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SCIASCIA E LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA

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In questo blog abbiamo più volte ricordato il pensiero critico di Leonardo Sciascia intorno al problema della mafia. Anche a rischio di ripeterci - in un tempo, peraltro, in cui sembra che ripetere non serva a nulla! - vogliamo segnalare la seguente recensione di un noto ( ma, da tempo ormai, si sa che il noto è tutt'altro che conosciuto!) libro del grande scrittore siciliano. (fv)


La mafia dell’antimafia

Il titolo è un gioco di parole, sul gergo legalistico, ma in questo suo ultimo libro Sciascia si diverte poco. È qui questione di mafia, ma più della mafia dell’antimafia, già allora, articoli e interventi che ha selezionato su questo tema specifico: “Questo libro”, avverte, “raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia; e sulla mafia”. Aggiungendo: “Spero che venga letto con serenità”, ma beffardo, sapeva che non poteva esserlo.
Con alcune bordate. L’antimafia è “strumento di potere”, attraverso al tensione che crea e alimenta – chiunque vive al Sud lo sa. Il suicidio di Rosario Nicoletti è un esito della “cultura del sospetto”, allora di scuola a Palermo, tra i gesuiti e fuori – Nicoletti era il presidente democristiano della Regione che Sciascia apprezzava per l’onestà. Del generale Dalla Chiesa, assassinato qualche anno prima nell’agguato di Palermo,  continua a non apprezzare i metodi investigativi, nonché dispiacersi che si fosse appropriato dell’identità del capitano dei carabinieri che è un po’ l’eroe del “Giorno della civetta” – il modello è l’allora maggiore Candida, spiega profusamente. Per ultimo una polemica contro Scalfari, e un buffetto affettuoso a Adriano Sofri accusato di omicidio.
Senza perdere l’umore. “Il giorno della civetta” dice un’illuminazione a “una seduta cui avevo assistito alla Camera dei Deputati”. Il “boss dei boss” Michele Greco è preso appena ricercato. Uno. Due: in confronto a Licio Gelli il suo potere è minimo. O gli eroi della “sesta” giornata, a cose fatte. Con molta cognizione di causa. “La mafia” è già un dramma di Luigi Sturzo giovane prete, 1900, “rappresentato in un teatrino di Caltagirone”, mezzo disperso nel lascito. Resta insoluto il mistero della parola “mafioso”, da Manzoni registrata nel “Don Chisciotte” - “quando si imbatteva in parole o espressioni ancor vive nel dialetto milanese” - che però in Cervantes non si trova.
Sciascia amava le polemiche, e per questo le sue raccolte non narrative oggi si fanno insieme leggere e rifiutare. Senz’altro aveva conoscenza diretta e avvertita delle cose di cui qui parla: la mafia e la politica italiana. Ma giudizio non sempre acuto. Specie in fatto di mafia. Qui richiama con orgoglio la sua definizione del 1970 (nella prefazione a Henner Hess, “Mafia”), che, è vero, resta la più esaustiva: “La mafia è un’associazione a delinquere, per fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria e imposta con mezzi di violenza tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo stato”. Ma ne trae una conclusione sbagliata: ora la mafia non è più intermediaria ma soggetto attivo, e nell’intermediazione tra il cittadino e  lo stato non gode più della stessa sicurezza di cui godeva prima. Il che è vero. Ma non nella parte finale: da qui l’eversione, l’attacco allo stato, con gli assassinii di Terranova, Reina, Mattarella. No, non eversione, ma “avvertimento”, da gergo mafioso: tentativo di ricreare la vecchia situazione, facendo paura al ceto politico che lo Stato aveva a sua volta impaurito – le vicende degli ultimi presidenti della regione Sicilia prima dell’attuale lo confermano.
Un riesame del tutto fuorviante aveva peraltro proposto subito dopo l’introduzione  a Hess, nel 1972, in un testo ripubblicato ora come “Storia della mafia”, su “Storia illustrata”. Con le due mafie, la buona e la cattiva. Con l’eroicizzazione dei mafiosi – alcuni, certo, non tutti. Con loStato-mafia già allora. Con una storia molto sicula (“traggediatrice”) dei Mille, di incredibili forzature – i “picciotti” mandati a Garibaldi dai capimafia è una delle tante (mandati per infeudare l’isola al “Nord commerciale e industriale”, proprio così). Lo scrittore era orgoglioso, nella corrispondenza con Calvino e Einaudi, di aver fatto della mafia per primo materia narrativa. M il tutto mafia è anche peggio della mafia dell’antimafia, e anzi ne è il cardine.
Il titolo, oltre che tribunalizio, fu anche “effettuale”, parola che Sciascia amava: ai primi di novembre del 1989 licenziava la raccolta, il 20 era morto.
Leonardo Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Adelphi, pp. 205 € 24

Recensione  del 23 marzo 2017




PASOLINI IN PUGLIA A DIFENDERE I DIALETTI

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Pasolini a Calimera (Lecce) il 21 ottobre 1975

Riprendo da http://www.quotidianodipuglia.it/cultura/pasolini un bel pezzo che ricorda quanto e come si sia speso Pasolini, fino all'ultimo, per difendere le radici della nostra cultura. 
Pochi hanno notato il fatto che, fino a pochi giorni prima di essere tolto dalla circolazione, Pasolini - al di là del clichè che, ancora oggi, lo rappresenta come un uomo stanco di vivere - andava in giro, anche per i paesi più sperduti d'Italia, ad ascoltare e a sostenere i valori in cui credeva. 
Pasolini era tutt'altro che un uomo disperato e stanco della vita! 
fv

Pasolini, le ultime parole in difesa del dialetto



di Marcello APRILE *

Correva il 21 ottobre 1975, e Pier Paolo Pasolini, di cui ricorre oggi il 95° anniversario della nascita, era un’icona ben prima di morire. Ma pochissimi, ancora oggi, sanno quali siano stati i suoi ultimi appuntamenti pubblici prima della morte, e anche i pugliesi ignorano che essi avvennero proprio nel Salento: a Lecce e poi a Calimera. Il penultimo fu al liceo classico “Palmieri”, da sempre un faro culturale della città. L’ultimo incontro pubblico di Pasolini avvenne invece a Calimera, nel cuore dell’area grica: e, per gli interessi linguistici e sociali dello scrittore friulano, che aveva incluso alcuni testi in grico nel suo Canzoniere popolare, si trattò di un fatto naturale, anche se l’incontro calimerese fu del tutto improvvisato: ma gli si proponeva l’occasione imperdibile di ascoltare dalla viva voce dei cantori popolari quello che conosceva ancora solo da fonti scritte, e Pasolini la colse al volo.
L’incontro avvenne per merito di due professori: mio padre Rocco Aprile, infaticabile protagonista del movimento di riscoperta delle radici griche di Calimera con una forte propensione verso la lingua, la storia e la cultura dell’antica madrepatria greca, e Luigi Tommasi, detto per antonomasia ancora oggi “il professore”, che lo accompagnava. I due erano andati a vedere Pasolini a Lecce. Rocco Aprile, che conosceva già Pasolini, facendosi largo tra la folla, gli chiese se volesse venire a Calimera nel pomeriggio. E Pier Paolo, che evidentemente era un uomo tutt’altro che formale, gli disse che alle tre si sarebbe fatto trovare nella piazza del paese: detto fatto, il tempo di pranzare (fave e cicorie, testimonia Luigi Tommasi) e arrivò.
Trovare una location, come si dice oggi, per Pasolini a Calimera non fu affatto semplice. Le scuole del paese non diedero il permesso di ospitarlo con una serie di pretesti, e, fatto incredibile se letto con gli occhi di oggi, il sindaco e i consiglieri di allora non si fecero vedere. Lo scrittore friulano era un personaggio scomodo per i benpensanti di ogni colore, non solo per i democristiani che allora guidavano il Comune; Togliatti per esempio, da giovane, lo chiamava “il pederasta”, e non era un complimento, anche se il rapporto con il Pci era talmente profondo che non lo si può liquidare con un insulto, sia pure così pesante. Pasolini, al momento della morte, era peraltro iscritto al Partito radicale di Marco Pannella, che dava molto spazio alle battaglie libertarie come il riconoscimento della dignità degli omosessuali, e anche questo è un particolare molto poco noto.
Verificato che Pasolini nelle scuole non poteva mettere piede, si ripiegò allora verso uno stanzone di proprietà della famiglia del grande sindaco calimerese degli anni Cinquanta, lo scomparso Giannino Aprile, autore dell’ancora oggi migliore silloge di canti popolari grichi, intitolata Traùdia (che per l’occasione fu regalata a Pasolini). Si trattava di una delle vecchie fabbriche di tabacco di cui il Salento era allora pieno. Non un posto ripulito e pettinato come i locali “tipici” di oggi: era con la polvere e con le ragnatele, che nessuno aveva avuto il tempo di rimuovere.
La fabbrica si riempì di gente in poco tempo. C’erano musicisti che poi sarebbero diventati di un certo peso, come Roberto Licci del Canzoniere Grecanico Salentino, e cantori popolari come Cosimino Surdo, autentici e inconsapevoli di esserlo, a differenza di quelli che poi si sono autoproclamati tali. Secondo le testimonianze unanimi dei presenti (io c’ero, ma ero troppo piccolo per ricordare i dettagli, e in ogni caso fui l’unico a cui Pasolini rilasciò un autografo), lo scrittore era affascinato, ascoltava in silenzio, ogni tanto chiedeva chiarimenti; in particolare, rimase senza parole davanti a una canzone struggente e malinconica come Aremo rindineddha, che certo non rientra nei circuiti commerciali della pizzica, ma ha segnato l’identità dei calimeresi per decenni.
E non basta. Un dettaglio fondamentale dell’ultimo appuntamento pubblico di Pasolini fu il set di foto dell’evento, improvvisato da Antonio Tommasi, fotografo di Calimera e buon conoscitore del suo cinema. Si tratta, con ogni probabilità, del miglior set di foto pasoliniane oggi disponibili in Italia, con una serie di scatti bellissimi, in un bianco e nero efficace, poetico, a tratti graffiante, sia nei primi piani sia negli sfondi; memorabile, per chiunque l’abbia visto.
Proprio oggi, alle 11, l’Amministrazione di Calimera, memore di questo fantastico incontro, dedica a Pier Paolo Pasolini una targa rievocativa apposta sulla fabbrica di tabacco che fu teatro dell’evento; un gesto fortemente voluto dalla sindaca De Vito e dalla sua giunta. Una riparazione per il torto di allora e la riaffermazione di un’identità del paese che si cementò grazie anche a quella visita; l’occasione è impreziosita dalla riproposizione della mostra con le foto pasoliniane di Antonio Tommasi. Con Calimera Pasolini chiuse, per via della sua morte tragica, la sua attività di intellettuale tra i più grandi del Novecento. E forse fu allora, 12 giorni dopo quella data meravigliosa per il mio paese, che finì tutto, e anche per Calimera fu un brutto, brutto colpo.

* professore ordinario di Linguistica italiana all’Università del Salento 
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Dal Nuovo Quotidiano di Puglia, Domenica 5 Marzo 2017

VIVA LA BICICLETTA!

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Non penso che gli innamorati del turbocapitalismo amino la bicicletta. Un oggetto che non si consuma mai abbastanza da essere sostituito. Un pezzo di ferro che non finisce mai in discarica. Un mezzo che consente di spostare le persone senza bruciare carburante. E quando si rompe, se si rompe, bastano due lire e un po’ di pazienza per rimetterlo in strada. Forse è anche per questo che non se ne vedono di pubblicità di biciclette.

KANDINSKIJ CAVALIERE ERRANTE

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Al Mudec di Milano una mostra presenta il primo periodo dell'opera di Kandinskij. Splendido l'uso del colore. "Volevo che gli spettatori entrassero e si muovessero nei miei quadri", così il pittore spiegò il respiro cosmico delle sue tele che la scelta dell'astrattismo trasformerà in un linguaggio magico. 

Chiara Gatti

Kandinskij. L'iniziazione del pittore nella Russia profonda

Alla parete del suo studio di Monaco, nel 1911, su una tappezzeria a scacchi, era appesa l’immagine di un uccello del paradiso. Una stampa popolare russa, un “lubok”, che vegliava su di lui. Appoggiato col gomito alla scrivania, Vasilij osservava altre carte dipinte. Una fotografia lo ritrae circondato da una mappa di motivi folclorici: icone e oggetti votivi della Madre Russia. Da queste fonti di ispirazione, succhiava il midollo di un passato che gli apparteneva intimamente. Il padre nobile dell’astrattismo era un nostalgico e insieme un visionario. Un paladino errante sulla linea del tempo, alla ricerca delle sue origini, dei geni tartari, delle tracce dei suoi avi calati dalla Siberia orientale con un carico di fiabe, leggende, riti sciamanici sedimentati nella memoria. Per sempre.

Kandinskij. Il cavaliere errante. In viaggio verso l’astrazione è il titolo della mostra organizzata da 24 Ore Cultura e curata da Silvia Burini e Ada Masoero, che racconta al Mudec di Milano, fino al 9 luglio, vent’anni di riflessione, ragione e sentimento, violento rifiuto del positivismo e risveglio dell’anima alla ricerca di una dimensione spirituale dell’arte. Con un sogno intoccabile: dipingere l’invisibile.
Il percorso, chiaro nella sequenza dei momenti, raccoglie 49 opere del maestro, in arrivo dall’Ermitage di San Pietroburgo, dalla Galleria Tret’jakov e dal Puškin di Mosca, oltre a vari musei esteri, e vanta un taglio antropologico, che affonda nel cuore di un uomo innamorato della sua terra. Un viaggio à rebours accosta ai dipinti, agli oli, agli acquerelli, alle silografie, 85 reperti di un mondo ai confini delle geografie: oggetti quotidiani, elementi decorativi tradizionali, tessuti ricamati e bauli dipinti con simboli arcaici, sopravvissuti nella cultura contadina dell’estremo nord. Questo universo favoloso ed esoterico, lontanissimo dal razionalismo dell’Europa moderna, lo sedusse fin da ragazzo, destinato a depositarsi nel ricordo e a riemergere con energia primordiale nella sua pittura matura.

Durante una spedizione di ricerca nelle campagne ugro-finniche delle Vologda, invitato dalla Società imperiale Amici della scienza a studiare le credenze pagane nella provincia più profonda, Kandinskij, giovane allievo dei corsi di giurisprudenza, entrò nelle izbe dei popoli sirieni. Era il 1889. «Non dimenticherò mai le grandi case di legno dai tetti scolpiti. In quelle case meravigliose provai impressioni rare che mai più si rinnovarono. Mi insegnarono a commuovermi, a vivere in pittura ».
Le slitte di Novgorod, i giocattoli in legno scolpiti nella regione del Vladimic, i battipanni delle donne di Kerchomja, le canocchie per filare la lana di Archangel’sk. Santi e guerrieri, orsi e lupi, eroi e regine illustravano scene fiabesche, tratteggiate su ogni utensile. Mandrie di cavallini dalle criniere spettinate galoppavano nelle rappresentazioni incise sul legno, nei colori alle pareti, nei libri delle canzoni, sulle stufe e le cassapanche. La nonna e la zia avevano intonato per lui, da bambino, nelle notti gelide di Mosca, brani di quelle melodie della steppa. Quando si trovò davanti, nella sua avventura cognitiva, le radici della sua storia, fu un’ipnosi regressiva. Un’epifania. E addio studi di legge, addio alla cattedra che gli fu offerta in Estonia. La prima moglie, la cugina Anja, compagna di università e intellettuale, reagì duramente alla decisione di abbandonare ogni cosa per partire in direzione di Monaco e iscriversi all’Accademia dove insegnava Franz von Stuck.

La malia del simbolismo, i riccioli dello Jugendstil, le ombre del medioevo tedesco, la musica mentale di Schönberg, la teosofia di Madame Blavatsky e l’anima senziente di Steiner si mescolarono alle reminiscenze del suo viaggio iniziatico. E tutto si riversò nella sua pittura illuminata da uno sguardo interiore. Dal dialogo serrato dei motivi che rimbalzano fra dipinti e candelabri, carte, coperte e scatole in corteccia di betulla, emergono segni indelebili di riti e miti ortodossi sublimati nei colori dell’astrazione. I dischi solari dei sirieni ispirarono lo scudo di San Giorgio nel magnifico Cavaliere del 1914. Il serpente infernale delle icone apocalittiche striscia come un’onda del destino nell’Ouverture del 1919. Il carro di fuoco del profeta Elia deflagra nel profondo rosso dell’Improvvisazione del Puškin. Lo stesso uccello del paradiso vola in scene magiche, sopra le cupole d’oro del Cremlino.
Erano ormai già passati gli anni del Blaue Reiter, il cavaliere azzurro, fondato con Franz Marc nel 1911 e si avvicinava il tempo leggendario della docenza al Bauhaus. Ma i tamburi della taiga risuonavano ancora nelle sue vene.

Una tesi di fondo aleggia lungo il percorso: il Kandinskij popolare degli anni Venti è solo un epigono di se stesso. Kandinskij prima di Kandinskij rivela l’origine del genio e il debito verso i moti ancestrali della sua terra. Lo si vede dai toni che accendono i paesaggi di Murnau o le vedute della Piazza Rossa. «Mosca si fonde in questo sole, in una macchia che mette in vibrazione il nostro intimo, l’anima intera come una tuba impazzita. Non è questa uniformità in rosso l’ora più bella! Essa è l’accordo finale della sinfonia che avviva ogni colore, che fa suonare Mosca come il fortissimo di un’orchestra gigantesca».


La Repubblica – 15 marzo 2017

GOFFREDO FOFI STRANIERO IN ITALIA

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Goffredo Fofi è nato a Gubbio nel 1937. Il 15 aprile compirà 80 anni. Fra le testate che ha creato e diretto: i «Quaderni Piacentini», «Ombre rosse», «Linea d’ombra» e «Lo Straniero»



Goffredo Fofi: “Non rinuncio ad essere uno Straniero in Italia”

Una vita di letture, scoperte e riviste militanti tra la “regina” Morante, i bambini di Dolci, Bilenchi

Intervista a cura di mirella serri

«José Saramago, che gran signore! Elegantissimo, raffinato e molto di sinistra. E lo dichiarava senza mezzi termini: quando il premio Nobel portoghese intervenne a una pubblica manifestazione a Roma volle che ci fossi io a dialogare con lui, desiderava un interlocutore politicamente affine. Elsa Morante è stata un grande amore, il nostro è stato un rapporto caratterizzato da un intenso coinvolgimento non solo emotivo e culturale ma pure molto fisico ed erotico»: fluiscono come un fiume i ricordi di Goffredo Fofi, critico teatrale, cinematografico e letterario nonché maître à penser del nostro tempo (ma guai a definirlo così! non ama nemmeno essere chiamato intellettuale).  

Al centro della memoria del saggista vi sono i suoi privilegiati e intensi rapporti con i grandi della letteratura, da Yehoshua a Salman Rushdie, da Kurt Vonnegut a Derek Walcott per arrivare a Roberto Saviano, Antonio Scurati, Nicola Lagioia e Elena Ferrante. Queste e tante altre celebrità hanno dato il loro contributo alle numerose e storiche testate create e dirette da Fofi come i Quaderni Piacentini, Ombre rosse, Linea d’ombra e Lo Straniero. Adesso quest’ultima pubblicazione chiude i battenti e la sua avventura politica e artistica la possiamo ripercorrere nella mostra «Resistere all’aria del tempo.Venti anni de Lo Straniero» (testi letterari e 200 splendide copertine sono esposti nella rassegna realizzata presso la Biblioteca Centrale nazionale di Roma a cura di Alessandra Mauro e Alessandro Leogrande con Contrasto). 

Fofi, gli autori che hanno scritto per i suoi periodici sono stati dunque anche le presenze più assidue della sua vita?  

«In alcuni casi certamente: per tornare alla Morante è stata per me un punto di riferimento, la chiamavo la Regina: era sicura di sé e consapevole delle sue capacità. Non si tirava mai indietro quando c’erano discussioni e polemiche. Anna Maria Ortese, al contrario, era spaventata e sempre sulla difensiva. Aveva alcune debolezze molto commoventi e molto femminili: “Goffredo tu non mi vuoi bene”, mi disse una volta. “Di Elsa hai scritto che era una bella donna e di me non lo hai mai detto”».  

Lei è stato anche maestro, assistente sociale e ha spesso scelto come suoi interlocutori i movimenti giovanili. Ne ha ricavato molte soddisfazioni?  

«Grazie ai ventenni a volte il discorso culturale è diventato vivo e incisivo. Ai giovani va il merito in alcuni casi di saper coniugare pensiero e azione. Tra le doti che mi riconosco c’è una grande curiosità e il desiderio di partecipare. Ero ancora un ragazzo quando sono salito su un treno per andare in Sicilia e dare il mio contributo alla comunità di Danilo Dolci insegnando ai bambini. Poi mi sono trasferito a Torino dove una delle esperienze più travolgenti è stata la collaborazione con Ada Gobetti al Centro dedicato alla memoria di Piero. Mi sentivo a mio agio in quel contesto segnato da un’impronta etica e morale molto forte». 

Centrale è sempre stato per lei il rapporto tra espressione artistica e realtà. A quali romanzieri e poeti vanno le sue preferenze?  

«A Svetlana Alexievich che sembra quasi un personaggio di un romanzo di Tolstoj, molto semplice, animata da un fuoco interno e da un interesse fortissimo per chi soffre. Carmelo Bene quando lo conobbi mi conquistò come una persona veramente speciale: in privato era dolcissimo e per nulla intollerante e aggressivo come appariva in pubblico. Celava però un’ombra di diffidenza. Ti accettava solo quando aveva capito che di te si poteva fidare. Pier Paolo Pasolini era affabile, cortese (a volte persino troppo) e generoso. Quando seppe che Linea d’ombra era in difficoltà mi offrì un contributo che rifiutai per non trovarmi in un conflitto d’interessi: lui era un regista e io un critico cinematografico. Nonostante la grande disponibilità, Pasolini manteneva una specie di distanza tra sé e gli altri, che superava solo con il suo ristretto gruppo di intimi, di cui facevano parte, oltre la nipote Graziella Chiarcossi, Alberto Moravia ed Enzo e Flaminia Siciliano».  

A lungo è stato detto che fosse lei l’autore dei romanzi firmati con lo pseudonimo Elena Ferrante. Lusingato?  

«Lo hanno detto anche di altri. Io ho fatto da mediatore tra la casa editrice e/o che pubblica la Ferrante e Mario Martone quando voleva trarre un film da L’amore molesto. Ma ho sempre sospettato che dietro il nome de plume si nascondesse Anita Raja e che i suoi romanzi fossero anche il frutto di una collaborazione con suo marito, Domenico Starnone. Ne riconosco lo stile. La Ferrante però ha una sua profonda autonomia e scrive spinta da un’esigenza affettiva caratterizzata da un notevole super io». 

I libri della sua formazione? 

«Mio padre era un operaio emigrato, leggeva l’Avanti! e la Gazzetta dello Sport. Fin da piccolo sono stato avido di giornali e fumetti e poi sono arrivati i Fratelli Karamazov di Dostoevskij che mette in scena mirabilmente la complessità dell’animo umano e le opere di Carlo Levi che mi hanno fatto capire la vita dei contadini del sud. Ma le mie letture spaziavano in tanti settori, da Schopenhauer a Roberto Longhi ai narratori italiani come Romano Bilenchi, Italo Calvino e Paola Masino».  

«Lo Straniero» lascia un vuoto nella nostra cultura e anche nella sua esistenza? Cosa farà?  

«Mi dedicherò al mensile Gli asini. In queste pagine redatte da scrittori dai 25 ai 35 anni si parla di grandi banche ma anche dei nuovi movimenti studenteschi attivati dalla presidenza di Trump. Ci siamo anche assunti l’incarico di indicare quel poco di buono e di accettabile che c’è nella nostra folle editoria che sforna ben 18 mila romanzi ogni anno. La cultura deve assumersi le sue responsabilità ed essere non solo qualcosa di digestivo e di consolatorio».  

L’epigrafe che accompagna la mostra dedicata a «Lo Straniero» è tratta dal Congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni: «Ma, cos’importa. Sia/ come sia, torno/ a dirvi, di cuore, grazie/ per l’ottima compagnia». Ma Fofi, gran viaggiatore con bastone, eskimo e barba bianca, non rinuncia alle sue esplorazioni: il sottotitolo di questa sua ultima rivista è «Dentro un mondo nuovo».  

Da LA STAMPA  24/03/2017

LA TERRA SEMPRE PIU' DESOLATA DOPO ELIOT

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Eliot, un poeta profeta e i suoi parassiti

 Gian Maria Annovi

Nell'ottobre del 1922, mentre migliaia di fascisti marciano verso Roma, in pochi sospettano che sotto i loro piedi la terra abbia iniziato lentamente a muoversi, allontanandosi - come una scheggia d'isola alla deriva - dal resto dell'Europa, in un progressivo processo d'isolamento e inaridimento sociale e politico, culminato in vent'anni di dittatura e nel secondo conflitto mondiale. La storia è nota. Meno noto è che quello stesso mese, sul primo numero della rivista londinese “Criterion” viene pubblicato un testo di poco più di quattrocento versi destinato a rivoluzionare, in ben altro modo, le sorti del panorama culturale europeo e a «indicare una direzione» - scriverà anni dopo Eugenio Montale - anche a molti poeti italiani: si tratta di La terra desolata di T. S. Eliot. Per Montale, che solo tre anni dopo pubblica Ossi di seppia, in tale momento storico proprio Eliot rappresenta, insieme a Valéry, «una presa di contatto con l'alta tradizione europea». Eliot è insomma una delle àncore con cui l'Italia, nei modi piuttosto ctonii della poesia, si è mantenuta legata al continente in un momento di deriva.
In quel titolo,La terra desolata, la cui ormai consueta traduzione italiana il poeta Giorgio Caproni sentiva, e con finezza d'orecchio, in qualche modo limitante rispetto all'originale The Waste Land, sembra echeggiare il «paese guasto» di cui parla Dante nell'Inferno, volgarizzando a sua volta l'antico francese terre gaste, cioè il territorio devastato e sterile che nei poemi epici del Medioevo era compito dei cavalieri attraversare per ritrovare il Graal, uno dei simboli centrali del poemetto eliotiano. In un certo qual modo, insomma, Eliot non ha descritto semplicemente il raggiunto paesaggio interiore dell'uomo insterilito e svuotato dall'assurdità e dall'orrore della prima guerra mondiale. O lo stagnante male interiore destinato a diventare l'oscuro protagonista di tanta letteratura del primo Novecento. Al contrario, Eliot ha parlato - e qui si trova forse una parziale ragione del prolungato successo di questo testo, ben oltre il riconoscimento del Nobel, nel 1948 - di un futuro, di un viaggio ancora da compiere. Eliot ha insomma vaticinato la devastazione di un paesaggio reale, quello che l'irrazionalismo dei totalitarismi occidentali avrebbe costretto milioni di uomini e donne ad attraversare, come fragili cavalieri senza scarpe e senza speranza di ritorno.
Che a fare da protagonisti di questo dialogo drammatico a più voci siano, tra gli altri, un'improbabile cartomante, Madame Sosostris, e il più celebre indovino dell'antichità (un Tiresia dietro le cui fattezze si cela la figura del poeta), non sembra dunque troppo inopportuno: ad essere predetto è infatti un orizzonte di tragedia e di morte, la stessa che - nell'epigrafe inaugurale al poemetto - augura a se stessa la sibilla del Satyricon di Petronio, quando interrogata sui suoi desideri. Raramente, si potrebbe dire, un così algido pessimismo ha saputo generare maggiore entusiasmo, tanto che la critica è concorde nel considerare proprio La terra desolata come il vero capolavoro di Eliot, oltre che uno dei testi fondamentali del modernismo, soprattutto se paragonato alle pur mirabili meditazioni liriche dei Quattro quartetti (1943), scritti quando la conversione al cattolicesimo anglicano aveva fatto del poeta rivoluzionario un conservatore con discutibili simpatie monarchiche.
Ripubblicato in volume nel 1923 dalla casa editrice di Virginia Woolf e del marito Leonard, La terra desolata offre ancor oggi esattamente quanto indica, con secchezza, il suo titolo: un panorama di sterili e irriconoscibili rovine su cui crescono, come piante infestanti, tra i detriti e i frammenti letterari più disparati (dal simbolismo francese allo Stil Novo, dalla poesia metafisica inglese ai detti del Buddha), le cinque sezioni in cui si articola il testo, originariamente lungo più del doppio.
Eliot, un americano educato a Harvard e poi trasferitosi a Parigi per studiare con Henri Bergson, aveva, infatti, laboriosamente rivisto il manoscritto originale sotto l'occhio paterno di un altro esule statunitense, Ezra Pound, il dantesco «miglior fabbro» (Purgatorio, XXVI, 117) cui il testo è dedicato nell'edizione del 1925. Solo con la pubblicazione, nel 1971, del dattiloscritto originale, conservato dalla seconda moglie di Eliot, è stato possibile comprendere l'importanza del «taglio cesareo» operato da Pound, tanto lungimirante nell'acume poetico, quanto miope nel valutare le sorti dell'isola alla deriva che era diventata l'Italia di Mussolini, e a non intravvedere, dunque, quella che l'amico Eliot - memore della tragedia della prima guerra mondiale e sospettoso tanto del fascismo quanto del nazismo - ha chiamato nel suo poemetto «la paura in un pugno di polvere».
Oggi, a novant'anni di distanza dalla sua pubblicazione e dopo aver rappresentato un passaggio obbligato per generazioni di lettori italiani, La terra desolata non rappresenta più una rivoluzione. Il libro resta, comunque, tra i più venduti, un classico verrebbe da dire, se non fosse che in una celebre conferenza del 1944, poi raccolta nel volume On Poetry and Poets, tradotto per la prima volta nel 1960 dal Novissimo Alfredo Giuliani, Eliot abbia negato che alcuna lingua europea possa produrre un classico dopo Virgilio, il poeta latino che ha saputo, in un momento particolare e irripetibile della storia, farsi «interprete, misura e quindi canone di un'intera civiltà». Senza voler fare di Eliot un Virgilio del Novecento è innegabile che nell'ultimo secolo La terra desolata ha rappresentato per molti proprio il momento di maturità stilistica capace di restituire l'immagine di una civiltà in crisi.
Oggi, nonostante il nuovo millennio si sia aperto con la stessa immagine di crollo che ritroviamo nel poemetto («Torri che crollano / Gerusalemme, Atene, Alessandria / Vienna, Londra / irreali»), è difficile capire se La terra desolata possa ancora fornire una chiave per il presente, soprattutto in un'epoca in cui il lettore medio, anche quello più appassionato di poesia, non solo non possiede i formidabili strumenti culturali necessari per apprezzare l'intarsio citazionale, ma è spossessato da qualsiasi certezza ideologica, e dunque spaesato di fronte a quella che l'Eliot critico riteneva la più necessaria delle caratteristiche di un poeta: un sistema filosofico o teologico di riferimento, alla pari di Dante, per questo considerato superiore a Shakespeare.
La storia della ricezione di Eliot e di La terra desolata s'incrocia con quella della grande poesia italiana del secolo scorso a partire dagli anni '20, quando, scrive Ungaretti, nell'Italia de La Ronda «si voleva prosa, poesia in prosa» ed era dunque più semplice considerare Eliot un poeta oscuro e un critico perfetto, come recita il titolo di un lontano articolo di Carlo Linati. Questo studioso, insieme a Mario Praz - all'epoca professore all'Università di Liverpool - ha contribuito alla diffusione e traduzione del poeta anglo-americano.
Si deve proprio a Praz, come ha rivelato Montale in un articolo del 1950, il suo incontro con Eliot, che sulle pagine di “Criterion” pubblica, in una molto eliotiana traduzione di Praz, il suo celebre Arsenio. Da Eliot, «lirico concentratissimo» e «fin troppo razionale», Montale coglie soprattutto - come anche il più improbabile testo scolastico non manca di indicare - l'importanza dell'idea del correlativo oggettivo, «una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi» capaci di formulare una particolare emozione, e di attivare quel processo di fuga nell'impersonalità che si ritrova sia nel mondo insterilito e nella disperata aridità della «vita che si screpola» degli Ossi, che negli oggetti-testimoni de Le occasioni. Pagine sottili sul rapporto tra i due poeti si trovano, ad esempio, ne L'inno nel fango, lo splendido saggio che Zanzotto dedica a Montale nel 1953. La terra desolata e gli uomini vuoti di Eliot diventano per il poeta veneto l'emblema di un presente «come regno delle scorze e dei gusci vuoti», i gracili e duri gusci della vita che Montale descrive - a partire dal titolo della sua prima racconta - lungo l'arco della sua opera, fino alla «palta» e alle «zattere di sterco» di Satura.
Non importano le ripetute Verneinung montaliane circa la reale portata dell'influenza eliotiana; il sospetto è che in Italia il poeta anglo-americano abbia sempre vissuto una doppia vita, la vita di un poeta parassitato. Eliot e il suo poemetto capolavoro, ma anche le sue raccolte critiche, a partire da Il bosco sacro, tradotto efficacemente ma non perfettamente nel 1946 da Luciano Anceschi, che ha voluto vedere in lui il prototipo più alto di «scrittore della crisi», sono stati spesso letti (forse troppo spesso) in funzione di qualcosa d'altro, magari per compensare l'impossibilità di cogliere il virtuosismo linguistico dell'originale o la sottile critica sociale all'Inghilterra del tempo, compiuta anche attraverso l'adozione di uno specifico gergo. Abbiamo così avuto l'Eliot montaliano, l'Eliot ermetico di Mario Luzi, quello della Linea lombarda di poeti come Giorgio Orelli, Nelo Risi e Luciano Erba, o ancora l'Eliot tutto poundiano della Neoavanguardia.
Lo ha confessato, molto candidamente, anche Edoardo Sanguineti, in un intervento ora raccolto in Cultura e realtà, spiegando che già nel '61, all'altezza del suo primo saggio dantesco, Interpretazione di Malebolge, considerava i Cantos e The Waste Land come commenti migliori alla Commedia di tanti studi specialistici. Eliot offre insomma a Sanguineti una lettura parassitaria di Dante, che può ritornare sì al presente, come «auctor sperimentale», ma senza che nulla si sia poi detto del poema eliotiano, ridotto a catalizzatore critico. Come tanti prima di lui, Sanguineti gioca «Eliot contro Eliot», associandolo alla problematica dell'avanguardia - ne sono una dimostrazione Laborintus e Laborintus II, dove i calchi eliotiani sono dichiarati. Ciò avviene contro lo stesso fondo ideologico del poeta anglo-americano, per farlo - il verbo è sempre di Sanguineti - «funzionare» davvero. Forse, l'apparente silenzio con cui le generazioni di scrittori più giovani circondano Eliot e La terra desolata viene dal bisogno di de-funzionalizzarlo, di ritornare a una lettura vera che prescinda da Dante, Montale, Pound o l'avanguardia.
Viene da chiedersi, come ha fatto anni fa Fredric Jameson nel suo più celebre saggio sul postmodernismo, ma con un senso alquanto differente, se T. S. Eliot sia ancora «recuperabile» nel contesto delle poetiche contemporanee o se la sua non sia che una pietrificata condizione museale.
Una parziale risposta la offre oggi, nel segno della radicalità della scrittura, Marjorie Perloff, tra le massime specialiste di poesia statunitensi. Secondo Perloff, la citazionalità, o récriture, per usare l'espressione impiegata da Antoine Compagnon, che caratterizza La terra desolata, e che Eliot abbandona subito dopo, è oggi la forma logica della «scrittura» in un'epoca di testi digitalizzati, letteralmente mobili e trasferibili. Non a caso, Eliot è tra gli autori citati anche da Kenneth Goldsmith - insieme a Walter Benjamin, Gertrude Stein e James Joyce - nel suo provocatorio pamphlet pubblicato da Columbia University Press nel 2010, Uncreative Writing: Managing Language in the Digital Age. Secondo Goldsmith, la reinvenzione odierna della scrittura deve necessariamente passare attraverso processi non creativi di trascrizione e libera appropriazione di materiali linguistici e dunque attraverso forme non centrali di soggettività.
È possibile che questa sia una strada percorribile, anche se l'impressione è quella di respirare una sospetta - e un po' claustrofobica - aria di famiglia. Più ariosa, certo, la prospettiva che lo stesso Eliot presentava, sotto forma d'invito a chiunque volesse scrivere poesia, nel saggio Tradizione e talento individuale, che pare scritto proprio ieri, ma con lo sguardo rivolto al domani. Il poeta, suggeriva Eliot, «dev'essere consapevole che lo spirito dell'Europa, lo spirito del suo paese (e ben presto egli deve imparare che tale spirito è molto più importante del suo, individuale) è in continuo movimento, ma che tale movimento è fatto in modo che nulla viene abbandonato en route, che né Shakespeare né Omero e neppure i graffiti degli artisti del periodo Magdaleniano vanno mai in pensione».
È forse questa la lezione che ancora si può apprendere da un poema come La terra desolata. Nella sua oscura e profonda bellezza, nella sua sarcastica invettiva contro un presente che sembra non passare, si coglie comunque un movimento, costante e continuo, come il frusciare delle infinite ali dell'angelo della storia, il movimento «verso una maggiore complessità».

Postilla bibliografica
Un giovane lettore che volesse accostarsi per la prima volta al testo più importante, o comunque più celebre, di T. S. Eliot ha oggi a disposizione diverse traduzioni in italiano. L'edizione più recente di La terra desolata ha una forma ancora relativamente anomala nel nostro paese, dal momento che si tratta di un audiolibro, pubblicato nel 2010 dalla casa editrice specializzata Full Color Sound: la versione dall'inglese è di Roberto Sanesi, ma la voce è quella dello scrittore Stefano Benni, con un accompagnamento musicale di Umberto Petrin (audiolibro + cd, pp. 16, euro 12,90).
Tra le altre edizioni in commercio, impossibile non citare lo smilzo volumetto della collana «bianca» di Einaudi, dove La terra desolata si accompagna a Frammento di un agone e a Marcia trionfale e la traduzione, così come la prefazione, portano la firma di Mario Praz (pp. 91, euro 9,50). Nella Universale Economica Feltrinelli, invece, The Waste Land (versione di Angelo Tonelli, testo originale inglese a fronte) è seguita dai Quattro quartetti e porta l'autorevolissima introduzione di Czeslaw Milosz (pp. 184, euro 7).


Da “il manifesto", 10 agosto 2012

A. BRANDUARDI ALLA SCUOLA DI FRANCO FORTINI

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Angelo Branduardi: "Doposcuola poetici a casa di Fortini"

 Ida Bozzi

«Avevo finito gli studi di violino a Genova — ricorda Angelo Branduardi —. Tornato a Milano, cercavo una scuola superiore, non il linguistico perché costava troppo. Così sono finito all'Istituto tecnico statale per il turismo, visto il mio grande amore per le lingue. Lì, per gli ultimi tre anni, ho avuto come insegnante di lettere e storia Franco Fortini, che poi sarebbe andato alla Normale. Lì abbiamo capito che era un uomo straordinario, e in due o tre studenti al pomeriggio andavamo a casa sua e seguivamo i suoi discorsi».
Proprio alle poesie di Fortini Branduardi dedicherà la sua lettura il 21 marzo al Parenti. «Quella con Fortini è stata una specie di bottega rinascimentale, lui ti rapiva l'anima parlando di poesia, di letteratura; ci ha fatto conoscere tantissimi poeti. Qualcuno anche di persona, come Pier Paolo Pasolini».

LA LETTURA/CORRIERE DELLA SERA, 19 marzo 2017 

IL CARBONE VALEVA PIU' DI UN UOMO NEL 1957. E QUANTO VALE UN UOMO OGGI?

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     Non ne posso più di tutta questa retorica sull'Europa... Fin dall'inizio l' Europa non è stato altro che un MERCATO dove hanno dettato legge i più forti! 
     Ricordate quanto carbone l' Italia ha ricevuto per ogni contadino emigrato in Germania, in Belgio o in Francia? Ogni uomo valeva tot chili di carbone! E quanto vale un uomo nell'Europa odierna?
      Andate a leggere e a rileggere il capolavoro di Stefano Vilardo, Tutti dicono Germania Germania! (fv)

FOSCO MARAINI, T' amo per davvero

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Fosco Maraini


Il giorno ad Urlapicchio

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,
ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;
è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad Urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.

Fosco Maraini

E. SANGUINETI, Siamo tutti politici

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Siamo tutti politici (e animali):
premesso questo, posso dirti che
odio i politici odiosi: (e ti risparmio anche soltanto un parco abbozzo di
[catalogo
esemplificativo e ragionato): (puoi sceglierti da te cognomi e nomi, e sparare
nel mucchio): (e sceglierti i perché, caso per caso)
ma, per semplificare,
ti aggiungo che, se è vero che, per me (come dico e ridico) è politica tutto,
a questo mondo, non è poi tutto, invece, la politica: (e questo mi definisce,
sempre per me, i politici odiosi, e il mio perché:
amo, così, quella grande
[politica
che è viva nei gesti della vita quotidiana, nelle parole quotidiane (come ciao,
pane, fica, grazie mille): (come quelle che ti trovi graffite dentro i cessi,
spraiate sopra i muri, tra uno slogan e un altro, abbasso, viva):
(e poi, lo so che non si dice, ma, alla fine, mi sono odiosi e uomini e animali):

Edoardo Sanguineti





LE CANZONI DI ROBERTO LOPES E GIAMPIETRO TRE RE A PALERMO

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Venerdì prossimo, alle ore 16.30, nella Sala Teatro del Liceo Regina Margherita di Palermo, Roberto Lopes e Giampietro Tre Re presentano le loro ultime canzoni.

CRISTINA CAMPO, Oltre il tempo

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OLTRE IL TEMPO OLTRE UN ANGOLO

Troppe cose hanno accolto le tue palpebre
l’attenzione t’ha consumato le ciglia.
Troppe vie t’hanno ripetuta,
stretta, inseguita.
La città da secoli ti divora
ma per te travede, sogno e sfacelo,
di luci e piogge, lacrime senili
sulla ragazza che passa
febbrile, indomabile, oltre il tempo, oltre un angolo.
Ritorna! Gridano i vecchi di Santa Maria del Pianto,
la ronda della piscina di Siloè
con i cani, gl’ibridi, gli spettri
che non si sanno e tu sai
radicati con te
nel glutine blu dell’asfalto
e credono al tuo fiore che avvampa, bianco -
poiché tutti viviamo di stelle spente.


Cristina Campo da La Tigre Assenza

I PROMESSI SPOSI VISTI DA PAOLO POLI

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     Anche se continuiamo a pensare che il miglior giudizio critico sui Promessi Sposi di Alessandro Manzoni l'ha dato Leonardo Sciascia(vedi in questo stesso blog: http://cesim-marineo.blogspot.it/2015/03/il-fascismo-ce-sempre-leonardo-sciascia.html  http://cesim-marineo.blogspot.it/search?q=sciascia+sul+sistema+di+don+abbondio), ogni tanto ridere fa sicuramente bene. E allora godiamoci questa bellissima intervista, finora inedita, pubblicata stamattina da http://www.minimaetmoralia.it/

Paolo Poli e “I promessi sposi”: un’intervista inedita

Paolo Poli: magistrale interprete teatrale di straordinaria eleganza, voce fieramente anticonformista nel panorama culturale nell’Italia bigotta e borghese del Dopoguerra. In occasione della pubblicazione dell’audiolibro de I Promessi Sposi, abbiamo avuto il piacere di conversare a lungo nell’Ottobre del 2015. Nell’intervista, Poli ci porge le sue considerazioni deliziosamente provocatorie con il consueto incanto della sua raffinatissima cattiveria.
Sono contento di poter parlare con lei de I Promessi Sposi, capolavoro per me vittima di una banalizzazione scolastica che l’ha resa una favoletta dal lieto fine.
Alessandro Manzoni fece innanzitutto un’opera di grande coesione della nazione italiana, facendo parlare il toscano illustre ai contadini del Lago di Como… che è un falso in atto pubblico! Quando Renzo è ubriaco a Milano si rivolge “Ehi oste!”, scuotendo il piatto vuoto, “Senti come suona a fesso”.
Ora, mai nessuno ubriaco si rivolgerebbe così a un oste, suvvia…
Già nelle precedenti versioni utilizzava espressioni come “senti come crocchia”, che giammai si sarebbe usate in Toscana. Questo perché Manzoni si rivolgeva ad alcune contesse e marchese che appuntavano per lui le espressioni popolari delle loro serve e lavandaie, ma dovette venire di persona in Toscana…
A sciacquare i propri panni in Arno…
Per l’edizione definitiva che noi oggi leggiamo, quella del 1840, dopo quella precedente del 1827. Vede, I Promessi Sposi hanno un problema.
Quale?
I protagonisti sono antipatici.
E perché?
Sono brave persone.
Vede, in teatro i buoni non esistono. Pensi la noia nell’Eden. Meno male che vennero la Eva con il serpente a portare un po’ di brio…
Perdoni la facile considerazione, ma è senza dubbio interessante vedere una personalità come la sua, avversa storicamente alla tradizione, confrontarsi con un testo considerato, erroneamente, “bigotto”.
Più che bigotto, direi che alla mia generazione con I Promessi Sposi ci hanno proprio rotto i coglioni!
Anche alla mia, ma non è mica colpa di Manzoni!
Beh, però ha censurato tutti i peccati della Monaca di Monza, ha rimosso tutti i bimbi seppelliti nell’orto, o lo scandalo della suorina che l’ha colta nel peccato, oppure anche l’Innominato, via, che da crudele subito fa le fuse e abbraccia il Cardinale… Diciamo che i segni del racconto giallo e d’avventura vengono oscurati dalla visione religiosa. Va bene la descrizione di Don Abbondio, che mostra le debolezze, i difetti, le orrendezze del suo ruolo… ma questi due protagonisti, onesti, carini, fedeli… ma chi se ne frega!
Però, ora, senza provocazione, la caratterizzazione di Don Abbondio è feroce, è un attacco alla Chiesa…
Eh, però è simpatico. Siamo tutti dalla parte sua. Ispira affetto.
Invece, Anna Karenina è una troia! Madame Bovary, uguale!
E a me quelle piacciono!
Però, fin dall’inizio, il capitolo sulle “gride” non le pare una critica, per quanto sottile, del potere costituito?
Ma certo! Non a caso, quando chiese il passaporto per andare a trovare la madre a Parigi, i preti si misero di mezzo e gli dissero di no! Era “in sospetto”. Volle fare un romanzo alla Walter Scott, anche se trovo Ivanhoe molto più avventuroso.
Le dico un episodio: quando a Milano c’è la festa di San Carlo Borromeo, il 4 Novembre, nel Duomo si espongono i Quadroni con la vita del santo, tra cui spiccano quattro tele de Il Cerano, un grande pittore romagnolo. Tra questi miracoli c’è la visita di S.Carlo agli appestati. Credo che Manzoni possa essere stato suggestionato da questo grande momento di devozione popolare. In questo modo, ha trovato un momento storico italiano interessante per ambientare il suo romanzo. Voglio dire, la successione di Mantova dal punto di vista dell’interesse storico è una scorreggia…
Quindi, in quel periodo in cui la buona educazione imponeva alle mogli di accarezzare le spalle ai genitori e ai mariti, anche un leggero velo di umorismo destava sospetto…
Anche il vezzo dei venticinque lettori...
Ma sì, era uno scrittore ironico e raffinato, si nutriva dei moralisti francesi, aveva il suo bell’eloquio sulla punta della fava… la madre, figlia di Cesare Beccaria, gli aveva fatto leggere gli Illuministi, per questo nel romanzo ci sono figure come Don Ferrante ed alcuni cardinali che sono colti ed esprimono punti di vista molto consapevoli. Del resto, il precettore del ganzo della mamma, Carlo Imbonati, era l’abate Parini. Questo fu l’Illuminismo italiano. L’abate Parini e Vittorio Alfieri, che se ne ebbe a male quando a Parigi gli tirarono i sassi. Si lamentava che aveva solo tre carrozze e dieci camerieri…era il minimo!
Anche il lieto fine, secondo me, è sempre stato ironico. Era troppo colto e intelligente Manzoni… Però a noi l’hanno fatto leggere ad 8 anni, non potevamo cogliere un’ironia così raffinata. Del resto, quando affronta la figura del Cardinale Borromeo, egli avverte il lettore che se si sente stanco, beh, può anche saltare al capitolo successivo. Mette le mani avanti, con intelligenza.
Uno era un abate, l’altro un aristocratico, ciò rende la misura del nostro Illuminismo… Anche io non sono molto persuaso dall’autenticità del lieto fine, spesso superficialmente irriso. La visione del Manzoni era profondamente influenzata dal giansenismo, col tragico pessimismo che ispira ad esempio i versi più alti dell’Adelchi.
Non crede che il finale de I Promessi Sposi sia un rovesciamento sottilmente ironico della “provida sventura” del Coro dell’Ermengarda…
Ma credo che in quel momento avesse già risolto il dilemma, è il Coro infatti che dice a Ermengarda:” Te collocò la provida /sventura in fra gli oppressi:/muori compianta e placida./scendi a dormir con essi:/alle incolpate ceneri/nessuno insulterà.”.
E lei: “sento ch’Ei giunge”.
Non faccio battute.
Be’, già Bene facendo l’imitazione di Gassman da Costanzo azzardando: “giace la pia con il tremolo…”
Ho compreso.
Sono comunque tra le pagine più alte di Manzoni in poesia.
Nelle Osservazioni sulla morale cattolica, testo molto meno dogmatico di quello che potrebbe apparire, Manzoni trova un’espressione straordinaria: il “mistero concilia le contraddizioni”. Ora, letta così sembra una frase da Padre della Chiesa, alla Tertulliano per intenderci. Però secondo lascia trasparire tutta l’inquietudine del Manzoni prima illuminista e poi giansenista, prima d’esser cattolico, che si pone razionalmente il problema del dubbio davanti alle contraddizioni.
Certo, non era uno stupido. Ma seguiva anche un’ascesi rigorosa a un certo punto, viveva come un santo. Anche con tendenze estreme. La figliola gli chiese di comprarle uno scialle…e lui non glielo ha comprato! Non era mai soddisfatto nemmeno della sua opera, frenò la diffusione di una versione illustrata del romanzo, le copie rimasero tutte in cantina poiché all’ultimo momento cambiò idea.
Fece anche una grande revisione del romanzo storico dell’epoca.
Non me ne parli, ho letto recentemente L’assedio di Firenze del Guerrazzi…una cosa pallosissima!
Certo il libro dello stesso autore su Beatrice Cenci non tiene il confronto con il racconto Stendhal o il dramma di Artaud…
Beh, si, d’altro canto fu un romanzo che ispirò alcune delle rappresentazioni più truculente del Novecento.
Cosa pensa delle riduzioni teatrali manzoniane, ricordo che un intellettuale come Giovanni Casoli mi disse: “l’unica sopra il livello dell’abominio fu l’Adelchi di Carmelo Bene”.
Di Bene mi piacque molto il Pinocchio, lui era geniale in tutto ciò che faceva, lo reinterpretava a modo suo. Gassman aveva questo sogno del Teatro Nazionale, di cui era capocomico ad inizio degli anni ’50, anche se l’Adelchi lo fece una decina d’anni dopo.
Già in passato parlammo di Pasolini, lei ha giustamente preso in giro le tardive celebrazioni dell’anniversario della sua scomparsa, spesso dagli stessi ambiti che in vita lo massacravano…
Perché da vivo dava noia, eh. Lui entrava violentemente nel dibattito, era protagonista, certe volte quasi alla D’annunzio.
Infatti, proprio Bene parlava di “dannunzianesimo inconfessabile” a sinistra di Pasolini…
Si, aveva un forte senso estetizzante, anche la sua passione alla Rosseau, per i ragazzi selvaggi. Certe cose mi ricordano addirittura Chateubriand, quella prosa ridondante, eccessiva, giocata sulla memoria, ben prima di Proust.
Tornando a I Promessi Sposi, c’è una famosa scena ne Il Portaborse di Luchetti in cui Silvio Orlando critica il Manzoni dicendo che nel tempo in cui lui ha scritto il suo romanzo Balzac scrisse dieci capolavori.
L’ho sempre ritenuta una provocazione superficiale, I Promessi Sposi ha una grande dignità letteraria, farne un feticcio cattolico da abbattere ideologicamente è un errore.
Ma, vede, pensiamo a Balzac: sono autori che per vivere pubblicavano a puntate sui giornali. Ovviamente, erano più prolifici, ovviamente erano più vivaci, dovevano tenere sempre il lettore sospeso fino alla puntata successiva. “Riusciranno i nostri eroi?”
In quella critica, il personaggio del professore citava anche i capolavori di Dostoevskij, nel confronto. L’Innominato mi è sempre parso un personaggio dostoevskijano, anche se, come lei ama dire, risolto in maniera sbrigativa. Il tema del convertito, del grande peccatore che diviene santo è tipico dell’agiografia cristiana, ma credo che lo spessore, la profondità psicologica del personaggio sia di livello internazionale.
Ma certo, erano molto belli i personaggi manzoniani! Pensiamo alla Monaca di Monza, anche. Certo, il Conte del Sagrato supremo nel Male e poi com’è diventato buono! Manzoni poi moltiplica le descrizioni, i dettagli, la moglie del sarto, i suoi impegni quotidiani, le stoffe, i gesti… dettagli che risultano noiosissimi, ma solo perché ci obbligavano a studiarli! Il Manzoni era scaltro, sapeva che la scuola era in mano ai preti, così attraverso questo escamotage riuscì a contrabbandare messaggi più complessi.
In una nostra precedente conversazione lei accostava l’Artusi, il Pinocchio e I Promessi Sposi come testi fondativi della lingua italiana.
E come no?! L’Artusi ha fatto un grande lavoro di amalgama, Manzoni si è forgiato sul toscano illustre…quando è arrivato Collodi nel 1880 l’Italia era già bella e fatta.
Non le chiedo di De Amicis…
In Cuore metterà un piccolo eroe regionale per accontentare tutti, ma chi ci crede a un bambino che dice: “Io non accetto l’elemosina da chi insulta il mio paese!”, suvvia! E poi, “Dagli Appennini alle Ande”: o mio dio, che rottura di coglioni!

A. BLOK, Cos'è la felicità?

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I mondi volano. Gli anni volano. Il vuoto
universo si specchia nei nostri occhi bui.
E tu, anima stanca, anima sorda,
riparli sempre di felicità.

Cos’è la felicità? Le frescure serali
nell’orto che imbruna, nel folto dei boschi?
Oppure le fosche viziose delizie
delle passioni, del vino, del crollo dell’anima?

Cos’è felicità, un breve attimo angusto,
l’oblio, il sonno, e il riposo dal pensiero…
Ti svegli – e di nuovo un insano, un ignoto
volo che ti afferra per il cuore…

Ti rianimi, guardi – è passato il pericolo…
Ma nell’attimo stesso – daccapo una spinta!
Scagliata chissà dove, a rompicollo,
vola, ronza, precipita la trottola!

E, aggrappandosi al margine lubrico, aguzzo,
e sempre ascoltando quel suono ronzante, -
difficile non impazzire nel variopinto alternarsi
di cause illusorie, di spazi, di tempi…

Ma quando la fine? Chi avrà mai la forza
di udire in eterno il fragore molesto?
Com’è orrida e assurda ogni cosa! – Ridammi la mano.
Ci assopiremo di nuovo, compagna ed amica!

Aleksandr Blok

Traduzione di Angelo Maria Ripellino

HEIDEGGER ANTISEMITA E NAZISTA

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Antisemitismo e adesione al nazismo. Pubblicato parte del carteggio tra Martin Heidegger e il fratello Fritz che dimostra come anche dopo la fine della guerra il filosofo nutrisse un profondo disprezzo per gli ebrei.

Gennaro Imbriano

La croce uncinata a difesa dello spirito tedesco


Alcuni atteggiamenti e lo sguardo che Hitler ha nei ritratti di questi giorni mi ricordano spesso te». Così scriveva Fritz Heidegger il 3 aprile del 1933 in una lettera indirizzata al fratello Martin. Il quale dovette apprezzare questo paragone, dato che era stato proprio lui, nel dicembre del 1931, a fare attento il fratello sull’«insolito e sicuro istinto politico di Hitler» e a consigliargli la lettura del Mein Kampf.

Nel volume Heidegger und der Antisemitismus (Herder 2016, a cura di Arnulf Heidegger e Walter Homolka), viene parzialmente pubblicata la corrispondenza che il filosofo di Meßkirch intrattenne con il fratello Fritz tra il 1930 e il 1946. È un carteggio molto prezioso, perché contribuisce – proprio come gli appunti dei Quaderni Neri scritti in questo periodo – a ricostruire con maggiore precisione gli elementi teorici che sostanziano la «svolta» di Heidegger dopo la stagione di Essere e tempo, e a ricostruire il decisivo quindicennio (poco più) nel quale matura una nuova forma di «pensiero».

Notevole è il fatto che essa sia elaborata in intima connessione con l’evoluzione della crisi weimariana. Heidegger ne segue febbrilmente le vicende. Tutt’altro che disinteressato alla politica, è nelle pieghe del caos repubblicano che riformula in senso völkisch il suo «gergo dell’autenticità». 
Al nazismo compete una missione storica: «non si tratta più di meschina politica di partito — ne va piuttosto della salvezza o del tramonto dell’Europa e della cultura occidentale» (18.12.1931). Heidegger si convince progressivamente del fatto che Hitler sia «l’unica salvezza della patria» e vada sostenuto con forza contro ogni reticenza che qualche «impaurito “colto”» solleva nella speranza di favorire «immobilismo e mancanza di decisione» al fine di preservare la tranquillità della propria «dimensione borghese» (02.03.1932).

Il cancelliere della Repubblica di Weimar Heinrich Bruning gli appare troppo debole. Al fratello Fritz, che ne apprezzava gli sforzi per trascinare la Germania fuori dalla crisi, Heidegger contesta che il cancelliere ha raggiunto «meno di niente»: poco più che un «giocattolo nelle mani dei francesi», «privo di responsabilità dinanzi alle forze e ai compiti dello spirito tedesco», esecutore di «un ammiccare bugiardo verso Roma» (10-12.05.1932). Quanto al suo successore von Papen, Heidegger ne auspica la caduta e già nell’ottobre del 1932 prefigura quel cambio di guardia ai vertici dello Stato che si realizzerà due mesi dopo: «Schleicher sì – ma Papen no» (28.10.1932).

Quest’ultimo, che pure aveva tentato di arginare l’avanzata delle forze democratiche, viene infatti liquidato come amico degli ebrei, i quali grazie a lui «hanno ricevuto impulso e si sono liberati a poco a poco dalla loro sensazione di panico nella quale erano piombati» (28.10.1932).

Nella stessa lettera del 1932 Heidegger scrive che il mondo ebraico è espressione del «grande capitale», avere successo contro il quale «sarà difficile». Pochi mesi prima chiedeva a Fritz di diffidare della coalizione di centro e lasciare pure quel «rifugio tremolante alle donne e agli ebrei» (27.07.1932).
Dopo la guerra Heidegger, che pure continua a non nascondere al fratello il suo disprezzo per gli ebrei («Qui tutto è poco bello. Dobbiamo prendere in casa la gente dei Lager [KZ-Leute]. Tutto è brutto e peggiore che al tempo dei nazi» ), ridimensiona l’Olocausto chiamando in causa le violenze subite dai tedeschi dell’est: il «terribile destino che si è consumato nell’est della nostra patria», scrive in una lettera del 1946, «supera tutte le atrocità organizzate da delinquenti e accade indipendentemente – e sarebbe accaduto già prima – da ciò che noi “conoscemmo” tra il 1933 e il 1945».

Se verso la fine delle ostilità Heidegger non si dà pace per questo «terribile destino» e si domanda perché «lo spirito del mondo si serva di americani e bolscevichi come suoi sgherri» (18.01.1945), negli anni Trenta sono soprattutto questi ultimi a incutergli terrore. «Esiste oggi solo una chiara linea, che separa profondamente la destra dalla sinistra. Le mezze misure sono un tradimento. Dopo le elezioni gli otto milioni di comunisti daranno da pensare al “borghese”. E al ballottaggio saranno persino qualche milione in più» (02.03.1932).

Bisogna scongiurare il pericolo: malgrado le «goffaggini politiche», le «aberrazioni e le spiacevolezze» dei nazisti, «bisogna restare legati a loro» (28.10.1932). Occorre lasciarsi finalmente alle spalle «Weimar», che «fallì completamente di fronte al pericolo del bolscevismo – pericolo che i filistei di oggi ancora non vedono» (04.02.1933). E, poco dopo l’inizio dell’operazione Barbarossa, scrive: «La guerra comincia solo adesso. La brutalità della battaglia nell’est è certamente di dimensione “cosmico-storica”» (20.07.1941).

Eccolo, il nazismo di Heidegger: la missione storica della filosofia tedesca e della politica del Reich è la salvezza dallo spettro che si aggira per l’Europa. Un fantasma che nella Germania weimariana minaccia di cambiare le sorti della storia del mondo.

Il Manifesto – 11 febbraio 2017

V. MAJAKOVSKIJ, Che senso ha?

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Uno dei grandi poeti russi travolti dalla Rivoluzione:


Che senso ha, se tu solo ti salvi?
Voglio salvezza per tutta la terra priva d'amore,
per tutta la folla umana nel mondo.
Sto qui da sette anni, e rimarrò altri duecento,
inchiodato ad aspettare questo.
Sul ponte degli anni, tra il disprezzo e le beffe,
con l'incarico di redentore dell'amore terrestre
dovrò rimanere e rimango per tutti,
per tutti pagherò, piangerò per tutti...
Risuscitami. Almeno perchè, da poeta,
ti ho atteso, rifiutando le balle di ogni giorno.
Risuscitami, almeno per questo!
Risuscitami: voglio finire di vivere il mio!


Vladimir Majakovskij

FRANCESCO DE SANCTIS HA ANCORA TANTO DA INSEGNARCI

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Calitri, Irpinia
 
Riprendiamo dal sito  http://www.leparoleelecose.it/  l'intervento di Raoul Bruni uscito in forma integrale nel numero monografico della “Rivista di Letteratura Italiana” (I, 2017) dedicato a Francesco De Sanctis, in occasione del bicentenario della nascita.

L’Italia di De Sanctis

di Raoul Bruni

Un viaggio elettorale di Francesco De Sanctis viene pubblicato a puntate in appendice alla «Gazzetta di Torino» nel 1875, dunque esattamente quattordici anni dopo l’atto di nascita del nuovo Stato unitario. Sebbene il libro si svolga quasi tutto in Irpinia, è impossibile negare che quello spicchio di Penisola rifletta alcuni dei caratteri più tipici dell’intera nazione, cosicché l’itinerario desanctisiano assume senz’altro un valore paradigmatico, fornendo un’icastica istantanea dell’Italia di allora.
Non solo: mentre racconta Italia degli anni settanta dell’Ottocento De Sanctis coglie con largo anticipo alcuni tratti fondamentali del nostro carattere nazionale che sarebbero emersi con più chiarezza nel futuro della storia italiana. In questo senso, il Viaggio desanctisiano non è soltanto un ‘classico del meridionalismo’ (come pure, giustamente, è stato definito), ma, più in generale, un classico dell’italianità letteraria,[1] da collocarsi idealmente nella gloriosa scia di Machiavelli e Guicciardini, e del Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (che sarebbe uscito soltanto dopo la morte di De Sanctis ma che presenta non poche consonanze ideali con Un viaggio elettorale). Né si dimentichi che De Sanctis scrive il Viaggio pochi anni dopo aver portato a termine la sua Storia della letteratura italiana (1870-1871), cioè uno dei più fondamentali contributi alla storia della civiltà, non solo letteraria, italiana.
Del resto, nei decenni che seguono l’Unificazione, escono alcuni viaggi letterari attraverso lo stivale improntati agli ideali patriottici risorgimentali: i più organici e importanti sono Il bel paese di Antonio Stoppani, che viene pubblicato nel 1876 (in concomitanza con l’uscita in volume, presso Morano, del Viaggio elettorale desanctisiano) e Il viaggio per l’Italiadi Giannettino di Carlo Collodi, pubblicato in tre volumi, tra il 1880 e il 1886. Rispetto a queste due opere monumentali, De Sanctis si concentra su un’area ben più limitata, ma egli stesso si dimostra ben consapevole della portata esemplare del suo racconto, tant’è che, dopo aver scritto che «avev[a] imparato più in quei paeselli che in molti libri», aggiunge che la storia confluita in quel libro non è più soltanto «storia mia; è storia di tutti, ci s’impara molte cose».[2]
L’idea di civiltà italiana che De Sanctis presuppone ha come alimento fondamentale la letteratura nazionale. Risulta impossibile separare nettamente il pensatore politico dal letterato, così come lo scrittore dal viaggiatore. Gli autori prediletti (Machiavelli, Guicciardini, Leopardi, Manzoni) accompagnano e illuminano costantemente De Sanctis come un’ideale biblioteca portatile: a volte li cita esplicitamente, come Manzoni (nel Viaggio si evoca un famoso episodio dei Promessi sposi, già considerati alla stregua di un classico, e si paragona un personaggio a Don Abbondio)[3] e Guicciardini,[4] altre volte implicitamente (è il caso di Leopardi).[5]
La poetica del Viaggio elettorale risponde perfettamente ad alcuni dei più classici canoni dell’umorismo; d’altra parte, questo libro è stato letto anche come prodromo della letteratura verista (nel capitolo I, l’autore scrive che il proprio racconto parla di un «mondo studiato dal vero e dal vivo» [V, p. 61]). In realtà, più che di verismo in senso stretto, sarebbe più corretto parlare di ‘realismo’, un realismo costantemente venato di umorismo. Del resto, il realismo di De Sanctis non è soltanto letterario, ma anche realismo politico, giacché la modalità del racconto è perfettamente solidale con la tensione ideologica che lo sostanzia.
De Sanctis, nonostante la sua indole sognatrice e la sua incrollabile fiducia nel progresso, non coltiva utopie astratte ma conosce bene la natura intrinsecamente impura del potere e della politica. A tale proposito, le diagnosi consegnate ai suoi importanti interventi politici risalenti agli anni immediatamente successivi all’uscita del Viaggio (da considerarsi come una sorta di «manifesto a posteriore dei motivi di fondo che animano la riflessione e la militanza politica»[6] che innervano il libro) sono inequivocabili: «Come si chiama questo pot-pourri? Politica italiana! perché non conosco nessun paese, dove sia tale babele. Di che nasce l’equivoco, lo scetticismo, la demolizione de’ partiti legali, l’abbassamento de’ caratteri, la corruzione degli ordini costituzionali. Il campo rimane così aperto agli avventurieri, fabbricatori di combinazioni politiche almeno una volta al mese, lusingando tutti e ingannando tutti»[7]. Non fossimo nel 1877, sembrerebbe di leggere una delle tipiche denunce, oggi sempre più diffuse, che di solito vengono rubricate sotto l’etichetta di ‘antipolitica’: certo, le elezioni allora coinvolgevano soltanto una piccola élite, ma, nondimeno, rimane l’impressione che, in oltre un secolo e mezzo di storia italiana unitaria, i sistemi di gestione del potere non si siano modificati granché. Anche riguardo ai partiti politici il giudizio desanctisiano suono altrettanto sferzante: non ne esistono di «solidamente costituiti, se non quelli fondati sulla regione o sulla clientela, le due piaghe d’Italia, ricordanza di antiche divisioni e scuola organizzata di corruzione».[8] Ne consegue che la politica equivale, in definitiva, a «farsi gli amici e gli alleati, vantare protezioni e relazioni, parlare a mezza bocca, congiungere l’intimidazione con la ciarlataneria».[9]
La stessa parabola politica di De Sanctis si scontra continuamente, anche nel Viaggio, contro la corruzione e l’immobilismo del sistema politico italiano, contro l’asfittica rete di consorterie su cui esso è basato. Di fronte a questo sistema, De Sanctis spesso è costretto a soccombere, tant’è che, a osservarlo attentamente, il bilancio della sua esperienza di politica attiva potrebbe apparire sostanzialmente fallimentare. Egli stesso comprende lucidamente il risvolto beffardo e il carattere effimero della sua avventura politica in Irpinia: «Ed io che sarò? Un sigaro fumato. Bella consolazione! Niente muore, tutto si trasforma. Una gran frase, sicuro, per farci ingoiare la pillola» (V, p. 86) – afferma nel celebre dialogo immaginario con il teologo, incastonato, quasi come una piccola operetta morale leopardiana, all’interno del capitolo Fantasmi notturni. Certo, De Sanctis, nel ballottaggio finale, la spunterà sul suo avversario (Severino Soldi, di cui si dirà dopo), ma tutta la sua faticosa spedizione elettorale gli frutterà soltanto venti voti in più.
Ma guardiamo più da vicino l’intricata vicenda politica raccontata nel Viaggio.[10] Alle origini della spedizione elettorale di De Sanctis c’è l’annullamento per irregolarità vere o presunte del ballottaggio tenutosi il 15 novembre 1874 nel collegio di Lacedonia, in cui egli era risultato vincitore. Il 17 gennaio del 1875 si deve quindi tornare alle urne e De Sanctis viene spedito nella sua Irpinia, da dove mancava da una quarantina d’anni, per raccogliere il numero maggiore possibile di voti. La paradossale situazione che si crea con questo nuovo ballottaggio si presenta all’insegna di quel fenomeno oggi divenuto ormai proverbiale che è il trasformismo. Intanto De Sanctis è sostenuto da Michele Capozzi, meglio noto come Re Michele, potentissimo rappresentante del potere locale, uomo di destra che per seguire determinati interessi è disposto ad appoggiare, appunto, un politico di sinistra. Ma ancor più spiccatamente trasformista è l’avversario di De Sanctis, Severino Soldi, il quale appena alla vigilia delle elezioni era passato dalla compagine della destra a quella della sinistra. Trasformismo, dunque, ma anche una sinistra che si scontra e si dilania al suo interno invece di unire le proprie forze per sconfiggere la destra, insomma: una situazione lontana nel tempo e che ha come teatro un luogo apparentemente marginale, ma che, per contro, non potrebbe essere più attuale. Come scrive De Sanctis a proposito dell’affaire Soldi, c’è chi non concepisce che «nella stessa elezione e agli stessi elettori lo stesso candidato potesse recitare due programmi diversi. Le menti erano scombussolate» (V, p. 79), mentre egli, conoscendo già bene i maneggi della politica, non si stupisce più di tanto, anzi è «di tutti il meno sorpreso, perché se ignoravo il dietroscena di Lacedonia, conoscevo perfettamente il dietroscena di Napoli» (V, p. 80).
L’Irpinia nella quale De Sanctis si appresta a ingaggiare la sua aspra contesa elettorale con Soldi è dominata dai campanilismi e dai contrasti intestini. In questo senso la lettura del Viaggio può essere proficuamente illuminata dall’articolo del 1877 I partiti personali e regionali, in cui De Sanctis denuncia drasticamente l’invadenza dei partiti personali e regionali, che, in realtà, «non sono partiti, sono malattie sociali».[11] I capi di queste piccole fazioni, oggi diremmo lobbies, «hanno inclinazione a scegliersi clienti e non amici, non compagni di buona tempra e ingegno, anzi un gregge docile, servile, parassiti, commessi, mezzani, compari, confidenti, tutte cattive erbe che sogliono germogliare nella mala compagnia, effetto e insieme causa di corruzione».[12] In sostanza, quindi, i gruppi regionali «al di là della regione non veggono altro», al pari dei gruppi personali, che «non guardano al di là delle loro persone».[13]
Nel Viaggio elettorale ogni paese fa storia a sé: ogni contrada si presenta come un microcosmo autonomo, con i suoi piccoli partitini, i suoi boss, i suoi «dietroscena», per usare una parola-chiave del viaggio. I titoli dei vari capitoli illuminano a volte icasticamente il carattere principale delle varie località: Rocchetta la poetica, Bisaccia la gentile, Calitri la nebbiosa, Andretta la cavillosa. Se, come lascia immediatamente intendere il titoletto, Andretta è dominata, per l’appunto, da uno «spirito cavilloso» («I grandi ingegni non sono mai cavillosi; il cavillo è il carattere della mediocrità» [V, p. 125]), la nebbia di Calitri non è soltanto un fenomeno metereologico. De Sanctis non riesce a comprendere veramente «le condizioni morali del paese», giacché:
Frizzi, sarcasmi, ironie s’incrociavano de’ presenti contro gli assenti; c’era lì del guelfo e del ghibellino, lotta di famiglie lotta d’interessi, passioni vive e dense, col nuovo alimento che viene da’ piccoli centri, dove non si pensa che a quello solo. Gittarmi entro a quell’incendio mi pareva pazzia (V, p. 118).
Così recita un altro illuminante passo del Viaggio:
in questi piccoli centri, il mondo comincia e finisce lì. Il campanile è la stella maggiore di quel piccolo cielo. E in quelle gare, in quelle gelosie, in quelli che tu chiami I pettegolezzi municipali è tanta passione, quanta è, poniamo, tra Francia e Germania. Ciascuno ha la sua epopea a modo suo (V, p. 92).
Ogni visione che abbia a cuore il bene pubblico deve inevitabilmente fare i conti con le più miopi logiche di campanile, perché esse vincolano e condizionano ogni tipo di iniziativa politica. Viene in mente la celebre riflessione del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, in cui Leopardi, dopo aver sottolineato l’assoluta mancanza in Italia di un bon ton sociale, cioè di «una maniera, un tuono italiano determinato», afferma che «Ciascuna città italiana non solo, ma ciascun italiano fa tuono e maniera da sé».[14]
De Sanctis non ha paura di raccontare la realtà dei fatti, anche quando essa sembra ritorcersi contro la propria causa. Penso ad esempio al capitolo in cui riferisce che uno dei suoi sponsor più forti, don Molinari, per assicurarsi che alcuni elettori votassero effettivamente per De Sanctis, aveva chiesto loro di inserire all’interno delle schede dei marchi di riconoscimento, facendo aggiungere accanto al cognome del candidato (De Sanctis) epiteti e o frasi come non vogliamo versipelli, oratore italiano, fratello di D. Vito, ecc. (V, p. 163). Sia pure attraverso il filtro dell’ironia, De Sanctis denuncia una pratica più o meno dissimulata di compravendita dei voti, che purtroppo ha continuato ad avere corso, almeno in certe aree, fino ai nostri giorni. E lo fa ben sapendo che, in questo caso, questa pratica ha favorito la sua propria causa politica.
Le denunce politiche e sociali del Viaggio non si limitano alle tare della politica locale ma investono anche altri aspetti, che peraltro alla politica sono strettamente connessi. Innanzitutto, le condizioni dissestate delle strade, che rendono gli spostamenti nelle già di per sé impervie contrade dell’alta Irpinia particolarmente difficoltosi. Si legge, ad esempio, nel capitolo su Calitri:
O come questi cittadini, che dicono così ricchi, non hanno avuto ambizione di trasformare la loro città e farla degna dimora di loro signorie? Non conoscevo le case, ma quelle strade erano impresentabili, e danno del paese una cattiva impressione a chi giunge nuovo; le strade sono pel paese quello che il vestire è per l’uomo (V, p. 127).
Anche nel natio borgo selvaggio di De Sanctis, Morra Irpino, nonostante qualche timido segnale di progresso sociale, permangono antiche piaghe difficilmente estirpabili:
Veggo ancora per quelle vie venirmi tra gambe, come cani vaganti, una turba di monelli, cenciosi e oziosi, e mi addoloro che non ci sia ancora un asilo d’infanzia. Non veggo sanata la vecchia piaga dell’usura, e non veggo nessuna istituzione provvida che faciliti gl’istrumenti del lavoro e la coltura dei campi. Veggo più gelosia gli uni degli altri, che fraterno aiuto, e nessun centro di vita comune, nessun segno di associazione. Resiste ancora l’antica barriera di sdegni e di sospetti tra galantuomini e contadini, e poco si dà all’istruzione, e nulla alla educazione. Nessuno indizio di esercizii militari e ginnastici, nessuno di scuole domenicali, dove s’insegni a tutti le nozioni più necessarie di agricoltura, di storia e di viver civile (V, pp. 152-153).
Per ripristinare un minimo di uguaglianza e di giustizia sociale occorre la pioggia, come fa notare, con amara ironia, De Sanctis: «La pioggia aveva messo là l’eguaglianza tra contadini e signori, anzi vedevi con rara abnegazione qualche signore a piedi e qualche contadino a cavallo» (V, p. 162).
Il Viaggio elettorale rappresenta uno dei vertici della prosa civile del nostro Ottocento e, al tempo stesso, un modello più o meno dichiarato di un certo filone di giornalismo d’inchiesta (basti fare il nome di uno dei più importanti rappresentati del giornalismo meridionalista, Giovanni Russo, che non hai mai nascosto il suo debito nei riguardi del Viaggio desanctisiano).[15] Se le fonti del Viaggio sono state attentamente indagate, quasi nulla è stato scritto sulle sue foci: invece, ricerche in questa direzione potrebbero avere esiti molto interessanti, e, forse, sorprendenti. Il Viaggio, insomma, rappresenta ancora una lettura attuale, dato che, raccontando una parte del meridione, De Sanctis racconta l’Italia: per certi aspetti, anche quella odierna. Perché, come egli stesso scrive: «Le questioni regionali sono una questione di politica generale. La malattia di un membro è malattia di tutto il corpo, la debolezza di uno è debolezza di tutti; dov’è stato morboso, tutti hanno interesse alla guarigione».[16] Ecco perché Un viaggio elettorale è stato (e ancora oggi è) un libro esemplare.


[1] Sulla formazione del concetto di italianità letteraria, cfr., fra l’altro, lo studio di Silvana Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2010.
[2] Francesco De Sanctis, Un viaggio elettorale. Racconto, edizione critica a cura di Toni Iermano, collaborazione di Paola Di Scanno, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2003, p. 61(da ora in avanti questa edizione sarà indicata con la sigla V: i rinvii alle pagine saranno forniti tra parentesi, dopo le citazioni virgolettate).
[3] Cfr. V, rispettivamente, pp. 140 e 183.
[4]«Il sacrifizio a noi, e la gloria a’ nipoti: o chi conosce i nipoti? e mi pare che il bravo operaio non andasse più in là del suo particolare, come diceva Guicciardini; così s’incontravano l’uomo della decadenza e l’uomo dell’infanzia, dove finisce e dove comincia la storia» (V, p. 174).
[5] Si legga ad esempio questa riflessione, che riecheggia chiaramente il pensiero di Leopardi: «La menzogna, il falso vedere foggiato da’ nostri desiderii ci tiene allegri. E chè l’inganno duri, altro non chiediamo, pur sapendolo inganno. E quando sopraggiunge il disinganno, la vista della verità ci offende e chiudiamo gli occhi per non vederla, e mettiamo guai, come fanciulli» (V, p. 168).
[6] Toni Iermano, Tra gli uomini di Guicciardini.«Un viaggio elettorale» di Francesco De Sanctis, in Idem, Raccontare il reale. Cronache, viaggi e memorie nell’Italia dell’Otto-Novecento, Napoli, Liguori, 2004, p. 4 (Iermano si riferisce agli articoli apparsi sul «Diritto» tra il 1877 e il 1878).
[7] Francesco De Sanctis, L’Italia democratica, «Diritto», 7 ottobre 1877, in Idem, I partiti e l’educazione della nuova Italia, a cura di Nino Cortese, Torino, Einaudi, 1970, p. 132.
[8]Ibidem.
[9] Francesco De Sanctis, L’educazione politica, «Diritto», 11 giugno 1877, in Idem, I partiti e l’educazione della nuova Italia, cit., p. 99.
[10] Non è questa la sede per ricostruire nel dettaglio il complesso contesto politico-elettorale entro il quale va inquadrato il viaggio di De Sanctis in Irpinia: sull’argomento, cfr., soprattutto il prezioso volume Il viaggio elettorale di Francesco De Sanctis. Il dossier Capozzi e altri inediti, a cura di Attilio Marinari, Firenze, La Nuova Italia, 1973; per un quadro più sintetico, cfr. l’Introduzione dello stesso Attilio Marinari alla sua edizione di Un viaggio elettorale, con un’appendice di documenti vari, Napoli, Guida, 1983, in particolare, pp. 9-17.
[11] Francesco De Sanctis, I partiti personali e regionali, «Diritto», 9 novembre 1877, in Idem, I partiti e l’educazione della nuova Italia, cit., p. 141.
[12] Ivi, p. 142.
[13] Ivi, p. 143.
[14] Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, edizione diretta e introdotta da Mario Andrea Rigoni, testo critico di Marco Dondero, commento di Roberto Melchiori, Milano, BUR, 1998, p. 57.
[15] Nella conversazione con Goffredo Fofi che apre il suo volume La terra inquieta, Giovanni Russo indica nel De Sanctis del Viaggio elettorale e di Giovinezza una lettura fondamentale per la sua formazione (cfr. Giovanni Russo, La terra inquieta memoria del Sud, a cura di Goffredo Fofi, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2003, p. 7; Russo torna a richiamarsi all’attualità del modello di reportage del Viaggio elettorale anche in un altro passo del libro, cfr. Ivi, p. 233, ma De Sanctis è citato anche in altri libri del giornalista).
[16] Francesco De Sanctis, I partiti personali e regionali, cit., p. 145.

VENERDI A PALERMO I SERVI DISOBBEDIENTI

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Venerdì 31 marzo, alle ore 17.00 presso il Circolo di lettura Tisane letterarie dell’Associazione Culturale Crisalide Palermo,

Gino Pantaleone presenta il suo libro:
Servi disobbedienti - Leonardo Sciascia e Michele Pantaleone: vite parallele
Prefazione di Gaetano Savatteri (Dario Flaccovio Editore - Novembre 2016). 
Modera Letizia Maria Mineo curatrice Circolo di lettura “Tisane letterarie”.

Il libro analizza le vite parallele di due scrittori che hanno coraggiosamente scritto di mafia: Leonardo Sciascia con la sua analisi precisa ed elegante, Michele Pantaleone in modo più crudo.

SCOPERTO L'IGNOTO MARINAIO DI ANTONELLO

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Intorno 1476 Antonello da Messina dipinse uno straordinario ritratto di uomo, da allora definito “l'ignoto marinaio”. Oggi una nuova ricerca storica chiarisce il mistero: si tratterebbe di un vescovo vicino agli aragonesi.

Tano Gullo

Ecco chi è l’Ignoto marinaio di Antonello

Il secondo sorriso più famoso al mondo, dopo quello della Gioconda, non è di un marinaio di Lipari, come si pensava. Ora ci sono le prove che confermano i dubbi che storici dell’arte come Roberto Longhi avevano insinuato nel secolo scorso.

Un sigillo sul retro della preziosa tavola di noce intrisa di smalto, pigmento e olio di lino, conservata al museo Mandralisca di Cefalù, svela il mistero e apre una pista che porta dritta all’identità dell’ignoto protagonista del capolavoro di Antonello da Messina.

Altro che navigante, l’enigmatica espressione appartiene a un potente vescovo-ambasciatore, precettore di Ferdinando II d’Aragona, re di Spagna e di Sicilia, quello che con la moglie Isabella di Castiglia finanziò l’impresa di Colombo.

Il suo nome è Francesco Vitale, di origini pugliesi, che resse la diocesi di Cefalù dal 1484 fino alla sua morte avvenuta nel 1492. La clamorosa scoperta è dovuta a tre studiosi: Sandro Varzi, conservatore del museo Mandralisca, il figlio Salvatore, esperto di araldica, e Alessandro Dell’Aira, scrittore. Il percorso per svelare l’identità del personaggio sarà raccontato in un libro, Sfidando l’Ignoto, pubblicato nelle edizioni Torri del Vento.

Tutto ha inizio quando Sandro Varzi, nel fotografare e ripulire l’opera, in partenza per l’Expo di Milano, nota un sigillo a cui nessuno fino ad allora aveva fatto caso. «Il sigillo che mostrava gli emblemi vescovili – dice Varzi – ci ha indotto a cercare nell’albero genealogico della famiglia Pirajno, che possedeva l’opera, dove però non c’era nessun presule. Ma cerca che cerca ci siamo imbattuti in Giuseppe Pirajno, che era stato vicario di ben tre vescovi di Cefalù e che, in assenza dei titolari, a metà Settecento, aveva esercitato per parecchi anni un grande potere nella curia, tanto da ottenere la potestà di utilizzare lo stemma episcopale.

Il sigillo sul quadro è riferibile all’incirca al 1738. Un analogo sigillo chiude il testamento del vicario stesso. Quindi c’è la prova che l’opera era stata acquisita nel patrimonio dei Mandralisca ben prima che il barone Pirajno (1809-1864), quello raccontato da Consolo, facesse la spola con Lipari, l’isola natia della moglie, dove avrebbe trovato l’opera». Tutto questo accadeva almeno un secolo e mezzo prima che a qualcuno venisse in mente di attribuire il sorriso a un marinaio.

Ma perché il rivoluzionario barone Mandralisca, esaltato poi da Vincenzo Consolo nel suo capolavoro Il sorriso dell’ignoto marinaio come eroe risorgimentale, non ha mai smentito la favola della figlia dello speziale eoliano che in un impeto di rabbia aveva sfregiato il quadro dell’uomo che la rifiutava?

Un altro enigma nel misterioso contesto. Con la documentazione della vera identità chiudiamo il capitolo sul marinaio e apriamo quello relativo a Francesco Vitale. La sua vita è stata una grande avventura culturale, politica ed ecclesiastica. Laureato alla Sorbona di Parigi, trascorse anni alla corte aragonese dove educò alle lettere il piccolo Ferdinando. Poi, da ambasciatore compì delicate missioni per conto del monarca e infine fu vescovo di Siracusa e Cefalù, dove morì nel 1492.

Probabilmente Vitale conobbe Antonello a Venezia, dove il pittore era all’opera intorno al 1476. Ovviamente il vescovo portò con sé il ritratto. Bisogna considerare che solo personaggi facoltosi potevano permettersi un quadro del messinese. Altro che marinaio. Individuato il protagonista, i tre autori dell’indagine si mettono al lavoro per trovare altri elementi per convalidare la loro ipotesi. Scoprono delle tracce utili in sette medaglie rinascimentali dedicati al Vitale, in disegni d’epoca in cui ritrovano le fogge del vestito dell’ignoto, e in un incunabolo in cui c’è la prova che Vitale morì a Cefalù.

«Quest’ultimo dettaglio è importante perché prova che i suoi beni restarono nell’archivio storico della diocesi siciliana – dice Varzi – Tra tutti gli indizi che abbiamo trovato, c’è un quadro che raffigura Ferdinando addobbato come il protagonista del ritratto. E Vitale era certo autorizzato ad abbigliarsi con i preziosi vestiti in uso dal re. Consideriamo questa una delle prove più evidenti che ci ha aiutato a svelare l’enigma».

Che il quadro fosse di Antonello non ci sono mai stati dubbi, almeno da quando nel 1860 Giovan Battista Cavalvaselle fece una perizia sulla tavola. In quella circostanza fece dei disegni di suo pugno. «Utili – dice Salvatore Varzi – per ricostruire i restauri e gli interventi fatti sul quadro. Questi preziosi bozzetti oggi sono conservati alla Biblioteca Marciana di Venezia. Nella sua relazione e nello scambio epistolare col barone nessun accenno alla provenienza e all’identità del ritratto.

Come abbia preso il volo la storia del marinaio resta inspiegabile». «E dire – conclude Dell’Aira – che già negli anni Trenta, Giovanni Cavallaro, giornalista de L’Ora, aveva scritto che, per l’abbigliamento, doveva per forza trattarsi di un uomo di alto rango. Ma gli storici guardavano in modo miope alla favola preconfezionata chissà da chi». Potenza della suggestione.

la Repubblica - 27 marzo 2017

ANCORA SUL MOVIMENTO DEL 1977

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In una società che macina tutto rendendolo soap opera (vedi ieri il centanario della prima guerra mondiale e oggi dell'Ottobre) rimane sottotono la rievocazione del movimento del 77. Forse ancora troppo recente per riuscire a disinnescarne nei talkshow la radicale carica sovversiva bene espressa da riviste come A/traverso di cui Derive Approdi pubblica la raccolta.

Alessandra Vanzi

Era il ’77 circolava il Maodadaismo


“Ho ficcato un dito nel cielo e ho dimostrato è un ladro!” (Majakovskij). Questa frase, che pronunciavo nel mio primo spettacolo “La rivolta degli oggetti” (1976), non l’ho mai dimenticata e mi è risuonata continuamente nelle orecchie leggendo in questi giorni il libro di Luca Chiurchiù “A/traverso La rivoluzione è finita abbiamo vinto” (ed. Derive Approdi) che ricostruisce con filologica precisione la storia della rivista e il contesto movimentista in cui nasce. Le idee viaggiavano veloci nell’etere trasmesse dalle prime radio libere e penetravano l’atmosfera con analogie anarchiche e maodadaiste spostandosi tra i linguaggi, destrutturandoli, mescolando illuminazioni filosofiche, punk, rivoluzioni sessuali e comportamentali.
Nel teatro d’avanguardia si moltiplicavano le performances che evadevano dagli spazi deputati invadendo le strade con il Living, la Postmodern dance e Grotowski, la musica partoriva i Sex Pistols e Freakantoni, l’arte Keith Haring e Andrea Pazienza, la scrittura Tondelli e Palandri, la poesia Bellezza e Ferlinghetti e mille altri artisti; così anche le riviste, i fogli del movimento si moltiplicavano: Rosso, Zut, Zizzania, La rivoluzione, il Male, etc. etc. supportati sempre dallo stesso unico garante Marcello Baraghini fondatore di Stampa Alternativa. Nel ‘77 A/traverso è una delle voci più rappresentative del movimento; nasce in Via Marsili a Bologna, casa di Franco Berardi detto Bifo che insieme a Maurizio Torrealta, Stefano Saviotti, Luciano Capelli, Claudio Cappi, Paolo Ricci, Matteo Guerrino, Marzia Bisognin a cui si aggiunge Angelo Pasquini, unico romano, quasi tutti gravitanti nell’orbita del DAMS, quasi tutti con formazione estetico-semiotica, sperimentano in pratica-rivoluzionaria-scrittoria le teorie del situazionismo Debordiano, la lezione delle avanguardie primo novecentesche, leggono i noveaux philosophes francesi Deleuze, Guattarì, Foucault, Lacan, gli scrittori Barthes e Balestrini e il gruppo 63.
Ispirati da Majakoskij producono il contro manifesto del maodadaismo (Mao Tse Tung diventa soprattutto un simbolo pop), che leggono al Convegno della Cooperativa scrittori : “…Diciamo DADA e intendiamo la nostra collocazione altrove. Oggi – fuori di qui – nella vita entusiasmante del proletariato giovanile mobile, della classe operaia in lotta, delle donne e dei gay che sperimentano forme di vita non sessista e non competitiva, dichiariamo la nascita del MAO-DADAISMO, una pratica della scrittura non separata, ma trasversale, capace di ricomporre gli ordini dell’esistenza. Oltre la politica del compromesso, oltre la cultura del compromesso, fatte per riprodurre e giustificare il dominio del capitale sul tempo di vita , dichiariamo la nascita del TRASVERSALISMO, forma teorica che interpreta il percorso pratico della scrittura-creatività-sovversione. I nuovi scrittori sono dentro il proletariato giovanile mobile, fra i gay, fra le donne, fra gli operai assenteisti, fra i rivoluzionari, fra i lavoratori intellettuali che affrettano la fine della società fondata sulla miseria e sul lavoro.”

“ Dissolutezza sfrenatezza festa. Questo è il livello a cui è attestato il comportamento dei giovani, degli operai, degli studenti, delle donne. E se per i burocrati questa non è politica, ebbene, è la nostra politica, magari la chiameremo in un altro modo. Appropriazione e liberazione del corpo, trasformazione collettiva dei rapporti interpersonali sono il modo in cui oggi ricostruiamo un progetto contro il lavoro di fabbrica, contro qualsiasi ordine fondato sulla prestazione o sullo sfruttamento.”
Naturalmente tanta provocazione non era accettabile per nessuna Istituzione e dopo i primi mesi di entusiasmo liberatorio e sfrenato arrivò l’11 marzo e la polizia di Kossiga, novello Fouchè, fece di Francesco Lo Russo la sua prima vittima dell’anno, appositamente direi, e precipitò il livello dello scontro, e vennero tempi di leggi speciali, di galere e clandestinità, di eroina lasciata correre nelle vene come sedativo di massa, del teorema Catalanotti. Il 12 marzo, mentre a Roma scontri durissimi vanno avanti fino a notte fonda, a Bologna viene chiusa, durante la diretta, radio Alice. Il 14 marzo vengono arrestati Saviotti, i fratelli Minella e Marzia Bisognin. Bifo riesce a scappare in Francia. Angelo Pasquini viene arrestato il 4 aprile al funerale di suo padre.

Ciò nonostante nel giugno ’77 A/traverso esce con un numero contro la criminalizzazione del dissenso da cui: “ …Ma l’unica cultura vivente è quella del movimento. Gli unici poeti italiani che abbiano saputo cogliere il respiro della storia sono – come Angelo Pasquini e Stefano Saviotti – in carcere, oppure come Nanni Balestrini perquisiti e perseguitati , o, come Bifo latitanti. Quando la cultura deve farsi , per il potere, organizzazione del consenso, ecco allora che lo stato decreta che il dissenso è criminale, e la persecuzione stalinista non colpisce la scrittura, la teoria, la poesia, ma la sua capacità trasversale di collettivizzazione e trasformazione..Non si tratta di costringere la poesia alla storia, ma di riconoscere che è solo il respiro della rivolta, lo spessore della storia, a dare al testo la densità della poesia.”
Il movimento del ’77 è stato creativo, fulminate, celibe, forse per questo non ha lasciato eredi. Come dice Torrealta: ”l’avanguardia che si mette l’anello al dito definendosi tale è un’Avanguardia Sposata, quella che invece non pensa a definirsi ma canta e balla, dipinge e suona, è invece un’Avanguardia Celibe.

Per quanto possa ricordare nessuno del movimento del ’77 si è mai definito avanguardia. Gli unici a farlo furono i seguaci della lotta armata…altri decisero di spogliarsi, di segnarsi il viso e il corpo, come selvaggi in una cerimonia iniziatica, di dimenticare la grammatica e la sintassi, di anagrammare le parole sconosciute, di parlare in versi, di regredire al livello più lontano del passato e di immaginare gli scenari più avanzati del futuro, di riprovare a reinventarsi tutti i linguaggi del mondo , perché tutti i linguaggi del mondo avevano già fallito.”


il manifesto/Alias – 18 marzo 2017
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