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TRUMP CE L'HA PIU' LUNGO DI TUTTI...

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Anche se c'è ben poco da sorridere, proviamo a farlo pur consapevoli del fatto che - per l'irresponsabilità dei padroni di questo mondo - rischiamo di andare incontro alla terza guerra mondiale. 
Di seguito riprendo un bel commento al fatto del giorno di una cara amica:


“Madre di tutte le bombe”, vorrebbe essere rassicurante questo uso della parola madre? Cosa avevano in mente dandole questo appellativo? Una Medea della tecnica? O inculcare un semplice quanto falso senso di sicurezza, nel far credere che non ci sia bomba peggiore di questa (la menzogna delle menzogne) che è tutto sommato, sotto controllo e che si può anche cominciare a ....? Come associare la parola, il concetto di madre a un oggetto che partorisce morte e distruzione, con quale ironia? E questa umanità passiva, dissociata, rassegnata direi, perché in fondo crede che una nuova guerra su scala planetaria non possa accadere oggi, che sia anch' essa un prodotto virtuale. La virtualità ci fa del male quando smorza il senso reale di quanto sta accadendo e porta a credere che spegnendo uno schermo basterà a cancellare la minaccia, che al contrario, cresce a vista d’occhio. E mi sento sciocca anch’io che lo scrivo qui, come una Cassandra virtuale, anch’essa, inutile soffio nel mezzo di un circo.

Filomena Shedir Di Paola
 


MARIA SILVIA CAFFARI, Così semplice è amare

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Così semplice è amare:
Sedersi all’ombra di un olivo
Fremiti di mani le foglie al vento
Non tutto il sole ne è escluso.
Sedersi in faccia al mare
La sua voce ti risponde senza parole
Le parole che vuoi sentirti dire.
Lo stesso respiro e un odore
Di lontananza e di sale.


Maria Silvia Caffari, 13.04.017




A. BERGONZONI, La guerra scoppia di salute

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Migranti per forza: emergenza sovrumanitaria

 Alessandro Bergonzoni

La guerra fa milioni di vivi. A noi poi finirli lentamente? La guerra scoppia, di salute: senza offendere l’insensibilità di qualcuno, riusciamo a distinguere il movente dal morente? Il nuovo film è 'Miseria e mobilità': spostamento del peso umano sull’asse terrestre, la fotografia potrebbe essere proprio una di queste che vedete, quella della barca, la stessa su cui siamo tutti, che a seconda dell’inclinazione, degli uomini, porta a grossi capovolgimenti, epocali, e relative 'trevisioni' meteorologiche: spaventi forti, mare sicuro, uomo incerto. Per quanto ne sappiamo, si può fare altro?
E per quanto ancora ne sapremo? Uomo avvistato mezzo salvato? Come colmare la distanza? Col mare? Annegando l’evidenza? Aspettiamo altre foto meraviglia dell’orrore, attendiamo di non saperne più e restituire i nostri vuoti, di memoria, al mare che almeno culli lui il ripescato del giorno, in questa eterna bara-onda che seppellisce noi ma soprattutto loro? Non siamo ancora vivi (ecco perché non siamo morti ancora, noi). Emergenza umanitaria? Sovrumanitaria semmai, non solo politica, europea o di cooperazione. Manca sovrumanità nell’accogliere non solo i migranti dalla miseria, ma nell’accogliere l’idea, il concetto che si debba accettare, tener con noi, difendere, annettere, per salvare, far vivere, per aprire alla pace, la loro e la nostra. Invece si punta ancora a salvare le nostre Nazioni e condizioni da chi ci spira in braccio, come fossimo noi sotto attacco di chi ci annega addosso; si continua a non accettare neanche l’idea che l’esodo biblico del mondo che sta morendo di torture, sia parte della nostra esistenza. È finita la concezione di nozione-nazione unica di appartenenza, di popolo distinto, separato dai separati. L’umano ormai ha fatto il suo tempo, e anche questa laicità, certa religiosità, questo modello unico di codice e diritto asfissiati a vita. Va scritto un altro alfabeto, altra costituzione, interiore e ulteriore, altra poetica di vita che non faccia solo commuovere per quel che vediamo. Manca la mutazione quasi genetico-cosmicaspiritual- trascendentale, per amare, non armare e finanziare gli angoli del mondo, origine di tanta 'umanità' del benesseremalessere.
Mutazione che è a monte delle piccole e grandi decisioni che i governi non riescono nemmeno a immaginare, finiti a cercare mercati, foraggiando terrore di andata e di ritorno, a turno e a seconda degli interessi del momento, appiccando ogni tipo di paura per ottener potere e controllo. Un cambio che faccia aprire gli occhi, non solo gli stretti e i confini, per sciogliere i muri e anche le menti dei politici nazionali ed internazionali. Non c’è nulla di laico o religioso in tutto questo, non è questione di credenti e non, ma di immenso incredibile: questione di trascendenza, di spirito che muove o non muove le mani di chi spalleggia e non fa nulla per aprir corridoi umanitari, di chi vuol vietare le migrazioni, come se fosse possibile fermare il mare se si continua ad agitarlo muovendone le onde per cui, si muore. Si uccide con le due mani o con la terza, la mancanza: mancanza di grandezza, infinito, bene, dignità, compensando con manie di grandezza e d’espansione a tutti i costi; i costi delle missioni di pace, degli armamenti, delle vite e delle continue deviazioni dell’informazione. Da secoli ci provano bene o male anche poeti, artisti, presto o tardi, durante o dopo genocidi ed ecatombe.
Quando si capirà che questa poetica, questa arte del trascendere dev’essere accolta e indossata da tutti, volontari e non? Possiamo almeno cominciare a lasciare entrare questo nuovo Stato d’animo, prima di capire come fare entrare tutte le altre anime degli altri Stati? Che non si dica mai più in nessuna condizione: «Non ti voglio vedere, vedere in questo stato!».

Alberto Bergonzoni



B. BRECHT, Occorre vedere e non guardare in aria

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museo-monumento al deportato


E voi, imparate che occorre vedere
e non guardare in aria; occorre agire
e non parlare. Questo mostro stava
una volta per governare il mondo!
I popoli lo spensero, ma ora non
cantiam vittoria troppo presto
il grembo da cui nacque è ancora fecondo


Bertold Brecht
(Poesia incisa su un monolite davanti al museo-monumento al deportato)

AGRIGENTO VISTA DA D. PASSANTINO

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Agrigento

Girgenti inerpicata sugli scogli:
millenni, secoli e giorni d'imbrogli;
rigurgitano le tue terre
governanti sicut ille Verres.

Agrigento arrampicata sulle pietre:
sono i grattacieli corna di capre;

Akragas abbarbicata sulle colline,
Akragas sublime;
troppo affollata
che vorrebbe solo essere lasciata
sola con i suoi racconti e le sue rovine.

Girgenti invidiata dalle vicine,

Agrigento maestosa, disegnata
sui ponti e sulle "pale di ficurine",

Akragas tirannica e di aspre rime ,
figlia di Icaro, figlia di Dedalo,
Empedocle, l'arché e la fine;

Agrigento,
che carezzi i turisti col petalo
volato dal vento,
che insegni ai barbari e al loro nordico profumo
come è facile svendere fumo.

Girgenti, che tra gli argenti
custodisci il mandorlo, l'ulivo e il ciliegio,

Akragas, dove non è sacrilegio
fotografare le cose sacre
insieme alle capre,
dove è dolce il sortilegio
di cose passate che non interessano a nessuno,
(cu si nni futti?)
ma che fanno tanto tanto fumo
(sunnu di nuddu i cosi di tutti!)
 
Domenico Passantino

JUAN JOSE' MILLAS sulla SCOMPARSA DEL PENSIERO CRITICO

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INANE
Juan José Millás
El País, venerdì 31 marzo 2017

La scomparsa del pensiero non è come un’interruzione elettrica. Si verifica in modo graduale, per evitare d’impaurirci di colpo. Oggi si sopprime il latino, domani la logica, dopodomani la letteratura… Il fatto è che un giovedì, per un qualunque motivo, hai bisogno di usarlo e non lo trovi più. Insomma, fai mente locale, per cercare di ricordare l’ultima volta che hai pensato, proprio come quando perdi le chiavi, ma non riesci a ricordartene. Deve pur essere da qualche parte, ti dici, e vai in giro da un lato all’altro della casa, o della calotta cranica, in cerca del pensiero. Siccome hai lasciato accesa la tv, a farti compagnia, senti in lontananza le bombe emotive che piovono sui partecipanti ai comizi dei partiti politici. Hai bisogno del pensiero per difenderti da tali vampate retoriche, ma alla fine ti arrendi, ti lasci andare sul divano e ascolti anche tu quel comizio con l’aria con cui in tempi ormai lontani ascoltavi un discorso razionale.
All’inizio, l’assenza del pensiero si nota come un’amputazione. Di fatto, c’è chi lo sostituisce con un pensiero fantasma, come succede a quanti tagliano una gamba. Ciò dura il tempo che deve durare, perché il pensiero fantasma ti fa male tanto quanto quello reale, ma senza risolvere nulla. Prima o poi, alla fine, si finisce anche con il farne a meno e un giorno, senza sapere né come né perché, ti ritrovi ad aprire la sezione Attualità di un giornale, dove ti immergi tra le dispute post-coniugali di Brad Pitt e Angelina Jolie, che possono anche fornire qualche spunto filosofico, non credere. Quel che succede a te, succede in genere al resto, per cui non ti senti una bestia rara né niente di simile. Assuefattici tutti all’opacità mentale, siamo già pronti a firmare ovunque sarà necessario. O a votare il più inane.
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Juan José Millás (València, 1946) è scrittore e giornalista, tra i collaboratori fissi più apprezzati di El País. Ha vinto i premi letterari spagnoli più prestigiosi: il Nadal con La soledad era esto (1990) e il Planeta e il Nacional de Narrativa con El mundo (2007), rispettivamente pubblicati in italiano da Einaudi e Passigli . Il suo ultimo libro è Desde la sombra (2016).
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Trad. a cura di Nicolò Messina

PER IGNAZIO BUTTITTA

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COMPAGNO DI VIAGGIO
Spettacolo per musica e voce dedicato a Ignazio Buttitta

Palermo, Museo internazionale delle marionette A. Pasqualino
Venerdì, 21 aprile 2017 ore 21


La Fondazione Ignazio Buttitta, in collaborazione con l’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari / Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino, dedica a Ignazio Buttitta, a venti anni dalla morte, un ricordo per musica e voce.

Leonardo Sciascia ed Elio Vittorini hanno scritto che la poesia di Ignazio Buttita nasce per essere recitata e cantata. Numerose liriche, oltre alle ballate per cantastorie, nacquero come canzoni. Buttitta stesso fece delle piazze, dei teatri, delle scuole, prima che della stampa, il luogo della sua poesia.

Lo spettacolo è ideato e musicato da Moffo Schimmenti, con arrangiamenti di Gandolfo Pagano e con la partecipazione di Emanuele Buttitta, voce narrante, Salvo Cuccia, immagini e video, Moffo Schimmenti e Giusi Galletto, voci, Giuseppe Greco e Gandolfo Pagano, chitarre; Vincenzo Misefari, fisarmonica e tammorra.

Saranno eseguite le canzoni Compagni di viaggiu, Lingua e dialettu, L’odiu è analfabeta, Ncuntravu u Signuri, Lu tempu e la storia, Littra a una mamma tedesca, La peddi nova.

Ingresso libero fino ad esaurimento posti

Info: fondazione.buttitta@yahoo.it - tel. 0917026433 / 3391852655

PASOLINI E MARIA CALLAS

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"Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia. È appunto terribile sentirsi spezzati, sentire che in un certo momento, in una certa ora, in un certo giorno, non si è più tutti se stessi, ma una piccola scheggia di se stessi: e questo umilia, lo so.
Io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore, e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l´intera, intatta luminosità."

Da una Lettera di Pier Paolo Pasolini a Maria Callas


RITORNO A ROCCO SCOTELLARO

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Carlo Levi, Lucania 61

Nasceva oggi, il 19 aprile 1923, lo scrittore e attivista Rocco Scotellaro. Per l’occasione riproponiamo un pezzo originariamente uscito su Lo straniero.

La politica del mestiere. Ritorno a Rocco Scotellaro

di
A Palazzo Lanfranchi, a Matera, è conservata Lucania 61, la grande opera pittorica di Carlo Levi lunga 18 metri e mezzo e alta più di 3, che rappresentò la Basilicata alla “Mostra delle Regioni” organizzata a Torino nel 1961, in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia. Lucania 61 racconta in cinque pannelli, che probabilmente costituiscono la summa del Levi pittore, la storia della Lucania contadina e di Rocco Scotellaro, il poeta in bilico tra mito e oblio, che ancora ci interroga, non solo attraverso quel quadro.
Scotellaro nacque il 19 aprile del 1923 a Tricarico, da padre calzolaio e da madre sarta e “scrivana” del vicinato. Morirà il 15 dicembre del 1953, stroncato da un infarto, a Portici. Nei trent’anni della sua breve e intensa esistenza sono racchiusi tutti i segni del più grande sommovimento che abbia travolto il Sud nel Novecento: il ridestarsi di un mondo contadino e bracciantile per certi versi fino a quel momento “fuori dalla Storia”, o comunque relegato ai suoi margini. Scotellaro fu, come disse Carlo Levi che lo considerava un fratello minore più che un figlio, “il poeta della libertà contadina”: il narratore di quel lungo processo di liberazione, mentale non solo materiale, culminato nell’occupazione delle terre della fine degli anni quaranta, negli incerti successi e insuccessi della riforma agraria e, soprattutto pochi anni dopo la sua scomparsa, nell’emigrazione di massa verso il Nord. A differenza di chi aveva raccontato quel mondo dall’esterno, Scotellaro fu il primo a farlo dall’interno. Le poesie di È fatto giorno che vinsero il Viareggio, il romanzo incompiuto L’uva puttanella (che Levi riteneva superiore allo stesso Cristo si è fermato a Eboli), l’inchiesta altrettanto incompiuta di Contadini del Sud, pubblicati tutti nel biennio 1954-55, costituiscono il nucleo del suo lascito.
Ma Rocco non fu solo un giovane intellettuale meridionale del dopoguerra. Fu anche un politico, un amministratore: il giovanissimo sindaco socialista del paese in cui era nato, Tricarico, fortemente attraversato da quei sommovimenti. Della politica visse le gioia di una vittoria elettorale forse insperata, la difficoltà estrema dell’amministrare, le sofferenze della calunnia (per un accusa del tutto infondata di malversazione fu addirittura costretto a una quarantina di giorni di carcere, esperienza poi raccontata in alcune bellissime pagine dell’Uva puttanella).
Per chi si volge a rileggere la sua opera, a sessant’anni esatti dalla sua scomparsa, l’aspetto più interessate è proprio questo intreccio irrisolto tra letteratura e politica, tra l’individuare lucidamente i problemi, il saperli narrare, e il peso della loro risoluzione. L’uva puttanella parla della sua infanzia, della famiglia, della morte prematura del padre, della miseria nera della Lucania, delle sue esperienza di sindaco, del movimento dei contadini e dei braccianti per la terra… Le pagine più commoventi sono quelle in cui si racconta della morte di Pasquale, un fuochista che ha perso il poco di cui viveva, e dell’impotenza di un sindaco di fronte al suicidio di un povero, di fronte a tutte le povertà cui non si riesce a mettere mano. Un tema doloroso, questo, che ritorna anche nella riflessione, e nella vita concreta, di tanti amministratori del Sud di oggi: proprio del Sud nascosto dei piccoli paesi di provincia, in genere non raccontati, benché attraversati da una crisi profonda.
L’ultimo Rapporto Svimez, ad esempio, parla di una società meridionale in decomposizione, attraversata da una feroce recessione, dalla desertificazione industriale, dal non-lavoro dei giovani, del ritorno dell’emigrazione verso l’esterno, proprio nel momento in cui il Sud sembra espulso dell’agenda politica, dagli slogan dei leader emergenti, e il meridionalismo dei Levi, dei Rossi-Doria, dei Salvemini e dei Fortunato è stato accantonato – sommerso dai latrati dei neoborbonici, che di esso sono l’esatto contrario.
Nel Sud che si decompone riaffiorano tante storie di povertà, solitudine, impossibilità di andare avanti, che andrebbero raccontate al di là del medium giornalistico, al di là della concentrazione (e, quindi, anestetizzazione) in poche righe superficiali, come accade in genere sui giornali. Anche per questo, i libri di Scotellaro sono un esempio letterario su cui meditare: un esempio complesso, sfaccettato, poliedrico, come tutte le narrazioni che sorgono seguendo mille rivoli, e che per giunta, come nel suo caso, restano incompiute. Eppure queste strutture narrative stratificate sono oggi un modello con cui fare i conti, un modello significativo di inchiesta, di costruzione di biografie di uomini e donne sconosciuti, di rielaborazione di racconti ascoltati a voce o raccolti “in presa diretta”, persino di autobiografia politica, tra pubblico e privato. Si coglie in ogni pagina in prosa di Scotellaro il tentativo di trovare una soluzione letteraria all’organizzazione di questo materiale complesso, la riflessione costante sul medium della scrittura (prima o terza persona singolare, italiano o dialetto, lingua parlata o scritta…) affinché esso non strozzi la vita di cui si vuol dire, ma la faccia invece scivolare nelle pagine.
Rocco Mazzarone, medico epidemiologo che gli fu amico, tra coloro che hanno condotto nel materano la lotta contro la malaria e la tubercolosi, ha ricordato più volte come Scotellaro fosse pienamente consapevole della complessità del tessuto sociale del suo paese, e del Sud in generale. Non era solo il poeta della libertà contadina. Lo fu innanzitutto, certo. Ma fu anche consapevole, da sindaco, della necessità di creare alleanza sociali molto più ampie e complesse; come fu cosciente dell’importanza di uscire (per un po’ di tempo) dal proprio mondo, per meglio comprenderlo con uno sguardo allo stesso tempo interno ed esterno.
Anche per questo, conclusa amaramente l’esperienza di sindaco, Scotellaro si trasferì a Portici, all’Istituto di Agraria diretto da Rossi-Doria, con l’idea di acquisire strumenti maggiori per intervenire sul Sud in trasformazione. È in quella fase che nasce l’idea di realizzare l’ampia inchiesta sui Contadini del Sud, raccogliendo storie “sul campo”, in tutte le regioni del Mezzogiorno continentale.
In una lettera a Rossi-Doria del luglio del 1948, all’indomani delle elezioni politiche, Scotellaro scrisse: “Mi sostiene ancora una profonda fiducia d’un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo del tempo”. Rossi-Doria gli rispose che un’epoca ormai si era definitivamente chiusa: “Per essere capaci di vivere utilmente quella che si apre o forse quella che seguirà a questa, bisogna prendere atto con assoluta chiarezza di questo fatto e bisogna cambiar vita. Di agitatori nessuno ha più bisogno e meno che mai i nostri poveri contadini di Basilicata.” Aveva anche lui profonda fiducia in un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo del tempo, ma da “una ribellione fredda; senza fumi, alimentata da un lavoro cocciuto e paziente che alla fine ce la deve fare a riuscire. È in questo senso che ho imposto tutta la mia vita. Dalla politica per ora mi sono ritirato e faccio la mia politica del mestiere.”
La politica del mestiere, per Rossi-Doria, così come per Scotellaro, nasceva innanzitutto dallo studio non ideologico della realtà e dalla consapevolezza di aver pazienza circa i tempi dell’intervento. In un Sud mutato rimangono – ancora oggi – l’estrema fatica di intervenire sulle cose, sulla materia dei rapporti umani, per trasformarli, e l’estrema fatica di raccontare le linee di frattura, la complessità delle tensioni sociali, che spesso mutano (come rilevava Scotellaro) da paese a paese all’interno della stessa provincia, la cultura e la politica, i comportamenti elettorali, le alleanze elettorali, gli immobilismi vecchi e nuovi, il ruolo dei luigini. Rispetto a sessant’anni fa, proprio perché il Sud, più che il resto d’Italia, ha vissuto una fase di crescita e decrescita infelice, di accesso alla società dei consumi e poi di ripiegamento nell’assenza strutturale del lavoro (e sovente di una cultura del lavoro, soprattutto dopo il fallimento dei grandi poli industriali), serpeggia un rancore maggiore, a volte difficile da afferrare. Una collera, mista ad apatia, su cui è complicato edificare qualsiasi cosa.

Alessandro Leogrande

STORIE D'AMORE IN SICILIA

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                    CESIM                                                                                                            
Centro Studi e Iniziative di Marineo                                                                                          


Venerdì 5 maggio 2017 ore 18.00 presso la terrazza deIl Pipino Rosso
Salita S. Antonio, 7 (trav. c.so V. Emanuele, incrocio via Roma) Palermo

Presentazione del libro
di Antonino Cangemi

Dario Flaccovio editore

intervengono:
Valentina Richichi
Francesco Virga

In occasione dell’evento sarà inaugurata la personale fotografica di
 Maria Ribaudo


Saranno presenti gli autori

Ingresso libero

M. SERRA SUL SUICIDIO DELLA DEMOCRAZIA 1 e 2

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Non c’è una sola cellula di Donald Trump che sia democratica. È antidemocratico dalla testa ai piedi. Eppure è stato democraticamente eletto presidente della più grande democrazia del pianeta. Non c’è neppure una virgola di democrazia nel referendum proposto da Erdogan. Eppure, secondo democrazia, ha vinto con il 51 per cento del voto popolare. L’elenco degli esiti poco democratici, o del tutto antidemocratici, del voto democratico, comincia a essere notevole; e niente esclude che possa allungarsi. Per generazioni si è pensato che il nemico della democrazia fossero le dittature; le rivoluzioni; i colpi di Stato. Ci tocca abituarci all’idea che il vero pericolo, per la democrazia, sia la democrazia, visto che sono gli stessi meccanismi democratici (niente è più democratico delle elezioni) a partorire sempre più spesso la sconfitta della democrazia. Questo ci insegna che la democrazia non è una condizione permanente, ma una faticosissima evoluzione della cultura e dello spirito di tolleranza dei popoli. Se la democrazia smette di lavorare per la cultura e lo spirito di tolleranza dei popoli, deperisce e produce quegli stessi umori distruttivi che, per sua natura, non è in grado di annullare. In termini tecnici si chiama suicidio.

Michele Serra, da La Repubblica del 18 aprile 2017

PS: Meritano la "prima pagina" due commenti pervenuti sul mio diario FB:
 
Cinzia Miceli: La democrazia non è un sistema perfetto, ma è il male minore. Il prezzo da pagare lo stiamo scontando, ma la classe dirigente non cade dal nulla. È frutto di opportunismi, di scelte scellerate di cui noi siamo tutti storicamente pienamente responsabili. Se non cambiamo, assumendoci le colpe di errori individuali e collettivi, non cambierà mai nulla.

Maria Silvia Caffari: L'inganno sta nel popolo che crede di essere libero dall'essere manovrato. Crede di comandare è invece comandato da forze nascoste e invasive di tutto il suo corpo. Antidoto sempre lo stesso: la cultura, l'educazione del singolo al senso critico, a iniziare dal giudizio su se stesso. E una crescente necessità di coraggio. Ma, per quale scopo?: c'è una dignità che ci sta alle spalle, ci precede, ci sta davanti, ci chiede fermezza, resistenza e lotta, lo scopo è sempre lei, la libertà, che siamo tentati di delegarne la responsabilità ad altri.
 

L' ANTIGONE DI B. BRECHT

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Antigone
Esci dalla penombra e cammina
davanti a noi un poco,
gentile, con il passo leggero
della donna risoluta a tutto, terribile per i terribili Distolta a forza, io so come temevi la morte, ma ancora più ti faceva orrore la vita indegna E non fosti indulgente in nulla verso i potenti, e non scendesti a patti con gli intriganti, e non dimenticasti mai l’ingiuria e sui loro misfatti non crebbe mai l’erba
Salut! 

Bertolt Brecht
Scritta nel 1948  per la moglie Helene Weigel che recitava nella parte di Antigone.


Ringrazio Anna Musio che mi ha fatto riscoprire questa splendida pagina di B. Brecht.

PRESENTE E FUTURO DELLA SCUOLA ITALIANA

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La sopravvivenza della scuola
di Mario Ambel
Questi ultimi vent'anni

Mentre vengono approvati i decreti delegati che completano l’iter normativo della legge 107, appare inevitabile una riflessione ampia e disincantata sul profilo che sta assumendo la scuola italiana. A vent’anni dalla legge sull’autonomia non possiamo più permetterci di sottovalutare l’effetto di provvedimenti che ne stanno profondamente modificando le finalità, le pratiche e la stessa identità.
Nei vent’anni che ci separano dalla legge sull’autonomia scolastica, ogni volta che si è trattato di fare una scelta relativa alla scuola, tra due possibilità, si è scelta la strada contraria a quell’idea di scuola democratica e inclusiva che abbiamo sempre fatto discendere dall’art. 3 della Costituzione.  
E così ci ritroviamo oggi con un’autonomia doppiamente tradita: svuotata di reali poteri di scelta e di autodeterminazione per la realizzazione di un progetto pedagogico e didattico profondamente democratico, essa è passata all’attuazione di una progettualità educativa orientata e funzionale a piccoli frammenti di competitività esterna e interna. Con l’ulteriore beffa di dover rendicontare processi di innovazione e piani di miglioramento in condizioni operative falcidiate da tagli di risorse finanziarie e ristrutturazioni improvvide della professionalità docente; o ancora entro visioni restrittive e inutili della sussidiarietà territoriale delle scelte progettuali, e addirittura delle assunzioni e delle utilizzazioni del personale.
Ci ritroviamo con un innalzamento dell’obbligo scolastico falso e ipocrita che in realtà accentua una volontà di canalizzazione e differenziazione precoce, che non avendo poi il coraggio e le condizioni per concretizzarsi davvero in un sistema selettivo e disuguagliante, produce solo un aumento della dispersione scolastica e la crescita delle strategie complementari di recupero, anziché il rafforzamento delle condizioni di inclusione nel percorso scolastico.
Ci ritroviamo con una pratica ossessiva della valutazione di ogni segmento del sistema ormai malato che ha prodotto guasti e contraddizioni a ogni suo livello. A partire dalla presunta volontà dei soggetti di non volere essere valutati, si è costruita una piramide di valutazioni idiosincratiche.  Invece di riconoscere che fondare i sistemi educativi sulla valutazione premiale e punitiva del merito individuale è una nefasta e controproducente ipocrisia di chi non sa immaginare, orientare, organizzare e gestire contesti cooperativi di insegnamento/apprendimento funzionali ed efficaci, continuano le patetiche performance dei sostenitori della valutazione del merito… degli altri: i ministri meritocratici dei presidi, i presidi meritocratici dei docenti, i docenti meritocratici degli allievi, ecc. ecc., con paradossi tristemente esilaranti quando si invocano anche i genitori fra coloro che dovrebbero poter valutare (oltre ai figli) i docenti, i presidi e (non col voto ma con i voti) i ministri…
Ci ritroviamo di conseguenza con una professionalità docente, progressivamente allontanata dall’investimento nella qualità dei processi di insegnamento/apprendimento, a vantaggio di una serie di attività complementari che anziché realizzare una coerente comunità educativa affaticano soggetti e strutture in una pletora di mansioni autoreferenziali e sostanzialmente inutili. Per non parlare della presunta professionalità dei dirigenti, baloccata fra illusioni di poteri dirigenziali e condizioni di fattibilità impraticabili e sempre più allontanata dalle esigenze di gestione e coordinamento di attività professionali complesse.
Non è certo la prima volta che da queste pagine proviamo a delineare queste opzioni e le loro conseguenze. Lo facemmo anche a settembre del 2014, quando il confronto sulla buona scuola era agli inizi e forse lo si poteva fronteggiare con ben altra determinazione e chiarezza di intenti.

L'inganno della “buona scuola”

Sono queste le conseguenze più gravi di una cattiva politica scolastica ormai ventennale e spesso pericolosamente bipartisan. Ma ultimamente c’è anche di peggio. La sedicente “buona scuola” è il suggello ideologico e pragmatico di una scuola asservita al mondo esterno da un progetto pseudo culturale di adattamento alla “realtà” e al “lavoro” (che non c’è); meritocratica e competitiva nelle dinamiche relazionali e nella ricerca delle motivazioni e delle gratificazioni; eccessivamente fiduciosa nella panacea della priorità delle metodologie sulla sostanza degli apprendimenti.
Siamo di fronte a una scuola che non è più in grado di ricercare nei processi culturali di insegnamento/apprendimento i propri criteri di legittimazione e di credibilità, ma che è costantemente chiamata a proiettarli o ad affidarli fuori di sé, rinunciando a ogni funzione di rapporto costruttivo e non servente col mondo esterno, e quindi alla sostanziale autonomia culturale del proprio progetto educativo, che deve essere dialettico con la  realtà esterna proprio perché rifiuta l’autoreferenzialità e l’isolamento, ma anche l’asservimento e la funzione adattiva.
La scuola sembra costretta (e talvolta persino lieta) di affidarsi a un extrascuola che ormai è orizzonte prospettico e fine strategico di ogni sua azione, dalla finalità del progetto, alla credibilità delle metodologie didattiche, ai parametri di verifica e valutazione, alle condizioni e ai soggetti dei contesti e dei percorsi di recupero. Come se ci fosse poi, oggi, una qualche realtà, fuori dalla scuola, dotata di una credibilità etica e culturale tale da sovrapporsi e imporsi rispetto a quella capacità di indagine critica e di analisi scientifica che dovrebbe essere alimento e sostanza del progetto educativo della scuola, che è e deve rimanere prioritariamente culturale e scientifica (in senso lato) e non professionale.
Su questi terreni scontiamo una regressione pseudo modernista assai preoccupante: anziché orientare la scuola verso la progressiva estensione a tutti delle capacità critiche e culturali e a età sempre più elevate, stiamo assistendo da un lato alla radicalizzazione dei destini individuali e sociali e dall’altro a un illusorio e spesso demagogico rapporto con il presunto “mondo dell’impresa e del lavoro”, che anziché irrobustire la coscienza professionale di ciascuno e di tutti, finirà col diminuirne le potenzialità analitiche e di immaginazione di un futuro individuale e collettivo diverso e migliore.
Si ascrive a questa prospettiva tutta la gestione di prospettive strategiche assai delicate, che il nostro tempo imponeva di affrontare con ben altra solidità e coraggio: penso alla questione delle “competenze”, che non è uscita dal conflitto anacronistico e spesso sterile fra saperi critici e saperi pratici e pare oggi eccessivamente orientata a privilegiare la spendibilità e la mercificazione di quanto appreso rispetto alla trasferibilità e alla creatività.
O ancora  si ascrive a questa prospettiva la visione minimalista e spesso vacua di una trasversalità che anziché sostanza e alimento cognitivo e conoscitivo si è trasformata in un formulario tra il predittivo, il comportamentale e il metacognitivo, buono più per riempire certificazioni inconcludenti che per sostenere in modo adeguato i processi di insegnamento e il dialogo costruttivo fra le discipline.
E soprattutto si ascrive a questa prospettiva l’incapacità di sciogliere il nodo delle distinzioni e dei rapporti fra istruzione culturale e formazione professionale per le differenti categorie socioculturali di allievi e della distinzione per tutti e per ciascuno  fra “tempo della scuola” (che deve tendenzialmente crescere e consolidarsi)  e “tempo della preparazione al lavoro” (che deve  perennemente ridefinirsi). Anziché affrontare con coraggio etico, culturale e politico questi temi in un tempo di profonda frantumazione e alienazione del lavoro e di crisi della democrazia rappresentativa, siamo arrivati al paradosso di sentire nell’aria progetti di lavoro, di logica d’impresa, di imprenditorialità individuale per la scuola media e primaria! E se questo è il progetto educativo nel quale si pensa di inserire anche il  nuovo segmento 0-6,  se già si prepara il profilo professionale della prima infanzia, anziché realizzarne un’auspicabile inserimento in un progetto educativo forte, unitario e di lunga durata, allora sarebbe meglio lasciare almeno i neonati alle sole attenzioni dell’affettività e della cura, possibilmente non precocemente canalizzate.
E infine, e non si tratta certamente per la scuola di un guaio minore, le stesse prospettive di innovazione didattica (l’uso delle tecnologie, il superamento della scuola trasmissiva, le modalità organizzative del lavoro d’aula, l’effettiva significatività delle finalità educative, ecc.) appaiono viziate da un male spesso grave e a lungo andare incurabile: la priorità del metodo sul senso e  la sostanza dei processi messi in atto. Quando la didattica confonde lo strumento con il fine condanna se stessa all’impotenza autoreferenziale, al godimento del 
come indipendentemente dal che cosa.


Ricominciare invertendo la direzione di marcia

Siamo quindi a un passaggio assai delicato e complesso. La società esterna alla scuola preme per scelte che si rivelano poi controproducenti e dannose. Persino il ricordo di uno dei pochi intellettuali che siano stati in questi anni dalla parte della scuola si è dovuto trasformare in una linea Maginot difensiva, a fronte del solito attacco contro la scuola di massa da parte dei difensori di una scuola elitaria, necessaria a fermare in tempo “coloro che non ce la fanno e non sono portati allo studio” e a perpetuare se stessa per gruppi ristretti di privilegiati.
Ora, l’errore più pericoloso che potremmo commettere sarebbe quello di accontentarsi di qualche fiore nel deserto, di qualche rete di scuole, di qualche “progetto”, dei molti docenti che ogni giorno continuano a fare il loro dovere nonostante tutto. Non ci sarebbe nulla di più acquiescente che accontentarsi della buona volontà dei singoli, nulla di più ipocrita che appellarsi ancora una volta al loro impegno.
Per queste ragioni, è importante continuare ad essere il più possibile coerenti con il mandato culturale e democratico che la Costituzione affida alla scuola e possibilmente in nome di una cultura come coscienza critica e dialettica e non solo come volano del turismo e della mercificazione del paesaggio e di una democrazia che non sia solo demagogia demoscopica ma reale istanza perequativa e partecipativa. Ed è indispensabile ricominciare a rivendicare, costruire e salvaguardare nei fatti le condizioni per realizzare quel mandato, per fare davvero della scuola quel presidio di democrazia reale e di emancipazione per tutti e per ciascuno di cui il Paese ha sempre più bisogno e dalla cui prospettiva questi ultimi vent’anni ci hanno talmente allontanato che spesso non riconosciamo più non solo la strada da percorrere davanti a noi, ma neppure quella che abbiamo smarrito alle nostre spalle.
Per farlo c’è una sola strada: chiedere e ottenere la sconfessione di quasi tutte le prospettive, le scelte e le norme adottate in questi vent’anni e ricominciare da capo in un’altra direzione. Per capire qual è la direzione giusta, basta fare, ogni volta, il contrario di quel che si è fatto: ritornare a una autonomia della responsabilità e della cooperazione e non della competitività e dell’individualismo; abolire i voti anche nella scuola superiore; promuovere competenze culturali di cittadinanza e finalizzare il progetto educativo alla strumentazione critica necessaria ai cittadini di domani  e non alle competenze professionali o pseudotrasversali dei non-lavoratori di oggi; affidare all’Invalsi una priorità di ricerca valutativa e non di valutazione;  valutare in modo ragionevole ciò che si è fatto e non fare ciò che qualcuno vuole valutare; ricominciare a distinguere fra attività per apprendere e prove per verificare ciò che si è appreso; promuovere la ricerca e la sperimentazione di scuole e reti di scuole anziché penalizzarle; pensare che il che cosa il come e il perché si insegna e si apprende sono  più importanti di come lo si valuta; ritornare alla dignità e alla realtà dei compiti e non inseguire fantomatici compiti di realtà simulate; fare della formazione in servizio una occasione di riflessione e crescita cooperativa per l’efficacia del sistema e non di aggiornamento individuale a pagamento sul mercato di una formazione/business; fare della formazione iniziale la preparazione professionale dei docenti e non il terreno di scontro fra pedagogisti e disciplinaristi; evitare di “capovolgere” la classe ma far funzionare una pluralità di ambienti operativi funzionali all’apprendimento; ricollocare le tecnologie tutte (anche la penna e la matita) nel ruolo di strumenti; migliorare la qualità degli insegnanti invece di andare all’incetta degli insegnanti migliori; abolire l’alternanza scuola/lavoro e affidare alla scuola il compito di preparare a una cultura critica del lavoro e della realtà; mantenere e consolidare la scelta italiana di inserimento delle disabilità nei contesti scolastici senza limitazioni ed evitare di categorizzare e radicalizzare ogni forma di disagio e di difficoltà; ecc. ecc. ecc.
Sarà difficile? Sì, non c’è dubbio, ma non si dica che non è evidente ciò che ci sarebbe da fare…
Se invece questa scuola, così com’è, come si è andata configurando in questi vent’anni, piace e convince, lo si dica apertamente e si continui così. La destinazione finale è un progetto dis/educativo che avrà ceduto le proprie prerogative costitutive e istituzionali alle regole soprattutto distorte del proprio tempo, anziché fondare sulla conoscenza del passato la basi e le competenze per la realizzazione del futuro.


20/04/2017, da Insegnare, Rivista del CIDI, Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti

LE BUONE NOTIZIE

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Odissey di Linda Connor

Le buone notizie non vengono stampate.
Le buone notizie le stampiamo noi.
Ne tiriamo un’edizione speciale ogni momento
e vorremmo che la leggessi.
La buona notizia è che sei vivo
e che l’albero di tiglio è ancora lì,
e svetta saldo nel rigido inverno.
La buona notizia è che hai splendidi occhi
che toccano il blu del cielo.
La buona notizia è che
il tuo bambino è lì davanti a te,
e che tu hai due braccia disponibili.
Abbracciarsi è possibile.
Si stampa solo ciò che non va.
Guarda ognuna delle nostre edizioni speciali:
noi offriamo tutto ciò che va.
Vogliamo che tu ne tragga beneficio
e che ci aiuti a proteggerle.
Lì, sul marciapiede, un fiore di tarassaco
ci offre il suo splendido sorriso
e canta la canzone dell’eternità.
Ascolta! Hai orecchie in grado di udirla.
China il capo. Ascoltala.
Lasciati dietro il tuo mondo di dolore
e di preoccupazioni
e sii libero.
L’ultima buona notizia è che puoi farlo.
Thich Nhat Hanh

G. BENN, Rimanere saldi

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UN INNO 

Con quella qualità dei grandi pugili:
incassare e rimanere
saldi,
ingurgitare grappa dalla bottiglia
aver preso sbornie
sub e super atomiche,
lasciare i sandali
sul bordo del cratere come Empedocle
e poi giù a capofitto,
non dire: ritorno
non pensare: mezzo e mezzo,
mollare i tumuli delle talpe
ai nani che vogliono farsi grandi,
pranzare allround a casa propria
non scindersi
e saper dar via anche la vittoria –
un inno a un uomo siffatto.


Gottfried Benn

L' inno alla libertà di Paul Éluard

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Man Ray


Libertà, o vertigine e tranquilli piedi nudi
Libertà più leggera e più semplice
Della sublime primavera dai limpidi pudori. (Trad. S.L.L.)
---
La liberté
Liberté ô vertige et tranquilles pieds nus
Liberté plus légère plus simple
Que le printemps sublime aux limpides pudeurs.

da Les mains libres, 1937 

FRAGOLE, LACRIME DI VENERE PER ADONE

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Particolare del "Giardino delle delizie" di  Jeronimus Bosch


Un mito “mutante”, da sempre  simbolo di passione amorosa e di cupa morte 

Raffaele K. Salinari

Fragole, le lacrime di Venere per Adone

Let me take you down – Lascia che ti accompagni – ‘Cause I’m going to Strawberry Fields – Perché sto andando nei Campi di Fragole – Nothing is real – Niente è reale – And nothing to get hungabout – E niente per cui preoccuparsi – Strawberry Fields forever – Campi di Fragole per sempre. Living is easy with eyes closed – Vivere è facile con gli occhi chiusi –Misunderstanding all you see – Fraintendendo tutto ciò che vedi – It’s getting hard to be someone – Diventa difficile essere qualcuno – But it all works out – Ma tutto si risolverà – It doesn’t matter much to me – Non mi interessa molto.

La celebre canzone dei Beatles, Strawberry Fields forever, è del 1967; scritta da Lennon, riporta un suo ricordo infantile: un campo di fragole oltre una vecchia sede dell’Esercito della Salvezza, in cui lui ed altri bambini andavano a giocare senza alcuna preoccupazione, dimentichi di se stessi e della realtà del mondo, come solo i bambini sanno fare. Queste fragole torneranno come logo della casa editrice del giovane protagonista di Across the Universe, il musical del 2007 con le canzoni dei Fab4.



Ma, curiosamente, l’atmosfera onirica e visionaria della canzone, sembra la trasposizione in musica dell’altrettanto celebrata sequenza del film di Bergman, Il posto delle fragole, in cui il vecchio medico Isak Borg, oramai alla fine della vita, si lascia travolgere dai ricordi della passata giovinezza, nel luogo in cui il suo primo amore coglieva il dolce frutto selvatico. La scena, epitome di tutta la pellicola, è immersa nella stessa aura di infantile onirismo, carica di simboli impercettibili a chi non fosse in grado di immergersi coi pensieri nella stessa atmosfera sospesa tra due mondi: l’attuale e l’eterno.

La dinamica poetizzata nella canzone e quella della sequenza filmica sono le stesse: il professore si inoltra, con la giovane nuora, sulla strada che porta alla casa dove trascorreva le vacanze da ragazzo. Capiamo subito che è lei a spingere l’uomo verso il luogo magico: arrivati nel posto, infatti, non lo segue, ma lo precede verso la vecchia costruzione oramai abbandonata. Poi, ad un tratto, la nuora assume il ruolo di ninfa marina: si allontana per fare un bagno, per tornare al suo elemento, l’elemento onirico per eccellenza, l’acqua. Il professore la lascia andare trasognato, annuendo con un: «abbiamo tempo». E da quel momento si apre il Grande Tempo del ricordo, che addensa il passato, il presente ed il futuro.


Già nella radura antistante l’edificio oramai disabitato, avevamo visto una scala poggiata ad un albero: ricorda curiosamente quella di Giacobbe, o l’immagine alchemico-massonica dei gradini verso la conoscenza: la possiamo vedere incisa alla base del Portale del Giudizio Universale sulla Cattedrale gotica di Notre Dame di Parigi. È da quel passaggio simbolico che la nuora-ninfa precederà il protagonista verso «il posto delle fragole». Ma è esattamente l’entrata nel loro posto a dissolvere la realtà del giorno, come ci dice lui stesso, riportandolo indietro nel tempo a rivivere episodi della sua giovinezza felice. Il vegliardo, ormai stanco e reso cinico dalla vita, si stende per terra, accanto al cespuglio in fiore, forse per la prima volta da tanto tempo senza pensieri assillanti, come il Lennon bambino nel suo campo di fragole per sempre.

Tornano così le speranze perdute, incarnate dall’immagine irreale, eppure presente, della cugina Sara, come evocata dalla sensazione tattile che al corpo del medico trasmettono le piccole foglie di fragola nascoste sotto l’erba primaverile. Il filo rosso della rêverie, si snoda così attorno alla figura della bella ragazza, intenta a raccogliere in un paniere rustico il frutto che, più di tutti gli altri, rappresenta il tema dell’amore. Una ninfa scompare nel presente con un tuffo nell’acqua, ed un altra ricompare dal passato, come fossero Pathosformelwarburghiane che si snodano nella Mnemosyne personale ed intima dell’anziano dottore.



Il mito di Venere e Adone

La pellicola si apre con una scena da incubo: il professore incontra lungo una strada deserta un carro funebre, dal quale cade una bara; apertasi su selciato, all’interno egli vede il cadavere di stesso afferrargli fermamente la mano.
Un sogno inquietante, che ben si collega alla natura simbolica delle fragole. Queste, infatti, sono le lacrime di Venere che, intrise del sangue del suo amato Adone, si trasformarono nel carminio frutto a forma di piccolo cuore.

Il mito, nelle sue varie versioni, dispiega così la gamma evocativa della fragola, e rende ragione della sua significanza come immagine. Le sue tonalità simboliche, che oscillano ambiguamente tra Eros e Thanatos, derivando tutte dal mitologema che narra della relazione tra la dea dell’amore ed il suo efebico amante, ma anche della natura stessa di Adone.

La storia del ragazzo, infatti, è tesa tra il buio del mondo infero e lo splendore della natura rinata, della quale egli era un simbolo, sin dai tempi delle religioni asiatiche, sotto forma del sumerico Tammuz.

Ritroviamo allora la sua figura in tutto il medio oriente, e nel bacino del Mediterraneo, con vari nomi: è, infatti, di volta in volta assimilato alla divinità egizia Osiride, al semitico Baal Hadad, all’etrusco Atunnis, all’anatolico Sandan, e anche al frigio Attis; tutte divinità legate alla rinascita e alla vegetazione. Questo lo rende analogo a Dioniso, l’archetipo della vita indistruttibile che, con Adone, condivide i passaggi fondamentali del suo ciclo divino, in cui il frutto della fragola riveste un ruolo simbolico affatto particolare.



Come spiega James Frazer ne Il ramo d’oro, «il culto di Adone fu praticato dalle genti semitiche di Babilonia e Siria e i Greci lo presero da loro agli inizi del settimo secolo avanti Cristo. Il vero nome della divinità era Tammuz: Adone è semplicemente il nome semiticoAdon, “signore”, un titolo onorifico con il quale i fedeli si indirizzavano a lui. Nella letteratura religiosa babilonese Tammuz appare come il giovane sposo o amante di Ishtar, la grande dea madre, incarnazione delle energie riproduttive della natura».
Ritroviamo le stesse determinanti simboliche nell’Adone greco: egli nasce da una relazione incestuosa tra Cinira, re di Cipro (ubriacato ed ingannato per l’occasione dalla nutrice Ippolita), e sua figlia Mirra, entrata in uno stato di pazzia amorosa per il padre. Il re giace con la figlia per nove notti, credendo si tratti di una giovane che si era invaghita di lui. Non la riconosce perché la complice nutrice gli aveva imposto di incontrarla al buio, per non comprometterne l’identità.

Ma la moglie del re, insospettita dal suo comportamento, entra di notte nelle stanze del marito ed illumina la scena. Accortasi dell’insano gesto di Cinira, la regina Cancreide, cerca di uccidere la figlia, che viene però trasformata da Afrodite nell’albero della mirra. La pazzia di Mirra è stata, infatti, suscitata da Venere stessa, che voleva forse vendicarsi di Cancreide e della figlia perché non le avevano reso gli onori dovuti, o si vantavano di una bellezza a lei superiore o, semplicemente, di avere capelli più affascinanti. Fatto sta che dalla relazione incestuosa Mirra partorisce, in forma di albero, un neonato bellissimo quanto maledetto: Adone.

Venere lo consegna a Persefone perché lo protegga dai mali del mondo, nell’Ade. Ma Persefone si innamora del bellissimo bimbo e, giunto all’età pubere, lo vuole per se. Anche Afrodite lo reclama, dato che la sua bellezza l’ha fatta innamorare. La contesa viene diretta da un tribunale presieduto dalla Musa Calliope che decreta, salomonicamente, l’appartenenza del ragazzo ai due regni. Da qui la sua simbolica come ciclo della natura, che si risveglia a primavera, come le fragole, e muore in inverno.

Adone, intanto, cresce, e diviene un abile cacciatore, amato da Venere. Ma Marte – eterno amante “tradito” da Venere, che ne apprezza solo per pochi momenti il vigore fisico, ma ne disprezza l’ottusa brutalità – preso da insana gelosia, gli scaglia contro un cinghiale, che lo ferisce a morte. Venere piange disperata sopra il corpo ormai esanime dell’amato, e le sue copiose lacrime, cadendo a terra e mischiandosi col suo sangue, si trasformarono in piccoli cuori rossi: le fragole.



E dunque la tonalità infera della fragola nasce col e dal mito, che racconta di un frutto al tempo stesso simbolo di passione amorosa e di morte. La scena del film Fragole e sangue, in cui il giovane protagonista stringe nel pugno una fragola sino a stillarne il succo come gocce di sangue, riprende cinematograficamente questa determinante simbolica.

Il culto di Adone aveva un posto importante durante le dionisiache, dato il collegamento tra la divinità principale e la memoria del bel ragazzo amato da Venere. Oltretutto tra Dioniso e Marte le relazioni sono sempre state pessime, data l’opposizione dei due principi; da questo l’accoglienza di Adone nelle feste del dio dell’ebbrezza.

Passa il tempo, ed il culto del bel giovane si trasferisce nell’antica Roma. Qui il frutto viene chiamato fragra, da cui l’italiano fragola, ma anche fragranza. Si utilizzavano nei banchetti in onore di Adone, mentre in Grecia si continuavano a celebrare le festività dette Adonìe. Tipico di queste occasioni era la raccolta delle fragole ed altri frutti di stagione in piccoli cestini, che venivano chiamati «giardini mobili». Possiamo immaginare le giovani donne che si chinano a raccogliere le fragole, esattamente come Sara nella scena centrale del film di Bergman.



Le fragole di Shakespeare e Paracelso

«Colui che non sa niente, non ama niente. Colui che non fa niente, non capisce niente. Colui che non capisce niente è spregevole. Ma colui che capisce, vede, osserva… comprende che la maggiore conoscenza è congiunta indissolubilmente all’amore… Chiunque crede che tutti i frutti maturino contemporaneamente come le fragole, non sa nulla dell’uva».

Così, nel periodo della Rinascenza neoplatonica, Paracelso, l’innovatore della medicinabasata sulle corrispondenze tra micro e macrocosmo, apostrofava chi ignorava le «segnature» che la Natura naturans lasciava su ognuna delle sue creazioni. Non a caso usa la relazione tra la fragola (Adone), e l’uva (Dioniso), come epitome di ogni relazione tra principi naturali, data anche la loro potente ambivalenza in fatto di potere sulla psiche.

L’osservazione che i frutti delle fragola maturano contemporaneamente, in specifico, va inserita nel sistema delle corrispondenze, delle analogie, delle «segnature», che culmineranno nel Seicento con l’allestimento delle grandi Wunderkammer di epoca barocca, per poi tramontare sotto i colpi dell’Illuminismo e della sua separazione tra discipline scientifiche.

Di quelle «segnature» dirà Paracelso, nel IX libro del trattato De natura rerum, che appunto si intitola De signatura rerum naturalium: «Nulla è senza un segno» egli scrive «poiché la natura non lascia uscire nulla, in cui essa non abbia segnato ciò che in esso si trova» (III, 7, 131).


Anche Jacob Böhme, nel suo Signatura Rerum, dice che «la segnatura sta nell’essenza ed è simile ad un liuto che rimane silenzioso, ed è muto e incompreso, ma se qualcuno lo suona, allora s’intende… Così anche il segno della natura è, nella sua figura, un essere muto… Nell’animo umano la segnatura sta artificiosamente predisposta secondo l’essenza di ogni essere e all’uomo manca soltanto il maestro che può suonare il suo strumento».

E allora la fragola, come simbolo dell’amore che apre lo sguardo alle corrispondenze è, per l’alchimista Paracelso, la base stessa della sua nuova Arte: la spagirica, la possibilità cioè di estrarre, seguendo le procedure alchemiche, l’essenza intima di ogni pianta che, così, può aiutare l’uomo accorto e grato, a vivere meglio la su esistenza terrena.

«Come infatti attraverso uno specchio ci si può osservare con cura punto per punto, lo stesso modo il medico deve conoscere l’uomo con precisione, ricavando la propria scienza dallo specchio dei quattro elementi e rappresentandosi il microcosmo nella sua interezza […] L’uomo è dunque un’immagine in uno specchio, un riflesso dei quattro elementi e la scomparsa dei quattro elementi comporta la scomparsa dell’uomo. Ora, il riflesso di ciò che è esterno si fissa nello specchio e permette l’esistenza dell’immagine interiore: la filosofia quindi non è che scienza e sapere totale circa le cose che conferiscono allo specchio la sua luce. Come in uno specchio nessuno può conoscere la propria natura e penetrare ciò che egli è (poiché egli è nello specchio nient’altro che una morta immagine), così l’uomo non è nulla in sé stesso e non contiene in sé nient’altro che ciò che gli deriva dalla conoscenza esteriore e di cui egli è l’immagine nello specchio».

In questo quadro diagnostico-anamnestico, il ruolo della fragola come rimedio è centrale. Essa veniva denominata «frutto cuore» poiché si riteneva che, al tempo stesso, placasse la passione amorosa, o la potesse accendere, a seconda delle «segnature» che il corpo del paziente mostrava. La sua capacità di crescere circondata da altre erbe contenenti principi, anche pericolosi, o di dare spesso rifugio a serpenti e scorpioni senza che il loro veleno la toccasse, la fa diventare protagonista di un celebre sonetto di Shakespeare che ne magnifica proprio queste doti: «La fragola, che cresce sotto l’ortica, rappresenta l’eccezione più bella alla regola, poiché innocenza e fragranza sono i suoi nomi. Essa è cibo da fate». La «regola» cui Shakespeare cercava di sottrarre il suo frutto preferito, condannava le piante ad assorbire il bene e il male dall´ambiente in cui vivevano. La sua potenza simbolica per l’autore delMoro di Venezia è tale che, il dono che poi causerà il tragico epilogo della gelosia tra Otello e la sua amata Desdemona, è proprio un fazzoletto con delle fragole ricamate.



La fine delle fragole

Questa naturalezza della fragole, che l’aveva dunque caratterizzata per millenni, viene spazzata via durante il regno del Re Sole. Furono i suoi giardinieri, infatti, a coltivarla, reimpiantando le piantine selvatiche nelle aiuole di Versailles, per il sovrano e le sue dame, e confinarla così a un ruolo tristemente cocotte: durante le feste di corte, affondare il cucchiaino nelle coppe cosparse di zucchero e panna era invito inequivocabile al cavaliere prescelto.

Una simbologia da allora mai sconfessata, tanto che nel film-simbolo dell’erotismo yuppie anni Ottanta, Nove settimane e mezzo, il regista Adrian Lyne mise le fragole al centro di una delle scene topiche tra i due amanti.

Ma per noi le fragole saranno sempre la lacrime appassionate di Venere, e quando le coglieremo ritroveremo nel nostro Mundus Imaginalis l’assenza degli amori passati, che ringrazieremo perché hanno lasciato il posto al palpito di quelli presenti.


Il Manifesto/Alias – 15 aprile 2017

LIBERAZIONE INCOMPIUTA

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Dopo la fine della guerra, in nome della continuità dello Stato e della lotta al comunismo, molti importanti quadri dell'apparato repressivo fascista (e repubblichino) continuarono tranquillamente la loro carriera raggiungendo anche importanti incarichi nel nuovo Stato repubblicano. A dimostrazione della verità del vecchio detto che i governi passano, ma i poliziotti restano.

Chiara Giorgi

Una nuova Repubblica inquinata da presenze fasciste

Il volume di Davide Conti (Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Einaudi, pp.271, euro 30) torna a interrogare uno dei passaggi storici più appassionanti e controversi della storia italiana, così come a riattualizzare uno dei motivi «classici» della storiografia della seconda metà del secolo scorso.

Attraverso una ricca ricerca archivistica, il libro ricostruisce le meno note carriere e funzioni svolte dai «presunti» (in quanto mai processati) «criminali di guerra» nel neonato contesto democratico. Si tratta di uomini che, organici al fascismo e operanti in seno alle sue strutture più repressive, non solo non vennero sottoposti a processo o epurati o estradati, ma soprattutto vennero reinseriti negli apparati dello Stato postfascista, diventando questori, prefetti, capi dei servizi segreti, ministri della nuova Repubblica.

Le biografie prese in esame consentono di illuminare alcuni dei nodi più significativi della storia dell’immediato secondo dopoguerra e al contempo gettano una luce tanto inquietante, quanto significativa sulle vicende coeve e seguenti (dalla strage di Portella della Ginestra, alla riorganizzazione in senso anticomunista dei corpi di pubblica sicurezza tra la fine degli anni Quaranta e il decennio successivo, alle varie misure di sorveglianza e ordine pubblico adottate contro il movimento operaio e sfociate «nella repressione brutale e luttuosa dei conflitti sociali», ai golpe dei primi anni Settanta).

Sono dunque le vicissitudini di questo personale politico e militare a essere esemplificative, per quanto di certo non in modo assoluto e univoco, degli esiti «della transizione italiana sul piano della continuità degli apparati di forza dello Stato».

La chiave di lettura utilizzata e suffragata da un prezioso materiale documentario è infatti quella ruotante attorno al paradigma della continuità dello Stato. E, non a caso, è uno dei memorabili lasciti di Claudio Pavone a essere posto in esergo del volume. Scriveva questi nel 1974: «La fascistizzazione dell’apparato burocratico non fu dunque» di parata, dal momento che «il fascismo, come forma storicamente sperimentata di potere borghese, non si esaurisce nei quadri del partito fascista, ma è un sistema di dominio di classe in cui proprio gli apparati amministrativi tradizionalmente autoritari hanno parte rilevante. Di parata va piuttosto definita, dato il fallimento dell’epurazione, la democratizzazione post-resistenziale».
Da qui prende le mosse la ricostruzione di Conti, non trascurando l’importante contributo degli studi che da anni si concentrano sul fallimento del processo epurativo italiano, sul congelamento di alcuni istituti innovativi repubblicani, sul permanere di una certa cultura istituzionale (al pari della legislazione fascista) e contemporaneamente soffermandosi sui caratteri originali della «nazione repubblicana», sulle questioni di fondo relative al nesso nazionale-internazionale.

Molto ampie sono le problematiche che riemergono. Innanzitutto, metodologicamente, torna a dimostrarsi produttivo lo studio di singoli percorsi biografici letti come manifestazione di quel più complessivo processo «caratterizzato dalla reimmissione e dal reimpiego nei gangli istituzionali di un personale» organico al Ventennio. A nulla valse infatti per questi uomini l’essere inseriti nelle liste «War Crimes» delle Nazioni Unite, dinnanzi alla scelta di far passare una linea basata sulla ragion di Stato, sul presunto supremo interesse nazionale o, come fu per i funzionari coloniali, sui valori della neutralità dell’amministrazione e sul principio della obbedienza gerarchica, invocati come giustificazione di comportamenti individuali specifici, peraltro a dispetto di quello che sarebbe stato il monito arendtiano sulla «banalità del male».

C’è di più, accanto alla ricostruzione di queste vicende personali e professionali (di cui quella del noto generale Roatta sembra essere l’epilogo più emblematico), Conti ripropone all’attenzione del pubblico una lettura ben consapevole e generale del contesto internazionale, politico e sociale dell’Italia di quel decisivo passaggio storico. Ne esce confermata la centralità degli equilibri internazionali, ovvero l’appartenenza all’area occidentale come legittimazione sia del permanere di determinati gruppi di comando (si pensi all’intreccio tra Democrazia cristiana e Stato), sia del rafforzamento delle classi dominanti, sia del mantenimento di rapporti sociali e di produzione dati.

A lungo si è parlato per il caso italiano della prevalenza di un «modello militarizzato» volto a riprodurre le contrapposizioni internazionali, a depotenziare le istanze innovative provenienti a più livelli e presenti in molti principi della Costituzione, ad allontanare il pericolo di condizionamenti da parte di forze sociali organizzate. Modello peraltro capace di saldare determinate scelte fatte sul piano economico (l’opzione liberista nel permanere di una struttura di capitalismo di Stato) con la natura autoritaria dell’assetto politico (nella stessa forma assunta dalla «democrazia protetta»). Il contrasto che si diede tra amministrazione e politica democratica attesta quella che l’autore rievoca come la profonda rottura tra Stato e Resistenza. Piuttosto che con l’eredità del fascismo, cesura vi fu con le idee, l’orizzonte simbolico e l’ampio lascito resistenziale.

Sempre più studi negli ultimi anni hanno approfondito il contesto della transizione tra fascismo e Repubblica, i soggetti coinvolti e le complesse dinamiche. Le categorie interpretative sono andate in tal senso arricchendosi, sotto il profilo economico, sociale, politico e giuridico. Punto fermo resta, tuttavia, la fecondità di ricerche come questa in grado di intrecciare la ricostruzione di singole vicende (biografiche e istituzionali) con l’analisi dei rapporti sociali (di classe).

Così come resta necessaria un’analisi storica volta a individuare i punti di tensione tra l’elemento formale (la stessa riorganizzazione dello Stato) e quello materiale (in relazione alle lotte dei soggetti in carne e ossa). Letture come queste mostrano come sia fondamentale, oggi più che mai, un progetto di reinvenzione della democrazia a partire dal potenziale trasformativo del conflitto/i e da pratiche politiche capaci di sfidare l’ordine costituito.


Il manifesto – 11 aprile 2017

L' ORGIA DEL POTERE IERI E OGGI

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L’ORGIA DEL POTERE IERI E OGGI. INTERVISTA A VASSILIS VASSILIKOS



ATENE. Cinquant’anni fa, alle due del mattino i colonnelli Georgios Papadopoulos, Nikolaos Makarezos e Ioannis Ladas annunciavano il colpo di stato. Tutto era filato liscio per militari di seconda fascia abituati a muoversi nell’ombra. Fin dalla sera i carri armati avevano occupato i grandi viali progettati per la città ottocentesca. Truppe scelte avevano preso il controllo dei centri di comunicazione e del Parlamento. Paracadutisti si apprestavano ad atterrare sul Ministero della Difesa.
Erano mesi che in grande stile e con l’assenso del re Costantino II si preparava il putsch militare ma l’indecisione degli ufficiali maggiori e l’avvicinarsi delle elezioni previste per maggio spinse i militari di livello più basso a prendere le redini. Iniziavano sette anni di dittatura retriva e oscurantista passata alla storia come “Dittatura dei colonnelli”. Vassilis Vassilikos, greco del nord (nato a Thasos, cresciuto a Salonicco) non aveva ancora compiuto trentatré anni e non era ancora lo scrittore celebre per il romanzo che prese il nome dall’ultima lettera dell’alfabeto, Z, a cui in Italia venne aggiunto il sottotitolo L’orgia del potere.
Tradotto in tutto il mondo sull’onda della trasposizione cinematografica di Costa-Gravas, il libro sarebbe diventato il manifesto della lotta greca per la libertà. Eppure era stato scritto prima del golpe. Gli avvenimenti da cui prendeva spunto risalivano al 1963, all’omicidio per mano di estremisti di destra di Grigoris Lambrakis, “il Matteotti greco” (Z sta per “zi” che in greco significa “vive”). Vassilikos aveva saputo vedere lontano. Come molti della sua generazione, d’altronde, che all’alba del 21 aprile erano pronti a lasciare il Paese.
“Ma io ero già all’estero” racconta oggi, ottantadue anni, appartamento nell’Atene di Colono, dove nacque Sofocle e dove Sofocle fece morire Edipo. “Ero in treno, per la precisione. Viaggiavo dalla Svezia a Venezia dove avrei preso un battello per tornare in Grecia. Mi raggiunsero notizie concitate. Cambiai programma. Scesi a Roma dove avevo molti amici e aspettai di capire come si sarebbe evoluta la situazione. Quando tutto fu chiaro rimasi in Italia, poi mi spostai a Parigi. Finché il mio amico Italo Calvino m’invitò a tornare a Roma. Ho passato nel vostro Paese anni straordinari”.
Quando fu tutto chiaro, dice lei. Cosa fu a tal punto chiaro?
“Che la guerra civile non era mai finita e l’estrema destra era al potere. Una dittatura famosa nel mondo per le proibizioni bigotte, come la minigonna e i capelli lunghi. Ma che fece ben altro. Come tutte le dittature, ovviamente. Fra torture e omicidi. Per chi fuggì e per chi comunque passò quegli anni all’estero fu molto dura. Si aveva l’impressione di non condividere la sofferenza dei greci oppressi. Ma certo eravamo più utili fuori. Il libro e il film di Costa-Gravas ebbero il loro peso, benché la dittatura sia caduta perché agli americani non faceva più comodo”.
Dunque i colonnelli presero il potere grazie agli americani?
“Questo è chiaro. Papadopoulos era una specie di agente della CIA. In quei mesi ci si avvicinava alla “guerra dei sei giorni” e gli Stati Uniti volevano mano libera sulle basi aeree a Creta. Era tutto un altro mondo, quello. La tensione fra i due blocchi era alta. L’Unione Sovietica non doveva avere accesso al bacino del Mediterraneo che al tempo era il centro del mondo come poi è diventato il medioriente. Nel 1974 con l’apertura del canale di Suez l’importanza della Grecia decadde e gli errori dei colonnelli portarono alla fine della dittatura”.
Dittatura che i giornalisti italiani seguirono subito con grande attenzione.
“Certo. Qui si temevano azioni analoghe. Il progetto di colpo di stato di De Lorenzo che sarebbe diventato di pubblico domincio proprio grazie al vostro giornalismo d’inchiesta (grazie agli articoli di Eugenio Scalfari e Lino Iannuzzi sull’Espresso, n.d.r.) era l’esatto parallelo del nostro. E in ogni modo, in quei giorni di incertezza, furono italiani i primi grandi reporter a raccontare il colpo di stato. Mi ricordo bene le gesta di Furio Colombo. Aveva filmato la situazione. Era una delle prime testimonianze. Lasciando Atene aveva paura che al controllo gli sequestrassero la pellicola. Vide una signora americana che si portava appresso un enorme bagaglio. Si offrì di aiutarla e in cambio le affidò la sua valigetta. Qualcosa che oggi sarebbe impensabile. Comunque, quando la polizia aprì il bagaglio che si trascinava appresso Colombo, la sorpresa fu grande. Indumenti femminili e tutto quel che una americana prosperosa portava con sé. Gli agenti si diedero di gomito e ridacchiarono. Colombo passò. Raccontava la storia con grande orgoglio”.
Italia e Francia. Lei collaborò con la sinistra europea attivamente.
“Più quella italiana, a dire il vero. Il vostro Paese che io amo immensamente era un faro per tutti noi. Era cresciuto da voi, grazie a Gramsci, quel comunismo indipendente da Mosca che avremmo chiamato eurocomunismo. Non c’era solo Berlinguer. E gli intellettuali che conobbi e con cui diventai amico avevano idee chiare. Nanni Balestrini, Umberto Eco, Michelangelo Antonioni, Francesco Rosi. Che anni ho passato in Italia. La pubblicazione del libro voluta da Feltrinelli mi aveva aperto un mondo. Oggi quasi dimenticato, mi pare”.
L’arresto e le torture di Alekos Panagulis si ricordano ancora grazie al libro di Oriana Fallaci. Lei fu tra i primi a pubblicare Panagulis all’estero.
“Avevo aperto una piccola casa editrice quasi personale, chiamata “Otto e mezzo” in onore di Fellini e del suo meraviglioso film. Pubblicai le poesie di Panagulis. Pasolini fu determinante. Quando Panagulis fu liberato e venne in Italia lo conoscemmo personalmente. Capimmo di aver fatto un grande lavoro per la Grecia anche da qui. Era importante per evitare sensi di colpa verso chi era ancora in galera”.
Fu così difficile tornare in Grecia dopo quegli anni?
“No, prevalse l’entusiasmo per la libertà. Io poi continuai a lungo a vivere un po’ qui e un po’ all’estero. Sono stato ambasciatore UNESCO, dopo gli anni a dirigere la televisione pubblica mentre Papandreou era al potere. Era un’epoca in cui uomini di cultura avevano funzi0ni e ruoli riconosciuti che oggi è difficile anche immaginare”
Oggi tutto si è perso, dice lei.
“La sinistra non esiste più. La cultura versa in pessime condizioni a livello di riconoscimento sociale. Vede, la crisi greca è una crisi europea in cui il nostro Paese ha la funzione del debole abituato alle dominazioni straniere benché orgoglioso per natura. La tragedia ha inizio con Maastricht nel 1992 quando si commise il grande errore di puntare a un unione solo economica e non culturale. Senza una trasformazione che metta al centro l’immensa storia culturale europea non ci sono speranze da coltivare”.

DON MILANI "RIABILITATO"

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Sulla “riabilitazione” di don Milani

Il teologo Gennari commenta la “liberazione da quell’ombra” del libro “Esperienze Pastorali”, “nel 1957 fatto ritirare dall’ex-Sant’Offizio”.
GIANNI GENNARI

In questi giorni grande clamore, da parti diverse e anche opposte, sulla cosiddetta “riabilitazione” di Don Milani da parte della “Chiesa Cattolica”, l’arcivescovo di Firenze ha ricordato che don Lorenzo non è mai stato formalmente dichiarato fuori delle comunione e della ortodossia cattolica, e che di recente è stato ribadito che il suo libro – l’unico che abbia scritto interamente da solo – “Esperienze Pastorali”, che nel 1957 era stato fatto ritirare dalle librerie cattoliche per ordine dell’ex-Sant’Offizio, è stato liberato da quella ombra che fece soffrire lui e tanti nei decenni successivi. L’eco di questa notizia sui giornali laici è diventata una “riabilitazione” vera e propria della fede di don Lorenzo, come se fino a oggi la Chiesa come tale lo avesse considerato al di fuori, una specie di “eretico”, fuori dell’ambito della fede e della disciplina cattolica.

Non è così. E allora vale la pena anche qui, su Vatican Insider, che allarga i suoi punti di arrivo e di diffusione, ricordare che nel corso della sua stessa vita, terminata nel giugno 1967, e piena anche di sofferenze vere per l’incomprensione di superiori ecclesiastici, dovute anche al suo originale modo di aggredire i problemi e di delinearne le conseguenze di società e anche di Chiesa, don Lorenzo fu apprezzato e stimato da tanti credenti, anche da Paolo VI, e che ben presto, da decenni, la sua memoria è stata indicata anche apertamente come degna e ammirevole testimonianza di fede. 

Ecco allora che vale la pena di ripercorrere alcuni fatti reali, in una prospettiva di fede ecclesiale, sebbene non troppo “ecclesiasticamente” aggiustata. In essa infatti la Provvidenza scrive dritto anche sulle nostre righe storte. Non si tratta soltanto di ricordare che Paolo VI apprezzava don Milani, ancora vivo, lo stimava, e gli ha inviato più di una volta offerte per la sua "scuola". 

Ma è necessario ricordare che anche lo stesso libro "Esperienze Pastorali", del quale si parla come di una riabilitazione odierna, ebbe all’origine il nulla osta dell'Arcivescovo di Firenze e una lunga e positiva prefazione dell'arcivescovo di Camerino, monsignor Giorgio D'Avack, datata 12 settembre 1957 – ne ho davanti una copia originale – e che solo poi, durante il pontificato di Papa Giovanni, informato soltanto in modo non benevolo su di lui, fu “attenzionato” dal Sant'Offizio di allora, che del resto qualche anno prima aveva anche trattato allo stesso modo "Famiglia, piccola Chiesa" del grande testimone di fede e amore fratel Carlo Carretto. Don Milani morì a giugno del 1967, e può davvero dirsi che fu vittima di una certa opinione di Chiesa allora per tante ragioni, alcune obiettive, altre di opportunismo politico, come ossessionata quasi unicamente dal problema del comunismo, che allora era problema reale, non solo dentro i confini della Chiesa e dell’Italia del tempo.

Chiunque si apriva verso i poveri, e verso la gente allora lontana per tante ragioni, era accusato di filo-comunismo: toccò del resto anche allo stesso Papa Giovanni, cui nel 1963 si dette apertamente la colpa di aver fatto perdere qualche milione di voti alla Dc di allora per la sua accoglienza ad Agiubej, genero di Krusciov, e per la “Pacem in Terris”, ridicolizzata da noi da certa stampa come "Falcem in Terris".

La storia è complessa: è vero che Don Lorenzo non fu capito, e non fu amato dall'arcivescovo Florìt, che parve accorgersi di lui in modo pastoralmente diverso solo negli ultimi giorni, e cercò di incontrarlo sul suo letto di morte, ma don Lorenzo fece capire che era "troppo tardi".

Dunque la realtà dei fatti dice che don Milani ebbe vita dura e fu trattato con pesanti disposizioni dai superiori ecclesiastici del suo tempo, ma non fu mai esplicitamente condannato dalla Chiesa come tale, non fu mai scomunicato. Egli non solo non negò mai alcuna verità di fede, ma fu anzi testimone di fede luminosa ed esigente. Personalmente non sono mai riuscito a leggere la sua "Lettera a Pipetta", che termina con l'evocazione delle Beatitudini e del Regno dei Cieli senza commuovermi e anche piangere.

Ma si potrà dire che questa è solo faccenda di Gianni Gennari, noto "rosso" anche lui? Si potrà, ma solo da chi resta alla superficie delle cose di cui pure tratta facendosi maestro, ma che purtroppo ignora in tanti punti essenziali. Oggi l'arcivescovo di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori, ha ricordato che don Lorenzo non è mai stato messo fuori dalla comunione ecclesiale, e che il provvedimento dell'allora S. Offizio si doveva a certe circostanze di allora, per fortuna oggi superate in ogni senso: il libro di don Lorenzo, come tutti gli altri scritti sotto la sua guida di prete e maestro - tra l'altro "Esperienze"è l'unico tutto e soltanto suo! - è ovviamente anch'esso discutibile, ma resta un libro pienamente cattolico, da prete e da maestro.

Ma non basta: a chi scrive che solo "oggi"è riabilitato, e magari se ne dice contento, non può essere permesso di ignorare che una vera rivalutazione di don Lorenzo è già avvenuta quasi quarant’anni orsono. Su Avvenire di fine giugno 1977, e per due giorni di seguito, con il consenso anche di papa Paolo VI, nel decimo anniversario della morte di don Lorenzo uscirono due grandi articoli di don Silvano Nistri sulla sua lezione di fede e di amore. La prima ha per titolo "Ha vissuto solo di fede", e poi aggiunge: "A 10 anni dalla scomparsa di Don Milani un messaggio da riscoprire". Era il 1977 - trentasette anni da oggi! Non basta: il giorno dopo, sabato ancora un articolo di don Silvano Nistri, con questo titolo: "Fu segno di contraddizione". Segno che nella Chiesa - Avvenire era ed è giornale che può dirsi della Chiesa, vero? – non si metteva la testa sotto la sabbia, e si conoscevano i fatti della realtà.

Non basta ancora: proprio in quella stessa pagina pubblicata il secondo giorno, il primo colonnino dava a sorpresa la notizia ufficiale, appena giunta, delle "dimissioni" del cardinale Florit, che quindi proprio in quel giorno concludeva il suo ministero di vescovo a Firenze. Le dimissioni gli erano state “richieste” autorevolmente dal Papa, Paolo VI, che avendo allora l’intenzione della "rinuncia" al compimento dei suoi 80 anni, quindi a fine settembre 1977, come egli stesso aveva stabilito per tutti i vescovi con il decreto "Ingravescentem Aetatem" del 1970, voleva dare il buon esempio, e come primo provvedimento volle inviare a Firenze monsignor Giovanni Benelli, l'uomo forte del suo pontificato, facendolo cardinale, come effettivamente fece pochi giorni dopo. Ecco la vera sorpresa: nella stessa pagina, dello stesso giornale certamente di Chiesa le due cose insieme: “glorificazione” pur postuma di don Milani e della sua testimonianza di fede e di servizio agli ultimi – già nel 1977 e non solo "oggi"– e la fine della carriera “ecclesiastica” – quella “ecclesiale” la giudica solo il Signore – di un suo Vescovo che non lo aveva né capito, né certamente amato. Per me, lo scrivo sorridendo e quasi per scherzo, ma sotto forse c'è anche qualche verità grande, questa doppia presenza simultanea - la gloria di don Lorenzo e l'uscita di scena del suo non benevolo pastore - sono quasi una prova, sebbene non ontologica come quella di s. Anselmo, o come le "Cinque vie" di San Tommaso, della esistenza della Giustizia misericordiosa di Dio, che "gioca sulla faccia della terra" (Prov. 8, 31) e appunto, scrive dritto anche sulle righe storte.

Potrebbe bastare, ma per chi leggerà - a partire da Ichino sul "Corsera", Furio Colombo che ne ha scritto sul "Fatto", e altri che come pecorelle docili seguiranno la linea del giudizio facile - tanto non smentisce nessuno! - aggiungo anche qualcosa di altro. Sette anni orsono, il 26 giugno 2007, sempre su Avvenire, uscì un ampio pezzo che ricordava la lezione di fede e di amore a Dio, e anche alla sua Chiesa di don Lorenzo, non soltanto "maestro" e "riformatore sociale", ma "prete", autentico prete fino nell'intimo della sua carne che si è fatta mangiare dai suoi ragazzi, e un po' anche dalle incomprensioni di ieri, ma anche di oggi, di certi uomini di Chiesa certamente, ma anche di improvvisati scopritori del suo messaggio senza riconoscerne la sorgente autentica nell'amore di Dio in Cristo, nella Chiesa e nel suo prossimo più prossimo allora. Questa – riconosciuta o meno ufficialmente - è la santità vera.  

Gianni Gennari su  LA STAMPA, 22 aprile 2017
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