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EURIPIDE IN SIRIA OGGI

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Una madre nella Siria odierna

Particolare della Guernica (1937) di P. Picasso


     Le immagini orribili dei bambini morti in questi giorni in Siria e in tutti i luoghi in cui ci si sbrana per il potere mi hanno fatto ripensare agli antichi versi di Euripide che sembrano scritti oggi: 


Un’orribile morte,
caro, ti prese.
Fossi almeno morto tu
in battaglia
per la tua patria,
dopo aver gustato
fiore di giovinezza
e amore e forza
che agli dei ci fanno
così simili,
forse ti chiamerebbero
felice.
Ma tu hai appena visto
il mondo e subito sei morto,
nulla dei suoi beni
conoscendo,
del suo valore ignaro,
senza gioia.
O figlio del dolore,
le mura della patria
costruite dal Lossia,
la tua caduta videro,
si persero i tuoi riccioli
dalla tua testa sfracellata,
i riccioli che amava
ravviare la madre
con la mano amorosa
coprendoli di baci.
Fredde, piccole mani,
come somigliate
alle mani del padre!
Labbra assai care, dalle quali
bambine parole si staccavano
di vanto, ora per sempre mute!
Mentiva la tua voce alta e squillante
quando, tirando il peplo, mi dicevi:
«Quando verrà il tuo tempo di morire
per te, nonna, io taglierò una ciocca
dei miei riccioli, e coi miei compagni
verrò a salutarti nella tomba».
Ora non sei tu a seppellirmi
ora sono io a seppellire te,
io ridotta così, senza i miei figli,
io vecchia, io senza patria, io ora curva,
stanca seppellisco un corpo infranto.
Oh, con quante tenerezze ti ho curato,
quante volte ho vegliato sul tuo sonno!
Che cosa un poeta potrà scrivere
sulla tua tomba, un giorno?

(Euripide, Le Troiane, vv. 1167-1189)

BOB DYLAN, I Shall be Free!

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“Amico John”. Una trasgressione del giovane Dylan, futuro Nobel

Pietro Pruneddu


Primavera del 1963. 
 
In coda al suo secondo album, The Freewheelin', Bob Dylan inserisce la scanzonata I Shall be Free.
In una strofa racconta un’ipotetica telefonata in cui il presidente Kennedy gli chiede consigli su come far crescere gli Usa.
«My friend John», risponde il cantautore, «Brigitte Bardot, Anita Ekberg, Sophia Loren. Il Paese crescerà».
Il suggerimento dylaniano per la Nuova Frontiera era, tra le righe, un’erezione collettiva, un’eccitazione di massa, trasformare i sogni erotici in business.


Da Il porno per caritàin “Pagina 99”, 14 maggio 2016

UN RICORDO DI CLAUDIO PAVONE (1920-2016)

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Dalla fine della prima repubblica ogni anno la celebrazione della Resistenza è occasione di polemiche e anche il 2017 non fa eccezione. La cosa non è poi tanto strana: sulla via della restaurazione del potere assoluto dell'economia e della finanza, senza più i fastidiosi limiti imposti da una democrazia non perfetta certo ma fondata sulla partecipazione, la Resistenza è un ostacolo che occorre eliminare. A questo scopo anche i Pansa non bastano più. E così, avvicinandosi il 25 Aprile, il Giornale , dopo il Mein Kampf, pubblica a puntate l'esaltazione della RSI da parte del fascista repubblichino Pisanò. Un libro che negli anni '60 ci si vergognava anche di esporre nelle librerie di destra. Per questo è ancora più attuale la figura e l'opera di Claudio Pavone, recentemente scomparso.


Giorgio Amico

In ricordo di Claudio Pavone (1920-2016)

Émorto alla fine di novembre Claudio Pavone. Se n'è andato proprio il giorno prima del suo novantaseiesimo compleanno. Con lui scompare un pezzo importante della nostra storia, uno studioso anomalo, un uomo schivo, che non amava le cerimonie e i riconoscimenti, sempre ben attento a tenersi lontano dai luoghi del potere, senza tessere di partito in tasca, ma caratterizzato nel suo lavoro di ricercatore e nella sua vita di antifascista da una visione etica dell'impegno politico e civile.

Nato nel 1920 in una famiglia della buona borghesia romana, Pavone cresce sotto la dittatura, ma ciò non gli impedisce di maturare una coscienza antifascista. Laureato in giurisprudenza e chiamato da poco alle armi, assiste il 25 luglio al disfacimento delle forze armate e dell'apparato statale. Dopo l'8 settembre prende contatti con il Psiup - Partito Socialista d'Unità Proletaria. Arrestato, trascorre quasi un anno a Regina Coeli, poi, una volta liberato, passa al Nord dove svolge attività clandestina. Partecipa alla liberazione di Milano e di quella giornata ricorderà l'incredibile anarchia, "tra pulsione di festa e spettacolo di morte".


Nel dopoguerra va a lavorare come funzionario nell' Archivio Centrale dello Stato, dove si mette in luce come ricercatore, fino a diventare responsabile dell'Ufficio studi e pubblicazioni. La frequentazione quotidiana dei documenti e degli archivi gli consente di approfondire il suo interesse per la storia. In questa veste produce numerose pubblicazioni di grande valore per cui alla metà degli anni Settanta viene chiamato dall'università di Pisa a svolgere funzioni di professore associato. Andato in pensione Pavone riveste importanti incarichi: vicepresidente nel 1994-95 dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, presidente della Società italiana per lo studio della storia contemporanea e dal 1993 direttore della rivista “Parolechiave”.
Nel 1991 appare il suo capolavoro, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, un'opera di grande respiro, destinata a segnare una vera e propria rivoluzione negli studi sulla Resistenza vista come l'intreccio, estremamente complesso e contradditorio di tre elementi: guerra civile tra fascisti e antifascisti, guerra di classe tra proletariato e borghesia e guerra patriottica antitedesca. Un'interpretazione che definitivamente infrange il tabù della Resistenza come guerra civile, fino ad allora monopolio della pubblicistica di destra.

Con estremo rigore e non poco coraggio, utilizzando una mole enorme di materiali, Pavone ci dà in questa opera un quadro articolato di cosa è stato veramente il movimento partigiano, fornendo un fondamentale strumento non solo per comprendere cosa effettivamente sia stata la Resistenza, ma anche per capire il dopoguerra e perchè, ad esempio, negli anni Settanta serie minacce alla democrazia venissero anche da ambienti di ex resistenti (Edgardo Sogno) o di antifascisti (Randolfo Pacciardi).

Era inevitabile che un'opera così innovativa suscitasse polemiche anche aspre, ma destinate a breve vita di fronte all'accoglienza entusiastica che il libro ebbe da figure della statura di Vittorio Foa e Norberto Bobbio, tanto per citarne alcune.

Come è stato da più parti affermato, Una guerra civile, è una straordinaria e tragica opera corale, scritta con la fluidità di un romanzo dove neanche una parola è superflua. Un'opera dalle cui pagine scaturisce la forza morale, prima che politica, della Resistenza, cioè delle donne e degli uomini che lottarono, spesso sacrificando la vita, non per odio o per ideologia, ma per la umana speranza di costruire un mondo migliore su cui fondare un futuro di libertà e di pace capace di evitare il ripetersi di simili orrori. In questo sta la morale della Resistenza e la differenza con chi combatteva, magari pensando in buona fede di farlo per l'Italia, dall'altra parte. Un'intuizione profonda, già presente in embrione nelle opere letterarie di Italo Calvino e Beppe Fenoglio.
Un impegno che Pavone continuerà con la raccolta di saggi Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, in cui si spiega nell'Italia appena uscita dagli anni di piombo del terrorismo e delle stragi impunite, come nel dopoguerra gli apparati dello Stato avessero faticato a defascistizzarsi e come la mancata epurazione nella magistratura, nelle forze di polizia, fra gli alti dirigenti dell’amministrazione, avesse condizionato pesantemente per decenni la vita della Repubblica.

In questo libro Pavone parla anche di sé e racconta della sua disillusione, di quando, tornato a Roma, egli cerca inutilmente di cogliere i segni «della mutazione che speravo si fosse verificata dopo la Liberazione [...] Allora, come tanti giovani, ero un estremista, e mi dispiacque il confluire nella nascente nuova Repubblica del personale fascista. In seguito Parri cercò di convincermi che sarebbe stato difficile fare diversamente. [Che] il momento della Liberazione non poteva coincidere con quello della rivoluzione, e si sarebbe dovuto fare una politica di quadri per il futuro».

Intellettuale rigoroso, Pavone fu sempre contrario a ricostruzioni storiche strumentali e superficiali, tanto da intervenire spesso contro un "neorevisionismo" alla Pansa che voleva deformare la storia recente d'Italia, rendendola più adatta al nuovo corso politico inaugurato nel 1994 dalla vittoria elettorale di Silvio Berlusconi.

«La vittoria della destra, di questa destra – dirà in un'intervista - è una ragione che si aggiunge a un motivo presente già da qualche tempo. Al fatto, cioè, che viviamo in un periodo di grave crisi del sistema politico; crisi che si intreccia con una crisi, ancora, della stessa coscienza, della stessa identità nazionale. Tornare alle tavole di fondazione della Repubblica, alla lotta antifascista e alla Resistenza è quindi una cosa positiva, salutare. I guai cominciano quando, in questa rivisitazione, invece di approfondire, distinguere, liberarsi della retorica che indubbiamente si è accumulata, si opera un mero capovolgimento di giudizio.
E invece di capire meglio cos'è stata la guerra di liberazione e quale peso ha avuto nella storia italiana — cosa che la storiografia aveva cominciato a fare, in particolare quella di sinistra — la Resistenza, da atto di fondazione, diventa improvvisamente vizio d'origine della Repubblica.Ritornare ai momenti iniziali è doveroso, anche perché la cancellazione della memoria è un fenomeno negativo, che va contrastato. I giudizi nuovi però non si formulano chiamando bianco ciò che era nero e viceversa. Oppure appiattendo tutto e tutti.
Inutile, in questo senso, fare le pacificazioni tra fascisti e antifascisti mezzo secolo dopo. Si offendono gli stessi fascisti, che se non scherzavano vuol dire che volevano un'Italia diversa da quella venuta dopo il 25 aprile. E che è tanto diversa da permettere ai fascisti, appunto, di dire e fare liberamente ciò che vogliono. Se avessero vinto loro temo che per noi non sarebbe stato lo stesso.»

Affermazioni coraggiose e chiare, di uno studioso che non si è mai nascosto dietro frasi fumose o giri di parole. Uno studioso e un partigiano di cui ci mancherà il rigore e l'esempio.

ENZO SICILIANO, La violenza ha spento la poesia

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ph di Jerry-Bauer, Pasolini a Ostia

PIER PAOLO PASOLINI: LA VIOLENZA HA SPENTO LA POESIA
STAMPA SERA 
 
Lunedì 3 Novembre 1975
Anno 107 • Numero 245 
 
Enzo Siciliano
Diceva sempre la sua verità non veniva a patti col mondo 

Pier Paolo era un amico generoso e dolce: aveva uno sguardo mite, la voce gentile anche quando s'infervorava, anche quando dibatteva le sue idee con veemenza, la veemenza che gli dava la certezza della solitudine. 

La sua amicizia sembrava arrivare da lontano: sapeva sempre in anticipo dirti i tuoi pensieri. Egli ha saputo anche dire in anticipo le ragioni del proprio assassinio. E questo, per chi lo ha amato, è un motivo di strazio inconsolabile. 

Raccontare la sua esistenza, testimoniare della sua genialità, è facilissimo e difficilissimo in questo momento. Sembra che Pasolini sia riuscito a far coincidere, come accade talvolta ai poeti, l'invenzione e la realtà. 

Quale realtà? Bisogna citare i suoi versi, bisogna con la memoria tornare alle immagini di « Accattone », il film col quale dette modo a tutti di constatare lo scempio cui la vita si riduce fra i sottoproletari. 



« Poi... Ah, nel sole è la mia sola lietezza...
Quei corpi, coi calzoni dell'estate,
un po' lisi nel grembo per la distratta carezza
di rozze mani impolverate... Le sudate
comitive di maschi adolescenti,
sui margini di prati, sotto facciate
di case, nei crepuscoli cocenti...
L'orgasmo della città festiva,
la pace delle campagne rifiorenti... ». 


Per ideologia 

Il poeta, in lui, aveva rovesciato la sua ottica tradizionale: non scendeva a patti col mondo, si lasciava intridere di tutti i più degradati odori della vita, per « passione » e per « ideologia ». 

La sua non fu una poesia nutrita da ciò che turba la coscienza per le vie di un distorto edonismo. Pasolini non era turbato dallo spettacolo del mondo, di quel mondo che reinventava nelle sue parole, nei suoi versi, con la sua cinepresa: egli cercava in ciò che scopriva sconfitto e deletto, buttato ai margini dei luccicanti orizzonti del « miracolo italiano » e poi della « civiltà dei consumi », le ragioni di forza per il suo intelletto. 

Aveva il coraggio di dire sempre la sua verità, sconfessando le reticenze degli altri. E' vissuto di questo coraggio, sfidando chiunque, sfidando persino il suo stesso cuore. 


« ...quando
scrivo poesia è per difendermi e lottare,
compromettendomi, rinunciando
a ogni mia antica dignità: appare,
così, indifeso quel mio cuore elegiaco
di cui ho vergogna, e stanca e vitale
riflette la mia lingua una fantasia
di figlio che non sarà mai padre... ». 

Giro intorno alle parole, e sento che non ricompongono le membra sparse di Pier Paolo. Vano è riaccendere il fuoco della sua « disperata vitalità »: restano i suoi scritti, i suoi versi. 

Da ultimo diceva di essere un «luterano»: si schermiva con qualche ombra a chi lo accusava di cattolicesimo puro e semplice. In effetti aveva ragione: apparteneva alla lunga schiera dei protestanti in nome della fede, a coloro che credono sia giusto spendere la propria vita, pagare di persona per ogni proprio detto, per i fini del proprio credo. 

Ecco, alle origini, il suo « cuore elegiaco » di poeta: i versi friulani. Già li lo strazio per la morte del fratello, ucciso dagli jugoslavi durante la Resistenza; già li quel suo sguardo radente ai fatti minimi dell'esistere fisiologico: 


« Cutuardis ains!
cuarp cilat di belessa!
i tociavi la me cuessa
sot lì plejs limpiis de la barghessa ». 

Sono versi cantati, dettati in un respiro con l'ansia esclamativa della giovinezza. L'estasi narcisistica è il loro tratto più evidente: una estasi mostrata senza ambiguità. L'idillio sembra prevalere. Oggi, invece, sappiamo che « La meglio gioventù» (è il titolo che egli diede nel '54 ai suoi primi versi, che in plaquettes aveva già stampato nel '42, nel '45, nel '53) è il primo momento d'una ininterrotta dedizione. Pasolini è stato uno straordinario poeta del linguaggio. 

Il linguaggio povero e il linguaggio colto italiano sono passati al suo vaglio, ed egli ne ha dato misura e risultanze attraverso un inesausto lavorare. Ne controllava il suono non sui parametri della musica pura: ne saggiava in profondità, invece, il contenuto ideale, e insieme emozionale. Vi leggeva in trasparenza l'animo di chi lo pronunciava: da quali moventi quest'animo era trascinato, di cosa si faceva attore o verso quale deriva andava a perdersi. Una lettura ideologica, insomma. 


Doppio volto 

I suoi versi hanno, perciò, un doppio volto: esprimendo il cuore del soggetto che si poneva al loro centro, Pasolini medesimo («cerco, nel mio cuore, solo ciò che ha»), svelano, in una sorta di riverbero inafferrabile, il loro oggetto: «l'umile Italia», dobbiamo dire, ricorrendo al titolo d'un poemetto compreso nel « Le ceneri di Gramsci ». 

L'umile Italia dalle « cocenti » parole dialettali, l'umile Italia nostalgica del suo lontano e lussuoso passato (depositato nella aulicità della sua lingua letteraria): Pasolini se ne sentì investito, e ci fu un momento in cui la violenza sulla sua immaginazione fu tale che egli trapassò, senza soluzione di continuità, con quel mondo nella mente e negli occhi, dalla parola scritta al cinema: dal romanzo al film, da «Ragazzi di vita» (1955) e «Una vita violenta» (1959) a ((Accattone» (1961). La sua esigenza di rappresentazione e conoscenza annullò le paratie dello stile verbale: ricorse ai fotogrammi, cosi come, per arrivare ai romanzi, aveva obliterato il dialetto materno, il friulano, per il romanesco. 

Proprio nel '59, rispondendo a una inchiesta sul romanzo promossa da Moravia per « Nuovi argomenti », Pasolini disse della necessità di « lasciar parlare le cose »: solo che questa operazione richiedeva una virtù: 


« Occorre essere scrittori, e anche perfino vistosamente scrittori ». 

Il passaggio al cinema non presuppone in lui l'abbandono di quel precetto («essere vistosamente scrittori»), quanto un suo potenziamento se, come sosteneva anche, 


« il cinema è la lingua scritta della realtà ». 

La realtà: fu il suo angoscioso bisogno. Era forse la parola che ricorreva più spesso nel suo discorrere. E se qualcosa era per lui « reale » voleva dire che il massimo della compiutezza espressiva e formale era raggiunto. 


Contraddizione 

Lasciar « parlare la realtà»: significava svelarne il connettivo politico, cioè il potenziale di dolore da riscattare, da tradurre in bene se mai l'uomo fosse riuscito a sfiorare con le sue mani il bene. Fu, quindi, Pasolini anche un poeta civile. Lo fu poiché genialmente sottopose la poesia a sollecitanti processi conoscitivi: la parola doveva restituire i contenuti del mondo, la forma plasmarli. Ma sottopose anche se stesso, quel suo cuore coraggioso ed elegiaco, a violenza: parlò per lui la sua lacerazione di uomo, preso in una contraddizione che « Le ceneri di Gramsci » (1956), il primo poemetto « politico » del nostro dopoguerra, dichiarò con sconcertante limpidezza. 

Era Gramsci il suo interlocutore, e Pasolini si confessò: 


«Lo scandalo di contraddirmi, dell'essere, con te e contro di te; con te nel cuore, in luce, contro di te nelle buie viscere». 

Gramsci, la sua tomba, la sua storia individuano la prospettiva luminosa del progresso e della ragione: contro tutto ciò le «buie viscere» reagiscono, e le viscere valgono quella parte inconscia dell'uomo che, fuori di ogni razionalità, lo tradisce e oscuramente lo perde. 

Cosa disse per moltissimi in quei versi Pasolini? Cominciò allora la sua stagione felice: egli dava verità al lungo travaglio in cui la letteratura italiana, particolarmente la più nuova, la più giovane, si era avvolta fra spasimi ed esaltazioni dopo il '45, la storia — «lo straccetto rosso della speranza», per dirla nelle sue parole — chiamava ad un rinnovamento lungamente augurato, ma qualcosa recalcitrava nell'animo di tutti. Cosa bisognava riscattare in noi per poter realizzare quel che la nostra stessa volontà chiedeva? 


Quella vitalità 

Pasolini tornò a dirci che quanto cercavamo era in noi e fuori di noi: dovevamo riscattare quella parte di noi diseredata, emarginata, abbandonata alla violenza. Si è parlato, in questo, d'un suo regressivo «populismo»: ma Pasolini aveva in odio la fredda concettualizzazione; era un poeta, e viveva di immagini e della plasticità delle immagini. Il sottoproletariato urbano fu per lui una grande metafora, la metafora della «disperata vitalità» da tradurre in forza positiva, concreta. 

Ecco, allora, quell'«umile Italia» scoperta nei dialetti, nella poesia popolare (grandissimo storico di quest'ultima è stato il giovane Pasolini negli Anni Cinquanta), veniva fisicamente plasmata dalla sua fantasia e offerta come in un'«auto da fé» al comune ripensamento. 

I suoi versi, i suoi romanzi, sappiamo come vennero accolti: denunce e processi. Il personaggio pubblico violava in Pasolini ogni accademica «allurè». La sua presenza era comunque dirompente. Egli perseguitava i suoi nemici nell'intelletto e nella sensibilità in forme cosi esplicite e gioiose, anche d'una ferrigna gioiosità, da suscitare sempre e in ogni momento uno scandalo. 

Ma la ragione ultima di  questo scandalo a lui stesso era nota: ripeto, lo aveva scritto per Gramsci: 


«Lo scandalo di contraddirmi, dell'essere con te e contro di te ». 

Sì, la contraddizione fra coraggio ed elegia, fra epos e narcisismo segnano indelebilmente ogni sua pagina: fino alle ultime, le pagine che amava definire appunto « luterane », le pagine polemiche in cui chiamava in causa quell'umile Italia non più riconoscibile, e sui suoi mutamenti, avvenuti a scorno di ogni razionalismo, voleva sollecitare l'attenzione di tutti. 


Ferocia civile 

Il suo cuore era fermo là, non aveva creduto ai possibili riscatti della società, del benessere, non aveva creduto all'encomiastica di certi politici. L'umile Italia ormai versava nella bruttura e nel fango: sparito il suo dolore, sparite le sue timide vergogne: essa ha il volto della violenza, una violenza immedicabile. 

La poesia non era annegata dentro di lui: era sempre più pigmentata di elementi spuri, non lirici, non eletti; ma era sempre più ricca di bagliori, di ferocia civile. 

Il suo discorso è rimasto a mezzo, in un momento in cui sembrava la sua mente ricchissima di contenuti, di parole inespresse e anche di vaticinio. 

Ripeto: era un uomo dolcissimo, un amico sollecito. Con lui e Moravia abbiamo curato insieme, da nove anni a questa parte, la nuova serie di «Nuovi Argomenti». Per la rivista aveva in animo di raccogliere un'antologia di giovani poeti. Aspettavo per oggi, per domani una telefonata: dovevamo studiare i modi in cui mettere mano alla raccolta. L'umile Italia ormai irresolubilmente violenta l'ha ucciso. La telefonata non verrà. Non sentirò la sua voce quieta dire,


« ciao, sono Pier Paolo ». 
Enzo Siciliano



Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:


Alessandro Barbato.
Maria Vittoria Chiarelli
Simona Zecchi
Giovanna Caterina Salice
Daniele Cenci

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Qui: Eretico e Corsaro
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RAMBO STATT' A' CASA!

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RAMBO STATT' A' CASA!
RAMBO RESTE À LA MAISON!
RAMBO STAY AT HOME!

E stasera, 07/04/2017, aggiungiamo:
البقاء في المنزل! رامبو
RAMBO STANNA HEMMA!









Da gentiloni a bulletti in un trump...

BARCELONA VISTA DA M. V. MONTALBAN

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M. V. Montalban

Riprendiamo da  http://www.minimaetmoralia.it/ la prefazione di Gianni Mura al libro di Giuliano Malatesta, El niño del balcón pubblicato da Giulio Perrone editore.

La Barcellona di Manuel Vázquez Montalbán

di


Non è un colpo basso perché è un colpo al cuore sapere com’è fatta la piazza che Barcellona ha dedicato a uno dei suoi cantori più assidui e appassionati: Manuel Vázquez Montalbán. Nell’orgia di cemento che è la plaza dura Pepe Carvalho si fermerebbe solo per pisciare, magari in compagnia di Biscuter, dopo una robusta mangiata in una trattoria del Raval. Quanto a Manolo, troppo educato per farlo. El ni- ño del balcon, diventato el hombre del balcón, guarderebbe scuotendo la testa. Essere ricordati così male è peggio che essere dimenticati.
In Italia abbiamo una visione talmente positiva di Barcellona e della Catalogna da ritenere impossibile uno scivolone umano che è, al tempo stesso, uno scivolone culturale. Quasi un falso storico, come ricordare un astemio con un monumento fatto a bottiglia di vino. Con l’aggravante che lo scivolone va contro uno dei tuoi, un innamorato di te che non ha mai perso l’occhio critico, un bardo del catalanismo come lo fu, col pallone, Johan Cruijff e, più tardi, il luminoso Barça di Pep Guardiola che il tifoso Manolo non ha fatto in tempo a vedere.
Valga qui la scritta che apparve sul muro del cimitero di Napoli quando con Maradona vinse lo scudetto: guagliò, che vi siete persi. In una delle pagine che seguono Manolo si lamenta della scarsa vocazione alla memoria e fa un paragone con l’Italia, disseminata di lapidi, targhe, ricordi di poeti, artisti, musicisti, scrittori di tempi lontani o più vicini. La plaza dura testimonia che di lui a Barcellona si sono ricordati, ma nel modo peggiore, da analfabeti del sentimento. Una targa alla Boqueria non gli sarebbe dispiaciuta, credo. Il libro di Malatesta, puntuale e con retrogusto amaro, accompagna in un cuore-pancia di Barcellona che non c’è più, pezzo di una città-fantasma che resta viva sulle pagine ma è stata emarginata dalla realtà.
Il Raval è stato sventrato, la sua atmosfera un po’ romanzesca e torbida, un po’ umanamente quotidiana se la ricordano solo i vecchi. Il Barrio Chino, così era più noto agli stranieri, richiamava altri grovigli di strade in altre città di mare: i carrugi di Genova, i Quartieri spagnoli di Napoli. Colore locale: ladri, puttane, magnaccia, coltelli facili, alberghetti a ore. Anche sotto il franchismo il Raval era riuscito a resistere. Ma non era solo questo: era case povere per operai, studenti, era solidarietà e resistenza, operai e studenti uniti, era lotta e complicità. Ora nelle case povere, quelle rimaste, vivono i nuovi poveri, gli immigrati.
La modernizzazione ha fatto quello che non era riuscito alla dittatura. Modernizzazione: sembra una bella parola, invece è una spietata ramazza. Ibrahimovic ha vissuto una breve stagione a Barcellona, e non credo che a Manolo sarebbe piaciuto: troppo grosso, troppo alto, troppo tutto, un’iperbole travestita da calciatore. Ma nella sua biografia c’è una frase interessante, non so se dovuta a lui in persona o al suo biografo. Cresce a Rosengard, quartiere povero di Malmö, e commenta: “Tu puoi togliere il ragazzo dal ghetto, ma non il ghetto dal ragazzo”.
Così ho pensato: Manolo, fosse nato in un altro quartiere di Barcellona, sarebbe stato lo stesso Manolo? Avrebbe scritto quello che ha scritto? Sarebbe finito in galera? No, tre volte no. Se Manolo fosse nato altrove non avremmo letto nulla di Pepe Carvalho, origini galiziane, laureato, marxista (“sezione gastronomica”), ex collaboratore della Cia, gastronomo, cuoco, bruciatore di libri per delusione (nulla gli hanno insegnato della vita, fa eccezione solo per quelli di Conrad), innamorato di una puttana, Charo, cui scrive più di mille lettere ma non ne imbuca una. Marxista anche in una citazione di Marx: “Si conosce un paese solo quando si è mangiato il suo pane e bevuto il suo vino”. Se Flaubert poteva affermare di essere Madame Bovary, nessuno avrebbe potuto contraddire Manolo se avesse detto: Pepe Carvalho sono io.
Non lo disse perché dirlo era superfluo, perché i rimandi biografici parlano da soli, a cominciare da quella canzone, Asturias Patria Querida per cui Manolo andò in galera, bastò la colpa o il reato d’averla intonata. E fu lì, in galera, che Pepe (o Manolo) incontrò Biscuter, che con Bromuro formò una perfetta coppia da romanzo picaresco. La scelta di darsi al giallo, alla novela negra, non fu apprezzata dai circoli intellettuali di Barcellona, ma era la classica reazione elitaria.
Curioso che la scelta sia nata da una “scommessa etilica”, conferma che non sempre bere fa male. Con Pepe Carvalho, cavaliere solitario, il giallo per il suo creatore – alter ego è un modo di raccontare la realtà ed è lo stile dello scrittore a nobilitare il genere. Alla fine si arriva alla verità, non sempre alla giustizia, e anche quando arriva alla verità Pepe lo fa per dovere, non controvoglia ma quasi, consapevole del fatto che non basta la verità a cancellare un delitto, ma lui fin lì può arrivare, e non è poco. Oltre, no. Pepe ha un suo codice morale, non si affitta, non si fa comprare. È di sinistra non tanto per quello che fa ma per quello che non fa.
Non ama i potenti, gli arricchiti, i vip. Ma non si sente l’assistente sociale degli ultimi, dei senza voce. Sa da che parte stare. Tra cinismo e romanticismo ha scelto l’ironia. E la memoria. Tra i meriti di questo libro, non secondario quello di avere ricostruito, tra bar che sembrano farmacie e farmacie che sembrano bar, il clima culturale, l’aria del tempo: i locali della movida, i cocktail degli antifranchisti, l’abilità di editori e agenti letterari. Le stagioni della modernizzazione, le stagioni dell’illusione e del disamore.
Con la curiosità dell’onnivoro, Manolo coltivava tre passioni: la politica, la tavola e il calcio. Due su tre (la politica scende in avvitamento) sono condivise da molti e questo può aver contribuito alla popolarità di Manolo. Mai come l’impasto narrativo in cui mescolava sapientemente alto e basso. Aveva scritto: “Cinema e canzoni si sono alimentati di letteratura, è tempo che la letteratura si alimenti di cinema e canzoni. I programmatori del divorzio tra cultura d’élite e cultura di massa moriranno sotto il peso della massificazione della cultura”.
Chiudo sottoscrivendo una richiesta di Manolo, che troverete integralmente alla fine del primo capitolo. Nel Raval, in Plaza del Pedró, c’è la fontana dedicata a Santa Eulalia, patrona di Barcellona. Manolo ha scritto: “Vi chiedo di porre una reale o immaginaria rosa gialla sul bordo della fontana, omaggio a morti che soltanto io ricordo o soltanto io immagino”. Se la mettete, reale, che sia anche per lui.

R. BARTHES, Linguaggio e pelle

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"E' come se avessi delle dita sulla punta della mie parole" (R. Barthes)


ph ozcan erturk

GUERRA E TERRORE CONTRO LA GENTE COMUNE

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Contro tutte le guerre, contro tutte le forme di violenza.
A fianco della povera gente di Siria. Contro Trump e Putin, mostri gemelli.

W. B. YEATS, Quando sarai vecchia

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ph  mario giacomelli

Quando sarai vecchia
e grigia
e piena di sonno,
e sonnecchierai vicino al fuoco,
prendi questo libro
e lenta leggi,
e sogna il dolce sguardo
che avevano un tempo i tuoi occhi,
e la loro ombra profonda.
In molti amarono
i tuoi attimi di felice grazia
e amarono la tua bellezza
con amore falso o vero,
ma un uomo solo
amò la tua anima pellegrina,
e amò le pene del viso tuo
che incessante mutava.
Piegati ora
accanto all’ardente griglia del camino
e sussurra,
con qualche tristezza,
come l’amore scomparve,
e vagò alto sopra le montagne,
e nascose il suo viso
in uno sciame di stelle.


William B. Yeats

R. Juarroz, La chiave del cammino

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ph. ingrid cerna

poesia verticale

Cercare una cosa
è sempre incontrarne un'altra.
Così, per trovare qualcosa,
bisogna cercare quello che non è.


Cercare l'uccello per incontrare la rosa,
cercare l'amore per trovare l'esilio,
cercare il nulla per scoprire un uomo,
tornare indietro per andare avanti.


La chiave del cammino,
più che nelle sue biforcazioni,
il suo incerto inizio
o il suo dubbio finale,
è nel caustico umore
del suo doppio senso.


Si arriva sempre,
ma da un'altra parte.

Tutto passa.
Però al contrario.


Roberto Juarroz 

FRANCO CARDINI, Costumi sessuali nel corso della storia

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Costumi sessuali. Su questo amplesso costruirò la civiltà

 Franco Cardini

Non è escluso che uno degli ultimi «grandi libri» di storia edito dalla Rizzoli, la Storia dei costumi sessuali della scozzese Reay Tannahill, abbia successo per ragioni non legate al suo valore scientifico, bensì connesse al «voyeurisme» di un certo tipo di lettore, e anche se fosse così, intendiamoci, non ci sarebbe da scandalizzarsi. La letteratura erotica e magari addirittura la pornografia travestita da erotologia sono ormai generi diffusi nell’industria editoriale.
Sarebbe invece un peccato se il titolo - e magari ancor più l’argomento -di questo libro allontanasse dalla sua lettura un altro tipo di pubblico: quello più serio e più colto, ma ancorato forse a una visione un po’ convenzionale della cultura e non aggiornato sugli ultimi sviluppi della ricerca storica, sociologica e antropologica. Questo tipo di pubblico può darsi guardi a una ricerca sui costumi sessuali come a un prodotto futile, appartenente a un tipo di storia secondaria, e magari come a una concessione da parte della storiografia odierna a un certo conformismo erotizzante che ormai non scandalizza più nessuno. Anzi, che è tutto sommato divenuto un noioso ingrediente della nostra vita quotidiana, come ben si vede in certa pubblicità.
Non sarebbe la prima volta che la nostra cultura cade in errori del genere. Basti pensare quanto a lungo l’approssimazione culturale e il moralismo di certi ambienti eruditi hanno permesso la confusione tra un De Sade, un Casanova e la grande cultura libertina da una parte e certi libracci di dozzinali porcheriole dall’altra; o quanto a lungo gli scritti di un sessuologo e antropologo non privo di genio, come Paolo Mantegazza, hanno fatto arrossire le fanciulle e le signore dabbene.
Le nostre biblioteche e i nostri musei hanno ancora oggi degli «inferni» nei quali giacciono opere considerate «immorali» (secondo un «comune senso del pudore» ora genericamente cristiano, ora piuttosto postvittoriano), alle quali può accedere soltanto chi possa documentare le origini scientifiche del suo interesse. D’altronde, se da una parte ci sono la disinformazione e il moralismo di chi confonde l’arte o l’antropologia con la pornografia, dall’altra c’è la malafede di chi vorrebbe smerciare porcherie con la scusa dell’estetica o della libertà: così le cose si confondono ancora di più.
A sgombrare il campo da tutti questi malintesi sarà forse interessante sapere che oggi tutto quanto riguarda l’eros e i costumi sessuali è tenuto in grande considerazione nel mondo degli studi seri, e per molte ragioni. Anzitutto, perché il ruolo di questi temi nell’arte, nella letteratura, nella vita etica e sociale dei popoli è estremamente rilevante; poi perché ai costumi sessuali è legata una serie di problemi che vanno dall’immaginario mitico e religioso alle strutture familiari, fino alle pratiche contraccettive (e quindi alla demografia) e alle strutture sociopolitiche.
Dopo Sigmund Freud, non è un mistero per nessuno il ruolo che il sesso gioca nella cultura occidentale odierna. Ma c’è di più. Grazie a uno studioso sovietico, Michail Bachtin, oggi siamo in grado di osservare come la nostra mentalità sia dominata da una sorta di lotta fra i cinque sensi, due dei quali - la vista e l’udito - sono stati dai greci in poi privilegiati e considerati nobili a detrimento degli altri. Noi godiamo visivamente e auditivamente, con gli occhi e con le orecchie: da qui la dignità della pittura e della musica. Ma ci vergogniamo di riconoscere che in realtà godiamo anche con il tatto, con il gusto, con l’olfatto. Solo di recente si è osato proporre una storia seria della gastronomia e delle strutture del gusto anche come cultura oltre che come piacere - lo ha fatto Jean-Louis Flandrin, che non a caso si è occupato anche di storia della sessualità e dell’eros -, mentre si è scoperto (grazie a un libro di Alain Corbin) che gli stessi odori hanno non solo una storia, ma anche una grande importanza storica.
Parliamo tranquillamente di costumi sessuali, quindi, e non soltanto di amore o di eros, che non esauriscono tutto il problema. La Tannahill ha il merito di condurci, in questo suo grosso libro della Rizzoli, dalla preistoria ai giorni nostri, affrontando una tematica che spazia per tutti i cinque continenti del mondo.
Il rischio? Quello comune a tutti i lavori di sintesi, anche ai migliori: la genericità. I vantaggi? Superiori senza dubbio ai rischi: seguendo il coraggioso discorso della Tannahill, che affrontando tempi lunghi e vasti spazi sa essere al tempo stesso genetico e comparativistico, si apprendono essenzialmente due cose. Primo, l’estrema varietà degli usi sessuali e dei tabù ad essi legati (e quindi il carattere relativo di qualunque morale); secondo, gli esiti talvolta disastrosi di tutte le situazioni storiche nelle quali due differenti morali sessuali sono venute in conflitto fra loro.
Ad esempio, la colonizzazione dell’Africa e dell’America ha trovato per secoli un alibi nella considerazione che quei popoli «selvaggi» erano anche, sotto il profilo sessuale, «immorali». I conquistadores erano o si dicevano scandalizzati dal fatto che taluni popoli indios potessero praticare liberamente la sodomia, o il rapporto omosessuale, o la poligamia, o quello che per loro era l’incesto. Nel Nord America i coloni puritani erano scandalizzati dal fatto che i pellerossa seguissero un'etica sessuale «licenziosa» non meno che dal fatto che non avessero «voglia di lavorare».
Le due cose, dirompenti in una società come quella dell’Inghilterra o dell’Olanda del Seicento, avevano evidentemente la loro ragion d’essere nel Nuovo Mondo; ma questo, i bravi cristiani provenienti dall’Europa - i quali credevano onestamente nel valore dell’etica desunta dalla Bibbia come canone universale - non vollero comprenderlo mai. Il risultato fu il genocidio.
La Tannahill ci accompagna quindi in un’affascinante e divertente escursione attraverso età dimenticate e popoli lontani. Grazie al suo libro molti di noi comprenderanno finalmente, ad esempio, in che modo leggere correttamente il Kamasutra, il grande trattato mistico indiano da noi fino ad oggi stampato quasi alla macchia e considerato un manuale di strane posizioni erotiche per maniaci contorsionisti. E comprenderanno anche, ad esempio, le ragioni storiche e sociologiche per cui, a tutt’oggi, l’omosessualità sia grandemente diffusa nei paesi arabi nonostante il Corano la condanni duramente.
Non che tutto fili liscio e lasci convinti, intendiamoci. Ad esempio, sulla cultura occidentale e cristiana - la nostra - si resta francamente con la voglia di saper qualcosa di più. Per chi volesse su ciò informarsi meglio c’è per fortuna il libro Sesso e società alle origini dell’età cristiana di Aline Rousselle, edito dalla Laterza. Ma anche sul Medioevo il discorso risulta carente. Sulla coscienza sessuale occidentale ha pesato a lungo il conflitto nato nel XII secolo fra cattolicesimo e catarismo, l’eresia a carattere dualistico che sosteneva la radicale malvagità della materia. Per i cattolici, il primo e più grave peccato sessuale è la dispersione del seme; al contrario, per i catari, esso è proprio la procreazione, in quanto ogni bimbo che viene al mondo ribadisce la schiavitù dello spirito rispetto alla materia. Ne derivava che per i catari la sodomia era un peccato di gran lunga più leggero della procreazione, ch’era viceversa il fine etico del matrimonio cristiano.
Da qui l’orrore dei cristiani nei confronti dell’omosessualità: essa era quasi tollerata prima del XII secolo (nonostante la condanna biblica) anche grazie alla memoria dei costumi greci e romani; divenne un flagello perseguitato da allora in poi; Bernardino da Siena predicava inflessibile il rogo per chiunque si rendesse colpevole di un peccato di sodomia.
Insomma: chi nel libro della Tannahill cerca le emozioni forti, le descrizioni di pratiche ai limiti oppure oltre i limiti dell’osé, non resterà deluso (a patto sia almeno un pornofilo intelligente). Ma la lettura di questo libro si addice soprattutto a chi voglia verificare quella verità di cui oggi molto si parla: che cioè la storia non è fatta solo di condottieri, di battaglie e di eventi eccezionali, ma anche di vita quotidiana, di abitudini costanti e profonde, di valori in apparenza futili. In fondo, al mondo esiste una sola cosa della quale valga la pena di scandalizzarsi: l’ignoranza.

Il testo pubblicato da L'Europeo, il 27 aprile 1985, noi l'abbiamo ripreso da http://salvatoreloleggio.blogspot.it/

A. HUXLEY CI RICORDA QUANTO BISOGNO CI SIA DI LEGGEREZZA

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E’ buio perché ti stai sforzando troppo.
Con leggerezza, bimba, con leggerezza.
Impara a fare ogni cosa con leggerezza.
Sì, usa la leggerezza nel sentire,
anche quando il sentire è profondo.
Con leggerezza lascia che le cose accadano,
e con leggerezza affrontale.
Dunque getta via il tuo bagaglio e procedi.
Sei circondata ovunque da sabbie mobili,
che ti risucchiano i piedi,
che cercano di risucchiarti nella paura,
nell'autocommiserazione e nella disperazione.
Ecco perché devi camminare con leggerezza.
Con leggerezza, tesoro mio.


Aldous Huxley,  L'isola

JACQUES BREL, La valse à mille temps

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Vi auguro sogni
a non finire
la voglia furiosa
di realizzarne qualcuno
vi auguro di amare
ciò che si deve amare
e di dimenticare
ciò che si deve dimenticare
vi auguro passioni
vi auguro silenzi
vi auguro il canto degli uccelli
al risveglio
e risate di bambini
vi auguro di resistere
all’affondamento,
all’indifferenza,
alle virtù negative
della nostra epoca.
Vi auguro soprattutto
di essere voi stessi.


Jacques Brel

GILLO DORFLES PER L'EDUCAZIONE ESTETICA DEI BAMBINI

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Felice compleanno a un geniale artista (e non solo...)
Gillo Dorfles, uno splendido ragazzo, che oggi compie 107 anni!


"Ci sarebbe tutto un lavorio da svolgere, a cominciare dall'educazione artistica e musicale dei bambini. Ma siamo ai minimi termini da un punto di vista pedagogico. Comunque non bisogna rassegnarsi. La forza della sensibilità estetica – senza barriere di generi e linguaggi e applicata al quotidiano – è indispensabile per contrastare la dittatura dello sgradevole"
 (G. Dorfles)

CHI DROGA PALERMO?

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Ballarò, Palermo
 

Vivere di crack nei vicoli di Ballarò 

Federico Annibale


«No, no, non buttare la cenere, mettila lì, sul collo della bottiglia, sopra la stagnola», mi dice frettolosamente Gaspare mentre prepara il crack. La cenere gli serve per evitare che i cristalli, una volta messi sopra la stagnola, prendano fuoco e diventino inutilizzabili.
Giovani palermitani fumano eroina e crack seduti sulle scale di una delle biblioteche comunali di Ballarò, storico quartiere nel centro di Palermo. Antonio, ventidue anni, è un altro di loro. Si trascina tutto il giorno senza meta per le stradine del quartiere in preda a tic nervosi: l’astinenza da eroina gli fa immaginare polveri bianche sul pavimento. «Quelli che si fanno come me non sono di Ballarò, vengono da fuori; quelli di qui non prendono ‘sta roba, anzi molti sono anche infastiditi, e spesso bande di picciotti – ragazzini di massimo 16 anni – vanno in giro a dar fastidio ai drogati e a volte a picchiarli: qui farsi le pere non è visto bene, c’è un codice, un’etica da rispettare», mi dice con foga da astinenza mentre camminiamo veloci verso un locale nigeriano: ha bisogno della sua fumata d’eroina. «Adesso ti faccio vedere quanto è facile comprarla». Chiede alla ragazza al bancone se ha una dose, lei annuisce, lui gli dà quindici euro ed esce con la roba. «Vedi, è semplice, e costa anche poco».

Il cuore nero di Palermo
Geograficamente Ballarò è il centro perfetto, culturalmente rappresenta l’anima e il cuore delle tradizioni cittadine. Il nome deriva dallo storico mercato che da secoli arricchisce e vizia gli occhi dei palermitani, e recentemente di turisti e varie comunità di migranti. È un quartiere multiforme e variegato per via di questa miscellanea multiculturale composta di diverse etnie e nazionalità che lo animano. Non mancano esempi d’interazione tra comunità di migranti e italiani; ma allo stesso tempo è un territorio difficile, dove la presenza della mafia di quartiere è palpabile, la dispersione scolastica forte, lo spaccio diffuso, la disoccupazione elevata, il pizzo una pratica comune. In questo contesto, una nuova organizzazione criminale nigeriana si sta facendo largo nelle cronache. Da qualche anno il quartiere è stato invaso da crack ed eroina: palazzi abbandonati sono diventati luogo di ritrovo dei drogati, casi di giovani tossici trovati morti per overdose si susseguono, e non c’è nessuna associazione che lavori al problema.
«Negli ultimi anni crack ed eroina stanno andando forte in città», conferma Giampaolo Spinnato, responsabile del Sert2 di Palermo, «e noi abbiamo sicuramente riscontrato un aumento. Soprattutto è cresciuto l’uso dell’eroina fumata, specialmente da parte di ragazzi giovani e ciò è dovuto al fatto che i prezzi sono più bassi. Queste due sostanze sono ora l’emergenza qui a Palermo».
Esiste un trend globale che permette di comprendere l’aumento della diffusione di queste sostanze in città. Eroina e cocaina sono scese notevolmente di prezzo; oggi, “farsi”, costa assai meno di dieci anni fa. E, come evidenzia il World Drug Report 2016 dell’Onu, negli ultimi dieci anni i consumatori di crack ed eroina sono aumentati ovunque nel mondo.
L’Italia non fa eccezione, spiega il medico tossicologo Salvatore Giancane, professore all’università di Bologna, responsabile di uno dei Sert (Centro Servizi per le tossicodipendenze) del capoluogo emiliano e autore del libro Eroina. La malattia da oppioidi nell’era digitale (edizioni Gruppo Abele, 2014). «Se 25 anni fa un grammo di eroina costava 150 mila lire a fronte di uno stipendio medio di un operaio di 1 milione e 200 mila, oggi con trenta euro a Bologna compri un grammo di eroina pura a fronte però di 1.200 euro di stipendio: il rapporto è passato da 1 a 8, a 1 a 40: farsi è diventato notevolmente meno caro.
Dal 2011 in poi, l’annata record del raccolto di oppio in Afghanistan, i prezzi sono scesi e in Italia la diffusione dell’eroina è aumentata». Ma questo non è sufficiente, da solo, a spiegare l’aumento vertiginoso di queste sostanze a Palermo. La storia è più complicata.
«Cinque anni fa non era così», mi dice S. un ragazzo africano che vive a Palermo da tempo. «Mi ricordo che non era facile trovare il crack, adesso è facilissimo, troppo».
Lo seguo mentre andiamo in un palazzo di Ballarò a prendere la roba. «Tu però aspettami fuori, non salire con me».
Attendo nel cortile, lui sale, e dopo cinque minuti è giù con la sua cocaina pura. Finiamo in un posto appartato dove S. può tranquillamente cucinare il suo crack e farsi una fumata (in gergo cucinare significa rendere fumabile la cocaina in polvere, tramite un procedimento detto “di basatura”). Iniziamo a parlare, e mi conferma quanto avevo già dedotto parlando con altre persone del quartiere.
L’eroina non viene venduta dagli italiani, e il crack viene in maggioranza cucinato dagli africani dentro alcune case di Ballarò. Uno degli attori principali dietro tutto questo è la mafia nigeriana, la Black Axe, scesa a patti con Cosa Nostra. Una delle spiegazioni dell’aumento della diffusione di crack ed eroina è la presenza oramai stabile a Palermo di questa organizzazione criminale.

Il patto con Cosa Nostra
L. un ragazzo italiano di Palermo, con molta schiettezza mi spiega come funziona questo mercato. «Prima di tutto, se gli africani vendono questa roba è perché la mafia glielo permette. A Ballarò non puoi fare affari loschi se non hai il permesso di Cosa nostra, o se non conti abbastanza da avere la forza di poter scendere a patti con loro, come ha fatto la Black Axe. Per capire la diffusione di crack ed eroina, devi entrare nella logica del codice mafioso locale. L’eroina non la vendono gli italiani, perché la considerano una merda. Qui la chiamano: consumare figli di madre -, dice L. divertito. - Dunque nel codice mafioso locale è condannata. Ma non la ostacolano. Non vogliono essere l’ultima mano che passa quella roba. Queste cose le fanno fare ai turchi, come chiamano gli stranieri qui a Palermo».
Arrivati gli africani, la mafia ha constatato che quello del crack e dell’eroina era un business remunerativo, e ha dunque tollerato la presenza della Black Axe perché portava profitti e pagava il pizzo. Una ricostruzione confermata, in una recente intervista a Sky, anche dal procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. La Black Axe, ha spiegato, «convive in una sorta di equilibrio precario, ma comunque un equilibrio con le organizzazioni mafiose italiane, che tollerano la presenza dei nigeriani e in qualche modo li sfruttano pure perché prendono spesso delle percentuali sui loro traffici illeciti e quindi ne ammettono la presenza».
La Black Axe ha un’organizzazione criminale complessa e gerarchizzata, con ruoli ben definiti al suo interno: riti voodoo, atroci punizioni corporali per chi non segue le regole interne e le indicazioni dei capi, affiliazioni in cui i neofiti sono costretti a bere sangue umano.
La Black Axe è un’organizzazione originale e spietata. In Italia è prima arrivata al Nord – Torino, Brescia, Padova – poi è scesa al Sud, dove ha creato la sua roccaforte a Castel Volturno. Solo intorno al 2014, sempre secondo la procura di Palermo, è riuscita a trovare terreno fertile a Ballarò, dove ha iniziato prima a gestire la prostituzione per poi accaparrarsi il monopolio dello spaccio di eroina e una buona fetta dello spaccio di crack.

Le rotte adriatiche
Partita su iniziativa dei magistrati palermitani, l’operazione “Black Axe” del novembre 2016 ha portato all’arresto di 17 persone su tutto il territorio nazionale. I magistrati sono riusciti a ricostruire la cupola mafiosa e i ruoli a livello italiano. La polizia ha potuto così mettere sotto custodia i vari boss sparsi in Italia, arrecando un duro colpo alla mafia nigeriana, che mostra di essere sempre meglio organizzata e radicata sul territorio.
Gli arresti però non hanno fermato il flusso di stupefacenti verso Palermo. «I sequestri di cocaina sono aumentati notevolmente negli ultimi anni, e quindi indirettamente il crack, mentre per l’eroina la situazione è sostanzialmente stabile», dice a pagina99 Agatino Emanuele, responsabile della sezione antidroga della squadra mobile di Palermo. Esiste una spiegazione alla stagnazione dei sequestri di eroina. «L’eroina non viene fornita da Cosa Nostra, che non ha il monopolio del business», afferma il professor Giancane. «Certamente i boss mafiosi autorizzano i nigeriani a spacciarla nel loro territorio. Tuttavia, i grossi carichi di eroina arrivano nell’Adriatico, tramite gli albanesi, e poi si espandono a macchia di leopardo nel resto d’Italia».
Per incidere sul flusso, i grandi sequestri di eroina da parte delle autorità non dovrebbero avvenire in Sicilia, quanto piuttosto nelle regioni adriatiche. «In effetti questa potrebbe essere una chiave di lettura plausibile», si limita dire al riguardo Emanuele.
Esiste un mix letale tra nuove mafie provenienti dall’estero, che travalicano tabù nostrani, e l’aumento della produzione di cocaina e oppio globalmente. «In mezzo ci siamo noi, che viviamo come cani nei palazzi abbandonati per farci in libertà; e i ragazzini di 16 anni che fumano eroina», dice S. il ragazzo africano. «I nigeriani sono furbi e forti, ma è ancora la mafia quella che controlla tutto. Non ci sono italiani che lavorano per gli africani, solo il contrario». Se un giorno si arriverà a questo sovvertimento gerarchico, alla rottura di quel “precario equilibrio” fra mafie di cui parlava il procuratore nazionale, Franco Roberti, sarà difficile prevedere cosa potrebbe accadere.


da Pagina 99, 1 aprile 2017


 

FRANCO FORTINI, Arte poetica

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Tu occhi di carta tu labbra di creta
tu dalla prima saliva malfatto
anima di strazio e ridicolo
di allori finti e gesti


tu di allarmi e rossori
tu di debole cervello
ladro di parole cieche
uomo da dimenticare


dichiara che il canto vero
è oltre il tuo sonno fondo
e i vertici bianchi del mondo
per altre pupille avvenire.


Scrivi che i veri uomini amici
parlano oltre i tuoi giorni che presto
saranno disfatti. E già li attendi. E questo
solo ancora è il tuo onore.


E voi parole mio odio e ribrezzo,
se non vi so liberare
tra le mie mani ancora
non vi spezzate.


FRANCO FORTINI

UN GIOVANE GRAMSCI SURREALE E FUTURISTA...

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Antonio Gramsci, studente universitario a Torino

La tessera della libertà (1917)

Antonio Gramsci

 
La tessera per il pane non basta - sostiene il «Corriere della Sera» - è necessario introdurre anche la tessera della libertà. È geniale, non è vero? Tanto geniale che ci rendiamo subito solidali con la proposta, rendendola subito concreta.
La tessera potrebbe consistere in una legge che affermasse: Un cittadino italiano che venga arrestato, non può per più di dieci giorni essere tenuto all’oscuro sulle cause del suo arresto, ma deve entro dieci giorni essere condotto dinanzi al suo giudice naturale, e riottenere la sua libertà anche se provvisoria. L’arresto preventivo è mantenuto solo per gli accusati di colpe gravissime - quando gli indizi della colpevolezza siano tali da fare apparire probabilissima la condanna - e non deve essere prolungato per un termine superiore alla misura minima della condanna. Gli agenti, i giudici, i carcerieri, per colpa dei quali un cittadino viene arbitrariamente privato della libertà, sono tenuti a pagare al malcapitato una indennità in solido ciascuno di lire diecimila, da scontarsi in tanti giorni di prigione in caso di insolvibilità, con iscrizione nella fedina penale, rimozione dall’impiego e perdita dei diritti civili per cinque anni. La tessera importa una limitazione, ma deve anche importare una garanzia sicura e concreta del minimo di libertà accordato. La tessera non deve essere solo per i cittadini comuni, deve anche essere per i cittadini tutori. E rigorosa, per gli uni, ma specialmente per gli altri.


Da «La città futura», 10 settembre 1917

 

IL TERZO SPAZIO DI Y. VAROUFAKIS

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Il terzo spazio. Intervista a Yanis Varoufakis

ATENE. Il palazzo in cui oggi abita Yanis Varoufakis è il classico condominio anni Settanta di Atene. Citofoni sbrindellati su una strada poco lontana dal centro. Luci fioche per le scale. Dietro la porta d’ingresso, un bel salone zeppo di libri e un balconcino sulla via nel traffico. Niente a che vedere con quel che di lui hanno polemicamente raccontato.
Del resto, ora l’uomo odiato dai tecnocrati d’Europa in Grecia passa solo poco del suo tempo. Insieme, fra gli altri, a Ken Loach e Noam Chomsky, ha appena lanciato il primo tentativo di costruire un movimento transnazionale che possa calamitare forze per arrivare alle prossime elezioni europee.
Del programma di riforme da attuare già oggi, senza trasformare i trattati europei, si può leggere ogni dettaglio nel libro che l’ex Ministro delle Finanze greco ha appena scritto assieme a Lorenzo Marsili, cofondatore di DiEM25, Democracy in Europe Movement 2025. Si chiama Il terzo spazio. Oltre l’establishment e populismo (Laterza) e quel che innanzitutto colpisce il lettore è l’assoluto primato assegnato alla politica sull’economia.
“Ma perché la colpisce?” domanda lui “Guardi, qualsiasi tentativo di separare economia e politica produce sempre pessima economia e politica di estrema destra. Il fatto è che in Europa la crisi è politica. Tecnicamente gli interventi economici sarebbero semplici. Io ho visto come funziona l’Eurogruppo. Crede che si trattino mai i problemi economici? Il problema lì è la mancanza di coordinamento delle decisioni politiche. È il fallimento della politica. Incapace di definire poi chiare risposte economiche.”
Avete lanciato un movimento in grado di candidarsi.
“DiEM25 esiste da oltre un anno. Sono migliaia i membri da tutta Europa. Quel che lanciamo è un’agenda economica per quello che abbiamo chiamato il New Deal europeo. Chiamiamo a raccolta ogni partito politico, ogni movimento, ogni sindacato, chiunque voglia collaborare con noi per portare questa politica alle elezioni del Parlamento europeo nel 2019”.
Leggendo il vostro libro si ha l’impressione che questo passo sia il risultato dell’enorme delusione della sua esperienza come ministro.
“Subito dopo le mie dimissioni, furono innumerevoli le pressioni perché contribuissi a un nuovo partito politico in Grecia. Ma come avrei potuto? Avevamo portato milioni di persone in strada e nella notte del referendum le tradimmo. Cambiammo il No in Sì. Per questo mi dimisi. Ma non potevo certo tornare indietro a dire: tranquilli, ha sbagliato Tsipras, fondiamo un partito e riproviamoci. Un mese dopo, però, parlavo a un meeting in un piccolo centro francese e vennero migliaia di persone. Mi sono detto: non sono qui per me, sono qui per se stessi, perché hanno capito che quel che è accaduto in Grecia potrà capitare anche a loro. Lo spirito della Primavera Greca non era affatto morto, insomma”.
Voi dite più Europa e più attenzione alle realtà locali. Non è una contraddizione?
“Per nulla. Siamo stati portati a pensare che o c’è più Europa e poco potere a livello regionale o il contrario. Ma non è affatto vero. Ci pensi: cosa importa ai singoli cittadini dell’Europa? Quasi nulla. Quel che vivono sono le loro realtà. Ossia il dramma della forzata sotto occupazione e della forzata migrazione. Ebbene, chi risolve questi problemi? Le piccole municipalità in cui si vive? No. C’è bisogno di investimenti di grande portata. Qualcosa che è l’Europa a dover stabilire. Il problema è che oggi c’è poca Europa e poco potere a livello nazionale. Con più Europa avremo anche più libertà e democrazia a livello locale”.
Un’idea che le vale molte critiche a sinistra.
“La tradizione delle divisioni interne a sinistra è lunghissima e vorrei restarne fuori. La mia del resto è una risposta pragmatica. Le critiche che ricevo sono queste: l’Unione Europea è un progetto neoliberista contro i lavoratori che deve essere distrutta per tornare allo Stato nazione in cui la sinistra possa riappropriarsi del potere politico. Sono d’accordo con le premesse. L’Unione Europea è antidemocratica e neoliberista ma qui mi fermo e prendo un’altra strada. Se la distruggessimo si finirebbe come negli anni Trenta. Una crisi che rinforzerebbe le peggiori forze politiche, la xenofobia e il fascismo. Quel che evitò Roosevelt con il suo New Deal nel 1933. Parliamo di un amico di capitalisti convinto che il capitalismo si stesse suicidando. Usò lo Stato per prendersi cura dei deboli, investendo sul lavoro. Risultato? Niente fascismo negli Stati Uniti. La politica del LEXIT (ossia il Left Wing Exit) beneficerebbe soltanto Beppe Grillo, Marine Le Pen, Die Alternative für Deutschland e così via. Ma pensi al Brexit. Mi dicevano: porterà alla divisione dei conservatori e della classe dominante. Cosa è successo invece? Il contrario. I conservatori sono più uniti che mai e la sinistra ha perso”.
Scrivete che l’elezione di Trump ha mostrato che è possibile cambiare. Non si finirà col populismo a sinistra?
“No. Una cosa è essere popolari. Un’altra essere populisti. I populisti fanno appello ai peggiori istinti di un popolo sofferente. Per rivolgerglieli contro. Pensi al nazismo negli anni Trenta. Parlavano a gente che aveva perso soldi e lavoro suscitando l’odio antisemita. In realtà li misero contro se stessi. Quel che dico di Trump è altro. Ha provato che è possibile andare contro l’intero sistema e vincere. Del resto lo avevamo già provato nel 2015 qui in Grecia. Nessun populismo nel nostro programma elettorale. Se lo ricorda?  Due erano i punti: assicuravamo aiuti a chi guadagnava meno di 700 euro al mese e dicevamo no alla Troika. Bene, non siamo riusciti e mi sono dimesso. Ma resta il fatto che vincemmo due volte sulla base di un programma umanitario e non populista e contro tutte, dico tutte, le tv. Si può fare, dunque. Facciamolo ancora”.
C’è una cosa che non le viene perdonata: certi suoi compensi per apparizioni televisive.
“Sono contento che me ne chieda conto. Ma lei perché lo ha saputo? Sa dirmelo? Crede che i miei compensi siano stati svelati da un’inchiesta giornalistica? Per nulla. Sono stato io a mettere sul mio sito web tutti i compensi di lezioni, conferenze, tv. Sia dove non ho preso un euro sia dove ne ho presi 23.000 come alla vostra RAI. Dov’è lo scandalo? Ero a Parigi in quei giorni a lavorare per DiEM25. Mi volevano in RAI a Milano a tutti i costi. Mi offrirono aereo e compenso. Ho accettato, i soldi sono entrati nelle casse di DiEM25 e l’ho subito reso pubblico. Ma cosa preferivate? Che non dicessi nulla? Oppure che rifiutassi? Per accettare invece la donazione al movimento da parte di qualche oscuro banchiere?”
Lei quando era Ministro affrontò gli anarchici per strada a Exarchia (il quartiere del Politecnico di Atene) e seppe parlarci ma non riuscì in nessun modo con i suoi colleghi ministri nell’Eurogruppo. Perché dovrebbe riuscire ora?
“All’Eurogruppo mi guardavano come se stessi cantando l’inno nazionale svedese. Ma allora rappresentavo la Grecia. Se in futuro uno di noi parlerà in quella sede lo farà non in nome di un Paese, ma di tutta Europa, delle migliaia di sostenitori tedeschi per esempio che già ora sono 30.000. Dovranno ascoltarci. Rappresenteremo anche i loro potenziali elettori”.
Dunque tornerà a parlare anche in Grecia. Lei ha smesso dal luglio 2015 di entrare nel dibattito politico greco. Non ha mai voluto parlare di Tsipras.
“Tornerò a parlare anche in Grecia, certo. Con civiltà. Spero che non ci si tratterà come mostri. A calcio i bravi calciatori colpiscono il pallone e non la gamba. Non si evita di entrare in campo perché esistono anche cattivi giocatori”.

 Intervista pubblicata giovedì, 13 aprile 2017, in http://www.minimaetmoralia.it/, che ringraziamo.
Pezzo già uscito sul Venerdì di Repubblica.

C. PAVESE, Anche tu sei l'amore

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Anche tu sei l’amore.
Sei di sangue e di terra
come gli altri. Cammini
come chi non si stacca
dalla porta di casa.
Guardi come chi attende
e non vede. Sei terra
che dolora e che tace.
Hai sussulti e stanchezze,
hai parole – cammini
in attesa. L’amore
è il tuo sangue – non altro.


Cesare Pavese

PERCHE' IL POPOLO PREFERI' BARABBA A CRISTO? 1 e 2

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Nel racconto della Passione di Cristo viene spesso omesso il fatto che furono i "sommi sacerdoti" del tempo a convincere il popolo a preferire  Barabba a Gesù. Evidentemente Barabba era considerato meno pericoloso, meno sovversivo. 
fv

Riprendo di seguito alcuni commenti pervenuti sul mio diario fb:



Anna Spica: Condivido!

Cinzia Miceli: Infatti non è chi segue la legge che è un cristiano migliore, ma chi segue la legge del cuore

Bernardo Puleio: L'arresto di Cristo fu un affare di religione o un affare politico?

Marina Liora Cantele: "Il popolo"é già un'espressione incorretta. Gli storici hanno stabilito che nella corte della casa di Pilato ci stavano come massimo 200 persone. Evidentemente non é difficile radunare 200 facinorosi, basti pensare agli stadi, alle corride: di gentaglia assetata di sangue ce n'é sempre stata in giro.Per chi non conosce l'Ebraico, é difficile comunque cogliere la profondità del significato simbolico del fatto che Gesù abbia dato la vita al posto di Barabba: il nome "Bar-abbas" significa "Figlio del Padre". Gesù, il Figlio dell'uomo, libera il "Figlio del Padre", ovvero restaura con il suo sacrificio la natura originale dell'Umanità, creata ad Immagine di Dio e chiamata ad andare verso la "somiglianza", quella che Gregorio Palama chiama la "divinizzazione".

Maria Ribaudo: I sacerdoti volevano la sua crocifissione e il popolo scelse Barabba , e Gesù accetto tutto

Marina Liora Cantele: Gesù SCELSE tutto. E per cortesia piantiamola con questa storia del "popolo". Duecento persone non rappresentano un popolo

Maria Ribaudo: Gerusalemme credo che si può considerare un popolo

Marina Liora Cantele: Purtroppo duecento persone sono bastate a far nascere l'epiteto di "popolo deicida" rivolto agli Ebrei...

Maria Ribaudo: E poi duecento o trecento o mille le cose dovevano andare così e non sarebbe andata mai diversamente

Marina Liora Cantele tra l'altro....

Claudio Paterna:  Bar-Abbas,come ha detto lo stesso Ratzinger,non era un bandito,ma un guerrigliero che scelse la lotta armata contro i romani.Bar-Abbas significa figlio del padre, e gli ebrei,purtroppo,compresi i sacerdoti,scelsero uno che predicava violenza anziche' un portatore di pace come Gesù!
Siviana Libbra Infatti ...

Francesco Virga : A ciascuno il suo Barabba...

Maria Silvia Caffari : Il popolo... La maggioranza... Hanno deciso quello che forse fuori del coro non avrebbero deciso... Manovrati? Capita ai popoli... Se avessero avuto votazione on linea, avrebbero votato, manovrati? Possibile?

Francesco Virga:  Ecco il commento che aspettavo di leggere! Questo e' esattamente il mio pensiero. Grazie Silvia!

Giorgio Di Costanzo: La votazione on line dell'epoca, risultò essere favorevole a Barabba...

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