e nera.
Viva la rosa della primavera.
E viva l'erba, i baci, il dolore.

Franco Fortini

CRISTINA CAMPO SULLA CONTEMPLAZIONE AMOROSA

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"Flores y vino", Ramón Gaya.

"Una ardente facoltà di contemplazione amorosa, là dove il possesso sarebbe più naturale e gratuito: forse è questa – contro ogni apparenza – la vera giovinezza, quella che nel poeta, nell'uomo di cuore, si prolunga fino alla morte. [...]
(Su Ramón Gaya). Uno scrittore italiano lo paragonò a quei santi islamici che corrono di villaggio in villaggio mormorando parole che sembrano insensate. Eppure nessuna di esse è senza fondamento; le muove il santo anonimato del vento «che tu non sai di dove venga né dove vada» e a cui nulla resiste se non, appunto, l'amore".

Cristina Campo

PROSCIUGARE LA PALUDE DEL CLIENTELISMO E DELLA CORRUZIONE

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Locri,19 marzo 2017. Stretta di mano tra don Ciotti e Sergio Mattarella e gli insulti al sacerdote cancellati 


      Oltre agli insulti e alle minacce a don Ciotti*, c'è da notare il fatto che il Presidente della Repubblica, ieri a Locri, prendendo le distanze dall'ottimismo di tanti, ha affermato che la mafia è ancora forte e occorre "prosciugare le paludi del clientelismo e della corruzione". Sembra che i politici e gli amministratori locali presenti alla manifestazione non abbiano ben capito a chi era rivolta la "raccomandazione" del capo dello Stato...
fv

* Per quanto riguarda gli insulti e le minacce a don Ciotti si rimanda a:

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/minacce-contro-don-luigi-ciotti

S. PENNA, Io non so più se muio o rinasco

IN MEMORIA DI RODOLFO WALSH

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Rodolfo Walsh, argentino, scrittore

di
È piccola, piazza Walsh, all’incrocio di Cile e Perù, nei quartieri più letterari di Buenos Aires. È piccola ma è come una potentissima calamita. Chiunque passi fra il barrio di San Telmo e Montserrat ne viene risucchiato e non solo in questi mesi in cui si celebrano i novant’anni dalla nascita e i quaranta dalla morte di uno degli scrittori decisivi del Novecento argentino.
Cosa attrae il viandante, anche il turista ignaro della storia di quest’uomo morto per il suo Paese, non è semplice spiegarlo. Sarà il balconcino da cui si affaccia una scultura che lo riproduce nella sua mitezza e curiosità di intellettuale o il mural che mette in scena tutti gli elementi della sua lotta per la libertà e la dignità di un popolo: gli scacchi, la macchina da scrivere e gli occhiali sullo sfondo della celebre fucilazione dipinta da Goya (El tres de mayo de 1808 en Madrid)? O forse c’è altro ancora?
L’eco che risuona in quella frase con cui si conclude la celebre Lettera aperta di uno scrittore alla Giunta Militareche segnò la condanna a morte di Walsh. Vergata sul muro in un corsivo all’antica essa sentenzia: “fedele al patto di dare la mia testimonianza nei momenti difficili”.
Forse è questa frase con ciò che sottintende e che tutti gli argentini sanno, ossia le parole precedenti: “senza aspettarmi di essere ascoltato e con la certezza di essere perseguitato”? O forse è tutto quanto insieme. Perché tutto questo fu Walsh. E di lui non resta certo soltanto questa piazzetta, per quanto misteriosamente magica, né la fermata della metro a lui intitolata nei luoghi in cui fu crivellato di colpi prima di essere fatto sparire,desaparecido come migliaia di suoi simili, né le condanne che finalmente, nell’era Kirchner, sono state emesse nei confronti dei suoi aguzzini. Di lui resta, quasi intera, l’opera letteraria – testimonianza, certo, ma ormai soprattutto esempio.
Era nato a Choele-Choel, Rio Negro, il 9 gennaio del 1927. Famiglia irlandese, studi in un collegio di monache a Buenos Aires, due anni di università, lavori di ogni tipo, fra frigoriferi, anticaglie, lavapiatti, lavavetri, fino a entrare in una casa editrice come correttore di bozze. Ossia, il mestiere che scelse per il suo primo eroe, l’investigatore Daniel Hernández, protagonista dei racconti pubblicati a partire dal 1953 che in questi anni sono tornati sui nostri scaffali (Variazioni in rosso e Per non parlar del morto, entrambi editi da SUR). Sciogliere l’enigma con il puntiglio del correttore di bozze e la concentrazione dello scacchista  – ecco il cuore di questo tipo di investigazione sui generis in cui il ragionamento e la logica assieme alla tenacia non possono che portare alla verità. L’identificazione di Walsh con Hernández divenne però completa nel momento in cui la vita dell’autore prese la sua forma definitiva, quella dell’impegno sociale e politico.
È nell’estate del 1956 che Walsh viene a conoscenza di una storia di fucilazione sommaria da parte delle forze di polizia che sostengono il governo che si è sostituito con un golpe a Juan Domingo Perón l’anno precedente. Quello che ne vien fuori è il capolavoro letterario di Walsh. Con Operazione massacro (La Nuova Frontera), ben prima di Truman Capote, egli si affida a una forma narrativa destinata a enorme successo, una forma ibrida in cui romanzo e non fiction s’intrecciano raccontando in tutta la sua drammaticità una vicenda su cui l’autore indaga a lungo con le armi dello scacchista in cerca della soluzione e della verità.
La verità non ha valore in se stessa, fuori dalla realtà su cui incide, quasi fosse la semplice soluzione di un enigma logico da settimanale di intrattenimento. La verità vale solo quando può dar forma alla vita di uomini e donne in lotta per la libertà. È con quest’idea, adesso definitiva e solida, che Walsh parte per Cuba nel 1959 per lottare contro la campagna di stampa internazionale che sta cercando di infangare le imprese dei barbudos. Assieme a Gabriel García Marquez, fonda la “Prensa Latina”, un’agenzia di stampa anti-imperialista. Con le sue armi di enigmista, intanto, decritta un cablogramma in cui viene preannunciata l’invasione della Baia dei Porci. C’è anche Walsh dunque dietro alla difesa dell’isola. Argentino come Guevara, può capire il brusco e duro Che molto meglio dei cubani, ma lui, a Cuba, diversamente dal Comandante, cerca anche un po’ di libertà dall’educazione rigorosa e monacale. Le avventure a pagamento con ragazze vitali e astute diventano la scusa per un’autoironia che lo alleggerisce dai sensi di colpa. Ma Cuba non può durare a lungo.
È in Argentina che Walsh sente di dover portare il suo contributo. Negli anni seguenti, con racconti e reportage (usciti ora nelle raccolte Il violento mestiere di scrivere  e Fotografie, entrambe edite da La Nuova Frontiera) cerca di trovare ascolto non solo fra gli intellettuali. Vivisezionare i meccanismi del potere con semplicità e spirito narrativo capace di sedurre il lettore – questo è il senso dell’impegno politico e letterario di Walsh. In un breve articolo sulla morte di Che Guevara, egli però ci confessa tutta la sua insoddisfazione: “per molti di noi è difficile rifuggire la vergogna, non di essere vivi ma che Guevara sia morto con così pochi intorno a lui”. Non basta a Walsh la macchina da scrivere? O forse vuole spingerla ancora più in là, sempre più in là, verso la verità che smaschera e umilia gli oppressori?
Gli ultimi anni di vita di questo scrittore che ci insegna il valore della vita più che la gloria della morte, girano tutti attorno a questo dilemma. Walsh rientra in clandestinità come negli anni in cui ha lavorato a Operazione Massacro.
Pubblica altri due romanzi di non fiction su altrettanti casi di omicidi oscuri e intanto entra tra le forze rivoluzionarie peroniste dei Montoneros. Non ne condivide gli estremismi. Ma c’è ormai poco da discutere quando nel marzo del 1976 la giunta militare guidata da Videla prende il potere. La libertà di stampa è soppressa integralmente e Walsh fonda l’agenzia di stampa clandestina Ancla (“Riproducete queste informazioni, fatele circolare come potete: a mano, a macchina, oralmente. Mandate copie ai vostri amici: nove su dieci le stanno aspettando. A milioni vogliono essere informati. Il terrore si basa sulla mancanza di comunicazione. Tornate a provare la soddisfazione morale di un atto di libertà. Sconfiggete il terrore”).
Sua figlia Vicky, ventiseienne anch’essa fra i Montoneros, viene uccisa in uno scontro a fuoco, come uno dei migliori amici di Walsh, Paco Urondo. L’uso della parola, la diffusione con ogni mezzo della verità è quel che resta. Walsh scrive la celebre Lettera aperta. La invia a ogni giornale e rivista il 24 marzo del 1977 a un anno esatto dal golpe militare. Il giorno dopo viene ucciso. Nella sua abitazione clandestina, distrutta e ripulita dai militari, era depositato un ultimo manoscritto, un’opera completamente letteraria dal titolo Juan se iba por el río.
Durante il processo ai suoi aguzzini, la figlia Patricia ha implorato che venisse restituita. Un ghigno silenzioso è stata la risposta sprezzante. È difficile immaginare la storia di narrativa pura a cui Walsh doveva essersi dedicato negli ultimi anni di lotta clandestina e dolori intollerabili. Certo ogni senso di vergogna in lui doveva essere sparito. E forse è questo che deve aver confuso e terrorizzato i suoi omicidi. La possibilità che un uomo in lotta avesse trovato l’impossibile serenità interiore per tornare alla letteratura.
Questo pezzo è già uscito sul Venerdì di La  Repubblica il 20 marzo 2017  (fonte immagine). Noi l'abbiamo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/wp/rodolfo-walsh-argentino-scrittore/ che ringraziamo.

MARIA SILVIA CAFFARI, In giorno di poesia

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         Questa mattina ho ricevuto questi splendidi versi. Ed io non so come ringraziare Silvia per questo grande dono. fv



In giorno di poesia
la primavera resta
primavera,

mani piccole nuove
bianche e rosa,
a grinze di neonati.

Linfa lenta muove
nelle vene dell’inverno,
ancora.

Fragili attacchi ai rami,

sete robuste i petali
il vento porta via
lontano quanto il lancio
di un grido di bambino.

Un nevicare di farfalle.

Sembra pace
ed è ancora guerra
qualcosa nasce qualcuno muore,
in primavera.

La lacerazione
sul filo di un timore
che troppo si chieda
a chi non crede
d’avere la forza
di ricominciare.


Maria Silvia Caffari



STEFANO VILARDO FESTEGGIA IL SUO COMPLEANNO CON UN NUOVO LIBRO

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       Esce proprio oggi, 22 marzo 2017, nei sobri ed eleganti tipi dell'editore catanese Angelo Scandurra, l'ultimo libro di Stefano Vilardo: GARIBALDI  E IL CAVALIERE. Storia, racconti e folclore di un paese della profonda Sicilia. L' editore ci ha tenuto a far uscire il lungo racconto del maestro di Delia (CL) il giorno stesso del suo novantacinquesimo compleanno, e questo credo che sia il miglior regalo che gli si potesse fare.
       Noi il prezioso libretto di 145 pagine l'abbiamo già tra le mani e, possiamo anche dire, di averne seguito con ammirazione la gestazione. Negli ultimi mesi, infatti, l'autore - che conserva intatta la sua capacità di meravigliarsi e di indignarsi - ce ne parlava, regalandoci, spesso, anche il piacere di ascoltarlo mentre ne leggeva mirabilmente alcune pagine ancora inedite.
       Naturalmente Vilardo scrive della Sicilia di una volta, di storie e persone che non esistono più. Ma è anche questo a rendere ancora più preziosa la sua scrittura. Gli scrittori di razza lasciano ai giornalisti il compito di parlare e di scrivere della Sicilia odierna. E non è un caso che sia stato l'autore stesso, più lucido che mai, a scegliere il brano che occupa la quarta di copertina del nuovo libro:

Ma ragazzo mio, non credere che sia lo sfizio di un 
vecchio rimbambito, d'un incallito stravagante il mio. 
È la vita, mio giovane amico, che infilo nell'occhiello 
della giacca, la gioia, il desiderio. Il garofanino, il 
ciuffetto di balco, la margheritina, non sono altro che il
 profumato distillato della vita: lontana, irraggiungibile 
fanciulla che sempre pìu tristemente si allontana e mi 
saluta mesta e irridente nello stesso tempo.

      fv

ALAIN BADIOU, Essere giovani oggi

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 Ho letto La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani di Alain Badiou, uscito per Ponte alle Grazie nella traduzione di Vincenzo Ostuni, mentre stavo facendo una ricerca sul tema delle generazioni in poesia, che oggi in Italia porta con sé una sorta di morbo, molte verità e molte distorsioni. Cercando di far dialogare tra loro quelle verità e quelle distorsioni, è restata, senza remissione, la radice di un problema contemporaneo che va ben oltre l’atavico conflitto padri-figli, che denuncia in Occidente situazioni cruciali di ordine simbolico e materiale, che mette in discussione certi aspetti del pensiero nichilista parallelamente ai modelli economici dominanti. Può essere interessante iniziare a leggere La vera vita dall’ultimo capitolo, A proposito del divenire contemporaneo delle ragazze, che offre una delle analisi più lucide sull’evoluzione del femminismo, sulle relazioni tra generi, identità e competenze, sessualità e lavoro. Andare quindi a ritroso, con il secondo, A proposito del divenire contemporaneo dei ragazzi, e con il primo, Essere giovani oggi: senso e non senso, da cui sono tratti i seguenti brani. Si ringrazia l’editore per aver permesso di pubblicarli.(Maria Borio)

La vera vita

di Alain Badiou

La «vera vita», ricordiamolo, è un’espressione di Rimbaud. Ecco un autentico poeta della giovinezza, Rimbaud. Qualcuno che fa poesia a partire dalla propria esperienza totale della vita che comincia. È lui che, in un momento di disperazione, scrive in modo straziante: «La vera vita è assente». È questo che la filosofia c’insegna, o comunque tenta di insegnarci: che se la vera vita non è sempre presente, essa non è neppure mai completamente assente. Che lei, la vera vita, sia un po’ presente, è quello che il filosofo vuole dimostrare. E corrompe la gioventù nel senso che tenta di dimostrarle che esiste una falsa vita, una vita devastata, che è la vita pensata e praticata come lotta feroce per il potere, per il denaro. La vita ridotta, con ogni mezzo, alla pura e semplice soddisfazione delle pulsioni immediate.
[…]
In fondo, dice Socrate, e per il momento non faccio che seguirlo, per conquistare la vera vita bisogna lottare contro le prevenzioni, i preconcetti, l’obbedienza cieca, le consuetudini ingiustificate, la concorrenza illimitata. Fondamentalmente, corrompere la gioventù significa una cosa sola: tentare di fare in modo che la gioventù non ripercorra i sentieri già tracciati, che non sia semplicemente votata a obbedire ai costumi della città, che possa inventare qualcosa, proporre un altro orientamento per quel che riguarda la vera vita.
[…]
In primo luogo, è una giovinezza non più sottomessa a una severa iniziazione. Non le vengono imposti i riti, spesso ardui, che segnano il passaggio dalla giovinezza all’età adulta. La seconda caratteristica che sottolineerei è che si attribuisce alla vecchiaia un valore minore, infinitamente minore. Nella società tradizionale, i vecchi sono sempre i maestri, sono valorizzati come tali, naturalmente a svantaggio dei giovani. La saggezza si trova dal lato della lunga esperienza, dell’età avanzata, della vecchiaia. Oggi questa valorizzazione è sparita, a tutto vantaggio del suo contrario: la valorizzazione della giovinezza. È quel che si è chiamato il «giovanilismo». Il giovanilismo è una sorta di capovolgimento dell’antico culto dei vecchi saggi. L’intendo su un piano teorico, o piuttosto ideologico, perché il potere è ancora in gran parte concentrato nelle mani di adulti, anzi di adulti già quasi vecchi. Ma il giovanilismo, in quanto ideologia, in quanto tema della pubblicità mercantile, impregna la società, che prende a modello i giovani. Come del resto prediceva Platone a proposito delle società democratiche, abbiamo l’impressione che i vecchi vogliano restar giovani a qualunque costo, e che i giovani non aspirino altrettanto a divenire adulti.Alcuni tratti positivi sembrano caratterizzare la gioventù contemporanea, e dovrebbero differenziarla dalle gioventù che l’hanno preceduta. Si può in effetti sostenere che, per ragioni molteplici, oggi i giovani dispongono di un margine di manovra più ampio di una volta, tanto per bruciare quanto per costruire la propria esistenza. In parole povere, sembra che il tratto più generale della giovinezza, almeno nel nostro mondo, il mondo che chiamiamo Occidente, sia il fatto che è una giovinezza più libera.
[…]Il fatto che non ci sia più un’iniziazione è un dato che va letto in due sensi. Da un lato esso espone i giovani a un’adolescenza infinita, dunque all’impossibilità di trattare le passioni, di regolare quelle passioni, e questo implica anche – si tratta della stessa cosa vista al contrario – quella che potremmo definire una puerilizzazione dell’adulto. Un’infantilizzazione. Dall’altro, il giovane può rimanere indefinitamente giovane perché non esistono marcature particolari, il che in un certo modo significa che l’età adulta è un prolungamento dell’infanzia in una maniera che è al contempo continua e parziale. Si potrebbe dire che questa puerilizzazione dell’adulto è il correlato della potenza del mercato. Fra l’adolescenza dei giovani e la sottomissione generale e infantilizzante alla regola dell’acquisto, con i soggetti che tutti compaiono davanti allo scintillio delle merci sul mercato mondiale, abbiamo come risultato una sorta di erranza della giovinezza. Quando esisteva l’iniziazione, la giovinezza era fissa, ora invece è errante, non conosce le sue frontiere, i suoi limiti, è al contempo distinta e indistinguibile dall’età adulta, e questa erranza è anche – così vorrei definirla – un disorientamento.
[…]Che dire del secondo argomento a favore della gioventù, ovvero il fatto che non si dà più una valorizzazione della vecchiaia? Ebbene, questo ha notevolmente rafforzato una paura della giovinezza, che accompagna come un’ombra la sua valorizzazione esclusiva. Questa paura della giovinezza, e in particolare della giovinezza popolare, è del tutto caratteristica delle nostre società. E questa paura non ha più un contrappeso. Un tempo esisteva una paura della giovinezza nel senso che la vecchiaia, la saggezza trasmessa dai vecchi, doveva contenerla, padroneggiarla, imporle identificazioni, limiti. Ma oggi si verifica qualcosa di molto più inquietante, che è la paura dell’erranza della giovinezza. Si ha paura della giovinezza proprio perché non si sa che cosa essa sia, che cosa possa essere, perché essa è interna allo stesso mondo adulto e al contempo niente affatto interna, è altro senza essere altro. I giovani si trovano in una società che allo stesso tempo decanta la giovinezza e ne ha paura. Questo è un fatto certo. E l’equilibrio fra le due cose ha come risultato che la nostra società non riesce a trattare il problema della propria stessa gioventù. E quando, com’è il caso di oggi, la società non è più in grado di fornire lavoro a questi giovani, i problemi si fanno molto seri. Perché avere un lavoro era un po’ l’ultima forma d’iniziazione, era così che sembrava cominciare la vita adulta. Anche questa, oggi, viene rimandata a lungo, finisce per arrivare molto tardi.
Si può probabilmente affermare che le evidenti nuove libertà della gioventù dimostrano che non ci troviamo più nel mondo della tradizione. Ma constatiamo anche che non trovarcisi più pone problemi la maggior parte dei quali non sono ancora risolti. Del resto non solo per i giovani, ma anche per i vecchi. I primi sono erranti e fanno paura, i secondi sono svalutati e piazzati in appositi istituti, con il solo destino di morire «in pace».
Vi propongo allora un’idea militante. Sarebbe giusto organizzare un’ampia manifestazione per l’alleanza fra i giovani e i vecchi, rivolta esplicitamente contro gli adulti di oggi. I più ribelli sotto i trent’anni e i più coriacei sopra i sessanta contro gli affermati quaranta-cinquantenni. I giovani direbbero che ne hanno abbastanza di essere erranti, disorientati e interminabilmente privi di ogni marca d’esistenza positiva. Direbbero anche che non è un bene che gli adulti facciano finta di essere eternamente giovani.
[…]
I giovani si trovano alle soglie di un nuovo mondo, un mondo che non sarà più quello plurimillenario della tradizione. Voi vi trovate nel frangente di una crisi delle società che scuote e distrugge gli ultimi resti della tradizione. E di questa distruzione, di questa negazione, noi non conosciamo realmente il versante positivo. Sappiamo che essa apre incontestabilmente a una libertà. Ma questa libertà consiste soprattutto nell’assenza di determinati divieti. È una libertà negativa, consumista e consacrata all’incessante variabilità dei prodotti, delle mode e delle opinioni. Essa non stabilisce alcun orientamento verso una nuova idea di vera vita.
[…]
Il punto forse più sorprendente, e comunque quello su cui dobbiamo soffermarci qui, è che l’uscita dal mondo della tradizione, questo vero e proprio tornado che si abbatte sull’umanità e in appena tre secoli spazza via forme di organizzazione che duravano da millenni, crea una crisi soggettiva di cui percepiamo oggi le cause e la portata, e uno dei cui aspetti più vistosi è precisamente l’estrema e crescente difficoltà che la gioventù incontra nel situarsi nel nuovo mondo.
È questa, la vera crisi. Oggi tutti parlano della […]«crisi». Si crede talvolta che sia la crisi del capitalismo finanziario moderno. No! Niente affatto! Il capitalismo è in piena espansione globale, e il suo proprio modo di sviluppo ha sempre comportato crisi e guerre, mezzi tanto selvaggi quanto necessari per ripulire le forme della concorrenza e consolidare la posizione dei vincitori. Ricordiamoci del punto al quale siamo. Come diceva Mao Zedong, bisogna sempre «avere le cifre in testa». Oggi, il 10% della popolazione mondiale detiene l’86% del capitale disponibile. L’1% detiene da solo il 46% di questo capitale. E il 50% della popolazione mondiale non possiede esattamente nulla, lo 0%. L’uscita dal mondo gerarchizzato della tradizione non ha proposto una simbolizzazione non gerarchica, ma unicamente una violenta costrizione reale sotto il giogo dell’economia, accompagnata da regole di calcolo sottomesse agli esclusivi appetiti di un piccolo numero di persone. Ne risulta una crisi storica della simbolizzazione, entro la quale la gioventù contemporanea patisce il suo disorientamento.
Al riguardo di questa crisi, la quale, con il pretesto di una libertà neutra, propone il denaro come unico referente universale, vi sono oggi due percorsi attivi, l’uno e l’altro, a mio giudizio, assolutamente conservatori e inadeguati alle vere questioni soggettive in preda alle quali oggi l’umanità, e soprattutto la sua gioventù, si ritrovano.
La prima è l’apologia illimitata del capitalismo e delle sue vuote «libertà», gravate come sono dalla vana neutralità della sola determinazione mercantile. Diamo un nome a questo percorso: il richiamo a quel che chiamo «desiderio d’Occidente», ovvero l’affermazione che non esiste né può esistere nulla di meglio del modello liberale e «democratico» della nostra società, qui da noi in Francia e in tutti gli altri paesi dello stesso tipo. Il secondo percorso è il desiderio reattivo di un ritorno alla simbolizzazione tradizionale, ovvero gerarchica. Questo desiderio si ricopre spesso dell’una o dell’altra narrazione religiosa, che si tratti di sette protestanti negli Stati Uniti, dell’islamismo reattivo nel Medio Oriente o del ritorno al giudaismo ritualista in Europa. Ma si annida altrettanto bene nelle gerarchie nazionali (Viva i francesi «di origine»! Viva l’ortodossia grande-russa!)nel razzismo puro e semplice (islamofobia di derivazione coloniale o antisemitismo ricorrente) o, infine, nell’atomismo individuale (Viva Me e abbasso gli altri!). Questi due percorsi sono a mio parere vicoli ciechi estremamente pericolosi, e la loro contraddizione, sempre più sanguinosa, avvia l’umanità verso un ciclo di guerre senza fine. È il vero problema delle false contraddizioni, che impediscono il gioco della contraddizione autentica.
La contraddizione autentica, quella che dovrebbe servirci da riferimento, per il pensiero come per l’azione, è quella che oppone due visioni dell’uscita ineluttabile dalla tradizione simbolica gerarchizzante: la visione a-simbolica del capitalismo occidentale, che crea mostruose diseguaglianze ed erranze patogene, e la visione generalmente denominata […]«comunismo», che a partire da Marx e dai suoi contemporanei propone di inventare una simbolizzazione egualitaria.
Questa contraddizione fondamentale del mondo moderno è oggi mascherata, dopo il provvisorio fallimento storico del «comunismo» di Stato nell’Unione Sovietica o in Cina, dalla falsa contraddizione che, al riguardo dell’uscita dalla tradizione, si instaura tra la pura negatività neutra e sterile dell’Occidente, che dissolve le antiche gerarchie simboliche a tutto vantaggio delle gerarchie reali, dissimulate dalla neutralità monetaria, e la reazione fascisteggiante che, con una violenza spettacolare volta a camuffarne la reale impotenza, propugna il ritorno alle antiche gerarchie.
[…]
È nel quadro di quest’esigenza di simbolizzazione egualitaria che posso tornare ai giovani, i primi ad esser colpiti, assieme ai più vecchi, dal dominio della falsa contraddizione.
Voi giovani siete immersi nel doppio effetto della reale uscita dalla tradizione, e della dimensione immaginaria della falsa contraddizione. Siete d’altro canto, io lo credo, sulla soglia di un nuovo mondo, quello della simbolizzazione egualitaria. Il lavoro non è semplice: fino a oggi, tutte le simbolizzazioni sociali sono state gerarchiche. Dovete dunque accordare la vostra soggettività a un compito completamente nuovo: l’invenzione, contro la rovina del simbolico nell’acqua gelida del calcolo capitalistico e contro il fascismo reattivo, di una nuova simbolizzazione.
Si può dunque dire che esiste quel che voi potete costruire, ma che esiste anche quel che vi fa andare più lontano; esiste quel che vi può «sistemare» ma esiste anche la vostra capacità di viaggio, d’esilio. Le due cose esistono allo stesso tempo. Il «sistemarsi» può essere revocato a partire da un’erranza che non è più nichilista, ma da un’erranza orientata, da una bussola per trovare la vera vita, da un simbolo inedito.
Quest’ultimo punto, in relazione alla contraddizione fra bruciare la propria vita e costruirla, è qualcosa che, consciamente o inconsciamente, costituisce la soggettività della gioventù. Direi che occorre stabilire un legame fra i due. Esiste quel che volete costruire, quello di cui siete capaci ma esistono anche i segni di ciò che vi chiama a partire,   ad andare oltre quello che sapete fare, costruire, «sistemare». Il potere della partenza. Costruire e partire. Non c’è contraddizione fra i due. Saper rinunciare a quel che si costruisce perché qualcos’altro vi ha fatto cenno in direzione della vera vita. La vera vita, oggi, situata al di là della neutralità mercantile, e al di là delle vecchie idee di gerarchia.

Da |

F. FORTINI, Vorrei che i vostri occhi potessero vedere ...

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ph Marina Mar



Vorrei che i vostri occhi potessero vedere
questo cielo sereno che si è aperto,
la calma delle tegole, la dedizione
del rivo d’acqua che si scalda.
La parola è questa: esiste la primavera

la perfezione congiunta all’imperfetto.
Il fianco della barca asciutta beve
l’olio della vernice, il ragno trotta.
Diremo più tardi quello che deve essere detto.
Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,
i lampi della magnolia.


Franco Fortini

SOLTANTO LA RAGIONE e LA GIUSTIZIA POSSONO LIBERARCI DA OGNI FORMA DI VIOLENZA

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        Alle immagini sanguinose di Londra che occupano oggi tutti i giornali e le televisioni del mondo, contrapponiamo quelle del confronto aperto e intelligente tra punti di vista diversi a cui abbiamo assistito martedì pomeriggio al Teatro Biondo di Palermo, in occasione dell' incontro interreligioso tra il cattolico Enzo Bianchi, il musulmano Zidane El Amrani e il rabino ebreo Robiati Bendaud.
         I tre relatori – al di là delle loro profonde diversità culturali  mai nascoste    hanno  sostenuto la necessità di un realistico e ragionevole confronto tra i punti di vista diversi, auspicando che la fede di ciascuno sia sempre sorretta dalla ragione per evitare che si trasformi in fanatismo, rabbia, violenza e intolleranza. 
           Occorre, al più presto, superare le ingiuste disuguaglianze che dividono il mondo odierno, ridare  pari dignità alle diversità culturali,  smetterla di parlare di "intercultura" e cominciare a costruire una "buona cultura" perchè prima del dialogo interreligioso esiste il dialogo interumano. Iniziamo a lavorare sulle cose che ci uniscono e non su quelle che ci dividono.
            E, prima di dare giudizi sommari e faziosi sulle diverse forme di terrorismo che oggi seminano morte nel mondo intero, teniamo sempre presente l'antica esortazione di B. Spinoza: " humanas actiones  non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere"(le azioni umane non vanno mai derise nè detestate, ma solo comprese).
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LA SICILIA che non c'è più di STEFANO VILARDO

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Stefano Vilardo visto da Nicolò D'Alessandro


      Stefano Vilardoè noto, soprattutto, per Tutti dicono Germania Germania. Poesie dell’emigrazione (Garzanti 1975, Sellerio 2007). Un capolavoro che, malgrado la fortuna che ha avuto, non ha finito di dire tutto quello che, ancora, ha da dire.
      In tutti i libri che Vilardo ha scritto, anche in quelli più lirici e, apparentemente, lontani dalle sue più concrete esperienze, il maestro di Delia ha sempre finito per parlare della sua vita, delle persone che ha incontrato lungo il suo cammino, del suo amore per i libri, la cultura e la cucina popolare siciliana, della sua intatta capacità di meravigliarsi ed indignarsi.
         Ne Le nevi di una volta . Racconti, Thule, Palermo 2016,  sono stati raccolti, con l’attenta cura di Giuseppe Saja, dieci brevi racconti del maestro di Delia (CL). La maggior parte di essi, per la verità, erano già stati pubblicati in luoghi diversi. L’idea di raccoglierli in un unico volume, con qualche piccola variante, ci è sembrata felice perché questi racconti si tengono per mano tra loro e ognuno non è altro che una tessera dello straordinario mosaico della sua vita e della sua opera.
        Particolarmente bello ci è apparso il primo, forse l’unico vero inedito, - intitolato Oh, sì, che mi ricordo!- che descrive con giovanile vivacità il viaggio in automobile, compiuto nel 1963, da Caltanissetta a Bagheria, insieme all’inseparabile Leonardo Sciascia (Nanàe Stestè si sono chiamati reciprocamente, fin dall’adolescenza e poi per sempre, i due inseparabili amici), per andare a vedere una delle prime mostre fotografiche del giovane Ferdinando Scianna che, allo scrittore di Racalmuto, offrì più di uno spunto per scrivere, due anni dopo, uno dei suoi testi più dirompenti sulla visione materialistica della vita del popolo siciliano (Le feste religiose in Sicilia,1965).
Il racconto di Vilardo si snoda tra ricordi che oscillano continuamente tra passato e presente, con punte di autentico lirismo quando descrive il paesaggio naturale di quegli anni:  « Eravamo in piena primavera […]. Il cielo era un celeste prato macchiato appena da qualche cirro. Le Madonie rilucevano di ramati bagliori che si sprigionavano dai martoriati calanchi che la furia di vecchie e nuove intemperie avevano scavato.» (pag. 17)
       Efficace e puntuale la descrizione dell’incontro con il poeta Ignazio Buttitta: 
« come una tromba d’aria, come un ciclone, ci investì il Poeta, u pueta ,come affettuosamente era chiamato dai suoi compaesani, che ci trascinò, gesticolante e vociante, nella sua putia di esperto salumiere: pile traballanti di stuzzicanti canestrati, rosari di salsicce stagionate, salumi, pancette, tocchi di profumatissimo lardo, e cacciatorini, cacicavalli, prosciutti, mortadelle, pendevano come stalattiti dalla concava volta della salumeria. Poeta e salumiere? Sì, e che c’è di strano! Voltaire, letterato, filosofo, storico…era anche un fortunato e avveduto capitalista.[…] E Rimbaud poeta in gioventù – e che poeta! – poi divenne commerciante di armi e, si dice, di schiavi. » (pp. 18-19) . Il ritratto che in queste righe Vilardo fa del poeta di Bagheria è davvero uno dei più corrispondenti alla realtà che siano mai stati fatti. Indimenticabile la descrizione dei tradizionali scambi di saluti con la gente del paese che incrociavano: «Ossa binidica, Pueta» […] E u pueta, con la sua solita allegria, maliziosamente rispondeva: Santu figliu e fatti arrassu. Oppure con un pizzico di maligno piacere: Lu Signuri ti sbiddica!- (pag. 19).
          Da questi splendidi racconti autobiografici emergono i mille volti di Vilardo, il suo faticoso processo di formazione, dai tempi in cui si sentiva solo un saccu di vastuni, al decisivo suo primo incontro con Leonardo Sciascia ( favorito da una provvidenziale bocciatura che lo fece diventare compagno di banco di Nanà alle Magistrali di Caltanissetta, prima, e amico fino al suo ultimo giorno di vita descritto in modo toccante in uno di questi racconti Settembre), la sua giovanile gioia di vivere accompagnata sempre da un pessimismo quasi leopardiano.
Francesco Virga


Stefano Vilardo, Le nevi di una volta. Racconti. Introduzione e cura di Giuseppe Saja, Thule, Palermo 2016, pp.84, 10,00 euro.



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