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PER NON PERDERE LA MEMORIA

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"Un libro che dà voce a "siciliani non illustri", lavoratrici, pastori, operai, braccianti, donne del popolo che non hanno mai avuto voce e di cui la Storia non si è occupata. Piera Bivona ha prestato ascolto alle loro testimonianze, ai racconti della loro infanzia, della loro gioventù, delle loro esperienze in casa e fuori, in guerra e in pace, per contribuire finalmente a mettere fine al loro silenzio e alla cancellazione della loro memoria."

Dalla Prefazione al libro di Santo Lombino


IL CRETTO DI BURRI NELLA NUOVA GIBELLINA

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l Grande Cretto di Gibellina fotografato nel 2014 da Marzia Migliora (Progetto "Aqua Micans")

Burri a Gibellina. Ritorno al Grande Cretto tra le crepe della memoria 


Andrea Cortellessa


È l’estate del ‘79. A undici anni dal terremoto che il 15 gennaio 1968 ha distrutto Gibellina, il padre-sindaco comunista della città, Ludovico Corrao, che ha avuto l’idea visionaria di chiamare i grandi artisti del presente per far risplendere la città nuova – un’astronave modernista inopinatamente atterrata nel paesaggio ancestrale della Valle del Belìce –, riesce a farci venire il più grande di tutti. Muto come sempre, Alberto Burri percorre i viali metafisici di quella Brasilia ancora incompiuta (e che tale resterà sino ad oggi), di quel museo a cielo aperto – la Stella di Pietro Consagra alle porte della città, la chiesa sferica di Ludovico Quaroni, le mura di ceramica colorata di Carla Accardi. I silenzi di Burri sono famigerati, ma questo pesa come un macigno. Poi a qualcuno viene in mente di portarlo a Gibellina Vecchia, a 18 chilometri di distanza. Le macerie del terremoto sono restate lì, lutto che non si può elaborare. A quel punto qualcosa, dentro di lui, finalmente si muove. Torna a Città di Castello e, due anni dopo, deposita a Palazzo Albizzini il suo progetto. Un’opera di proporzioni gigantesche. Quasi 90 mila metri quadrati di cemento bianco da far colare sopra le macerie di Gibellina Vecchia, per uno spessore di circa un metro e sessanta. Un enorme rettangolo irregolare, 270 metri per 310, percorso da scanalature larghe un metro, che seguono il tracciato delle strade sepolte. Vista dal basso, sarà una città fantasma. Visto dall’alto, con lo sguardo dal di fuori degli alieni o degli dèi (del quale in quel 1981, proprio, scriveva Alberto Boatto), sarà – semplicemente – il Grande Cretto.
Corrao trattiene il fiato. Come realizzare una simile impresa? Con la sua proverbiale ostinazione, dal 1985 al 1989, un po’ alla volta procura i fondi che, tessera dopo tessera, consentono di realizzare parte dell’immenso mosaico. A un certo punto, a dare una mano, arrivano le ruspe dell’Esercito; segue i lavori l’architetto Alberto Zanmatti. Nel maggio del 1987 Burri torna a Gibellina. In una foto di Vittorugo Contino lo si vede scendere dall’auto di Corrao; per la prima volta vede il Cretto, riflesso sui suoi occhiali. La sua espressione è indecifrabile come sempre, ma un sorriso gli sfiora le labbra. È chiaro, però, che l’opera non verrà mai completata. Almeno non la vedranno compiuta né Burri (che muore nel ‘95) né Corrao. Che nell’estate del 2011 fa una fine tragica, sgozzato dal suo badante bengalese. A caldo un altro suo complice, Emilio Isgrò, scrive un poemetto che si conclude con queste parole: «Non t’ha ucciso Sayfùl, non t’ha ammazzato l’aria. / T’ha ucciso la Sicilia per conto dell’Italia».
Alla gola dell’utopia, quella coltellata è durata vent’anni. Nel ‘94 Corrao non viene rieletto sindaco ma già da un pezzo quelle risorse, che una volta riusciva ad attirare, si sono volatilizzate (Gibellina Nuova, per scelta misteriosa del governo nazionale, è stata costruita su terreni dei cugini Salvo. E sono questi gli anni in cui, sulla Sicilia, il potere mafioso si stringe più che mai). Non solo non si completano le architetture previste dal piano urbanistico (che nel frattempo si coprono di ruggine) o almeno il Grande Cretto (che s’ingrigisce, s’ingobbisce, si squarcia), mancano i soldi per la manutenzione di quelle che ci sono, o per tenere aperto il Museo d’Arte Contemporanea dove risplendono – o meglio risplenderebbero, visto che è chiuso da più d’un anno – Schifano e Boetti, Scialoja e Melotti. Le Orestiadi sono un’altra grande idea di Corrao: che dal 1981 chiama i più grandi teatranti del mondo, d’estate, a esibirsi proprio sul Cretto.
Qui vanno in scena L’Orestea di Gibellina di Isgrò, colle scene di Arnaldo Pomodoro, Le troiane di Euripide per la regia di Thierry Salmon. Ma, lamenta da anni l’arabista Francesca Corrao (la figlia di Ludovico che ne presiede il comitato scientifico), come il Museo e la Fondazione Orestiadi, abbandonati dalle istituzioni, sempre più rischia di diventare una scatola vuota.
Proprio il Vuoto è il demone che insidia Gibellina. Il suo sogno, la sua utopia, le sue aporie. Diceva Burri (lo riporta Giuliano Serafini): «Se non si è capaci di dipingere grande, non si è pittori. Klee e Licini, per esempio, bravi e poetici, non c’è che dire, ma “leggerini”». E ancora: «La misura di una forma è la misura di quella determinata forma». Il Cretto deve essere Grande. Se lo vedi, dal basso come dall’alto, la vastità della concezione – la sua portata simbolica (dove del sostantivo si recuperi la lettera) – è qualcosa che ti lascia semplicemente senza fiato.
Ora, se sei il visitatore di un giorno, senza fiato ci resti (forse) volentieri. Ma se invece lì ci vivi? Il rapporto dei gibellinesi colla città nuova, e con lo stesso Cretto – scenari troppo vasti e metafisici, troppo alieni – è quantomeno ambivalente. Se da Gibellina Nuova chiedi la strada per il Grande Cretto, può darsi che ti dicano che non la sanno (e, se non ti ci accompagnano, arrivarci è una piccola impresa). La musica cambia se dici che vuoi andare a Gibellina Vecchia. Una volta ho ascoltato Franco Purini (al cui progetto si deve il Sistema delle piazze) dire più o meno: può darsi che ai gibellinesi che hanno vissuto nella città vecchia la nuova appaia estranea. Ma come doveva sembrare l’architettura barocca, ai Siciliani d’Oriente, dopo il terremoto della Val di Noto del 1693? Eppure per noi, oggi, le volute di quel marmo bianco rosato dal sole sono la Sicilia più Sicilia che c’è…
Chi l’ha spiegato meglio di tutti è stato un geografo che capiva l’arte e la poesia, Eugenio Turri. Il paesaggio non è natura allo stato puro,wilderness. È invece natura umanizzata: nella quale l’uomo vive e opera. Il paesaggio è un testo: per la precisione, dice Turri, un testo teatrale. Che vive solo nelle sue interpretazioni: restando sempre se stesso ma anche modificandosi, di volta in volta, nella sensibilità di chi lo abita. Come un testo teatrale, non ha senso lasciarlo ad ammuffire nel cauteloso rispetto dei conservatori; così come interpretazioni troppo disinvolte – che non serbino cioè memoria del suo senso originario, delle interpretazioni che si sono succedute nel tempo e che nel tempo lo hanno arricchito – rischiano di obliterarlo. Cioè di distruggerlo.
Non è un caso dunque: né che sul Cretto si sia per anni tenuto uno dei maggiori festival teatrali, né che il Cretto lo abbia concepito chi da qualche tempo aveva preso a lavorare per il teatro. L’idea dei Cretti (composti di materiali che essiccandosi fessurano la superficie), ha raccontato Burri, gli era venuta mentre viaggiava nel deserto americano; per la precisione, nella Valle della Morte (già). Ma il primo fu, nel ’72 all’Opera di Roma, per il balletto November Steps, musica di Toru Takemitsu e coreografia di Minsa Craig (che Burri aveva sposato nel ‘55). L’anno dopo il Teatro Continuo a Parco Sempione, a Milano, si chiamerà così perché, dismesso come spazio scenico, sopravviverà come forma autonoma.
Neppure il Grande Cretto è una forma univoca. Come ogni grande opera è viceversa uno schermo: sul quale ciascuno di noi proietta se stesso. Non un dato, bensì un processo: appunto un teatro. Per questo forse Burri accettò che lo si mettesse in cantiere senza garanzie che venisse completato. E per questo disse a Corrao che l’ideale sarebbe stato che fossero gli stessi gibellinesi a realizzarlo. Il restauro più giusto, a trent’anni da quella prima colata di cemento, sarebbe allora quello partecipato: in cui la cittadinanza si riunisca una volta all’anno per commemorare i propri morti dando una mano di calce su questo che altro non è – e loro lo sanno benissimo – che un immenso e crudele e spaventoso e disumano, e umanissimo, monumento funebre. Così dice oggi un intellettuale gibellinese, Nicolò Stabile, che da qualche anno – dopo aver girato il mondo producendo spettacoli teatrali per le maggiori compagnie d’Europa – è tornato a casa con in testa un’idea precisa, che persegue colla stessa ostinazione maniaca di Corrao: riportare in vita il Cretto, farlo finalmente riconciliare colla comunità alla quale appartiene. Nel 2010 Stabile lancia un appello, firmato da un centinaio di personalità dell’arte e della cultura e consegnato alla Regione e al ministero dei Beni Culturali. Per il restauro il ministero stanzia un milione e 100 mila euro, e la scorsa primavera viene inaugurata la prima tranche: il completamento della parte incompiuta. Solo che ora il Cretto è bicolore. Per un quarto è bianco, liscio e uniforme, come l’aveva pensato Burri; per tre quarti grigio e rugoso, bitorzoluto, abbandonato nello stato dell’ultimo ventennio. Dagli spacchi cresce una vegetazione spontanea, dal piglio tenace e sottilmente ironico. Stabile lavora a un documentario, sul Cretto; ho visto in anteprima le interviste agli amici di Burri, Zanmatti, Lorenzo Fonda… tutti d’accordo su quanto lo offendano le pale eoliche che ora cingono d’assedio il sito. Ma cosa avrebbe detto, Burri, di un Cretto bicolore!

Il suo bianco è squillante, volutamente brutale. Funebre, certo, ma anche così “siciliano”... Ma il grigio… l’anima di ferro che emerge dagli spigoli nel cemento, coperta di ruggine; gli squarci nella superficie, voragini. Ti arrampichi sopra, se ce la fai, e da quegli squarci scorgi il palinsesto di Gibellina vecchia. Sostiene Marilena Renda (che alla sua città ha dedicato un poema dal titolo eloquente, Ruggine) che in uno di questi buchi, una volta, le è apparsa una Madonnina: decorazione di qualche tabernacolo ancestrale. Mi dice Stabile che sinora il progetto di restauro – in omaggio alle concezioni di quello che è stato anche uno dei massimi interpreti di Burri, Cesare Brandi – è stato di natura conservativa. Il minimo indispensabile, cioè, col massimo rispetto per la famigerata patina del tempo. Ma quello che vale (forse) per Michelangelo non può valere per Burri. Diversa la concezione, diversa la funzione, diversa (dovrebbe essere) la dottrina.
Il Cretto è un Teatro, si diceva. Ma è anche un Monumento: il più grande monumento funebre del mondo. Che come proprio primo ufficio, per etimo, ha quello di ricordare. Ora, questa sua doppia anima appunto incarna la dialettica della memoria. Non si può ricordare tutto. L’oblio è la selezione che la mente, individuale e collettiva deve operare perché una qualche memoria possa essere condivisa. Si conserva quello che conta davvero, quello che resta. La memoria poi, insegnano Freud e Ricoeur, funziona a strati: una struttura sedimentaria in cui uno strato si sovrappone all’altro, ma certe eminenze del primo – certe sue pieghe, con l’immagine di Gilles Deleuze – continuano a rilevarsi anche nel secondo. La memoria è come la terra, insomma: una struttura geologica. Ed è proprio letteralizzando questa metafora che opera il Cretto. La crudeltà colla quale Burri ha spianato le macerie di Gibellina Vecchia è l’unica condizione perché da quelle ceneri una Gibellina Nuova possa, prima o poi, davvero riprendere vita. Ora che, per ironia della sorte, il Cretto è a sua volta una mezza maceria, è ai nuovi gibellinesi che tocca prendersene cura. Solo così, finalmente, potranno nascere.


Da Pagina 99, 28 novembre 2015

MANET OLTRE L'IMPRESSIONISMO

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Al Palazzo Reale di Milano un centinaio di opere raccontano la parabola del maestro. E ricostruiscono le atmosfere della capitale francese nella seconda metà dell'Ottocento con i quadri di altri grandi: da Monet a Degas, da Renoir a Cézanne.

Lea Mattarella

Manet, il rivoluzionario della pittura che andò oltre l’impressionismo

Non ha mai voluto partecipare alle mostre indipendenti degli impressionisti, perché era convinto che il campo di battaglia in cui far valere le proprie idee sulla pittura fosse il Salon. Eppure Edouard Manet è considerato da Monet, Renoir, Degas e compagni un vero capostipite. La rivoluzione che si compie tra metà e fine Ottocento all’ombra della Tour Eiffel e dei nuovi boulevard, piazze e monumenti che nascevano su progetto di Napoleone III e del barone Georges Eugène Haussmann, ha come pioniere proprio Manet, questo gigante della pittura capace di trasformare un semplice asparago in un sussurro di colori appena accennati, rendendolo di fatto indimenticabile.

La mostra Manet e la Parigi moderna aperta a Milano a Palazzo Reale, raccoglie un centinaio di opere intorno a un nucleo di dipinti e disegni del grande pittore che Renoir definiva “importante per noi quanto Cimabue e Giotto per gli italiani del Rinascimento”. Tutto arriva dal Musée d’Orsay, il tempio della pittura francese dell’Ottocento. La sfilata di capolavori inizia con una sezione intitolata “Manet e la sua cerchia”. Tra gli amici e sostenitori, ecco Émile Zola raffigurato in un quadro che è una dichiarazione di poetica. Lo scrittore posa nello studio dell’artista dove sul fondo è ben visibile un paravento giapponese, un omaggio a quell’Oriente che in questi anni sta cambiando completamente la concezione della profondità del quadro. 

Gli impressionisti, grazie alla conoscenza delle stampe giapponesi, fanno a meno della prospettiva così com’era stata concepita dal Rinascimento in poi, appiattendo lo spazio per una visione totalmente nuova della realtà. L’amore per il Sol Levante è ribadito in questo dipinto dalla raffigurazione sullo sfondo di una stampa di Utagawa Kuniaki II che sta a fianco a una piccola riproduzione dei Bevitori di Velázquez e della celeberrima Olympia che Manet aveva presentato al Salon del 1865 suscitando un grandissimo scandalo. 


La voce di Zola, che allora era giovanissimo, si fa sentire proprio per difendere l’opera – da lui considerata un capolavoro degno del Louvre – e il suo autore. Nel 1867, l’anno prima dell’esecuzione di questo dipinto, Zola scrive un pezzo ammirato che accompagna la mostra di Manet al Pavillon de l’Alma. Il piccolo libretto azzurro si scorge tra i volumi raccolti sulla scrivania, proprio dietro al calamaio. Zola tiene in mano un testo che ha delle riproduzioni d’arte, è seduto su una poltrona fiorita, di profilo, con lo sguardo assorto.

La qualità della pittura di Manet, seducente, rapida, impassibile di fronte al dettaglio perché attenta all’insieme, si rivela con la stessa potenza nel più tardo ritratto di Mallarmé conosciuto intorno al 1873. Anche qui sul fondo c’è una tappezzeria giapponese, il protagonista dell’opera è seduto in una posa molto meno formale di quella di Zola, fuma un sigaro e tiene dei fogli bianchi (la pagina bianca teorizzata dal poeta?). Questo piccolo, preziosissimo quadro con il nero che si illumina della luce dorata della tappezzeria (“Manet ha trasformato il nero in luce”, diceva Camille Pissarro), resterà nella collezione del letterato fino alla fine dei suoi giorni. 

Anche Berthe Morisot, amatissima modella (e forse anche qualcosa in più), pittrice che ammirava Manet e si muoveva con sapienza sui suoi passi, terrà accanto a sé per sempre il ritratto che il pittore le farà nel 1874, poco prima che lei diventi sua cognata per aver sposato il fratello di lui, Eugène. Qui Berthe tiene in mano un ventaglio nero con dei fiori, il suo abito è nero, così come il nastro che le adorna il collo. Anche nel dipinto del 1872, quello con il mazzo di violette, la pittrice è vestita di nero, ma il suo sguardo che fissa dritto negli occhi Manet e dopo di lui tutti coloro che le passeranno davanti, il disegno della bocca non completamente chiuso, rivelano una sensualità attrattiva scomparsa nell’opera di due anni più tarda.


A differenza degli altri impressionisti che abbandonano il nero, eliminandolo anche dalle ombre che teorizzano “colorate”, Manet ne farà uno dei suoi cavalli di battaglia. I suoi neri, lo si vedrà in tutta la mostra, creano vere e proprie sinfonie, sono tattili al punto che chi guarda riesce a sentirne il peso. Da dove arriva questa predilezione? Proprio dall’artista spagnolo che avevamo incontrato riprodotto come una certezza nel ritratto di Zola, il grande Diego Velázquez, da lui considerato “il pittore dei pittori”. 

Una sezione della mostra milanese affronta sapientemente anche la passione, direi quasi la dedizione, di Manet nei confronti della pittura spagnola. Angelina sembra uscita per toni e costruzione del volto da Las meninas. Poi ci sono i Combattimenti di tori in un’arena in cui la folla è diventata una macchia di colori, e un meraviglioso Pifferaio dipinto nel 1866. L’anno prima Manet era stato in Spagna, rimanendo affascinato dai musei. La particolarità di questo dipinto (che forse fu proprio la ragione per cui venne rifiutato al Salon) è quel fondo neutro su cui la figura sembra quasi ritagliata. Lo spazio della pittura da questo momento in poi è completamente sovvertito. Impossibile tornare indietro. 

La Spagna fa capolino anche nelle altre sezioni della mostra come quella dedicata all’universo femminile in bianco, dove Il balcone con le tre figure che guardano ognuna in un punto diverso, per cui viene da chiederti se stiano davvero insieme, alla stessa finestra, trae la sua iconografia da una celebre opera di Goya.

Accanto alle opere di Manet come le marine (unico paesaggio amato, per il resto il pittore aveva trovato il suo cielo in una stanza), ci sono i pittori del tempo, da Degas a Tissot, da Fantin-Latour a Cézanne. Sono lì a raccontare la Parigi dell’Opéra, che sembra la raffigurazione delle serate della duchessa di Guermantes raccontate da Proust nella Recherche, e quella dei bistrot, dei caffè, delle rive della Senna. Baudelaire sognava «il pittore della vita moderna, colui che saprà strappare alla vita odierna il suo lato epico, e farci vedere, mediante il colore e il disegno, quanto siamo grandi e poetici con le nostre cravatte e le nostre scarpe di vernice!». Manet ne è il caposcuola. In mostra ci sono anche i progetti architettonici di una città che cambia. E che in poco tempo diventerà leggenda.


La repubblica – 13 aprile 2017

GRAMSCI E' ANCORA VIVO A TORINO

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(ANSA) - TORINO, 26 APR - Moriva ottant'anni fa Antonio Gramsci e la sua città d'adozione, Torino, lo ricorda domani, 27 aprile, nel giorno esatto della sua morte , con una no-stop al Polo del '900. A un dibattito su "Gramsci e la crisi della politica", seguiranno un aperitivo sardo e uno spettacolo teatrale. Al dibattito parteciperanno Mauro Calise, docente all'Università di Napoli oltre che presidente della Società italiana di scienza politica e Fabio Bordignon, docente all'Università di Urbino. "Tutto tranne Gramsci", ispirato a "Le donne di casa Gramsci" di Mimma Paulesi Quercioli, per la regia di Susanna Mameli, è un omaggio alla madre di Gramsci, ma anche agli affetti familiari del grande politico e intellettuale italiano. Le iniziative proseguiranno con il concorso per giovani artisti under 35 che saranno premiati a dicembre assieme ai vincitori del Premio Giuseppe Sormani.Infine il 10 ottobre il Polo del '900 ospiterà la mostra su "Antonio Gramsci e la Grande Guerra",allestita per la prima volta a Roma nel febbraio scorso.(ANSA).
   
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

LA RESISTENZA TRADITA DI BEPPE MARIANO

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I poeti hanno visto sempre meglio di tutti. Per questo oggi ripropongo due poesie di Beppe Mariano, conosciute grazie all'amica Maria Silvia Caffari, dedicate al 25 aprile tradito:

PARTIGIANO RAGAZZO

Predato negli affetti, non ti bastava voce
per nominare i caduti, partigiano ragazzo,
mio più adulto compagno di giochi.

Ricordo l’alba in cui ti tradussero per
Savigliano, spensieratamente discutendo
se fucilarti all’aperto o in una stalla.

Comparve nei tuoi ultimi istanti
la ragazzina degli aquiloni. Era una tua,
una nostra compagna di giochi,

che forse sbandata da una corsa
s’era ritrovata là ad interrogare
la tua apparizione senza comprenderla.

Sarà viva ancora, ancora ricorderà?

Reusa neira ancreusa,
torment dla controra, stissava
ant la ment, come da ‘n mal sarà
rubinèt el maleur d’esse naà.

(Rosa nera sprofondata,
tormento della controra, gocciolava
nella mente, come da un mal chiuso
rubinetto la malora d’esser nato.)

Le tue palpebre, ali di rondini sgomente,
sbatterono sotto un cielo capovolto.

Poi ti esibirono per spregio sul carro
del letame, arrovesciato nel tuo sangue,
come un vitello. Nulla vi era di solenne

nell’erba, né cielo che ti aureolasse;
nulla di tutto ciò che oggi
si grida spavaldamente ai cortei
con parole che diventano pietre.

Ma è sufficiente oggi ricordare?

El casermon dle torture a la fin
mon dòp non a l’è stait spianà. Bin.
Mach na muraja a l’è restà, d’amoniment.
quand i pass davsin, la ment as gela
al crijs-clin dij cornajass.

(Il casermone delle torture alla fine
mattone dopo mattone è stato spianato.
Solo un muro è rimasto, d’ammonimento
quando vi passo vicino, la mente si gela
al grido stridente dei corvi.)

Lungo ghirigori rondineschi, ero rimasto
poi il ragazzo con gli stessi giochi
di prima, ma diminuito di te.

Crebbero gli anni in misura d’urgenze
sempre nuove, implacabili:
recinzioni della mente, questa volta.

Perché ti sono sopravvissuto?
Ciò che adesso vivo t’apparteneva.
e ancora t’appartiene.
Che senso ha tutto questo?

A volte mi sembra di amare la stessa
donna che tu avresti amato. Ogni giorno
temo oroscopi nucleari.

Ogni giorno mi domando se convenga
vivere entro morbida recinzione,
o non già rincorrendo l’oltre.

Difficile eredità la vita che mi lasciasti.

Beppe Mariano, 1975


I superstiti si sono riuniti
Aspettano di ripartire.

Con gli scarponi ammuffiti,
i fucili d'antiquariato.

Si apposteranno ancora una volta
sulle stesse colline di allora.

Ad aspettare il nemico
si apposteranno, pazienti.

Ma più non sanno chi sia il nemico.
Molti, troppi hanno tradito.

Beppe Mariano, 1977

DANILO DOLCI E GOFFREDO FOFI. 1 e 2

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Goffredo Fofi e Danilo Dolci nel 1957

CON VIOLENZA E CON AMORE
Intervista a Goffredo Fofi
di Marcello Benfante

È un fiume di parole, Goffredo Fofi. La sua voce pulita, in cui s’indovina dolcezza e ironia, corre rapida a ripercorrere i lunghi anni del suo rapporto con Palermo e la Sicilia. Il 29 aprile, quasi festeggiare il suo ottantesimo compleanno caduto due settimane fa, Fofi riceverà la cittadinanza onoraria di Palermo, un riconoscimento, ci dice, che lo riempie di gioia.
“Il mio rapporto con Palermo dura da sessant’anni e comincia con Danilo Dolci che mi spinse, anzi mi istigò, nel 1957 a calarmi nella realtà del Cortile Cascino, dove ho trascorso un anno, intenso e terribile, precipitando dentro la vita, con violenza e con amore. È stata un’esperienza in qualche modo mistica, come nel Medioevo quando i santi venivano gettati nella fossa dei serpenti e ne uscivano miracolosamente intatti. Da quella comunità di circa un migliaio di persone - ché i miei rapporti non erano soltanto con i bambini, ai quali insegnavano, appena diplomato maestro, le nozioni più elementari - ho imparato tutto. Il Cortile Cascino, dico sempre, è stata la mia università. E lì che ho imparato a sentire la necessità di occuparmi del prossimo, che la cultura è fatta di rapporti umani e significa in primo luogo comprensione dei bisogni sociali.
A quel tempo chi faceva volontariato era una piccolissima minoranza. Ci si conosceva tutti, in Italia. Avevamo grandi speranze di poter cambiare il mondo con il nostro intervento, che oggi sono svanite del tutto. Oggi il volontariato costituisce una vasta maggioranza che ovviamente non ha alcun interesse a cambiare davvero e radicalmente la società, ma soltanto, nella maggior parte dei casi, a ricavare e mantenere un proprio utile”.
Ma anche dopo il drammatico esperimento del Cortile Cascino, tu hai mantenuto un rapporto privilegiato con la realtà palermitana.
“Non ho mai cessato di dialogare con Palermo. Anche nel ’68, con Vincino e con altri. E poi soprattutto dopo le stragi mafiose del ’92 con un gran numero di persone da Letizia Battaglia a Ciprì e Maresco, da Roberto Alajmo a Roberta Torre o Emma Dante, e poi gli amici delle riviste, più o meno piccole, da Segno a Nino domani a Palermo. A un certo punto, in quegli anni di rinnovamento e di ribellione, cercai di convincere Vincenzo Consolo a tornare in Sicilia, ma lui giustamente se ne guardò bene. Il mio cuore è rimasto molto attaccato a questa città. Di Gubbio, dove sono nato, amo soprattutto le pietre, il sentimento che ho con i morti, di cui ascolto la voce. La Sicilia è stata per me la scoperta della vita. Allora, quando vi giunsi la prima volta, la Sicilia era davvero una nazione, vi accadevano fatti che realmente incidevano sul corso della storia. Ricordo, per esempio, quando ci recammo, io, Ciccio Busacca e Ignazio Buttitta a trovare la madre del sindacalista Turi Carnevale ucciso nel ’55 dai mafiosi, in una Sciara desolata, con la gente rintanata che ci guardava e ci ascoltava da dietro le persiane socchiuse. Era un altro mondo. Oppure la prima volta che ho assistito all’Opera dei Pupi. E quando ho visto in un piccolo teatro una coppia di comici quasi sconosciuti: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. E poi c’era ovviamente anche la Palermo colta, illuminata, quella del diritto. Nino Sorgi, per fare un esempio significativo. Sono stati anni di straordinaria formazione non solo intellettuale. Palermo mi ha dato moltissimo. Assai più di quanto ho potuto darle io”.
A un certo punto è avvenuto un distacco, forse doloroso ma necessario, da Danilo Dolci e soprattutto da una certa metodologia dolciana di inchiesta e di organizzazione politica…
“Danilo Dolci era un agit-prop straordinario, un leader di grande lucidità politica, ma accadeva che talvolta si chiudesse nelle proprie riflessioni, e ciò rendeva difficile il dialogo. Aveva un modo gentile ma perentorio di chiudere le conversazioni con questa frase: “Io capisco quello che vuoi dire tu e tu capisci che voglio dire io”. Dopo di che il discorso era finito. Si alzava e se ne andava. Un po’ alla volta molti compagni si staccarono e intrapresero una strada diversa, soprattutto un’ala più libertaria. Poi arrivò lo sviluppo, ovviamente distorto. Si costruirono le dighe. E anche questa crescita malsana andava a scardinare le battaglie di emancipazione fin allora condotte dai contadini. Tentammo una breve esperienza simile in Calabria, ma il movimento non attecchì. Allora Raniero Panzieri, che era stato dirigente del PSI in Sicilia, mi suggerì di andare a Torino. Era lì che si spostava lo scontro di classe, perché i contadini emigravano, si inurbavano e diventavano operai. Ma anche a Torino, dove lavoravo all’Einaudi, continuò il mio rapporto con la Sicilia. Tra i primi libri di cui curai l’editing vi fu “L’isola appassionata” di Bonaventura Tecchi, uno scrittore allora molto importante. E subito dopo “Mafia e politica” di Michele Pantaleone, che tante querele e cause gli portò. Di Pantaleone ricordo le meravigliose lenticchie di Villalba che ci portava!”.
Palermo oggi sta attraversando un periodo controverso, forse di stasi e forse di rinascita. Recentemente è stata insignita del gratificante titolo di capitale italiana della cultura 2018. Come giudichi questa stagione culturale di Palermo?
“Io non credo più alla cultura, ormai. Mi sembra, per usare un linguaggio antico, un modo per ingannare il popolo. La cultura oggi serve a far girare il denaro e addormentare la gente. Io penso che una cultura slegata dall’azione, da un concreto operare per trasformare la società, sia soltanto una forma di narcisismo. Per cui se questo titolo di capitale della cultura potrà far nascere iniziative volte alla conoscenza della realtà nell’ottica di un cambiamento, di un riscatto collettivo, allora ben venga. Altrimenti non credo serva a molto”.

(Republica-Palermo 29 aprile 2017)


Riprendo di seguito due commenti presi dal mio diario FB:

Giovanna Nobile la diga appartiene alle crescite malsane? non capisco. Incontrai Fofi a Pisa durante le celebrazioni del cinquantesimo dello sciopero alla rovescia di Danilo e fu un evento straordinario. C'era anche Paolo Benvenuti il regista di SEGRETI DI STATO e Alberto Castiglione che aveva realizzato da poco MEMORIA E UTOPIA. Furono giornate intense di presenze legate a Danilo e Fofi mi dette l'impressione (che poi divenne per me certezza) di avere nei confronti di Danilo qualcosa in sospeso.
Francesco Virga Non credo che Goffredo addebiti a Danilo lo sviluppo distorto che ha avuto la nostra isola. Fofi in questa intervista, come in tanti altri luoghi, pur riconoscendo i meriti di Dolci ne ha segnalato i limiti ( di cui nessun uomo, per quanto grande, e' privo). In particolare ha voluto ricordare un tratto tipico del suo modo di relazionarsi con i collaboratori piu' autonomi e critici. Al riguardo posso riferire la mia modesta esperienza diretta: dopo circa due anni di lavoro al suo fianco, a meta' degli anni 70, non appena cominciai a fare qualche osservazione critica sul suo operato, mi chiamo' in privato e con la sua consueta elegante arte oratoria mi disse: caro Franco, ormai sei cresciuto e puoi camminare con le tue gambe. Vai a costruire un Centro Studi a Marineo!

Giovanna Nobile la tua esperienza è stata anche quella di Pino Casarrubea e qualche altro. Da un lato, da ciò che hai scritto, mi sembra una nota di pregio nei tuoi confronti (visto ciò che hai prodotto e produci aveva ragione lui) e dall'altra ho sempre pensato che chi ha un progetto a lungo termine come aveva lui nella sua mente, va avanti come un treno nella notte. Non ho strumenti per valutare il suo operato tranne quelli sotto gli occhi di tutti, tipo la diga e i suoi scioperi per la fame della nostra terra, fame di tutto ciò che poteva portare fuori dalla miseria la nostra gente. L'ho avuto come vicino di casa e amico di famiglia oltre alla frequenza di mio fratello e il suo volerlo sempre al fianco tanto che Libera (sua figlia) una volta mi disse QUANDO VEDO GIUSEPPE VEDO MIO PADRE.
Per quanto riguarda Fofi, resto sempre molto perplessa.


LA SICILIA DI STEFANO VILARDO

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        Nino Cangemi con questa bella recensione rompe il vergognoso silenzio che sta accompagnando il nuovo libro del poeta di Delia (CL)

La Sicilia di Stefano Vilardo: selvaggia, aspra, fascinosa, “di luce e di lutto”



Ciascuno racconta la Sicilia che ha viva dentro di sé, che è custodita nel suo cuore, che palpita nella sua memoria, che pulsa nelle sue viscere. Quella che racconta Stefano Vilardo nel suo ultimo singolare romanzo, “Garibaldi e il Cavaliere” edito da Le farfalle, è la Sicilia interna, della sua Delia, del Nisseno e dell’Agrigentino, antica nei suoi riti, nelle tradizioni, nei costumi e nella sua storia fatta di soprusi, vessazioni, dominazioni subite, ingiustizie patite, illusorie conquiste, ribellioni tentate (“terra di conquista, la nostra, di razziatori, di grassatori, di lenoni, di bastardi assassini, che con la loro violenta arroganza hanno indurito, smaliziato, imbastardito il cuore di questo strano bipede orgoglioso e vigliacco; prudente, pavido, ma a volte estremamente violento, ribelle”).
E’ un’isola assolata, aspra, selvaggia, di “luce e di lutto”, fascinosa e terribile, ma vera nelle sue irriducibili dicotomie, la Sicilia protagonista del monologo del cavaliere don Pasquale Nascinbene – appena intervallato da cenni di contraddittorio del dottor Nenè Crescimanno (niente più che un espediente narrativo) –, alter ego dell’autore, vegliardo nonagenario lucido, brillante, estroso nel suo irrequieto e inquieto divagare. Un monologo, il suo, che prende l’abbrivio dalla narrazione dei fatti del bisnonno in epoca garibaldina, ma che poi si disperde nei tanti rivoli dei ricordi che si accavallano e s’intersecano disordinatamente con licenza sulle sequenze temporali perché la memoria di un uomo che ha attraversato lunghe generazioni rivendica il diritto di svincolarsi dalla prigione del tempo e di costruire, nella impetuosa affabulazione, un tempo proprio, esclusivo, autonomo.
Tra le citazioni in esergo, la prima è del fraterno amico di Vilardo Leonardo Sciascia (i due furono compagni di scuola all’Istituto Magistrale di Caltanissetta): “Il racconto è il pretesto per dire certe cose…”. “Garibaldi e il Cavaliere” è, per Vilardo, il pretesto per intrattenere i lettori con la narrazione –franca, ardita, personalissima- della sua Sicilia, che ha l’epicentro nella piccola comunità dove è nato e cresciuto, Delia, come svela il sottotitolo “Storia, racconti e folclore di un paese della profonda Sicilia”.
Ma è anche il pretesto per manifestare liberamente, senza veli, costrizioni, condizionamenti -così come in piena anarchia può esprimersi dall’alto dei suoi novant’anni don Pasquale Nascinbene –, il suo pensiero sulla vita, sugli uomini, sul falso progresso mistificatore di usi genuini, sulla religione, sulla morte. Un pensiero condito di pessimismo e ravvivato da una mai spenta indignazione civile (“Vi supplico di essere sempre indignati”, Martin Luther King, altra citazione in esergo). Sicché si scopre che, per Vilardo, l’uomo è un misto di luce e di buio, di bene e di male: “Siamo impastati, Nenè, di fertile humus o fetida fanchiglia…”, che “il più grande perdente che la storia ricordi” è “Gesù”, che “se un Dio c’è”, è “un Dio di cui non sappiamo nulla…ma se un Dio non dovesse esserci…saremmo amaramente perdenti perché non gli umili erediterebbero la terra, ma questa genia di bricconi, di debosciati che tanto in questi tempi ci deliziano”.
Un discorso a parte merita la lingua di Vilardo. Vilardo, non dimentichiamolo, si è imposto nel panorama letterario con la trascrizione in versi dei discorsi raccolti dagli emigrati di Delia e del Nisseno in Germania, che condusse alla pubblicazione di “Tutti dicono Germania Germania”, Garzanti 1975. Ha scritto diverse sillogi di versi, oltre ad alcuni romanzi e, poeta innanzitutto e poi narratore, è stato sempre attratto dallo sperimentalismo. In questa sua prova narrativa è accentuato il pastiche linguistico, la mescolanza tra l’italiano e il dialetto; ciò dà luogo a una prosa esuberante che potenzia la foga affabulatoria del monologo di don Pasquale Nascinbene. La sua è una lingua “incline alle movenze del colto, all’espressione polita, al lirico”, come nota Nicolò Messina nel risvolto di copertina, mirabile sintesi critica del testo.
Se “Tutti dicono Germania Germania” è l’opera che ha consegnato Vilardo alla storia della letteratura sull’immigrazione, “Garibaldi e il Cavaliere”è il suo testamento, l’opera che tramanda ai posteri il suo pensiero. Perciò merita un posto nelle librerie dei cultori della nostra letteratura.

Recensione ripresa da   http://www.siciliainformazioni.com/ 27 aprile 2017

LA RIVOLTA DI ANDRE' BRETON

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André Breton. Il sodalizio iniziale con Valéry e Vaché, i «manifesti» surrealisti, l’umorismo allucinato, le intransigenze..

Pasquale Di Palmo 

Breton all’insegna della rivolta secondo Paola Dècina Lombardi


Paola Dècina Lombardi ha sempre dedicato una particolare attenzione a quella straordinaria corrente artistico-letteraria rispondente al nome di surrealismo. Oltre a versioni che riguardano le figure più rappresentative dei cosiddetti sonni ipnotici, ovverosia René Crevel e Robert Desnos, la studiosa ha pubblicato due contributi fondamentali per la conoscenza nel nostro paese di questo movimento come Surrealismo 1919-1969. Ribellione e immaginazione (2002) e La donna, la libertà, l’amore. Un’antologia del surrealismo (2008). 

Ora licenzia una sorta di biografia intellettuale di Breton a cinquant’anni dalla sua scomparsa, con il titolo L’oro del tempo contro la moneta dei tempi André Breton, piuttosto la vita (Castelvecchi, pp. 416, € 28,00), in cui richiama il valore alchemico attribuito dal capostipite del surrealismo al segno e alla parola in aperta contrapposizione con il concetto di profitto economico e perbenismo borghese.


Il libro ripercorre le vicende esistenziali di Breton, partendo dai sodalizi intellettuali della prima giovinezza, tra cui spicca quello con Paul Valéry, considerato un vero e proprio maître à penser, il cui classicismo di taglio cerebrale si rivelerà tuttavia, con il passare del tempo, molto distante rispetto ai canoni estetici e gnoseologici professati da Breton. In questo senso il vero mentore non poteva che essere Jacques Vaché, l’autore delle Lettres de guerre, che, sulla falsariga della patafisica di Jarry, adotterà degli atteggiamenti fortemente iconoclastici come quando, alla prima del dramma Les mamelles de Tirésias di Apollinaire, scandalizzerà il pubblico esibendo di fronte a tutti una rivoltella carica. 

Come non pensare allora alle boutades di Jarry, che si divertiva a sparare nei cortili e rispondeva con voce metallica alle madri preoccupate: qualora avesse colpito uno dei loro bambini, sarebbe stato disponibile a «farne degli altri»?; o allo stesso assunto di Breton, nel Secondo manifesto del surrealismo: «L’azione surrealista più semplice consiste, rivoltella in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si può, tra la folla»? 

Certo, si tratta di un umorismo allucinato di cui Breton stesso avrebbe fornito uno specimen nel 1940 pubblicando l’Anthologie de l’humour noir, ma che dà un’idea di quella particolare Weltanschauung che si era venuta a creare entre deux guerres, in cui le correnti più oltranziste dell’avanguardia ancora risentivano dell’influenza delle provocazioni futuriste e, soprattutto, dadaiste (Duchamp docet).


Breton diede vita a varie riviste, tra cui «La Révolution surréaliste» (undici numeri tra 1924 e 1929), in cui uscirono i testi più dirompenti del surrealismo come i due manifesti programmatici dello stesso Breton che si proponeva di scardinare i canoni stereotipati della rappresentazione artistica e letteraria attraverso una nuova concezione estetica, in parte legata alla scoperta dell’inconscio freudiano. 

È noto che una delle tecniche più importanti fu quella dell’écriture automatique che consisteva nel registrare, senza alcun tipo di sorveglianza psicologica, le immagini che di volta in volta affioravano dall’inconscio. Ben presto si distinsero in tale procedimento due personalità di rilievo come quelle di Desnos e Crevel che scrivevano i loro testi in stato medianico. Naturalmente un tale linguaggio influenzò anche gli artisti: si considerino, al riguardo, le composizioni automatiche di Masson o i disegni collettivi soprannominati cadavres exquis.

Numerosi furono i riferimenti da cui prese l’abbrivio Breton, tra i quali bisogna segnalare perlomeno la lezione di alcuni precursori come Sade, Rimbaud e Lautréamont. La teoria degli accostamenti analogici casuali rimanda espressamente all’autore misterioso dei Canti di Maldoror, il quale asseriva che «la poesia deve essere fatta da tutti, non da uno». In tale contesto vanno lette alcune sperimentazioni, non di rado sconfinanti in una dimensione provocatoriamente ludica del linguaggio, come quelle della stesura collettiva di un testo: si pensi, ad esempio, alla raccolta poetica Les champs magnétiques, uscita nel 1920 e composta da Breton e Soupault, universalmente considerata la prima opera surrealista. 


Non è un caso, d’altronde, che alcuni titoli basilari siano stati composti a quattro mani, come L’Immaculée conception di Breton e Éluard o, addirittura, a sei, come Ralentir travaux di Breton, Char e Éluard (entrambi i volumi furono pubblicati nel 1930).

Il libro della Dècina Lombardi ci accompagna lungo un itinerario artistico complesso e sfaccettato, cercando di dare un’immagine di Breton che sia il più possibile obiettiva rispetto alle schermaglie ideologiche che sono sconfinate in tentativi di carattere agiografico o nel rinnegamento più radicale (fu definito sarcasticamente «il papa del surrealismo» o Un cadavre, come recita un libello del 1930 che si rifà al documento collettivo eponimo contro il passatismo di Anatole France).

L’intransigenza del fondatore del surrealismo aveva sconfessato progressivamente l’opera degli autori che gli erano stati a fianco, seppur in circostanze e in momenti storici differenti: Artaud e Soupault, rei di non aver aderito alla svolta engagée impressa al movimento; Aragon e Éluard che prenderanno una deriva «stalinista»; Salvador Dalí soprannominato, anagrammando il suo nome, «Avida Dollars» per l’attenzione spasmodica all’aspetto commerciale dei suoi lavori; De Chirico colpevole di essersi orientato verso modelli neoclassici; Desnos che si era «svenduto» al genere romanzesco.

Bisogna tuttavia riconoscere a Breton, come fa l’autrice, di aver vissuto una vita spesa all’insegna della rivolta e di essere stato coerente con le proprie scelte, rinnegando di pari passo nazismo e stalinismo in virtù di una concezione libertaria che trova in Les vases communicants (1932) una delle espressioni più emblematiche. Il proposito era quello di coniugare rivolta rimbaldiana e dettami del materialismo dialettico, accantonando ogni tipo di dogmatismo. Ricordiamo che nel 1935 gli sarà proibito di intervenire al congresso dell’Aer di Parigi, colpevole di aver schiaffeggiato il narratore russo Il’ja Erenburg, il quale aveva scritto: «I surrealisti prediligono Hegel, Marx e la Rivoluzione, ma non hanno nessuna intenzione di lavorare» e che, durante il soggiorno messicano del 1938, firmerà con Trockij il manifesto Per un’arte rivoluzionaria indipendente.


La Dècina Lombardi, oltre a offrire un ritratto biografico a tutto tondo di Breton, ne ripercorre le opere, da Mont de piété (1919) fino a L’art magique (’57), passando attraverso testi fondamentali come Les pas perdus (’24), L’amour fou (’37), Arcane 17 (’45), facendo riferimento a una serie infinita di riviste: «Le Surréalisme au service de la révolution», «Minotaure», «VVV», «Medium», «Le surréalisme, même», «Bief», «La Brèche». 

Ma il libro che forse meglio contrassegna la beauté convulsive bretoniana (e del surrealismo stesso) è Nadja (1928) che racconta le singolari vicissitudini derivate dall’incontro fortuito con la vagabonda Léone Ghislaine che finirà i suoi giorni in un ospedale psichiatrico (ricordiamo en passant l’interesse di Breton per le dottrine di Charcot, il padre della moderna neurologia: si vedano al riguardo le fotografie sull’isteria femminile inserite in un numero della «Révolution surréaliste»). 

Le prose di questa narrazione sui generis si avvalgono di varie illustrazioni (alcune di Man Ray) che creano una felice commistione tra parola e immagine, anticipando una tendenza che attecchirà in tempi non lontani (si pensi a certi libri di Sebald). Lo stesso Breton osservava all’inizio degli anni Cinquanta: «Non voglio farvi entrare nessuna vanità, ma è generalmente riconosciuto oggi che il surrealismo ha contribuito in gran parte a modellare la sensibilità moderna». 


Il manifesto/Alias – 9 aprile 2017

LA LETTERATURA EROTICA SECONDO D. H. LAWRENCE

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Letteratura erotica. Cinquanta sfumature di D. H. Lawrence


Tiziana Lo Porto

«Quel che pornografia e oscenità sono dipende, come al solito, interamente dall’individuo. Ciò che per uno è pornografia, per un altro è la risata del genio». Iniziava così la difesa dalle accuse di oscenità e pornografia scritta da D.H. Lawrence nel 1929 all’indomani dello scandalo e delle polemiche suscitate da una mostra di suoi quadri alle Warren Galleries di Londra. La difesa era un veloce e intelligente saggio dal titolo Oscenità e pornografia e insisteva sulla libertà dell’individuo di decidere rispetto alla folla cosa fosse pornografico e osceno e cosa no.
Censurati, processati, mandati al rogo, i romanzi di Lawrence ritornano oggi ad affollare gli scaffali delle librerie a fianco di recentissimi best seller che come unico comun denominatore con L’amante di Lady Chatterley o L’arcobaleno hanno l’appartenenza all’oggi più che mai vasto e vario genere letteratura erotica.
Per avere un’idea di cosa sia letteratura erotica sarà a fine novembre in libreria l’accurata Guida alla letteratura erotica. Dal Medioevo ai nostri giorni di Alessandro Bertolotti (Odoya), utile volume illustrato che fornisce un’affollata panoramica delle opere più importanti, in prosa o versi, mostrando sottogeneri, affinità e correnti. La guida cita tra i romanzi più recenti gli ottimi Camere separate di Pier Vittorio Tondelli, Scritto nel corpo di Jeanette Winterson e Una casa alla fine del mondo di Michael Cunningham, per poi proseguire con una carrellata sulle origini della letteratura omosessuale e su un’ancora più recente letteratura transgender.
Più vasto è lo scenario attuale, ampliato negli ultimi anni dalla comparsa di best seller erotici da centinaia di milioni di copie. Tra tutti: la trilogia diCinquanta sfumature di grigio di E.L. James con 125 milioni di copie vendute nel mondo e più di 5 milioni solo in Italia. Il successo di James ha generato un’infilata di volumi che, pur non raggiungendo il venduto della trilogia, si presentano come varianti della fortunata serie, e la nascita o il rilancio di case editrici (dalla Borelli Editore alla Lite Edition) e collane (Sperling Privé di Sperling&Kupfer e Hot secrets di Mondadori) che pubblicano libri hard.
Contemporanei, e sicuramente più validi, sopravvivono romanzi e racconti che fanno dell’erotismo valore aggiunto e non solo espediente per sedurre le masse. Tra i migliori ci sono la raccolta di racconti di Mary Gaitskill Oggi sono tua (che include il racconto Segretaria da cui è stato tratto il film di Stephen Shainberg Secretary), La casa dei buchi di Nicholson Baker, Carne viva di Merritt Tierce. Tutte storie più erotiche che pornografiche, per quanto sia difficile delineare la frattura tra erotismo e pornografia (in letteratura, nel cinema, nella vita), lasciando aperta la domanda: cosa distingue l’erotismo dalla pornografia? Uno dei tentativi di risposta più brillanti sull’argomento è dello scrittore americano Neil Gaiman, che in prefazione alla magnifica opera a fumetti in tre volumi di Alan Moore e Melinda Gebbie Lost Girls scrive: «Il confine tra pornografia ed erotismo è ambiguo, e cambia a seconda del punto di vista. Per alcuni forse dipende da cosa ti eccita (ciò che per me è erotico, per te è pornografico), per alcuni è una questione sociale (vale a dire l’erotismo è la pornografia per ricchi). Forse ha anche a che fare con la distribuzione – la pornografia in rete è indiscutibilmente porno, mentre un’edizione a tiratura limitata, su carta avorio, comprata da esperti, divisa e rilegata in volumi costosissimi, non può che essere erotica».
Illuminante sull’argomento, parlando di film e non di letteratura, anche il regista Michael Winterbottom che nel 2004 decise di girare il film 9 Songs per colmare quella che a suo avviso era una immotivata lacuna del cinema romantico e sentimentale. Così in un’intervista rilasciata nel 2005 alla Bbc: «Uno dei punti di partenza di 9 Songs è stato: perché nei film il sesso non si vede? Moltissimi film sono storie d’amore, perché non raccontare una storia d’amore mostrando due persone che fanno l’amore? Perché si evitano le scene in cui due persone fanno l’amore se è una storia d’amore?». La letteratura, che racconta a parole e non mostra per immagini, dovrebbe essere per sua natura più incline al sesso del cinema, rischiando meno la squalifica nel ghetto porno, anche se di censure e roghi è costellata la storia del romanzo.
Di D.H. Lawrence venne bruciato L’arcobaleno, oggi riconosciuto come il suo romanzo migliore, e fin tanto che era in vita i suoi romanzi vennero disprezzati dalla critica, evitati dal grande pubblico, e accettati come capolavori della letteratura del Novecento solo parecchi anni dopo la sua morte. Lawrence non usava il sesso a fini commerciali, ma per necessità, perché non avrebbe potuto fare altrimenti, perché quelle scene lì erano cuore e motore delle sue storie, degli eventi che raccontava, dei suoi personaggi, realistici e vivi. Nel breve saggio D.H. Lawrence scritto due anni dopo la morte dello scrittore, l’allora ventinovenne Anaïs Nin (una delle poche che, malgrado la giovane età, abbia riconosciuto sin dall’inizio la grandezza di Lawrence) insiste sulla fisicità della scrittura. Nin individua nei romanzi e racconti dello scrittore inglese un linguaggio fisico e una parola fisica, che mette il corpo prima di ogni altra cosa. L’erotismo, grazie ad autori come Lawrence e Nin, non viene più usato per scandalizzare ma per conoscere. L’esplorazione ed espressione della sessualità rende più consapevoli di quanto non riesca il ragionamento o la scrittura.
Scrive ancora Lawrence nella poesia Il sesso non è peccato...: «Non strappatelo fuori da tali profondità frugando con la sconcezza della mente, non tastatelo e non forzatelo, non infrangete il ritmo ch’esso mantiene quand’è lasciato a sé, nel muoversi e svegliarsi e dormire». E Nin, sempre nel saggio D.H. Lawrence: «Egli scoprì che il corpo aveva i propri sogni, e che ascoltando attentamente questi sogni, arrendendosi a essi, si poteva evocare il genio».

da Pagina 99, 28 novembre 2015

ANGELO MARIA RIPELLINO, Tutto si perde

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Tutto si perde in un vischioso, amorfo
disperato brulichio di amebe,
in un nauseante pantano di miele.
Tutto s’ingolfa in un giallo, in un putrido
magma di cisposa fanghiglia,
naufraga nella morchia d’una gora,
tra un funesto corale di gufi.
Tutto il tuo fervore, la tua fretta
d’incollare i frantumi della vita,
tutto l’entusiasmo con cui edifichi
in ore felici viadotti di immagini,
teatrini di parole imbellettate,
tutto è corroso dall’indifferenza,
dalla pigrizia, dal cruccio di chi ti circonda.
Tutto s’accartoccia e si deforma
nello specchio ricurvo dell’accidia,
tutto raggela in un abulico stupore,
come una vecchia città spaventata.
E intanto da ogni piega dello spazio
ammicca, guercio e beffardo, il Burlesco,
intanto squilla sempre più vicina
la lunghissima tromba del Giudizio.

Angelo Maria Ripellino, Poesie prime e ultime, Aracno 2007

L'arte della fotografia secondo Henri Cartier-Bresson 1 e 2

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ph di Henri Cartier-Bresson

*   Finché gli esseri umani saranno vivi e ci saranno problemi veri, vitali, importanti, e qualcuno avrà voglia di esprimerli con semplicità, con sincerità, o con umorismo e comicità, ci sarà posto per i fotografi, come per i poeti e i romanzieri.

 **  Fotografare è trattenere il respiro quando le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l'immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale. Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore.

Henri Cartier-Bresson


 Riprendo dal mio diario FB alcuni commenti:


Cinzia Miceli: Nell' era dei selfie Cartier-Bresson avrebbe avuto vita dura. L'abilità del fotografo sta nel catturare la realtà togliendogli banalità.

Maria Ribaudo: Le popolazioni indiane erano molto diffidenti nel farsi fotografare perché credevano proprio che l'anima del soggetto fotografato venisse imprigionata proprio dentro la foto


Francesco Virga: Ancora negli anni 70, in tanti paesi siciliani e calabresi, molte persone anziane non gradivano farsi fotografare

Giovanna Nobile: “Ogni scatto è il momento massimo di un incontro, quell’attimo che inevitabilmente precede la separazione, l’obiettivo che si chiude, il buio. Amore e vita sono intimamente connessi in quest’arte ostinatamente energica ed erotica”.

G. BATAILLE, L' erotismo è l'approvazione della vita fin dentro la morte.

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Bataille, il sesso e la morte
Umberto Galimberti



"La Storia dell' erotismo (1951) di Georges Bataille è la seconda parte di una sequenza unitaria di opere che, iniziata con La parte maledetta (1949), avrebbe |dovuto concludersi con La sovranità rimasta incompiuta e inedita. A differenza della sessualità, che gli uomini hanno in comune con gli animali in quel regime a bassa definizione dove non c'è né angoscia né trascendenza, pura espressione dell' economia della specie che altro non ha in vista se non la propria perpetuazione, l' erotismo è il tratto tipicamente umano che ruota intorno ai divieti che la comunità umana, per salvaguardare se stessa, ha posto intorno alla sfera sessuale e alla morte, di cui l' uomo, a differenza dell' animale, è consapevole. La maggior violenza infatti è per noi la morte che ci strappa dalla nostra ostinazione di veder durare quel corpo che noi siamo. Il desiderio di immortalità che qui entra in gioco è il desiderio di conservare la sopravvivenza dell' individuo, dell' essere personale che la totalità dell' essere, mai percorsa dalla morte, dissolve. La totalità dell' essere, infatti, non ha nulla a che fare con la morte, al contrario, la morte dell' individuo la manifesta nella sua eternità. Ma c'è un altro modo di sperimentare la morte della propria individualità nel corso della vita, è il modo dell' eros, dove l' individualità, come la vittima sacrificale, è uccisa dalla semplice intensità del godimento che la percorre, e che nell' attimo del piacere la sottrae all' ordine del tempo, per immergerla in quel tempo astorico, dove il soggetto non è più l' io e l' economia del suo desiderio, ma la tensione verso la totalità «nella forma di colei - scrive Bataille - che nell' amplesso ne è lo specchio in cui noi stessi veniamo riflessi». Se da un lato sopportiamo a fatica la condizione che ci lega a un' individualità casuale e mortale, e nello stesso tempo abbiamo un desiderio di durare in questo corpo destinato a perire, dall' altro non siamo immuni dalla nostalgia della totalità originaria che, annullandoci, ci collega all' essere. Da questa nostalgia ci difende il divieto, che però si lascia infrangere dalla trasgressione che lo percorre in quella ambivalenza tra la conservazione della propria individualità e la sua dissoluzione, che è alla base di ogni episodio d' amore e di ogni evento di morte. Se l' essere amato diventa, per chi lo fa oggetto d' amore, la trasparenza del mondo, se ciò che attraverso di lui appare è l' essere pieno, illimitato che oltrepassa di gran lunga i limiti dell' individualità, è pur vero che tutto ciò è possibile solo nella violazione della sua e della nostra individualità, quindi in un atto che richiama, nella metafora dell' omicidio e del suicidio, la dissoluzione della morte. In questo senso, scrive Bataille: «L' amore è l' approvazione della vita fin dentro la morte», e insieme l' anticipazione della morte nel corso della vita, in quel gioco rischioso intorno al limite dove si affollano divieti e trasgressioni. Posti a difesa della natura umana, i divieti, oltre a separare l' uomo dall' animale che non li osserva, circoscrivono il territorio non umano della trasgressione, che è poi il territorio del sacro e del sacri-ficio. Per questo gli animali, che non conoscono divieti, assumevano agli occhi dei primitivi il carattere del sacro e venivano sacrificati. C'è infatti una profonda affinità tra il sacrificio e l' atto d' amore, perché se è vero che amore inizia là dove la bestialità finisce, la bestialità è così ben conservata nell' erotismo che le immagini tratte dall' animalità non cessano mai di essergli legate. Ma forse proprio per questo l' amore è sacro. Come attività trasgressiva che si oppone al divieto, l' amore è vicenda divina, dove l' uomo eccede, compie l' eccesso. Siamo all' altezza dell' eccesso? In caso diverso la nostra sessualità non è in alcun modo una vicenda "umana".

Umberto Galimberti
Da La Repubblica, 18 febbraio 2006

IGNAZIO BUTTITTA SULLA STRAGE DI PORTELLA

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Nta lu chianu dâ Purtedda chiusa a 'n menzu a ddu' muntagni
c'è 'na petra supra l'erba pi ricordu a li compagni.
A l'addritta nni 'sta petra a lu tempu di li Fasci
un apostulu parrava di lu beni pi cu nasci.
E di tannu finu a ora a Purtedda dâ Ginestra
quannu veni 'u primu maggiu 'i cumpagni fannu festa...

E Giulianu lu sapìa ch'era 'a festa di li poveri,
'Na jurnata tutta suli doppu tantu tempu a chiòviri
Cu ballava, cu cantava, cu accurdava li canzuni
E li tavuli cunzati di nuciddi e di turrùni!

Ogni asta di bannera, era zappa, vrazza e manu
Era terra siminata, pani càudu, furnu e granu.

La spiranza d'un dumani chi fa 'u munnu 'na famigghia
La vidèvunu vicinu e cuntavunu li migghia,
l'uraturi di ddu jornu jera Japicu Schirò,
dissi: « Viva 'u primu maggiu », e la lingua ci siccô.

Di lu munti 'i la Pizzuta ch'è l'artura cchiù vicina
Giulianu e la so banna scatinô 'a carneficina.

A tappitu e a vintagghiu,
mitragghiavunu la genti
Comi fauci chi meti
cu lu focu 'ntra li denti,
c'è cu cianci spavintatu,
c'è cu scappa e grida ajutu,
c'è cu jetta 'i vrazza a l'aria
a difìsa comu scutu..

E li matri cu lu ciatu,
cu lu ciatu - senza ciatu:
– Figghiu miu, corpu e vrazza
comu 'nchiommur' aggruppatu!

Doppu un quartu di ddu 'nfernu, vita, morti e passioni,
'i briganti si nni jeru senza cchiù munizioni,
arristàr a menzu ô saŋŋu e 'ntà l'erba di lu chianu,
vinti morti, puvireddi, chi vulìanu un munnu umanu..
E 'nta l'erba li ciancèru matri e patri agginucchiati,
cu li lacrimi li facci ci lavàvunu a vasàti.

Epifania Barbatu, cu lu figghiu mortu 'nterra dici:
« A li poveri, puru ccà, ci fannu a guerra... »
Mentri Margarita la Glisceri, ch'era ddà cu cincu fìgghi
arristô morta ammazzata, e 'nto ventri avea 'u sestu figghiu...

'A 'ddu jornu, fu a Purtedda, cu ci va doppu tant'anni,
vidi morti 'n carni e ossa, testa, facci, corpa e jammi,
vivi ancora, ancora vivi e 'na vuci 'n celu e 'n terra.
 
Ignazio Buttitta

PALERMO AI TEMPI DEI FLORIO

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Palermo belle époque. La musica nell'età dei Florio

Giovanni Vacca

Sembra sia stato destino comune per molte grandi città quello di avere avuto una scintillante vita musicale a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento. Accadde a Parigi come a Napoli, a Lisbona come a Buenos Aires (ma anche ad Algeri, Il Cairo e Tunisi) e un clima da belle époque, con i suoi teatri e i suoi café-chantant, fu il riflesso comune di una svolta epocale: l'urbanizzazione di massa, la nascita dell'industria culturale, l'affermazione di una nuova e gaudente borghesia imprenditoriale, lontana ormai anni luce da quella parsimoniosa e spartana che aveva dato origine al capitalismo moderno. Dietro tutto, ciò lo sventramento degli antichi centri storici e la nascita delle città moderne, aperte ai flussi delle merci e protette da larghi stradoni contro possibili barricate improvvisate da eventuali rivoltosi, come era avvenuto nei moti del 1848 in mezza Europa. E, con gli sventramenti, il declino delle vecchie culture urbane aristocratiche e popolaresche e l'affermazione, accanto all'opera e alle romanze da camera, delle avanguardie musicali e dei nascenti generi «popular».
Alcune di queste esperienze hanno lasciato un segno indelebile entrando nel mito (si pensi a quello che hanno significato l'impressionismo musicale francese c la canzone napoletana), altre hanno raggiunto notorietà internazionale e riconoscimento molto tardi (il fadoportoghese, ad esempio, troppo a lungo associato al regime reazionario di Salazar), altre attendono ancora di essere opportunamente valutate e riscoperte, o addirittura scoperte: è il caso del l'effervescente scena palermitana, poco conosciuta fuori dei confini del capoluogo siciliano, finalmente documentata dal libro La musica nell'età dei Florio (L'Epos, Palermo 2006), scritto da Consuelo Giglio, pianista e docente bibliotecario al Conservatorio di musica di Trapani.
Il volume, di grande formato e ricco di bellissime illustrazioni, restituisce con una scrittura piana e di piacevole lettura il clima della Palermo dei Florio, la famiglia di imprenditori attivi in numerosi settori (in primis la navigazione) che, insieme ai Whitaker, fece della città una capitale dell'arte e della bella vita: «Le borghesie urbane di un'Italia finalmente unita - scrive infatti Rosario Lentini nell'introduzione al libro - tendevano a celebrare il proprio ingresso nel palcoscenico della società e nel mondo della produzione, mobilitando artisti e uomini di scienza; edificando quartieri nuovi, piazze e viali, luoghi di elaborazione del sapere e dello svago, università, gabinetti scientifici e teatri; organizzando mostre ed esposizioni che riflettevano i progressi in tutti i campi». Non è un caso, dunque, se proprio nel periodo dei Florio fu effettuata l'apertura di Via Roma, quella lunga arteria che corre oggi quasi parallela all'antica Via Maqueda e che, sulle rovine degli antichi e insalubri quartieri popolari, segnò la nascita della nuova Palermo («un esempio - ha osservato l'architetto Mario Giorgianni - di innovazione lungimirante ma anche di distruzione cieca, di emancipazione e nel contempo di segregazione classista, di rivoluzione urbanistica accompagnata, come troppo spesso avviene, dalla speculazione edilizia»): ancora un trauma antropologico insomma, come quasi ovunque, per «fondare» la modernità.
In questo prezioso libro, Consuelo Giglio fornisce dunque un dettagliato e meticoloso profilo di questa «belle époque» palermitana, tracciando una vera e propria «mappa» dei luoghi della musica a Palermo (teatri, circoli, salotti) per rinvenire e descrivere il sovrapporsi e l'intrecciarsi delle varie e multiformi pratiche musicali presenti in città: se la permanenza di Wagner nell'isola aveva gene rato un vero e proprio culto per la musica del grande compositore tedesco, il modello parigino di ville lumière, di cui Palermo sembrava quasi, tra splendori liberty e contraddizioni sociali, una piccola re plica mediterranea, favorì la penetrazione dei repertori operistici francesi (Gounod, Bizet, Masse net, Saint-Saens, Offenbach) e di quelli canzonettistici, con tanto di «chanteuses» e «divettes». All'egemonia della musica straniera però, il capoluogo siciliano risponde va anche con la riproposta e nello stesso tempo lo svecchiamento delle proprie tradizioni: l'inaugurazione di un Circolo mandolinistico o il rilancio della musica corale, ad esempio; il rinnovamento della musica da camera o la rivitalizzazione della musica per banda, dove fu protagonista Raffaele Caravaglios, direttore della banda di Alcamo, poi trasferitosi a Napoli (e padre di quel Cesare Caravaglios che è passato alla storia del folklore per aver raccolto e trascritto le voci dei venditori ambulanti napoletani); o ancora la riscoperta del canto popolare, a opera soprattutto delle pionieristiche ricerche che il compositore Alberto Favara aveva compiuto sulle orme di Béla Bartók e Zoltan Kodàly; oppure, soprattutto, la nascita di un autentico genere «popular» locale, quella «Canzone siciliana» che, sul modello della più nota sorella maggiore partenopea, si organizzò in un vero e proprio repertorio, sostenuto dalla neonata editoria musicale cittadina e da concorsi canori con esibizioni sui carri della festa di Santa Rosalia così come avveniva a Napoli per Piedigrotta. Anche per la canzone siciliana invalse l'abitudine, come a Napoli e a Parigi, di stampare spartiti dalla grafica elegante (un segnale importante per comprendere il processo di estetizzazione globale che investì in quell'epoca la prassi del fare musica) e di pubblicare riviste specializzate (La Sicilia musicale), spingendo verso la creazione di un vero e proprio mercato di consumo di massa della musica e della canzone; un consumo basato su un dilettantismo domestico, qui come altrove, prevalentemente femminile.
Certo, come sempre in quest'epoca, il canto popolare è quasi sempre frainteso nelle sue strutture formali, nella sua differenza dalla musica tonale e temperata (e subisce quindi armonizzazioni estranee al suo spirito e spesso forzate e incongrue) e la canzone, pur amando sentirsi «popolare» nello spirito, era in realtà spesso oleografica e paternalistica verso i ceti bassi della società; però è un dato di fatto che l'eredità romantica di attenzione e di simpatia verso le forme espressive popolari permise comunque la raccolta e la catalogazione (e non solo di canti: si pensi, per restare in Sicilia, al lavoro di Giuseppe Pitrè) di un'immensa quantità di documenti sulla cultura popolare, e la loro rielaborazione in chiave «popular», destinati solo in seguito a essere opportunamente vagliati e analizzati.
Lungi dal concentrare l'attenzione su uno specifico genere musicale, questo libro coglie dunque, nella dimensione molecolare di una singola città, l'addensarsi e lo stratificarsi di forme musicali diverse che coesistettero e si amalgamarono in un periodo cruciale per la musica moderna. In questo senso, pur con un taglio volutamente divulgativo, La musica nell'età dei Florio è pienamente partecipe di quella nuova frontiera degli studi musicologici ed etnomusicologici che esige sempre di più una lettura trasversale dell'attività musicale, che tenga conto dell'uso multiforme che di essa si fa nelle società complesse.


alias il manifesto - 28 aprile 2007 

SCIASCIA ERA MENO PESSIMISTA DI QUANTO SI VUOL FAR CREDERE

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Ritratto di Sciascia a villa Igea, 1971, di Bruno Caruso

  Riprendo dall'ultimo numero della  rivista telematica "Dialoghi mediterranei" pubblicata da  http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/leonardo-sciascia-e-lottimismo-della-scrittura/  la parte iniziale di un mio saggio che potete continuare leggere nel sito sopra indicato. fv

Leonardo Sciascia e l’ottimismo della scrittura

di Francesco Virga [*]
La Sicilia non è la mafia,
in Sicilia c’è la mafia
ma la Sicilia non è la mafia [...] [1]
 
 
Leonardo Sciascia continua a far parlare di sé. Più d’uno, all’indomani della sua morte, ha cercato di mettere una pietra tombale sulla sua opera. Tra tutti il più brutale è stato Mario Centorrino che, senza peli sulla lingua, nel 2010 pronunciò queste parole:
«Le ideologie sono ormai superate. Destra e sinistra, tutti assieme, almeno per un anno prendiamoci una pausa. Non leggiamo più per un po’ Camilleri, Tomasi di Lampedusa o Sciascia perché sono una sorta di ‘sfiga’ nei confronti della Sicilia. Ci vuole ottimismo»[2].

E, in modo sorprendente, persino un giornalista che deve molto allo scrittore di Racalmuto, nell’incipit di un libro ancora fresco di stampa, ha scritto:
«Non ne posso più di Verga, di Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, di Sciascia, di Guttuso. Non ne posso più di vinti; di uno, nessuno e centomila; di gattopardi; di uomini, mezz’uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaracquà» [3].
Ma lasciamo perdere le provocazioni giornalistiche e politiche e cerchiamo di riprendere l’opera di Leonardo Sciascia a partire dagli inediti pubblicati recentemente [4] e dagli ultimi contributi critici che tengono presente la nuova edizione critica dei suoi scritti, tuttora in corso, curata attentamente dal filologo Paolo Squillacioti [5].
Precisiamo che in questo saggio non abbiamo la pretesa di analizzare l’intera opera creativa dello scrittore siciliano, ma di riprendere criticamente soltanto la sua produzione saggistica e giornalistica in cui si sofferma a parlare di mafia e Sicilia.

Continua su http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/leonardo-sciascia-e-lottimismo-della-scrittura/

IN MEMORIA DI STEFANO D'ARRIGO

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Stefano D'Arrigo

In occasione della ricorrenza del venticinquennale della morte del grande Stefano D'Arrigo (Alì Terme, 15 ottobre 1919 – Roma, 2 maggio 1992), autore - tra l'altro - di "Horcynus Orca" (uno dei capolavori mondiali della letteratura del Novecento), pubblichiamo la lettera a lui indirizzata dalla scrittrice Tea Ranno, estratta dalla sezione "Lettere a personaggi letterari e autori scomparsi" del volume "Letteratitudine 3: letture, scritture e metanarrazioni" (LiberAria) che ho avuto il piacere di curare per festeggiare il decennale di vita di questo blog.
(Massimo Maugeri)
* * *
LETTERA A STEFANO D'ARRIGO
La vita cammina, il tempo è il suo binario
di Tea Ranno

Non mi permetto il tu, perché a un maestro non si usa l’eccessiva confidenza, e il lei mi pare troppo distante: spesso nei pensieri mi siete, Maestro, nel ragionamento che piglia forma di scrittura e tende a musicare la frase, a darle voce di sirena che incanta o avvelena, ma mai scorre per il rigo indifferente; e dunque è al voi che ricorro, antico retaggio della mia terra dove il rispetto passa intanto per la bocca.
Vi scrivo per dirvi che le parole uscite dalla vostra penna, nei venti e passa anni in cui ’Ndrja Cambrìa attorcigliò il cammino del ritorno, mi sono diventate armamentario di espressione, vocabolario che ha aggiunto colore e intensità alle cose che andavo pensando, a quelle che andavo dicendo e storpiando per piegarle al volere dell’immaginazione. Corona di sogno e guinzaglio, le parole vostre, un fraseggio che deride le mezze menzogne, perché la menzogna, mi avete insegnato, è tale se resta signora della pagina e non serva d’un qualche ragionamento astratto. Mentire e ragionare in contrabbando di evidenza, questo ho imparato; e mistificare, togliere e mettere per alchimie che potenziano l’illusione.
https://img.ibs.it/images/9788817872287_0_0_320_80.jpgVi scrivo per dirvi che ogni volta che traverso il Duemari è a voi che penso, a quel terribilio di sventure che metteste in atto facendo di quel mare teatro di scannatine e affronti, offese, mancanze; per dirvi che trapassando in Continente dall’Isola, e viceversa, continuo ad aspettare le fere, anche una, una soltanto, che mi dia conto di quanto il mare sia rimasto lo stesso, col suo Scilla che abbaia e Cariddi che ingoia e Morgana che distorce la visione. Vi scrivo per dirvi che ogni ferribò che prendo mi pare quello che ha nella pancia le femminote che commerciavano in carne e sale: la carne loro, il sale che riuscivano a fottere in mezzo alla penuria guerresca. Vi scrivo, Maestro, per dirvi che le cose che mi avete insegnato a guardare hanno sempre un’anima scognita che mi spinge a toccare, scavare, mordere per capirne coi denti la consistenza, saperne il sapore e rendermi consapevole di ciò che altrimenti scivolerebbe come cece su pelle d’uovo. Vi dico che a me il discorrere di necessità commerciali - una storia erotica, un giallo, un conversario in salotto ottocentesco - interessa quanto quel cece che scivola su pelle d’uovo; che per me ci vuole lentezza e perseveranza sopra argomenti che trattano l’uomo, la sua capacità di cambiare testa, di trasformare in grandezza la sua pochezza. L’imparai, questo, dalla vostra Nasodicane, dal suo falcidiare fiati e ficcare nel nero sacco senza fondo quanti la sua mano scippa o carezza. Vi scrivo per dirvi che gli occhi vostri mi furono di supporto quando pretesi di guardare la vita e il mondo per raccontarli, ché vita e mondo, mi dicevo, hanno la stessa chiave d’accesso, lo stesso codice di sblocco. Se poi una è più personale e l’altro abbraccia l’estraneo è cosa che non nuoce, piuttosto induce a meglio capire, a intervenire con una zeppa, un cuneo là dove il senso zoppica. E non ci sono certezze. L’unica, forse, è quella Ciccina Circè che intona canti d’ammaliamento e offre la sua barca per un trasbordo vero dove il corpo si fa litania di desideri e il campanello a richiamo di fere è potenza di straniamento che tiene lontani gli affogati e fa meno atroce il passaggio.
Il tempo ci rimane addosso, Maestro. Non possiamo fare altro che cantarlo, anche se non ne siamo degni, se non ne possediamo il metro. La vita cammina, il tempo è il suo binario.
Vi saluto con devozione. Vi auguro mari e fere in quantità, parole tutte quelle che volete, e aria, e respiro. E sigarette, pure. E amici. E millunanotte di domani in domani.
* * *
Tea Ranno, siciliana di Melilli, vive a Roma dal 1995. Ha pubblicato per le Edizioni E/O i romanzi Cenere (2006, finalista Premio Calvino e Premio Berto Opera prima, vincitore Premio Chianti), e In una lingua che non so più dire (2007). Per Mondadori La sposa vermiglia (2012, Premio Rea) e Viola Fòscari (2014). Numerosi suoi racconti sono stati pubblicati in diverse antologie. Si occupa di diritto e letteratura. Pubblica ogni giorno sulla sua pagina Facebook brevi scritti che attengono al vivere, al riflettere, al sentire.
* * *
Da  © Letteratitudine

M. CHAGALL, Con te io sono giovane

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Chagall, Les amoureux au clair de lune, 1926-27


Con te io sono giovane
Quando laggiù gli alberi minacciano
E il cielo svanisce in lontananza
I tuoi occhi mi toccano
Quando ogni passo si perde sull’erba
Quando ogni passo sfiora le acque
Quando le onde mi fervono in testa
E dall’azzurro qualcuno mi chiama
Con te io sono giovane
Cadono i miei anni come foglie
E qualcuno colora le mie tele
Allora esse brillano di te
E sul tuo volto il sorriso è radioso
Più chiaro assai delle nubi più chiare
Allora io corro dove sei
Dove mi pensi e dove mi attendi.


Marc Chagall
da Nuove poesie d’amore, Crocetti Editore, 2000 -
Traduzione di Plinio Acquabona

Nicola Grato, Male è il vano

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male è il vano, le parole vuote,
abbassare gli occhi- togliere il saluto,
l'imbuto cieco d'una strada,
il "come vuoi che vada?",
rimandare a domani la vita,
la contesa di due gatti,
la resa del vento e la calura;
chi giura il vero mentre fa le corna
sottobanco, chi è stanco
prima di cominciare e chi lo è dopo
pur non avendo fatto niente,
chi sente l'inverno sempre
mentre fuori è già maggio,
è gioia di sulla e asfodeli nei prati.


Nicola Grato


RICORDO DI MARIO RIGONI STERN

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Il rigore etico, il valore dato al silenzio, il senso della misura e la solitudine istintiva. Ricordo di Mario Rigoni Stern.
Eraldo Affinati
Mario Rigoni Stern
Una volta andai a trovare Mario Rigoni Stern nella sua casa di Val Giardini, ad Asiago, in motocicletta, partendo da Roma insieme a mia moglie. Storie dall’Altipiano, il Meridiano della Mondadori che ebbi l’onore di curare nel 2003, era appena uscito: dovevamo festeggiare. Quando arrivammo nello spiazzo davanti all’entrata, lo vidi scendere i gradini e avvicinarsi a noi felice come un ragazzino. Dopo averci salutato, s’informò sulla moto: un’Honda Transalp 600.
Mario non aveva mai preso la patente. Non gli serviva. Era un esploratore. Durante la Seconda guerra mondiale, camminando a piedi sulla neve, aveva portato in salvo gli alpini della sua compagnia. Recava quell’esperienza incisa per sempre nel cuore. Molti non ce l’avevano fatta a sopravvivere. Bisognava risarcirli. Come? Raccontando la loro storia. Era un’altra Italia, ma io credo che noi dovremmo riprenderne i fili.
Volle provare il mio casco. Lo indossò come fosse un elmetto, poi non riusciva a toglierselo. Mentre lo aiutavo a sganciarlo, sfiorai la sua barba bianca: ebbi l’impressione di sentire il rumore dei cingolati, come se tutte le guerre del ventesimo secolo tornassero a risuonare. Non più bombe, ma campane: quelle della nuova Europa che, come sapeva il vecchio sergente, ci dobbiamo ancora meritare. Dentro di me una voce fuori campo iniziò a recitare: «Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato».
Era l’inizio del Sergente nella neve, il suo capolavoro, pubblicato nel 1953. Nella mia carriera di insegnante, quando voglio andare sul sicuro, presento questo libro. Gli scolari lo apprezzano sempre. Perfino quelli che non sono abituati a leggere. Sembra un semplice diario, ma è molto di più. Ci puoi trovare l’avventura umana del ragazzo che diventa adulto. La potenza fantasmagorica del paesaggio russo. La dimensione universale della ritirata che a Italo Calvino fece pensare all’Anabasi di Senofonte. La fratellanza ungarettiana che scatta nel momento cruciale. La voce unica di chi scrive. Il cosiddetto colore della visione. Sempre più raro, soprattutto oggi.
Sono tanti i libri di Mario; insieme al Sergente, un altro, pubblicato nel 1978, risplende di luce perfetta: Storia di Tönle. È la vicenda di un “viaggiatore incantato” tra l’Altipiano e la Valsugana governata da Francesco Giuseppe. Di là questo perdigiorno alla Eichendorff portava brocche e vestiti, di qua zucchero e tabacco: il tutto, se gli andava bene, per guadagnare polenta e stoccafisso. Un romanzo in terza persona, breve, conciso e diretto, incastonato fra due pagine, la prima e l’ultima, entro le quali lo scrittore racconta a un amico malato la vicenda dell’antico personaggio realmente esistito: triste cornice di un Marlow senza Tamigi. Un’opera indimenticabile, come il ciliegio cresciuto sul tetto della casa del protagonista. Lo stile è speciale: selettivo, eppure tutto cose, con una dizione araldica di grande efficacia che ben pochi si sarebbero attesi. L’autore di quel testo non poteva essere un semplice mestierante.
Nove anni dopo la scomparsa di Mario Rigoni Stern, oltre ai suoi libri, mi resta il ricordo dell’uomo quando parlava col bastone in mano, in mezzo al fogliame, all’imbocco dei sentieri del Tönle. Durante le nostre passeggiate in altura la sua energia, a ottant’anni suonati, pareva straripante. Andavo da solo sul Monte Cengio, dove aveva combattuto Carlo Emilio Gadda, nella gloria dei Granatieri di Sardegna. Tornavo e lui mi accompagnava all’Osservatorio Astronomico del Monte Echar. Visitavo il Monte Grappa, gli facevo la relazione e subito ripartivamo verso Monte Zebio, nei luoghi in cui Emilio Lussu ambientò Un anno sull’altipiano.
Stentavo a tenerlo fermo al tavolo di lavoro dove gli chiedevo i dati bibliografici relativi ai suoi scritti. Quando invece gli proponevo di fare un giro si mostrava sempre disponibile. «Così, senza programmi», diceva, «andiamo vagabondi». L’ultima sera, prima di salutarlo, anche se poi ci rivedemmo ancora in molte altre occasioni, pubbliche e private, elencai dieci elementi del suo carattere che oggi mi limito a ricopiare dal quaderno di quei giorni: il rigore etico, il pudore virile, il valore che attribuiva al silenzio, il senso della misura, la solitudine istintiva, la socievolezza acquisita, la capacità di concentrarsi senza preparazione, la generosità, la coscienza del limite, la tensione spirituale custodita in un gheriglio di noce.
Proprio su quest’ultimo punto ho trovato una risonanza negli archivi del Gabinetto Vieusseux. Nel 1983 Enzo Siciliano gli aveva chiesto un testo sulla religiosità. Mario scrisse un paio di cartelle che vennero pubblicate su Nuovi Argomenti con il titolo: Come un racconto. Una sigla folgorante del suo mondo interiore attraverso la raffigurazione di alcune scene chiave: la scomparsa della madre, a cui era molto legato; la crisi cardiaca che, quindici anni prima, aveva rischiato di togliere la vita anche a lui; gli istanti di solitudine vissuti in cima alla montagna, prima dell’alba; le incisioni degli antenati scoperte sulle pareti di roccia dell’Antico Sasso sull’Altipiano; L’adorazione dei pastori di Jacopo Bassano, il pittore preferito.
Per troppo tempo questo scrittore, sulla scia del giudizio non proprio benevolo che gli aveva riservato Elio Vittorini, il quale tuttavia ebbe il merito di farlo esordire nei Gettoni Einaudi, venne considerato un fenomeno eccentrico nella letteratura italiana del Novecento: come se fosse un alpigiano entrato senza permesso nello studiolo. Chi invece ne percepì la particolare carica lirico- epica fu Andrea Zanzotto che lo riteneva dotato di una «sapienza minorenne». A ben riflettere è questa l’essenza del sottufficiale: uomo di raccordo fra il comando e la truppa, cioè fra il pensiero e l’azione. Non basta limitarsi a dettare gli ordini, bisogna saperli eseguire.
Il sergente aveva capito in Russia lo statuto della letteratura: le parole autentiche non sono libere come foglie al vento, ma vincolate. A legittimarle è l’esperienza da cui scaturiscono. Lo affermò Albert Camus nei Discorsi di Svezia sostenendo di scrivere a nome di chi non può farlo. Lo ribadì Mario Rigoni Stern quando gli chiesi cosa avrebbe detto a un adolescente che si è perso. Lui rispose d’istinto più o meno così: scopri, dentro e fuori di te, una pista in mezzo agli abeti. Evita quelle troppo battute. Ma anche i percorsi che ti allontanano dagli uomini. Solo allora ti sarai conquistato il diritto di ritornare alla baita.
la Repubblica” - 31 marzo 2017

V. PARLATO E' STATO UN UOMO BUONO

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Valentino Parlato (1931-2017) ha chiuso gli occhi per sempre. Come Luigi Pintor,  Valentino è stato un eretico comunista. Tra i fondatori del giornale IL MANIFESTO, ci fa sentire  più soli oggi. fv 

Norma Rangeri

La nostra storia



Valentino Parlato se ne è andato, improvvisamente. Per me, per noi, con lui se ne va un intellettuale di rango, un giornalista brillante, un padre fraterno, un uomo gentile, un rompiscatole divertente, un comunista di quella specie rara che rifugge la retorica dei luoghi comuni, le trappole dell’ideologia.
Valentino ha sempre preferito di gran lunga l’analisi disincantata della realtà. E, qualità che lo rendeva caro e vicino, Valentino c’era sempre, con la telefonata, con le chiacchiere al bar. Anche quando non era d’accordo, naturalmente.

Quando ho saputo della sua scomparsa la prima reazione è stata la sorpresa, la seconda il dolore. Valentino, nonostante gli acciacchi, portava con determinazione i suoi anni, senza scoraggiarsi di fronte ai malanni. Desiderava sentirsi impegnato nell’esprimere le sue idee, la sua visione del mondo.

Poi il dolore. Come avviene quando se ne va, soprattutto se improvvisamente, una persona cara alla quale sei legato da più di una vita.

Valentino è stato il mio direttore per parecchi anni e poi un compagno, fino a ieri, nella lunga e travagliata esperienza politica del manifesto. Ho avuto la fortuna di condividere per qualche tempo la stessa stanza in via Tomacelli e di soffrire per la finestra aperta d’inverno per le sue cento sigarette. Se eravamo a corto di pubblicità (cioè sempre) capitava di andarla a chiedere insieme. Fare il giornale gli piaceva, nessuno era troppo lontano per essere intervistato, nessuno troppo vicino per essere criticato.

Il suo non essere ideologico non era semplicemente un tratto del carattere, ma un connotato fortemente politico. Sempre capace di smussare gli angoli, sempre intenzionato a non esasperare le tensioni, privilegiava le aperture. E sapeva essere pragmatico, anche per formazione culturale perché da esperto di economia era in grado di interpretare e spiegare i fondamentali. Necessari più che mai in questo «cambio d’epoca», come abbiamo titolato il suo ultimo articolo.

Quando lo scorso anno dichiarò di aver votato la pentastellata Raggi a sindaca di Roma dimostrò appunto una grande elasticità mentale, accompagnata da una forte critica alla “sinistra” storica (se vogliamo ancora definire sinistra il Pd). Per un protagonista delle lotte politiche della sinistra italiana degli ultimi 50 anni, è stata una scelta di grandissima rottura con il passato, quasi un “colpo di scena”. Eppure quella decisione, nell’ottica e nella logica di Valentino, rappresentava il meno peggio.

I tanti che oggi ne parlano come di un “eretico”, beh, mi danno l’impressione di rifugiarsi in una definizione di comodo. Come Pintor, Rossanda e Castellina, Valentino era un comunista. Profondamente, coerentemente, con i dubbi e le contraddizioni di un intellettuale libero.

Semmai l’eresia è stata ed è appannaggio di chi, negli anni, ha persino cancellato la parola dai simboli e dalle bandiere.

E’ stato un uomo al quale in tanti hanno voluto bene, e lui sapeva farsi voler bene. E’ stato un amico perfino nei momenti difficili che hanno determinato una traumatica separazione all’interno dello storico collettivo del giornale. La sua lontananza definitiva dalla vita lascia un vuoto per tutte queste cose.

Negli ultimi tempi veniva di rado in redazione, tuttavia il suo contatto con il giornale è stato frequente. Tranne il periodo in cui si determinò la spaccatura tra l’attuale redazione e una parte del gruppo fondatore. Eppure anche durante questa dolorosa e difficile fase del manifesto, lui in qualche modo cercava di tenere aperti i collegamenti.

Valentino sentiva la nostra mancanza e noi sentivamo la sua. E questo reciproco sentimento ci aiutò ad abbattere il muro delle incomprensioni, riportandolo poi a commentare la politica italiana e internazionale sulle pagine del nostro giornale. Fino a pochi giorni fa, l’ultima telefonata, quando, preso da altri impegni, non era riuscito a scrivere l’articolo per il 25 aprile.

Alla sua compagna Maria Delfina Bonada e ai figli, Enrico, Matteo e Valentina mancherà una persona profondamente cara. E a loro va l’abbraccio del manifesto. Ci mancheranno i suoi suggerimenti, mossi sempre dalla trasparenza, dalla franchezza di una persona dolce e gentile.
Ciao, caro Vale.


Il manifesto – 3 maggio 2017









I ricordi di un comunista italiano di Libia.

Valentino Parlato

La mia Libia

Sul finire di quella notte di novembre del 1951 i poliziotti inglesi entrarono in casa nostra. Erano armati, la perquisirono e mi arrestarono. Io avevo vent'anni. Non appena li vidi, prima ancora che fossero dentro, buttai dalla finestra tutte le pubblicazioni visibilmente comuniste che tenevo in casa. Avevo paura della prigione, e invece quando capii che l'auto militare mi portava in direzione del porto trassi un sospiro di sollievo. Espulsione, e non galera.

All'imbarco, sul piroscafo Celio, trovai Errico Cibelli, Antonio Caruso, Giovanni e Giuseppe Russo, Bruno Mangani, vecchio anarchico. Quando presi la sua valigia per aiutarlo, il braccio mi volò per aria: dentro c'erano solo due cravatte Lavallière. Quelle degli anarchici.

Ma perché arrestati ed espulsi? In sostanza perché stavamo facendo un buon lavoro politico. Il Corriere di Tripoli diede la notizia titolando: "Sei persone rimpatriate per attivismo comunista sovversivo". Il Sunday Ghibli, più spiccio, annunciò: "One way ticket", biglietto di sola andata.

Avevamo costruito — promotore soprattutto Cibelli, il notaio più prestigioso di Tripoli, nonché il capo della banda — un sindacato italo-libico con il compagno libico Mohamed Buras che diresse uno straordinario sciopero del porto, il primo in cui italiani e libici parteciparono insieme. Per il Primo maggio riuscimmo a realizzare anche un corteo piuttosto imponente. Del lavoro sindacale si occupavano in particolare i fratelli Russo e Nino Caruso, che oggi è un protagonista dell'arte della ceramica (proprio in questi giorni espone alla Galleria nazionale d'arte moderna). La diffusione del sindacato, l'infiltrazione del Partito comunista e, cosa forse più importante, l'Associazione per il progresso della Libia che rivendicava una Libia indipendente e democratica, trovarono l'opposizione non solo dell'Autorità militare britannica che occupava il Paese ma anche della comunità italiana che pensava che la Libia dovesse tornare all'Italia. Vale la pena ricordare che quasi contemporaneamente alla nostra cacciata non a caso fu rimandato in Egitto Bashir al Sadawi, che dirigeva il Comitato di liberazione della Libia e con il quale la nostra associazione aveva stretti rapporti.

Ci riunivamo nell'elegante studio notarile di Errico Cibelli. Io ero il più giovane, dovevo distribuire i volantini nelle buche delle cassette postali. Ma partecipavo anche attivamente, con Mario Mazzarino, alla redazione di due giornali successivamente chiusi d'autorità: Il Pinguino e il Corriere del lunedì per cui curavo la rubrica "Visto da destra e visto da sinistra"— dove ovviamente gli argomenti "visti da destra" erano piuttosto stupidi.

Sono passati più di sessant'anni da allora e sono convinto che questa mia giovanile esperienza libica è quella che mi ha incamminato prima verso il Pci e poi verso il manifesto. Ma non è l'unica ragione per cui provo affetto per questo Paese oggi così drammaticamente devastato — e a mente fredda è difficile negare che l'intervento militare del 2011 abbia prodotto l'attuale disastro. La tragedia cui assistiamo in tv ha la capacità di riaccendere la mia memoria anche sugli anni precedenti quelli del mio impegno politico, gli anni in cui ero ancora soltanto un bambino nato a Tripoli nel febbraio ‘31 da giovanissimi genitori italiani.
Uno dei miei primi ricordi è il giorno in cui Mussolini doveva arrivare a Tripoli per impugnare la "Spada dell'Islam". Allora era governatore il maresciallo dell'aria Italo Balbo (poi abbattuto dalla contraerea italiana nel cielo di Tobruk). Per l'accoglienza del Duce organizzò serate e serate di prove con marce, sfilate, cavalli, dromedari. Per noi bambini era una festa. La residenza del governatore, che era vicina a casa nostra, era una specie di palazzo reale con tre cupole e un parco. Lì si svolgevano feste sfarzose che noi guardavamo dal terrazzo come fossimo al cinema. La domenica, altro avvenimento: la messa ufficiale alla quale Balbo si faceva condurre da una berlina trainata da quattro cavalli. Entrava nella cattedrale sotto la navata centrale e sfilava tra due fila di giovani fascisti che presentavano le armi. Dovevano restare immobili per tutta la durata della messa. Alcuni svenivano, ed erano prontamente allontanati.

L'Italia entrò in guerra nel 1940, e noi tutti della quinta elementare venimmo promossi. Ma insieme con la "promozione di guerra" arrivarono anche le bombe di guerra sganciate dagli aerei inglesi. Mio padre mandò tutta la famiglia — mia madre e noi tre figli — dai nonni Giuseppe e Anna nella campagna di Sorman, un paesino a sessanta chilometri a ovest di Tripoli e a pochi chilometri da Sabratha, l'antica città romana, tra i più suggestivi siti archeologici, a picco sul mare. Fu qui che mi trasformai in contadino agli ordini di mio nonno. Lui mi insegnò a curare gli animali, a montare a cavallo, a raccogliere le arachidi. Scopro così che le noccioline americane nascono sotto terra e imparo anche che gli animali hanno una memoria: una volta un cammello al quale avevo appiccato un fuocherello sotto la pancia per farlo alzare, l'indomani mi sferrò un calcio che mi sbatté per terra.

Tutto il lavoro agricolo era fatto da braccianti libici, noi li chiamavamo tutti "arabi". L'uccisione del maiale e la festa del vino, invece, la facevamo noi. Gli arabi abitavano in capanne di legno, tela e lamiere che si chiamavano zeribe. Io li frequentavo, e con loro imparai anche qualche parola di arabo. Appresi che si dividevano in kabile , le fazioni oggi — credo — protagoniste degli scontri. In campagna frequentai anche i soldati italiani, prima in avanzata e poi in ritirata. Accampati nelle zone vicine venivano da mio nonno per comprare il vino. Si sistemavano sotto gli alberi davanti casa. Ero io che portavo loro il vino e — curioso — mi fermavo ad ascoltarli parlare. Parlavano dei loro paesi, della guerra, e più spesso di donne. Io che avevo tra gli undici e i dodici anni ero tutt'orecchi. Grazie all'esercito mi feci anche una cultura, seppur alquanto stravagante. Quando il campo d'aviazione fu smobilitato il comandante regalò infatti a mio nonno la loro biblioteca. Mi tuffai nella lettura: lessi Tolstoj, Palazzeschi, romanzi d'amore, ma anche dizionari e manuali su come si curavano le malattie veneree.

Con la ritirata arrivarono i tedeschi. Una sera fecero un'esibizione di fuoco antiaereo, poi uno di loro che parlava italiano disse a mio nonno che gli ufficiali avrebbero gradito cenare al coperto. Ovviamente mio nonno accettò. Fu preparata la cena, e mentre eravamo tutti a tavola — c'erano il comandante del reparto, l'ufficiale medico che mi sedusse perché aveva due coniglietti in una gabbietta sull'auto, il sergente Springhorum che parlava italiano — la radio, che avevano portato, annunciò la sconfitta di Stalingrado. Calò il gelo sulla tavola, e un cupo silenzio. Poi tutti alzarono i bicchieri e l'indomani all'alba partirono per la Tunisia.
   Bambino con la madre e i nonni
Se i tedeschi se n'erano andati, gli inglesi ancora non si vedevano e mio nonno, preoccupato di essere in balìa dei libici, decise di armarci tutti. Mi insegnò a sparare, ma per fortuna non successe niente: era il ‘43 e per noi la guerra era finita. Tornammo a Tripoli. Le autorità inglesi avevano riaperto la pubblica amministrazione e mio padre, che era funzionario, tornò al lavoro. Io invece non tornai a scuola, studiai privatamente, saltai le medie e mi iscrissi direttamente all'unico liceo scientifico di Tripoli. Qui entro nel giro di Cibelli, qui comincio a interessarmi di politica e sempre qui assisto al tragico pogrom del 1945. Gli inglesi, ostili alla creazione di uno stato di Israele, il 4 novembre lasciano partire un ferocissimo pogrom che dura tre giorni, fa 132 morti e 365 feriti. Per tutta la durata delle violenze la polizia e le forze armate inglesi restano consegnate in caserma. Ho ancora il senso di colpa per non aver accompagnato in quei giorni, insieme agli altri studenti italiani, i nostri compagni di scuola ebrei a casa.

Paradossalmente è proprio dal lavoro politico di quei miei primi vent'anni — venni espulso dalla Libia che Gheddafi ne aveva appena nove — che quasi cinquant'anni dopo il Raìs mi invitò a Tripoli. Gli avevo fatto avere i documenti della nostra Associazione per il progresso della Libia insieme agli articoli sulla mia espulsione. E mentre agli italiani nati in Libia era proibito tornare, Gheddafi non solo mi invitò ma mi concesse anche un'intervista per il manifesto. Lo incontrai altre volte. Era un dittatore, aveva una cultura notevole. Pubblicammo un suo libro di suggestivi e raffinati racconti. Fuga all'Inferno. Non poteva immaginare che la Libia si sarebbe trasformata in un inferno.


La Repubblica – 8 marzo 2015
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