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PEPPINO IMPASTATO, Anche se amore non ne avremo, dobbiamo ribellarci!

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Nubi di fiato rappreso
s'addensano sugli occhi
in uno stanco scorrere
di ombre e di ricordi:
una festa,
un frusciare di gonne,
uno sguardo,
due occhi di rugiada,
un sorriso,
un nome di donna:
Amore
Non
Ne
Avremo.



"Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi. Prima di abituarci alle loro facce. Prima di non accorgerci più di niente".

Peppino Impastato

FINO AL 20 GIUGNO L'ARTE DI AI WEIWEI AI CANTIERI CULTURALI DELLA ZISA DI PALERMO

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(ANSA) - PALERMO, 24 APR - Una grande installazione di 1300 mq dell'artista cinese Ai Weiwei dedicata alle rotte migranti e pensata per Palermo, città che dell'accoglienza ha fatto il suo manifesto. Si potrà visitare fino al 20 giugno "Odyssey", percorso disteso nello spazio ZAC (Zisa arte contemporanea) che raccoglie le immagini della ricerca sui rifugiati e sui campi profughi nel mondo avviata nel 2015 da Ai Weiwei, star della scena dell'arte contemporanea, celebre per la sua opposizione al governo cinese e attivo difensore delle libertà dell'uomo.
    "Odyssey"è il risultato del lungo viaggio condotto da Ai Weiwei e dal suo staff attraverso le storie di coloro che per disperazione o per conquista hanno navigato i mari del mondo per trovare approdi di salvezza. Il visitatore può camminare su di esse, seguendo tracce e storie dell'emigrazione. Le figure s'intrecciano in lungo, bellissimo racconto circolare con illustrazioni tratte dai social media e dai materiali raccolti nei diversi campi profughi. Sono immagini rivisitate secondo stilemi che si ispirano alle antiche civiltà del Mediterraneo. I contenuti rimandano invece all'immaginario mediatico del XXI secolo, rappresentato da scene di militarizzazione, migrazione, fuga e distruzione.
    Ai Weiwei lavora secondo la tradizione artigianale antica in aperta critica alla rivoluzione culturale cinese che ha distrutto il passato. Per lui l'arte è impegno politico e resistenza. Ha sposato la causa dei migranti con il suo linguaggio preciso e coerente, che unisce l'essenzialità concettuale alla tradizione del suo paese e, in questo caso, alla classicità mediterranea.
    Ai Weiwei è figlio del celebre poeta Ai Qing, vittima della rivoluzione culturale maoista. "Quando sono nato", ha ricordato, "mio padre è stato denunciato come nemico del partito e del popolo. Siamo stati mandati in un campo di lavoro in una regione remota lontano da casa ... È un'esperienza terribile essere considerato straniero nel tuo paese, nemico della tua gente e delle cose che più mio padre amava" (Laundromat, Jeffrey Deitch Gallery, New York, 2016). "Odyssey"è, dunque, un progetto di ricerca che ha radici nella sua stessa esperienza di rifugiato.
    L'interesse per questo tema accompagna gran parte del suo lavoro. Nel 2011 Ai Weiwei viene posto agli arresti domiciliari per le critiche severe all'establishment cinese. Nel 2015, quando gli viene restituito il passaporto e la possibilità di viaggiare fuori dalla Cina, inizia a visitare i campi profughi di diversi paesi, tra cui Grecia, Turchia, Libano, Giordania, Israele, Gaza, Kenya, Afghanistan, Iraq, Pakistan, Bangladesh, Messico.
    L'opera è approdata a Palermo nell'ambito di "Diritti in Cantiere", in occasione dei lavori della XXXII Assemblea generale di Amnesty International Italia.
    L'organizzazione della mostra è di ruber.contemporanea, in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Palermo | dICODA Dipartimento di Comunicazione e didattica dell'Arte.
    (ANSA).
   
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

I SOLILOQUI DI S. AGOSTINO

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Benozzo Gozzoli, Donna e fanciullino (1463)


Fabio Gasti

Discorso con se stesso in campagna

Nella vita di sant’Agostino c’è un momento cruciale che impegna la sua riflessione sia dal punto di vista esistenziale sia da quello speculativo e soprattutto letterario, la svolta che conduce un giovane retore di successo, proveniente dalla grande scuola cartaginese e apprezzatissimo alla corte imperiale di Milano, a lasciare la professione di maestro, la visibilità e il successo anche economico per dedicarsi esclusivamente a Dio e al ripiegamento interiore. Ciò significava assicurare uno scopo alla ricerca esistenziale e filosofica che lo aveva impegnato negli anni precedenti, un percorso che negli anni Settanta è stato percepito come un’evoluzione tutta emotiva e interiore, da descrivere alla luce di contemporanee esperienze di quello che chiamiamo esistenzialismo novecentesco, ma che oggi piuttosto vediamo fortemente radicato sulla letteratura: Agostino infatti, nel raccontarci con stile personalissimo il proprio cammino, accoglie suggestioni dalla produzione pagana e cristiana che conosce bene e che nello stesso tempo sa innovare, finendo per costituire a sua volta un punto di riferimento, un modello per le generazioni future di scrittori e di cristiani.

Alla fine dell’estate del 386 si colloca la cosiddetta conversione, il culmine di un percorso di riflessione narrato con indimenticabile potenza e indubbia capacità di rappresentazione nel libro VIII delle Confessioni. Qui lo scrittore fra l’altro inscena con indimenticabile efficacia il partecipato conflitto all’interno della propria coscienza fra tensione a Dio – che gli studi filosofici e segnatamente il neoplatonismo avvicinano sempre più – e attrattive terrene, icasticamente rappresentate dalla ricerca di successo professionale e dall’amore per le donne: alcune pagine sono certamente indimenticabili e hanno alimentato nei secoli l’immagine di un Agostino alla ricerca della verità in interiore homine, che pur con molti correttivi rappresenta comunque la cifra più duratura del pensiero agostiniano.

Classicismo e spiritualità

Ebbene, dopo la famosa scena del giardino milanese, in cui Agostino «si converte» (etimologicamente, «imbocca una strada diversa»), prende cioè coscienza della svolta ormai inevitabile, e in attesa del battesimo, ricevuto la vigilia di Pasqua dell’anno successivo dalle mani di sant’Ambrogio, la vita del futuro vescovo di Ippona si sposta per qualche tempo in campagna, nella villa di un facoltoso amico a Cassiciacum, una località di identificazione non sicura, capace di riproporre l’idea antica di otium, di riflessione e serena discussione con amici su argomenti filosofici. In questo contesto, denso di echi classicistici come di spiritualità «moderna», matura la composizione delle prime quattro opere dell’ex retore, i cosiddetti dialoghi – poco importa se reali o immaginari – fra cui appunto i Soliloqui, che ora rileggiamo nell’edizione curata da Manlio Simonetti per l’elegante collana della Fondazione Lorenzo Valla (Mondadori, pp. 216, € 35,00).

L’opera, insieme alle Confessioni, è il testo agostiniano più espressivo di quello che chiamerei l’«agostinismo assoluto», cioè la tendenza allo scandaglio interiore, l’attenzione ai movimenti della coscienza, la cura nel rappresentare le pulsioni dell’animo, che manifesta senz’altro il carattere più intimo della riflessione di Agostino, pur senza esaurirla, ed è anche quello percepito come il più vicino alla sensibilità dell’uomo moderno nelle sue incertezze e nella sua ricerca di risposte definitive. E se le Confessioni contengono un potente affresco della vita dell’autore, dagli eventi anche marginali della sua esistenza fino alle certezze rinvenibili grazie all’esegesi biblica (questo il senso degli ultimi libri dell’opera, apparentemente scollegati dall’autobiografia), i Soliloqui presentano per così dire un approfondimento in senso spirituale e «monografico», dato che il tema del dialogo è la conoscenza di Dio e dell’anima, «vale a dire – annota Simonetti – gli argomenti fondamentali della ricerca filosofica, e non solo di allora» (p. XXIII).

Siamo dunque di fronte a un’opera consapevolmente legata alla tradizione antica, sia in senso filosofico che in senso letterario, e, anche per questo, si tratta di un testo nuovo nel panorama letterario fino ad allora, a partire dalla situazione rappresentata e dal titolo.
Infatti anzitutto la forma riproduce quella classica del dialogo di tipo platonico o aristotelico, già presente a Roma grazie a Cicerone ma originalmente innovata da Agostino, che la trasforma in un ampio e profondo, anche severo, colloquio con se stesso sdoppiato in due «personaggi», appunto Agostino e la Ragione (Ratio). Questo escamotage, squisitamente letterario, «ha permesso ad Agostino di fondere in uno due generi letterari: le riflessioni dell’autore tra sé e sé, del tipo dell’opera di Marco Aurelio, e l’effettivo dialogo a due interlocutori, creando così un nuovo genere letterario, che avrebbe avuto fortuna» (p. XXVII), basti pensare al De consolatione philosophiae di Boezio e soprattutto al Secretum di Petrarca, dove Agostino torna a essere personaggio.

Quindi il titolo – Soliloquia piuttosto che Colloquia –, un neologismo agostiniano di cui lo stesso autore, nelle vesti della Ragione, offre l’interpretazione autentica ad Agostino in 2,7,14: «sono discorsi che facciamo soltanto fra noi e che voglio abbiano per titolo Soliloqui, con nome nuovo e forse poco gradevole ma quanto mai adatto alla dimostrazione dell’argomento». Non dobbiamo stupirci della libertà dello scrittore di manipolare il lessico: lo stesso titolo di Confessiones (che l’italiano Confessioni non rende affatto) rappresenta d’altra parte una potente innovazione linguistica, che unisce la solennità del tema del verbo fateor («affermare») al prefisso cum, che indica condivisione (con Dio e con i fratelli) e partecipazione (di tutte le facoltà, spirituali e corporali).


Con violenza sulla lingua

Il retore convertito prende continuamente le distanze dallo scrupolo linguistico fine a se stesso ma è sempre attento alla cura stilistica e agisce anche con violenza sulla lingua avendo in mente l’efficacia della comunicazione, come dichiara in un celebre passo delle Ennarrationes in Psalmos (138,20), che ha l’immediatezza di uno slogan: «meglio essere rimproverati dai grammatici che non essere capiti dalla gente» (melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi). Eppure i Soliloqui non sono un’opera per il grande pubblico, e va detto che Simonetti, sia nell’introduzione che nelle note di commento, insiste su questo aspetto, che costituisce il modo più corretto di interpretare la fine letterarietà dell’opera, e ciò avviene particolarmente attraverso due osservazioni senza dubbio basilari.

Anzitutto infatti ci aiuta a valorizzare in tal senso l’articolata preghiera inziale con cui Agostino chiede a Dio sostegno e soccorso continuo, un pezzo «di evidente fortissimo impegno stilistico, il cui effetto viene moltiplicato dalle inusitate dimensioni della performance retorica» (p. XXVI) e che, nonostante il contenuto dogmatico in senso trinitario, lo scrittore sa connotare secondo stilemi classici, prima che cristiani. E poi identifica il destinatario dell’opera nei lettori colti e capaci di interpretare correttamente stile e allusioni: in questi infatti vanno riconosciuti i misteriosi «pochi concittadini» cui la Ragione invita Agostino a rivolgersi (1,1,1) e che non dobbiamo ricercare negli abitanti di Tagaste, suo paese natale, o di Cartagine, o di Milano, e nemmeno nei cristiani, suoi compagni di fede, bensì in «quanti, sia cristiani sia pagani, sono filosoficamente [e, aggiungo, anche letterariamente] in sintonia con lui e quindi in grado di apprezzarne i Soliloqui» (p. XXVIII).

Rileggendo dunque questo dialogo con se stesso ma paradossalmente a due, troviamo un Agostino maturo cristiano ma anche maturo letterato, che dimostra come la grande letteratura cristiana, anche quando apparentemente si mostra basata sull’effusione del sentimento e sulla professione di fede, in realtà è radicata in una profonda institutio classica degli autori. Si tratta, com’è evidente grazie a studi come il presente, di uno dei nodi critici fondamentali per apprezzare in tutto il suo valore storico-culturale la produzione dei Padri della Chiesa.
  
Il Manifesto/Alias – 7 maggio 2017

L' INDIA DEGLI ARCHETIPI

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Simbolismo indiano. Il loto o l’albero che germoglia, cresce fiorisce e fruttifica è l’immagine scelta da Frederik D. Kan Bosch per rappresentare il cosmo: «Il germe d’oro», da Adelphi.

Stefano Beggiora

L’India degli archetipi calati in forme di arte viva

Distante dai canoni artistici occidentali, l’estetica indiana appare stravagante ai nostri occhi quando non decisamente astrusa, grazie al suo arroccamento in un intrinseco simbolismo, apparentemente indecifrabile: se è infatti storicamente vero che la componente religiosa ha avuto un ruolo fondamentale in entrambi i mondi, altrettanto vero è che nella tradizione indiana la ricerca spirituale della felicità funziona da movente di ogni realizzazione artistica.

Molteplici infatti sono i miti che raccontano, per fare un esempio, l’origine del teatro e della danza, una sorta di vero e proprio «dono degli dei», che quasi in un gioco di specchi racchiude in sé non solo i canoni di ogni altra forma d’arte figurativa e architettonica, ma che è in grado di indurre nell’artista e nel suo pubblico una tensione emotiva finalizzata alla realizzazione spirituale: questa l’idea che nella classicità indiana si traduce in una risposta a criteri iconografici ben precisi, in cui non trova spazio – almeno fino a un certo punto – l’individualità, la personalità di un singolo artista, la cui fama sarà ricordata nei secoli, come avviene in Occidente.

Attraverso colori, situazioni, posture, gestualità, rappresentazioni di piante, animali, creature fantastiche, motivi architettonici, l’artista risponde a un linguaggio simbolico di proporzioni e regole riportate in molti shastra, i trattati della scienza sacra indiana. Dunque, l’arte diventa un mezzo per raggiungere la trascendenza, la ricerca del sé, la sperimentazione di quell’Assoluto che nell’induismo è chiamato Moksha, e che i Buddhisti chiamano Nirvana.

Da questi presupposti parte Frederik David Kan Bosch per il suo Il germe d’oro Un’introduzione al simbolismo indiano (Adelphi, pp. 320,  euro 40,00): citando l’orientalista francese Paul Mus, l’archeologo e indologo olandese sostiene che «le opere della nostra produzione artistica ne sono lo scopo e si pongono sullo stesso piano dell’artista. Tutt’altra cosa è l’oggetto dell’arte asiatica, la quale non è un’arte se non nel senso in cui la magia è un’arte. Le sue realizzazioni tangibili – simboli, monumenti – non sono che il punto d’appoggio per creare, evocare, su un piano diverso, una sorta di archetipo trascendente, nel quale risiede il suo scopo vero e proprio».

Secondo Bosch, nell’opera d’arte visibile si riflette dunque, in modo misterioso, l’archetipo intellettuale stesso, ma evidentemente non nella sua realtà informale. L’artista per riprodurne la verità, cala l’archetipo dapprima in una forma sottile intessendone un’immagine mentale e infine plasmandone una forma corporea visibile anche agli altri esseri umani. Così, l’opera diventa qualcosa di vivente che sarà in grado di trasmettere a chiunque la contempli una forma tangibile in grado di piacere, spaventare, rasserenare, divertire – per cui i sensi sono indotti a provare attrazione o repulsione – ma anche un simbolismo universale e profondo.
In un certo senso, Bosch eredita la lezione di Ananda Ketish Coomaraswamy, espressa per esempio in Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, una pietra miliare dello studio del simbolismo indiano (anch’esso pubblicato da Adelphi nella collana Il ramo d’oro) dove vengono evidenziati alcuni punti di unità fra pensiero classico d’Oriente e d’Occidente, che nelle loro diverse espressioni intendono comunque l’estetica e la metafisica come entità non separate. È infatti accorata la dedica che Bosh scrive nei confronti del più grande storico dell’arte indiana, considerato come un maestro, scomparso proprio durante la prima stesura olandese dell’opera del 1948, dedica che resta nell’edizione inglese ampliata e rivista del 1961 di cui la attuale versione italiana è la traduzione.

Nei primi tre capitoli, che costituiscono il nucleo fondante della visione di Bosch, traendo spunto dall’iconografia indiana, egli fa convergere la molteplicità delle forme simboliche in una forma centrale, la Forma Base, che racchiude in sé cosmogonia e palingenesi dell’universo, qui rappresentata da un organismo vivente, il loto o l’albero, che germoglia, cresce, fiorisce e fruttifica. Per Bosch questa immagine rappresenta il modo d’intendere microcosmo e macrocosmo in India, ma soprattutto in quanto tale diventa la chiave di tutti i tipi di raffigurazione che da essa derivano.
Già nel primo capitolo l’autore tesse una fitta trama di relazioni e corrispondenze fra rappresentazioni animali e vegetali in templi e stupa (in particolare la chimera ofidica del makara e il fiore di loto, entrambi legati all’elemento acqueo).

Il secondo capitolo è invece dedicato all’hiranyagarbha, ovvero il germe d’oro del titolo, da cui secondo l’antica filosofia dei Veda la manifestazione universale sarebbe emanata procedendo da una dualità primordiale costituita dall’elemento magmatico e da quello acqueo (Agni e Soma). Ma è nel terzo capitolo che si concreta, sviluppandosi, la forma di base della rappresentazione visiva dell’albero cosmico. Nella sua struttura completa è doppio, costituito da due piante che s’incontrano contrapposte lungo un asse verticale: in basso il loto, pianta acquatica, estende dal suo stelo centrale una profusione di vegetazione; in alto, un albero celeste, dalla corolla ardente, prende la forma del ficus.
Dalla nota simbologia dei due alberi, o dell’albero cosmico, o ancora dell’axis mundi, si dipanano le dimensioni che compongono il cosmo in tutta la loro articolata molteplicità. È questa complessa griglia di elementi a costituire l’ordito della seconda sezione del libro, che con incedere quasi analitico propone uno spaccato di forme e motivi dell’arte figurativa indiana, a loro volta simboli sintetici di quella Forma, o suoi parziali attributi.

Dunque, l’opera d’arte in India consiste di una potenza emotiva, che da essa si irradia così da toccare la sensibilità del pubblico: in sanscrito viene definita rasa, termine che significa sapore, gusto, ma anche succo, linfa, essenza vitale (Soma). Non c’è dubbio che la scelta dell’albero come tema chiave sia stata da parte di Bosch particolarmente felice, non solo dal punto di vista della rappresentazione visiva, ma proprio perché entità viva. Sono modelli, questi, che si sono imposti del resto dalla cultura indiana a tutto il Sud-Asia in primis, e in Oriente in generale. Non a caso, Bosch comincia la sua indagine con l’arte di Giava e dell’Indonesia – la cosiddetta India al di fuori dell’India – con cui il Subcontinente aveva rapporti culturali fin dall’antichità.
La materia del libro assai densa, l’argomentare ricco di rimandi a testi diversi appartenenti a epoche differenti giustificano forse il suo punto debole (come del resto di molti studi sul simbolismo): il pericolo di una eccessiva generalizzazione, e di quella suggestione che si genera dalle molte possibili similitudini e analogie interculturali. E questa criticità è aggravata dall’assenza di una bibliografia finale, laddove traduzioni e citazioni in testo, soprattutto in riferimento alla letteratura sanscrita, mancano di riferimenti precisi, rimandi a edizioni critiche o sono di seconda mano.

L’intrinseca fragilità dell’impianto scientifico è a stento mitigata dal fatto che Bosch ammette di volersi limitare, pur tramite dotte argomentazioni, a un prolegomenon: una introduzione al tema. È una attitudine che molti hanno considerato imprudente, ma solo dall’osare nascono intuizioni geniali.


Il Manifesto/Alias – 7 maggio 2017

L' AUTOBIOGRAFIA DI DIEGO RIVERA

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Frida Kahlo e Diego Rivera

Nella sua autobiografia, il pittore messicano narra, più o meno gonfiando, il cubismo e i murales, il comunismo e Mussolini «amico di vecchia data», le donne. Il libro fa toccare con mano le ragioni per cui le autobiografie non dovrebbero mai essere scritte e lette: tutte, infatti,  più o meno, falsificano la realtà. fv



Paolo Martore
Colori e politica dello smargiasso
Oltre a essere il più grave incidente nella vita sentimentale di Frida Kahlo, Diego Rivera è stato con José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros l’anima del muralismo messicano, ovvero di quella corrente artistica che nei turbolenti anni di formazione del Messico moderno ha privilegiato tematiche civiche e politiche realizzando pitture murali di grandi dimensioni, spesso in spazi pubblici.

A sessant’anni dalla scomparsa di Rivera e sulla scia della consacrazione di Frida a icona pop, giunge finalmente un’edizione italiana della sua autobiografia, intitolata La mia arte, la mia vita (Johan & Levi, pp. 220, euro 23,00, traduzione di Emilia Sala). Pubblicato postumo nel 1960 dietro approvazione finale della vedova, il libro è strutturato come una serie cronologicamente organizzata di aneddoti, raccolti dalla giornalista statunitense Gladys March nel corso di varie conversazioni con l’artista e con i suoi familiari e amici tra il 1944 e il 1957. Trattandosi di un’autobiografia è inutile aspettarsi imparzialità, ovviamente; ma qui si oltrepassano i limiti impliciti della narrazione soggettiva e fin dalle prime pagine si assiste alle mirabolanti peripezie di un pittore, corpulento e affetto da bulimia erotica, che nella scatola dei colori trasporta le munizioni per i partigiani.
La Vergine di Guanajuato

Tre gli argomenti principali: arte, politica e donne, non necessariamente in quest’ordine. Poco spazio all’introspezione, Rivera è prodigo di ricordi sugli amori (su tutti, quello per Frida), didascalico nell’illustrare le sue opere e categorico nelle opinioni politiche. Smargiasso affabulatore, rievoca i momenti importanti della propria esistenza cucendosi addosso i panni del predestinato, dell’eroe votato alla liberazione del popolo oppresso. Quando ha sei anni, una zia commette l’imprudenza di trascinarlo subdolamente nella chiesa locale a pregare la Vergine di Guanajuato; lui indignato arringa la folla dei fedeli per scuoterli dalla loro ottusa riverenza. «Ma dite un po’, questo timore fa forse in modo che i mendicanti, la povera gente, o i minatori disoccupati non entrino più di soppiatto nelle case dei ricchi, nelle drogherie, nei negozi di abbigliamento dei gabachos o nelle haciendas dei gringos per prendersi un po’ delle cose di cui hanno bisogno?».

Attivista in un’epoca in cui sembra impossibile non impugnare un’arma, ordisce un complotto per eliminare il dittatore Díaz ma poi opta per la ricerca di altri e più fini strumenti di lotta. «Magari, in futuro, dopo aver trovato la mia identità di uomo e di artista, sarei ritornato nella mia meravigliosa terra per insegnare alla gente ciò che doveva sapere». Purtroppo non sempre risulta facile inquadrare gli eventi e i personaggi del racconto sull’intricato sfondo storico messicano, che dagli anni della dittatura di Porfirio Díaz e della caotica Rivoluzione, dove il rivoluzionario di ieri diventa il tiranno di domani, si snoda attraverso i cruenti conflitti anticlericali dei cristeros, il governo di Lázaro Cárdenas e l’assassinio di Trockij, fino al posizionamento del Messico nello scacchiere della contesa tra USA e URSS all’indomani della Seconda guerra mondiale.
Quanto all’arte, pagato il suo tributo a José Guadalupe Posada, maestro della tradizione popolare messicana, all’arte preispanica e a Cézanne, Rivera approccia l’avanguardia europea con l’unica intenzione di «assimilare bene le diverse tendenze della pittura moderna per eliminarle dal mio linguaggio artistico»; in definitiva si reputa il miglior artista del suo tempo assieme a Picasso e Matisse.

In Europa Rivera trascorre diversi anni, a più riprese; la prima volta va per studiare e soggiorna in Spagna e a Parigi, dove partecipa a importanti rassegne come il Salon d’Automne e abbraccia il Cubismo, con successo di critica e mercato. Tuttavia, dopo la Prima guerra mondiale rigetta l’avanguardia in quanto sterile sofisticazione borghese e predica un ritorno all’ordine in chiave di realismo sociale; è la svolta. «La società del futuro sarebbe stata una società di massa e questo fatto presentava problematiche completamente nuove, il proletariato non era dotato di senso estetico, o meglio, il suo gusto si era sviluppato sul peggiore nutrimento estetico – le briciole e gli avanzi caduti dalle tavole dei borghesi. Sarebbe stata quindi necessaria un’arte tutta nuova, che non facesse più leva sulla sensibilità coloristica e formale dello spettatore: a suscitare emozioni dovevano essere i soggetti. La nuova arte, oltretutto, non avrebbe più trovato la sua collocazione nei musei e nelle gallerie ma in luoghi accessibili, frequentati dalla gente nella vita di ogni giorno: uffici postali, scuole, teatri, stazioni ferroviarie e edifici pubblici. E così, seguendo un percorso logico e teorico, arrivai alla pittura murale».
Italia fra sputi e proiettili

Tra il 1920 e il 1921 visita anche l’Italia, senza entusiasmo però: «Ero appena arrivato e già volevo ripartire. Non sopportavo, fra le altre cose, l’abitudine degli italiani di sputare ovunque, per strada, sulla nave, negli alberghi, al ristorante. Sputavano tutti, anche le signore più incantevoli e raffinate». A ogni modo, in Italia si ferma diciassette mesi e deve essere stata un’esperienza angosciante, considerato che gli italiani, quando evidentemente non troppo impegnati a sputare, si sparavano l’un l’altro: «Mi capitava spesso di sentire i proiettili che mi fischiavano nelle orecchie mentre disegnavo». 
Nel 1936 riceve tramite Margherita Sarfatti la proposta di Mussolini, «amico di vecchia data degli anni parigini», di sfuggire in Italia alle tensioni della politica messicana; declina gentilmente con una profezia: «Ringraziate Mussolini per l’invito, ma ditegli che sono abbastanza certo che, ancor prima di me, sarà lui ad avere un terribile bisogno di un luogo sicuro in cui rifugiarsi». Dopo la Seconda guerra mondiale, forse ancora disgustato dalla mania dello sputacchio, rifiuta anche l’invito del governo De Gasperi.
    Diego Rivera, Unità Panamericana (1940). Particolare  
La premonizione è in effetti un’altra dote che Rivera non ha pudore di ascriversi. Nel 1928 assiste a un discorso di Hitler in piazza a Berlino e, nonostante lo scetticismo dei suoi amici comunisti tedeschi, vede subito con chiarezza il triste futuro che attende la Germania, perciò si offre volontario per liquidare seduta stante il problema: «Lasciate almeno che gli spari. Me ne assumerò la responsabilità. Posso ancora farcela a prenderlo». Questa straordinaria perspicacia è apparentemente anche l’origine di tutte le sue contrarietà con il Partito comunista, da cui viene espulso nel 1929 per aver dissentito con Stalin quando questi pronosticava l’ormai prossima e spontanea conversione dei paesi capitalisti al comunismo. Il travagliato rapporto con il Partito, alla cui affiliazione Rivera ha sempre tenuto molto, è proprio il punto in cui l’autobiografia sembra più reticente.

Comunque l’orientamento ideologico non impedisce a Rivera di esaltare la potenza industriale statunitense nei murales del Detroit Institute of Arts, o di gongolare per l’occasione di una personale al MoMA, né tantomeno di accettare commesse da Nelson Rockefeller – d’altronde, bisogna anche tener conto che in origine il libro usciva per un editore newyorchese. E ogni polemica suscitata dalle sue opere diventa per lui conferma della bontà della propria visione rivoluzionaria.

In appendice il volume contiene alcune testimonianze delle tante mogli di Rivera: Angelina Beloff, Lupe Marín, Frida Kahlo ed Emma Hurtado. Nelle parole di Frida la migliore sentenza: «Per Diego la pittura è tutto. Ama il suo lavoro più di ogni altra cosa al mondo. Di conseguenza non può avere una vita normale; non ha il tempo di pensare se ciò che fa è morale, amorale o immorale» .

Il Manifesto/Alias – 7 maggio 2017

 

H. ARENDT E W. BENJAMIN

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Chi fu Walter Benjamin?
A questa domanda solo Hannah Arendt poteva forse rispondere.
In libreria trovate ora "L'angelo della storia", un libro che raccoglie molti testi, lettere e documenti, compresa la prima versione delle tesi "Sul concetto di storia" e la traduzione dal tedesco del saggio di Hannah Arendt "Walter Benjamin". Ma oltre ai documenti e alle numerose lettere, questo è un testo che r
acconta la vita intellettuale di grandissimi del '900 e la caduta drammatica di quel mondo, entra in profondità nella psiche dei protagonisti rivelandone il pensiero, le ambizioni, le preoccupazioni. E così ci avvicina, sicuramente in modo parziale, ma al contempo autentico, a capire meglio le figure di Walter Benjamin e Hannah Arendt.

https://www.giuntina.it/Schulim_Vogelmann_1/Langelo_della_storia_686.html

PER I 50 ANNI DELLA LETTERA A UNA PROFESSORESSA

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Vivalascuola. 

50 anni da “Lettera a una professoressa”

Sono cinquant’anni dalla pubblicazione di Lettera a una professoressa. “Rileggere Lettera a una professoressa significa tornare alle questioni di base, alla funzione ideologica della scuola e a quella di selezionatrice della classe dirigente… Lettera a una professoressa ci insegna la democrazia, l’esatto contrario dell’Italia contemporanea, corporativa, razzista, opportunista e cinica, dove uomini mediocri – dietro ai quali, tuttavia, ci sono precisi gruppi di potere intelligenti – decidono i destini d’intere generazioni…” (Stefano Guglielmin, qui) Segnaliamo una puntata che vivalascuola ha dedicato a don Milani, un incontro a Milano, uno a Venezia, un libro.


Il 12 maggio 2017, alle ore ore 17.00 a Milano, presso IC Teodoro Ciresola, viale Brianza 18 (MM1 Loreto MM2 Caiazzo), spettacolo Dialogo immaginario tra un ragazzo di Barbiana e una professoressa. A cura dell’associazione DireFareDare.
A seguire Ripensare una scuola pubblica di tutti e di tutte. Sarà presente Anna Scavuzzo, vicesindaca e assessora all’istruzione. Organizzano Diana De Marchi, Vita Cosentino, Nicola Iannaccone, Alessio Miceli, Marina Santini. Lettera a una professoressa uscì nel maggio del 1967. Con quel libro lucido e provocatorio, i ragazzi di Barbiana e il loro maestro don Milani, mostravano che la scuola pubblica riproduceva le ingiustizie di classe, che era chiamata invece a sanare..
A cinquant’anni di distanza a scrivere è una professoressa: Scuola. Sembra ieri, è già domani, è il titolo significativo del libro di Vita Cosentino (Moretti & Vitali 2016). Non ha dimenticato quell’istanza di giustizia, anzi la riprende in altri termini, in questo tempo per tanti aspetti così mutato. Ma non per quello che riguarda la domanda di giustizia.

* * *

Il maestrodi Fabrizio Silei, con illustrazioni di Simone Massi (Orecchio acerbo editore)
Un casale padronale toscano, ai piedi del Mugello. Un contadino, cappello in mano e figlio al fianco, chiede al signor Conte, padrone del fondo, di poter finalmente avere la luce in casa. Sventolando una lettera sotto il naso di padre e figlio, quello gli risponde che non da lui dipende, ma dalla società elettrica alla quale ha fatto domanda mesi e mesi prima. “Leggete, leggete se non mi credete” dice loro, ben sapendo che sono analfabeti. Umiliato, testa china, il contadino, il figlio per mano, lascia il casale. Passano i giorni, le settimane, i mesi, della luce nemmeno l’ombra. Oggi il contadino non è sul campo. Sta salendo per un sentiero, figlio riottoso al fianco, su per la montagna. “Ma si può sapere dove andiamo?” “Dal prete matto. Quello che insegna a leggere e a far di conto ai figli dei contadini.” E da quel giorno quel bambino condivide la straordinaria esperienza di Barbiana. Con le parole, impara a pensare. E a giudicare. Quei preti che benedicono le armi e condannano gli obiettori di coscienza, quelle professoresse che bocciano i figli degli ultimi. Sempre accanto a quel prete matto, fino all’ultimo, fino al suo capezzale. Ma nella tristezza e nel buio di quella giornata, uno sprazzo di luce. Finalmente sulla tavola di casa brilla una lampadina. Quel prete gli ha insegnato anche a far valer i suoi diritti.


M. BETTINI SPIEGA A COSA SERVE STUDIARE IL LATINO

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Il latino e il greco sono materie fondamentali per la formazione dei giovani. Contro le teorie economicistiche che le ritengono inutili perchè non redditizie, Maurizio Bettini ce ne spiega l'importanza in un libriccino affascinante.

Paolo Lago

Bettini e l’alterità del latino al tempo dei ‘Reception studies’

Nel titolo del suo ultimo saggio Maurizio Bettini utilizza l’espressione «servire a»: A che servono i Greci e i Romani? (Einaudi «Vele», pp. 160, € 12,00). Come egli stesso osserva, in essa, assieme al concetto dell’utile che rimanda alla sfera semantica dell’economia, è insita l’immagine dell’essere «servo» (ciò è accaduto quando, soprattutto nei regimi totalitari, la cultura è stata assoggettata al potere). Nel discorso quotidiano della nostra società assistiamo a una vera e propria invasione delle metafore economiche: gli economisti che pretendono di interpretare il mondo esclusivamente attraverso la lente dell’economia sono i nuovi «oracoli che sbagliano» – come suona il titolo di un recente volumetto in forma di dialogo fra lo stesso Bettini e Carla Benedetti (Effigie 2016).

Anche la cultura è vittima di questa invasione, dalla dicitura «patrimonio artistico e culturale» a quella di «beni culturali», espressione ormai entrata anche nel linguaggio istituzionale, fino alla «valutazione» dei «prodotti» della ricerca da parte dell’ANVUR (l’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca), ai «crediti» e ai «debiti» universitari. D’altra parte, la creazione intellettuale e la cultura «servono» indiscutibilmente anche a rendere una società più degna di essere amata e vissuta.

«Lo studio della cultura classica – scrive Bettini – può insomma diventare un modo per tenere insieme due aspetti dell’esperienza contemporanea che rischiano, drammaticamente, di separarsi, quando non entrano addirittura in conflitto: la salvaguardia della memoria e dell’identità da un lato, l’esperienza dell’alterità dall’altro». Infatti, studiando i Greci e i Romani contribuiamo a mantenere viva la memoria culturale del nostro paese, nel quale i «siti culturali» da essi ‘prodotti’ non sono certo una minoranza; d’altra parte però si spalanca dinanzi ai nostri occhi uno scenario che dispiega un’affascinante alterità. Greci e Romani cioè sono anche profondamente diversi da noi, dal nostro mondo saturo di metafore economiche e scandagliato da censimenti, statistiche e sondaggi: studiare la cultura greca e romana è come andare alla scoperta di un mondo sconosciuto, misterioso e assolutamente non scontato.

Una significativa parte del saggio è poi dedicata alla scuola, istituzione deputata al compito di preservare e tramandare la memoria culturale. Trattandosi di cultura greca e romana, Bettini si concentra principalmente sul Liceo classico, oggetto di una disputa divampata anche sui giornali e in Rete. Il modo in cui viene insegnato il latino al liceo – osserva – segue sostanzialmente due modelli, «da un lato lingua sotto forma di grammatica, sintassi e versioni; dall’altro letteratura sotto forma di manuale accompagnato da qualche testo…».
Questo sistema di insegnamento è sostenuto dagli strenui difensori del Classico così com’è: ma è mai venuto loro in mente che i «due modelli», oltre che terribilmente vecchi, sono anche terribilmente noiosi per gli studenti? Dal canto suo Bettini non propone certo inutili e dannose ‘attualizzazioni’ – come quel traduttore delle Epistole di Orazio che, con estro attualizzante, traduceva «toga» con «calzoni» – ma suggerisce alcune sensate aphormái, cioè dei «punti di partenza», «risorse».

L’esperienza teatrale è una di queste: dal momento che il teatro gioca un ruolo assai importante nel mondo greco-latino, gli studenti potrebbero tradurre, sotto la guida degli insegnanti, un testo classico, rielaborarlo e rappresentarlo, portando la cultura classica fuori dalle aule. Poi, grazie al contributo fornito dai reception studies, si potrebbe ad esempio giungere al VI dell’Eneide, il libro della discesa agli Inferi, attraverso la Commedia di Dante, oppure far conoscere ai ragazzi testi ed episodi della storia greca e romana dopo aver ascoltato e discusso La clemenza di Tito o Norma, senza escludere la possibilità di proiettare film ispirati al mondo classico.

Altro punto di partenza può essere offerto dall’approfondimento antropologico del mondo antico: studiare le lingue e le culture classiche a scuola non dovrebbe limitarsi cioè ad apprendere a memoria le regole grammaticali e sintattiche per conoscere le «opere» degli «autori», comprese quelle minori e più astruse; ma, piuttosto, imbarcarsi alla scoperta di un universo affascinante e per certi versi ancora misterioso, per arrivare a capire che un altro mondo è possibile, e può esistere un modo diverso di vivere e di organizzare il nostro esistente.

Il Manifesto – 7 maggio 2017




D. PASSANTINO, L' ELEZIONI R' I MANCIA-FRANCHI

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L'amico Mimmo Passantino ha commentato con i seguenti versi scritti nel dialetto di Ciminna (PA) la campagna elettorale in corso nel suo paese. Ma, dal momento che ormai sappiamo che il mondo intero (con la globalizzazione!) è sempre più paese, riteniamo che questi versi possono servire a capire, meglio di tanti sottili ragionamenti, cosa è diventata la politica ormai dappertutto! fv


Poesia pi l’elezioni r’i mancia-franchi
(tantu pi farivi fari quattru cianchi!)

Vitti ca sti rimi fatti cu sintimentu
lassanu u me populu assai cuntentu,
e siccomu ‘nta me testa ci ficiru una speci di maarìa,
forsi pi sdegnu o forsi sulu pi divertimenu,
ora pigghiu e ci scrivu n’autra bella poesia.

È tempu d’elezioni
e allura vi cuntu r’i tinti e vi cuntu r’i boni.

Cca si parra di libertà e democrazia,
e di fari i cosi giusti pi puvureddi,
ma si ioca a carti e si bachìa
p’ammucciari quantu su frarici sti ciriveddi:

affaccianu o finistruni
pinzannu ca u populu è minchiuni,
ognunu si vapparìa
di essiri novu e mai vistu,
comu si fussi n’autru r’i figghi ri Maria,
‘nzumma, quasi comu n’autru Gesù Cristu.

C’è cu si passa a manu o pettu
e un trova mai gruppa e curpa,
poi quannu seri o cabbinettu
a fa grossa grossa e spissu a fugnatura si ci attuppa.
Tutti ricinu “ama a canciari”,
e si fannu nichi nichi e boni boni comu i puci,
ma una pocu s’avissiru a gghiri ammucciari,
puru ca hannu a lingua ri meli e unu e dui e si fannu a cruci.
Chiddu chi vonnu è sulu cumannari,
e dicinu: fari u beni pu paisi,
sunnu maistri ‘nta l’arti ri ‘mmrugghiari
e a mia mi veni ri pinzari:
comu hannu i corna tisi!

Si cuntanu e si summanu i voti
(sti vicarioti!)
assittati a tavulinu
e ti pigghianu pi cretinu
quannu ti fannu l’occhiulinu.

I politichi ri misteri
t’alliscianu ri davanti e ta mettinu ‘nto rarreri,
(su mafiusa o su carrabbineri?)
un talianu patri, matri né mugghieri
e sunnu genti
chi hannu i clienti
e i chiamanu “amici”,
fussi cosa di farici satari i renti
a iddi ca pi purtarisi “fannu sacrifici”,
iddi su genti sempri stanchi,
ca un canuscinu travagghiu e pigghianu r’in capu comu i valanchi,
genti ca un sapi u so dovìri,
genti chi vonnu campari comu i mancia-franchi,
(si ci penzu chiaru quasi quasi mi nni vogghiu iri!)

Domenico Passantino

 Domenico Passantino : La tua postilla esegetica vale più della poesia. Grazie

M. BELPOLITI, Graffiti dell' Inquisizione

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Graffiti dell’Inquisizione

Nel 1906, mentre si compiono lavori per l’ampliamento delle stanze del Tribunale di Palermo nel Palazzo dello Steri, emergono disegni e scritte. Subito è avvisato Giuseppe Pitrè, grande studioso del folclore. Arriva e si mette a scrostare personalmente i muri delle stanze del primo piano. Vi lavora sei mesi, e man mano affiorano iscrizioni, versi, disegni. A lavoro finito si trova davanti quattro pareti intere fino all’altezza delle mani di un uomo “fitte di manifestazioni grafiche”. Per dieci metri quadrati in ogni parete non c’è solo un dito di spazio libero, scrive ancora emozionato della sensazionale scoperta: “linee sovrapposte a linee, disegni a disegni davano l’idea d’una gara di sfaccendati ed erano sfoghi di sofferenti”. Li battezza: “palinsesti del carcere”. Dopo due secoli e mezzo riappaiono così i graffiti dei prigionieri sepolti nelle segrete del palazzo: “erano uomini che tornavano a parlare in versi e in mozzi accenti, a rivelarsi con ghirigori, volute ed accartocciature”.




Sono, come recita oggi una dedica, ebrei, luterani, musulmani, quietisti, rinnegati, negromanti, guaritrici, prostitute, ecclesiastici, bestemmiatori, eretici. Stavano stipati nelle otto celle del piano terra e nelle sei del primo piano. Allo Steri c’erano le carceri dell’Inquisizione, dette Filippine, costruite al tempo di Filippo III, l’Ostello Magno, costruito da Manfredi Chiaromonte nel XIV secolo. Da abitazione dei Vicerè, l’edificio con le parti accluse era divenuto dimora degli inquisitori del tribunale e dell’annesso reclusorio, poi passato, dopo la cessazione dell’abominevole istituzione, a essere Tribunale civile, e oggi sede del Rettorato dell’università. Per gli imputati l’ingresso nelle celle era entrare in un mondo altro, di cui non si conoscevano né le regole né i protagonisti, implicava perdere la nozione del tempo e insieme della propria identità, vivere nell’isolamento e nel buio per anni e anni, come ha raccontato Maria Sofia Messena. Durata quasi tre secoli, dal 1487 al 1782, l’Inquisizione, armata di strumenti di tortura, si accaniva su uomini e donne nutriti “col pane del dolore e l’acqua della tribolazione”, come asserisce il manuale inquisitorio, al fine di far loro espiare la colpa e rieducarli all’ortodossia.



Oggi quei palinsesti e altri, apparsi dopo nuove campagne di restauro, si possono vedere nelle quattordici celle del piano terra e del primo piano, oltre che nelle Carceri della Sala Terrana. Lasciano stupefatti, sbalorditi e commossi tanto quanto, se non di più, le pitture nelle grotte di Altamira, poiché gli autori di questi straordinari graffiti non erano cacciatori di ritorno o in andata a una battuta vittoriosa su animali, bensì dei perdenti, degli scomparsi, gli uomini ridotti a bestie, e che bestie non vollero essere, tanto da lasciar traccia di sé su queste pareti attraverso pensieri, immagini, esortazioni, descrizioni, paesaggi, episodi sacri e profani. Bisogna proprio venir qui per sentire quelle che Leonardo Sciascia, che tanto ha fatto dal 1964 per riscoprire e conservare i disegni dello Steri, ha definito le “urla senza suono”. “Averti ca cca si dura la corda/ Statti in cervellu ca cca dunanu la tortura.”, sta scritto su una parete; poco più in là, Pitrè legge: “V’avertu ca cca prima donanu corda…/ Statti in cervellu ca cca dunanu la tortura/ arti infami”. Invocazioni: “O Rosalea, sicut liberasti a peste Panhormum/ me quoque sic libera carcere et a tenebris”; e ancora: “Tu celeste Guerrier che la Donzella/ Salvasti, togli me a questa tortura”.

Vergate con punteruoli, primitivi pennelli, utilizzando come pigmento sangue, piscio, feci, fumo di candela, mattoni d’argilla, latte, albume d’uovo, succo di limone, cera, i palinsesti ricoprono le pareti da terra al soffitto, fino a cinque metri. Ci sono scritte in quattro lingue (siciliano, latino, inglese, arabo-giudaico), graffiti con firme, date, simboli esoterici, personaggi religiosi, donne, navi, oggetti, carte geografiche, architetture, piante, animali, motivi decorativi. Nella cella numero 2 del piano terra è raffigurato il Leviatano, enorme pesce dalla bocca spalancata. Divora i patriarchi dell’Antico Testamento e i progenitori inginocchiati che si rivolgono imploranti al Cristo, il quale regge uno stendardo. Segno del desiderio irrefrenabile di sfuggire alla propria condizione, speranza posta in un miracoloso intervento divino, unica possibilità che forse si poteva contemplare dal fondo della Bestia infernale, che li aveva inghiottiti e lentamente masticati. Al di sopra dell’Animale biblico c’è una testimonianza in lingua inglese di un condannato a morte che è stato risparmiato.



La firma sotto al disegno è di Don Leonardvs Germanvs, con un’iscrizione latina, che poi prosegue in inglese per descrivere la salvezza dell’umanità intera grazie al sacrificio di Cristo. Lo spazio è tramato da fittissime annotazioni; dentro il disegno del Leviatano c’è poi una citazione dantesca, e il mostro, pensato come porta dell’Inferno, riproduce l’originario ingresso al carcere stesso visibile dalla cella. Visionari e realisti, i graffitari delle segrete manifestano una grande nostalgia del mondo esterno, della dolce vita alla luce del sole: odori, colori, amici, famigliari, casa. Sono perciò disegnati paesaggi a loro noti, e persino due dettagliate e attendibili mappe della Sicilia stessa, con i nomi dei paesi. Un cartografo è stato senza dubbio prigioniero dell' Inquisizione tra il 1637 e il 1647, e ha raffigurato la terra amata. Sul fondo delle galere c’erano intellettuali, scrittori, poeti, letterati, oltre a commercianti, pescatori, ecclesiastici, nobili. Qui fu rinchiuso, da qui evase e poi tornò in catene per morirvi, Fra Diego La Matina, che Sciascia ha immortalato in La morte dell’Inquisitore. Come osservano gli autori di un utilissimo atlante dei disegni e graffiti dello Steri, nelle parti più alte o luminose delle celle compaiono temi e figure d’ispirazione religiosa, mentre nelle zone più buie, in basso, vicino al pavimento, ci sono i segni delle irrefrenabili pulsioni: sberleffi, insulti, oscenità.



Non è irragionevole pensare che gli inquisitori avessero tollerato le scritture murarie, i graffi e le pitture edificanti, per verificare pentimenti, ravvedimenti, abiure; gli studiosi ipotizzano che in alcuni casi, per le pitture più eleganti, gli aguzzini stessi avessero fornito istruzioni, oltre tavolati, scale, pennelli e colori. Si può restare per ore a guardare alla luce dei fari queste lettere, i graffi, le immagini consegnate a nessuno, se non a se stessi e ai propri compagni di sventura. Ogni volta che si torna alle camere murate dello Steri, con quelle piccole e terribili feritoie in alto, si scoprono sempre nuovi ritratti o dettagli sulle pareti, e non si può non pensare che queste sono forme di resistenza al destino inclemente, al dolore e alla morte che minacciavano di continuo i condannati. Sono vite vissute, che ci sono state consegnate dal lavoro paziente e del Pitrè, poi di Sciascia e di altri come loro, che hanno salvato dalla damnatio memoriae un patrimonio straordinario che colpisce per la sua ossessività, la costanza e per la forza d’animo degli autori. Il repertorio delle immagini religiose (Santi, Cristo, Crocifissione, Maria, Ecclesiastici) è spesso inserito in strutture architettoniche, sino a riempirne tutti gli interstizi tra un edificio e l’altro, in mezzo a nicchie, balaustre, finestre, androni, tetti.



Ci sono motivi a zig zag, fregi decorativi, che ricordano l’arte barocca, e senza dubbio provengono da chiese frequentate dai carcerati nella loro passata vita di uomini liberi. Il motivo delle navi è assai presente a partire dai graffiti che raffigurano la battaglia di Lepanto del 1571 contro l’Impero Ottomano. Per i più fortunati la pena da espiare era infatti a bordo di galeoni, ai remi, come schiavi, sui mari, in mezzo ai flutti e ai pericoli. Queste parti dipinte trasudano terrore e sconforto e spesso sono accompagnate dalle figure dei medici mascherati davanti alle ricorrenti malattie pestilenziali diffuse nei porti del Mediterraneo. Uscendo da questo mondo sotterraneo, prigione e tomba, luogo di sofferenza e di espiazione, resta negli occhi una scritta in maiuscolo: “ANIMO CARCERATO”. La speranza è sempre l’ultima a morire, anche allo Steri.

Marco Belpoliti

Cosa leggere per saperne di più:

Gli scritti di Pitrè e Sciascia sono raccolti con altri testi nel volume Urla senza suono (Sellerio 1999); lo studio più importante sull' Inquisizione in Sicilia è opera di Maria Sofia Messana, scomparsa da pochi anni, Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia Moderna (1500-1782) (Sellerio 2007); a lei è dedicato il recente restauro delle celle del piano terra; nel volume Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo, a cura di Antonietta Iolanda Lima (Plumedia Edizioni, 2015) è compreso uno scritto di Gianclaudio Civale, Le testimonianze dei reclusi sulle pareti delle carceri; allegato al volume di Plumedia sullo Steri c’è l’indispensabile: Disegni e graffiti dei prigionieri dell’Inquisizione. Atlante fotografico, con le riproduzioni delle immagini, la legenda dei disegni e graffiti, la trascrizione dei testi incisi sui muri; vi figurano testi di C. Catalano, O. Ferro, A.I. Lima, B. Mazzola, F. Sommantino, O. Tuttolomondo; si tratta della più approfondita indagine su questo incredibile patrimonio espressivo del dolore.

Questo articolo è comparso in forma più breve in “Robinson” il supplemento culturale de “La Repubblica”. Noi l' abbiamo ripreso da  http://www.doppiozero.com/materiali/graffiti-dellinquisizione che ringraziamo.

IL GARIBALDI DI STEFANO VILARDO A MARSALA

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          Stefano Vilardo ha smesso di scrivere poesie il giorno in cui ha capito che con la poesia il mondo non si cambia. Così, dopo aver dato voce agli emigrati clandestini in Germania del suo paese natale, il maestro di Delia ha scritto soltanto saggi e racconti che parlano dell'umanità offesa nel mondo odierno.
          In quest'ultimo racconto, che presenteremo il prossimo 24 maggio a Marsala, Vilardo rivive i giorni della sua giovinezza e mostra come sia possibile arrivare a 95 anni senza perdere la gioia di vivere e la forza d'indignarsi di fronte ad un mondo che appare ogni giorno più disumano. 
          La chiave per entrare nel cuore del nuovo libro la fornisce lo stesso scrittore nisseno citando in esergo, tra gli altri, il suo fraterno amico, Leonardo Sciascia,  che ricorda come ogni racconto non sia altro che un pretesto per dire le cose che più contano per ogni scrittore.
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A MARINEO TORNANO PUPI E PUPARI...

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Troppi pupi e/o portavoci di pupari nel mio paese natale. Cose gia' viste piu' volte: nulla di nuovo sotto il sole! E le stelle in cielo, per fortuna, sono molto più di cinque...

MOSTRA DI O'TAMA A PALERMO

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O’Tama e Vincenzo Ragusa:

 un ponte tra Tokyo e Palermo

a cura diMaria Antonietta Spadaro

Palazzo Sant'Elia, Palermo

12 maggio 2017 – 28 luglio 2017

Catalogo, a cura di M. A. Spadaro, pp. 400, con saggi di studiosi palermitani e giapponesi, relativi al percorso dei due artisti e all’ambiente in cui operarono.

Allestimento: Carola Arrivas Bajardi
Grafica: Antonio Giannusa

Si terrà il 9 giugno 2017, sempre a palazzo Sant’Elia,  una “Giornata di studi” sul tema: L’utopia del Giappone in Europa - relatori di Palermo, Roma, Tokyo e Kyoto

Dalla metà del XIX secolo, dopo duecento anni di chiusura nei confronti dell’Occidente, il Giappone apre le sue frontiere, avviando rapporti economici e diplomatici con gli Stati Uniti d’America e i paesi europei. Nel clima di questa apertura generale verso l’Occidente, l’imperatore Mutsuhito ritiene necessario invitare dall’Italia - il paese occidentale dalla più solida tradizione artistica - tre artisti per fondare una scuola d’arte che sia al passo con le linee stilistiche della cultura figurativa moderna: nasce a Tokyo la scuola d’arte Kobu Bijutsu Gekko del Ministero dell’industria e tecnologia.
I tre artisti selezionati dall’Accademia milanese di Brera sono: Antonio Fontanesi per la pittura, Giovanni Vincenzo Cappelletti per l’architettura e il palermitano Vincenzo Ragusa per la scultura.
Ragusa arriva nella capitale nipponica nel 1876. Da questo episodio, già di per sé clamoroso, deriveranno due eventi stupefacenti per la città di Palermo: la sua idea di istituire una scuola d’arti orientali, progetto pionieristico a livello europeo, e la presenza di un’artista giapponese, O’Tama Kiyohara, divenuta sua moglie col nome di Eleonora Ragusa, che vivrà a Palermo per 51 anni. A contatto con le novità espressive occidentali, la strategia creativa di O’Tama si trasforma: dal grafismo sintetico giapponese giunge al naturalismo con la sua oggettiva rappresentazione del reale.
La pittrice O’Tama Kiyohara (Tokyo 1861-1939) e lo scultore Vincenzo Ragusa (Palermo 1841-1927) costituiscono nella storia dell’arte del nostro paese due importanti figure, promotrici del precoce giapponismo fiorito a Palermo, quando erano ancora in pochi, negli anni 80 del sec. XIX, in Europa, ad accostarsi con passione alla cultura e all’arte nipponiche. Ricordiamo la grande importanza che ebbe il Japponisme in Francia.
L’inizio dei rapporti Italia-Giappone avvenne nel 1866 e lo scorso 2016 ne sono stati celebrati, nei due paesi, i 150 anni: il Comune di Palermo ha intitolato ad O’Tama Kiyohara il giardinetto di via Praga, inaugurato proprio lo scorso anno, con una partecipata cerimonia alla presenza delle autorità cittadine.
In mostra si vedranno opere di O’Tama Kiyohara Ragusa, la quale ha lasciato qui una ricca produzione, esplorando varie tecniche (da opere da cavalletto con olii, acquerelli e pastelli, a dipinti murali) e soggetti diversi (dal ritratto al paesaggio, dalle nature morte alle scene di genere, dai fiori agli animali, dai temi religiosi alle memorie d’atmosfere orientali, dall’arte applicata alle decorazioni d’interni). Saranno in mostra anche lavori di Vincenzo Ragusa, del quale si vedranno attraverso pannelli quelle non trasportabili.
Si tratta della prima mostra antologica dedicata ai due artisti a Palermo. Le Sezioni:
O’Tama: dal grafismo sintetico giapponese al naturalismo occidentale; Passione per la natura; Il ritratto; Scene di genere; Sentimento del sacro; Suggestioni d’oriente; Il Paesaggio; Decorazioni d’interni; Arte applicata; Allievi di O’Tama Ragusa; Vincenzo Ragusa; La Scuola Officina Artistico Industriale di V. Ragusa; Giapponismo.
Patrocini
La mostra, promossa dalla Fondazione Sant’Elia, è patrocinata dal Ministero dei Beni Culturali, dall’Area Metropolitana di Palermo, dal Comune di Palermo, dalla Fondazione Whitaker, dall’Assemblea Regionale Siciliana, dalla Società Siciliana di Storia Patria, dalla Gam di Palermo, dalla Galleria d’arte moderna del Comune di Messina, dal Museo delle Civiltà “Luigi Pigorini” di Roma, dall’Ambasciata Giapponese a Roma, dall’Istituto di Cultura giapponese a Roma, dall’Associazione Sicilia-Giappone, dall’Associazione Settimana delle Culture, dall’Anisa (Associazione Nazionale Insegnanti Storia dell’Arte).
Progetto espositivo
La mostra sarà allestita nelle sale del prestigioso settecentesco Palazzo Sant’Elia nel cuore del centro storico di Palermo. In mostra:
  • circa 170 opere (per lo più in collezioni private) prodotte da O’Tama Kiyohara Ragusa prima e durante il suo periodo palermitano durato 51 anni. Enti Prestatori: Ars, Gam Palermo, Museo Pitré, Società Siciliana di Storia Patria, Fondazione Whitaker, Museo del Liceo Artistico “Vincenzo Ragusa e O’Tama Kiyohara”, Chiesa di Sant’Antonio Abate di Palermo, Gam di Messina, Museo delle Civiltà “L. Pigorini” di Roma;

  • dipinti conservati presso l’ex scuola fondata da Ragusa a Palermo, oggi Liceo Artistico “Vincenzo Ragusa e O’Tama Kiyohara” e l’Armadio monumentale realizzato dalla Scuola per l’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-92 (oggi conservato all’ITI “Vitt. Em. III” di Palermo;
  • un video, di Maria Muratore, illustrerà le opere di O’Tama e Vincenzo Ragusa;
  • l’allestimento includerà pannelli, arredi, kimono e oggetti del periodo, per evocare il fenomeno del giapponismo.
Infine, nella sezione “Artisti per O’Tama”, verranno proiettati i video di Gianni Gebbia (O’Tama Monogatari, 2012) e Antonio Giannusa (La stanza di O’Tama, 2017) e sarà esposta l’opera di Fabrice de Nola (Nympheae, 2012), tutti ispirati all’artista. Inoltre, all’inaugurazione, l’artista giapponese Setsuko si esibirà in una performance dedicata alla pittrice e allo scultore.

INFO
Vernissage, 12 Maggio 2017 ore 17:00

Orari: Martedì – Venerdì 9:30-13:00; 15:30-18:30
         Sabato – Domenica 10:00-13:00; 16:00-19:00

Biglietti
Intero  € 5,00








LA LUCIDA INDIGNAZIONE DI STEFANO VILARDO

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ph di francesco virga




Sulle pagine palermitane de La Repubblica odierna si trova una preziosa intervista di Tano Gullo a Stefano Vilardo. Il maestro di Delia, più lucido che mai, spara a zero contro la letteratura inutile ed oziosa dei nostri giorni, senza risparmiare Camilleri e Savatteri.
Su Andrea Camilleri scrive: "Sono amico di Camilleri, ma se parliamo di lingua siciliana dico che non ha inventato nulla: il suo è un siciliano maccheronico che non si parla da nessuna parte. Mi ricorda il latinorum di Teofilo Folengo. Oggi si pubblicano troppi libri ma non c'è nulla di nuovo. Con la morte di Consolo è finita la letteratura italiana".
A Gaetano Savatteri non perdona di aver messo in discussione, nel suo ultimo libro, i grandi scrittori siciliani del 900 "che hanno aperto il cervello a tante generazioni".

       Sulla politica è ancora più severo.  I politici odierni vengono definiti “un manipolo di saltimbanchi arruffoni che saltano da un partito all’altro, senza ritegno, per restare incollati alle poltrone e alle mangiatoie del bene pubblico”.
        E, anche se mostra di non avere del tutto perduto la speranza che “la storia riprenda il suo cammino di progresso e giustizia”, è scoraggiato dallo sfacelo che vede attorno a sé: “ Tutte le cose belle vanno scomparendo. C’è una sorta di desertificazione di sentimenti e valori. Ogni cosa è diventata altro”.
           fv


P. MELATI, La cognizione del dolore

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Dal Diario facebook dell'amico Piero Melati, riprendo questa pagina:
Il venticinquennale. La cognizione del dolore
Piero Melati
 
Da un lato il simbolo è il pm Di Matteo. Il processo Trattativa, le minacce, il trasferimento, la mancata solidarietà. Lo dico con rispetto verso il dottor Di Matteo ma sto a disagio quando tutto questo porta qualcuno a sovrapporre, come è stato fatto, la foto di Falcone e Borsellino a quella di Di Maio e Di Battista.
Dall'altro lato il simbolo è la salma di Giovanni Falcone traslata nella chiesa delle personalità siciliane. Come se la storia fosse chiusa, le contraddizioni pacificate, l'unico rito possibile le messe cantate in luoghi deputati. Lo dico con rispetto verso Maria Falcone, ma sto scomodo a sterilizzare la memoria, fosse pure per farne un alto magistero.
Sono argomenti scabrosi da affrontare. Così, In mezzo a queste due posizioni, o si è scelto il silenzio oppure sono state piazzate alla buona innumerevoli seggiole, seggiolini, strapuntini, posti precari. Li conosco bene, io stesso in passato li ho frequentati. Una volta mi dicevo: antimafia, basta scandali; altre volte mi ci accomodavo per affermare: vi furono depistaggi. Oppure ancora: badate, non si processa senza prove. In questo modo si potevano occupare un po' tutte le posizioni. Con il risultato di lasciare poi il grosso della scena alla retorica e la prevalenza alle uniche opinioni risolidificate come vecchie ideologie da Guerra Fredda.
Non basta più. La Sicilia è cambiata a tal punto che non abbiamo parametri per interpretarla e agire oggi. Tanto il processo oscillatorio delle opinioni quanto gli irrigidimenti in posizioni pregiudiziali ci hanno fatto perdere l'orientamento. Non solo: non abbiamo più idea di cosa sia mafia o non lo sia e dove mai la mafia sia finita o se essa si sia sciolta e dissolta. O ancora, se viva in nuove metamorfosi. Niente risposte. Perpetuiamo esclusivamente una sclerosi cresciuta nei decenni, a ritmi di una coazione a ripetere che ha dell'impressionante.
Il mio intento è indicare il problema. Non è colpa mia se non ne conosco immediata soluzione. Quel che so è che non ci si può più fare trascinare alla bisogna dal vento del momento (soffiato spesso da raffinatissime menti) per partecipare all'inutile guerra civile di carta tra Guelfi e Ghibellini.
L'editore Laterza mi aveva offerto una opportunità: scrivere per brevi quadri una storia in cento date. Non l'elenco dei caduti, ma intrecci di fatti, simultaneità, cultura, film, libri, politica, vita quotidiana. Tutto in una griglia rigida, essenziale. Ne ho subito approfittato: l'opportunità cadeva nel momento in cui, dopo 35 anni, smettevo di fare il giornalista. Naturalmente è un contributo minimo. Anzi, minimale. Mi sono sforzato però di rovesciare luoghi comuni, scardinare schieramenti e opinioni diffuse, misurarmi con "personaggi scomodi" senza per forza dirne banalità. Ho cercato di scontentare tutti e non accontentare nessuno. Per questo ho particolarmente apprezzato il supporto e la fiducia ricevuti su Fb nei giorni scorsi, dei quali ringrazio sinceramente tutti a uno a uno. Ora sono in mare aperto dentro una storia epica, tragica, difficile. Ma è anche una grande parte della mia storia, una grande parte della storia di tutti i siciliani. Ed è anche una buona storia. Una storia italiana, a venticinque anni dalle stragi. Che va guardata senza più essere il bambino che ha paura di vedere l'uomo nero.
Piero Melati

PRESENTATO A CORLEONE L' ULTIMO LIBRO DI GIUSEPPE GOVERNALI

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Pino Governali e Nino Gennaro



Sabato 13 maggio 2017, nell'Auditorium del liceo delle scienze umane "Don G. Colletto"è stato presentato il libro del prof. Giuseppe Governali, scomparso prematuramente l'anno scorso. Ha coordinato i lavori Dino Paternostro, direttore di Città Nuove. Ha portato il saluto della scuola la preside prof.ssa Natalia Scalisi. Hanno svolto relazioni: Giovanni Perrino, poeta e dirigente scolastico; Ignazio E. Buttitta, docente dell'Univesità di Palermo; Giovanni Ruffino, presidente del Centro di studi filologici e linguistici siciliani. Fuori programma l'intervento di fra' Paolo, dei frati minori rinnovati. Pubblichiamo la premessa al libro scritta dallo stesso autore, ripresa da  http://www.cittanuove-corleone.net/2017/05/giuseppe-governali-non-sono-un.html?spref=fb
  
                                                 GIUSEPPE GOVERNALI

Non sono un nostalgico cantore del “buon tempo antico”, né ho mai rivestito d’idillio la fatica del contadino che, in piedi già prima dell’alba per la pulitura della stalla, s’avviava ai campi sul mulo col carico di concime. Eppure custodisco in me, religiosamente, quasi testamento d’una civiltà già morta o morente, il ricordo dell’aia e della battitura del grano, del pane fatto in casa e delle magre cene di fredde sere invernali. E con l’odore buono del pane, la miseria, gli stenti, le paure, l’ignoranza…

Negli anni del dopoguerra, anni ai quali risalgono i miei primi ricordi, era considerato, dalle mie parti, già benestante il piccolo possidente, “u buggisi”, che, per sopravvivere e aggiungere altra terra alla terra sopportava fatiche e privazioni sovrumane.
La famiglia aveva una struttura patriarcale, con la moglie sottomessa al marito e l’uomo che, almeno nelle occasioni di più impegnativa ufficialità, recitava la parte del capo; i matrimoni, alcuni dei quali riparatori, erano spesso combinati ed erano talora ripudiati e diseredati i figli e le figlie che, non curanti del “rango”, andavano a nozze con giovani di estrazione sociale inferiore alla loro: “Mettiti cu i miegghiu ri tia e appizzacci i spisi” (fai lega con gente migliore di te e non badare a spese).
Numerosa ancora la figliolanza: i figli, soprattutto i maschi, erano ritenuti una benedizione di Dio; un po’ meno le femmine considerate scherzosamente, ma non troppo, cambiali da pagare. Certo non usava più la “minuta”, come i vecchi chiamavano l’elenco della biancheria e delle masserizie passate in dote alla figlia, ma alla dote la buona massaia pensava già fin dalla nascita della figlia:
“A figghia nn’a fascia, a doti nn’a cascia” (la figlia ancora in fasce e la dote nella cassa).
Risparmio e privazioni erano quindi inevitabili; più che virtù necessità; si risparmiava su tutto, anche sul cibo: pane e pasta tutti i giorni erano già un lusso; la carne la domenica, ma solo per i benestanti, e il pranzo completo nelle feste grandi.
C’era ancora tanta fame e gli accattoni d’allora ringraziavano e benedicevano per un pezzo di pane ricevuto in elemosina. E con la fame, le carenze igieniche e le malattie: l’acqua si attingeva alle pubbliche fontanelle, epidemie di tifo si trasformavano in vere e proprie pestilenze, il medico e le medicine erano dei lussi ai quali spesso si preferivano la “magara” e le sue arti: s’individuava l’oggetto del maleficio, si bruciava alla mezzanotte in punto, le sue ceneri si deponevano al più vicino quadrivio; poi si purificava la casa con fumo d’incenso, fatto ardere secondo rigorosi rituali. Non c’era, si può dire, malattia, che no fosse considerata l’effetto d’un maleficio (magaria) operato da un vicino invidioso o da un parente. E da qui le liti feroci (sciarre) tra famiglie di uno stesso quartiere o di una stessa strada, pittoresche e colorite nella loro pur seria drammaticità. Misere guerre tra poveri: bastava un nonnulla per suscitare un vespaio: l’immondizia lasciata fuoriposto, una porta sbattuta in faccia, una canzone allusiva. E anche l’analfabetismo imperversava: che spettacolo triste vedere all’ufficio postale anche giovani segnare una croce su ricevute o mandati e andare in cerca di due testimoni a garanzia della loro identità. Poi il mercato del lavoro nella piazza del paese: masse di braccianti, in estate, invadevano il paese per la mietitura: la notte a dormire sulle pubbliche vie, all’alba la contrattazione e il noleggio. Il tutto controllato e guidato dalla mafia in uno Stato assente perché ancora tutto da inventare.
Espressione del mondo sommariamente rievocato, la cultura popolare, il dialetto e tutto quello che il dialetto rappresentava sono stati, anche dalle nostri dalle parti, rimossi in maniera forse un po’ troppo affrettata e inconsulta. A tale rimozione hanno insieme contribuito non tanto la scuola, che con la pretesa di promuovere una lingua (cultura) unitaria, ha di fatto soffocato intere etnie, quanto le grandi scelte politiche del dopoguerra che, legando allo sviluppo industriale il destino della nostra economia, hanno finito con l’attribuire all’agricoltura il ruolo di attività da terzo mondo. La televisione, la pubblicità, l’imporsi di nuovi modelli di comportamento, la fuga dalla campagna, l’immigrazione hanno poi fatto tutto il resto. Risultato: da un lato la perdita di ogni identità culturale per quella massa di gente che, fuggendo dalla campagna, ha tentato di trapiantarsi in città indossando, talora goffamente, una cultura piccolo-borghese; dall’altro la motivata paura, per chi è rimasto in campagna, dell’antica “sub-cultura” d’origine che, o sopravvive come relitto non più in grado di evolversi e riprodursi o, peggio, è tenuta artificialmente in vita per soddisfare i bisogni di evasione nostalgica della gente comune e gli interessi ben più concreti dei vari enti o associazioni per il turismo.
E allora che senso ha “riciclare”, come tento di fare con la presente raccolta, modi di dire e proverbi caduti in disuso o destinati a morire? E che significato può avere una presa di coscienza postuma del valore della cultura dialettale? Forse, come negli ultimi anni di vita andava ripetendo Pasolini, nessun altro significato all’infuori di quello di custodire, cosa in sé meritoria, la memoria di caro estinto. O forse può ancora, se non altro, servire ad alimentare la risentita “amarezza perché invece di una possibile trasformazione in una civiltà agricola, degna di questo nome, assistiamo ad una pura e semplice dissoluzione nel nulla!” [1]
Non si tratta quindi di conoscere solo il passato, ma di realizzare le sue speranze, per evitare che “il passato continui come distruzione del passato”.
Raccogliere e custodire infatti quanto del passato rimane e lambisce ancora con qualche segno il presente, può voler significare riprendere un colloquio bruscamente interrotto, ascoltare, vedere, riappropriarsi di antiche, sopite speranze.
La speranza di finalizzare all’uomo la nuova tecnologia dell’era post-industriale e il bisogno di ristabilire un nuovo vitale equilibrio tra uomo e ambiente. Solo a questo patto si eviterà , per l’avvenire, la disperata bestemmia: “la fame d’una volta era meno penosa dell’isolamento di oggi”.
I modi di dire e i proverbi, passati in rassegna nella presente raccolta, sono le “frasi fatte” dell’antico parlar popolare, ripescate nella memoria, o casualmente colte nei discorsi di anziani contadini del corleonese; alcune fanno riferimento ad aneddoti legati a figure e personaggi realmente esistiti di cui si è cercato di recuperare la storia; altre sono motti e “detti memorabili” che servivano a dare vigore colore ai discorsi della gente comune, espressi con un linguaggio talora iperbolico (l’iperbole, a giudizio di G.Bufalino, è nella natura di ogni forma di sicilianità), ma sempre fatto di cose, ove, se metafora c’è, ne è così immediato il riscontro da non richiedere un eccessivo sforzo di immaginazione. Si tratta in ogni caso di REPERTI d’una letteratura “tagliata” in nome e a vantaggio di una unità culturale grigia, idiota, rozza, tutt’altro che nazional-popolare.
Il volume è la seconda edizione aggiornata della raccolta “Giudizi-pregiudizi-ricordi-fantasie” pubblicata nel 1990.
In appendice un elenco di proverbi suddivisi per argomento ed interpretati secondo l’accezione che essi hanno acquisito nella zona.
                                                                                                Giuseppe Governali



[1]I.Calvino, Corriere della sera, 24 set 1977.

MARIANGELA GUALTIERI, Sii dolce con me

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Sii dolce con me. Sii gentile.
E’ breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.

Mariangela Gualtieri

Y. BERGERET, Agli uomini e alle donne di carta

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salgado, deserto sahel

[agli uomini e alle donne di carta]

Letti, bussola, impalcatura

I tre uomini del Sahel fecero conoscenza nel porto petrolifero
scendendo dalla stessa nave che li aveva tratti in salvo
su un barcone putrescente proveniente dalla Libia: cento migranti stipati.]
Chi resse la bussola e il timone della piccola imbarcazione
viaggiò gratuitamente. Gli altri, a peso d’oro.
A corto di carburante, la vecchia carretta imbarcava acqua.
Affondava. Ankindé, disperato, seduto con la testa stretta alle ginocchia]
era sicuro di morire annegato. Il secondo giorno un elicottero li individuò.]
Un cargo indiano li soccorse.
Alaye salì a bordo con una lunga scaletta di imbarco.
Ankindé, stremato, fu sollevato con un argano.
Ci siamo ritrovati tutti a Aidone, al centro dell’isola.
Una terra arida e appartata, distante dalle coste.
Molto lontano, sul versante orientale, il grande vulcano borbotta.
Qui la terra povera respira lentamente.
Alcuni abitanti si cospargono la testa
di manciate di polvere grigia e di paglia sbiancata,
parlano poco, si spaventano per l’ombra di un uccello che passa,
si chiamano per strada senza fermarsi.
C’è ovunque nei cuori una spina, prospera l’amarezza.
Sotto il terreno e la ghiaia spiriti e demoni
non sono del tutto esorcizzati
non sono mai dimenticati.
I tre saheliani alloggiano nella stessa stanza.
Parlano molto. Noi ci parliamo molto.
Le tre coste dell’isola rugosa battono allora le ali
e vengono al mattino a mangiare nelle nostre mani
poi se ne ripartono con qualche segno di turbamento.
Le nostre parole sono putrelle leggere
e travi, luminosa impalcatura
di ciò che realizziamo, di ciò che è necessario costruire.
Parole tavole dell’arca per l’immenso diluvio umano in corso.
Carena o dimora, chi lo sa, carena per una ben diversa traversata
che non è stata finora mai tentata, inadeguata dimora futura
la cui porta non ha chiave
perché il culto degli oggetti non vi avrà più corso, soppiantato
dal dono della parola che fa offerta di sé.
E di sera, ancora, le tre coste dell’isola, in volo,
vengono a bere nei nostri palmi aperti
poi ripartono con altre indicibili sensazioni.
Nella stessa stanza in una stradina di Aidone
sui loro letti disadorni, i tre uomini parlano, dormono,
cominciano a costruire qualcosa
la cui bussola non è né europea né africana.
Le terre che hanno lasciato da un decennio
non sono vuote di anime né prive di parole
ma trovarvi un lavoro non è cosa semplice.
Bisogna andare. Cercando un’altra bussola.
Cercando.
Noi parliamo, andiamo.
Essi parlano e vanno. Solidali ma liberi e senza vincoli,
leggeri e riflessivi, la pelle levigata.
Se uno o l’altro piange certe notti sotto il suo lenzuolo,
insieme cercano i remi e le parole
e l’altra bussola.

__________________________
Testo di Yves Bergeret.
Traduzione di Francesco Marotta.
Tratto da Carène, 2016, inedito.
Testo ripreso da https://rebstein.wordpress.com/2017/05/13/letti-bussola-impalcatura/

M. BUSALLA, E. MANET A MILANO

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       L'amica Manuela Busalla mi ha gentilmente segnalato questa sua bella recensione di una Mostra del grande Manet, tuttora in corso nel Palazzo Reale di Milano, che pubblico con piacere in questo spazio:

Manet e la seduzione di una pittura nuova
Nella Parigi di Napoleone III e del barone Haussmann,
il capofila dell’Impressionismo tra il rifiuto degli accademici
che popolano i Salon e il plauso degli intellettuali

Un sorprendente viaggio nella Ville Lumière, tra boulevard alberati, gli ambienti gremiti di bar e caffè-concerto. E poi fra i velluti rossi dell’Opéra, le dame in crinolina ai balli che animavano i teatri e nelle brasserie. Con una guida d’eccezione, il più grande innovatore del linguaggio pittorico dell’Ottocento. Manet e la Parigi moderna (Milano, Palazzo Reale, fino al 2 luglio) è tutto questo, un excursus tra i signori della borghesia e quelli del demi-monde, per raccontare una città in piena metamorfosi. Una galleria di capolavori provenienti dalla straordinaria collezione del Musée d’Orsay punta i riflettori su una capitale moderna, vivace, percorsa da un fermento e da trasformazioni che presto si tradurranno in nuovi stili di vita.
Attratto dall’evoluzione di Parigi, la sua musa prediletta, Édouard Manet ne restituisce il cambiamento sulla tela perché la modernità è proprio nei soggetti e nelle tecniche audaci. Non a caso con lui si affacciano sulla scena gli impressionisti e il suo intento è quello di catturare la poesia dell’attimo che passa, la bellezza transitoria o quell’istante sospeso in cui ogni personaggio è isolato nel proprio mondo interiore.
Considerate provocatorie e persino scandalose, molte sue tele suscitarono critiche e il secco rifiuto degli accademici. Eppure Manet – figlio dell’alta borghesia – voleva il plauso dei Salon. Invece non ebbe mai quelle soddisfazioni alle quali ambiva e meritava. Ma a difenderlo furono Zola, Baudelaire e Mallarmé. Degas, suo rivale, dirà: «Era più grande di quanto pensassimo». E Guy Cogeval, curatore di questa mostra, riconosce a Manet «un approccio intellettuale… e la capacità di far scaturire dalla tela un significato immediato».
Uomo di mondo raffinato e brillante, Manet sovverte i codici estetici, dipinge con pennellate esuberanti, si serve di campiture nette. E quando si dedica alla pittura en plein air la sua tavolozza si arricchisce di una nuova luminosità. Ne sono un esempio Chiaro di luna sul porto di Boulogne (1869) e La fuga di Rochefort (1881). L’artista – che da ragazzo aveva solcato l’oceano come mozzo – rende con precisione il moto del mare e la vulnerabilità dei fuggitivi. Perché il suo interesse è rivolto all’interiorità dei personaggi. Quando Manet ritrae gli intellettuali e le sue donne (siano muse o compagne di vita poco importa) dalla tela sembra materializzarsi quella profonda complicità artistica o sentimentale. Lo si nota tanto in Berthe Morisot con un mazzo di violette (1872) quanto nella scena intimista che pervade La lettura (1865-1873). Ma non è ancora tutto, perché proprio nel ritrarre sua moglie Suzanne Leenhoff, l’artista esalta la consistenza dei tessuti: la mussola dell’abito, il pesante rivestimento del divano e le tende svolazzanti. Una sinfonia di bianchi che annuncia le straordinarie capacità pittoriche e il virtuosismo raccontati poi con una palette di tonalità scure. Come testimoniano, tra gli altri, i ritratti a Émile Zola (1868) e Stéphane Mallarmé (1876). Tant’è che Pissarro dirà: «Manet è l’unico in grado di trasformare il nero in luce».
Eppure la sua arte, per quanto di rottura col passato, affonda le radici nella tradizione. Egli conosce bene il tratto di Raffaello e Tiziano, Goya e Velázquez. Lo si nota ammirando Il pifferaio (1866): magistrale trionfo del colore e totale assenza di prospettiva, «fatto di semplicità e armonia», come dirà Zola. Nelle nature morte, invece, Manet enfatizza la vanitas, tema caro alla scuola olandese, e – già malato – riflette sulla caducità della vita. Un accento drammatico sulla morte lo si percepisce in Ramo di peonie bianche e cesoie (1864). In mostra, a fare da controcanto al genio ribelle sono le tele di Boldini, Degas, Cézanne, Renoir, Signac, Monet, Fantin-Latour e tanti altri. Testimoni degli stessi cambiamenti epocali, scivolano come lui nella dimensione del reale e catturano il presente.

Manuela Busalla 2017
copyright


JACK LONDON RIVISITATO

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Jack London è solitamente considerato uno scrittore d'avventure. Fu invece un militante socialista che voleva descrivere dall'interno le contraddizioni di un capitalismo che all'inizio del secolo scorso, come oggi, stava cambiando pelle. Riuscì perfino a predire l'avvento del fascismo.
Fabrizio Rostelli
Jack London, un militante
Il tallone di ferro è uno dei libri che, durante la Resistenza contro i nazifascisti, i comandanti delle brigate suggerivano ai partigiani italiani di leggere nei momenti di pausa, tra un’azione e l’altra. Romanzo distopico, scritto da Jack London nel 1908, che predice con lucidità l’avvento del fascismo e al tempo stesso descrive attraverso dialoghi semplici quanto avvincenti i meccanismi della produzione capitalistica. Il sottotitolo del libro potrebbe essere: come spiegare il socialismo e la lotta di classe. Ho intervistato negli Stati Uniti la pronipote di London, Tarnel Abbott, attivista e bibliotecaria in pensione, che recentemente ha curato un adattamento teatrale del romanzo.
Cos’è che rende Il tallone di ferro un testo così attuale e dirompente?

Questo romanzo non solo predice quello che è accaduto negli anni ’20 e ’30 con l’ascesa del fascismo in Europa, ma descrive la situazione attuale con la supremazia dei super ricchi, quella che London chiama oligarchia. I politologi oggi descrivono il nostro Paese come un’oligarchia dove il potere estremo dei soldi ha preso il sopravvento sulla democrazia e l’ha distrutta e lo Stato è diventato una specie di dittatura del capitale. London sostiene che quella cosa mostruosa che noi chiamiamo fascismo si sarebbe potuta evitare e questo vale anche oggi. Dal romanzo emerge un messaggio di ribellione, di speranza e di fratellanza: combattere il fascismo e non permettere che ci danneggi.

Prima di diventare un affermato scrittore, London ha vissuto una serie di esperienze incredibili, penso al suo libro di ricordi La strada e alle sue avventure con il Kelly’s Army, l’esercito dei disoccupati; credi sia diventato socialista in quel periodo?

Credo abbia iniziato a formare la sua coscienza politica in quel periodo. Forse non sarebbe entrato in contatto con il socialismo se non fosse stato influenzato dagli intellettuali hoboes (vagabondi senzatetto) con i quali discuteva dell’idea di socialismo. Ha imparato sulla strada ma anche quando è andato nel Klondike (per fare il cercatore d’oro ndr) e ha portato con sé alcune opere di Marx per studiarle.
Secondo la figlia Joan, London ha scritto Il tallone di ferro dopo la sconfitta della rivoluzione russa del 1905. London inoltre era preoccupato dal moderatismo crescente del Partito socialista americano, al quale era iscritto. Qual è stato il suo rapporto con il Socialist Labor Party e poi con l’American Socialist Party?

Non conosco bene la storia dei due partiti ma so che alla fine della sua vita ha lasciato il partito perché secondo lui non era abbastanza radicale e aveva smesso di combattere. London invece credeva che si doveva combattere perché il socialismo non ti viene servito su un piatto. Lo stesso vale per la libertà, non ti viene concessa, devi combattere per ottenerla, te la devi guadagnare, devi lavorare per questo e lui sentiva che erano troppo moderati.
Perché i critici letterari spesso cercano di ridimensionare l’idea socialista e rivoluzionaria di London?

Direi che in questo Paese a partire dagli anni ’50, durante l’era McCarthy, si è diffusa la “paura rossa” ed una propaganda contro qualsiasi cosa fosse di sinistra. Gli accademici poi tendono ad essere conservatori, devono giustificare le loro carriere e non vogliono assumersi rischi, di certo ci sono delle eccezioni come Jonah Raskin. Ad esempio, nel Richiamo della foresta i critici si concentravano sulle avventure del cane e sullo stile di scrittura naturalistico e pionieristico e ignoravano l’allegoria sociale delle bestie al lavoro che erano oppresse e trattate crudelmente.

London è stato presidente dell’Intercollegiate Socialist Society, di cui era segretario Upton Sinclair, cosa può raccontarci in proposito?

L’hanno fondata per diffondere l’idea del socialismo tra i giovani e London era un oratore eccellente, molto qualificato, carismatico ed era abbastanza famoso da attirare un pubblico vasto. Ha fatto un tour elettorale in diverse università degli Stati Uniti tenendo dei discorsi che poi sono stati raccolti in un saggio chiamato Revolution. Questo era il suo modo di raggiungere le masse e di influenzarle direttamente attraverso il suo sogno utopico di fratellanza tra gli uomini.
Quando viveva nel Beauty Ranch London aveva concesso agli operai giornate lavorative di 8 ore e ospitava spesso vagabondi ma soffriva il fatto di essersi allontanato dal proletariato. Non accettava il fatto di essere diventato ricco?

Senza dubbio era lo scrittore vivente più pagato del suo tempo ma ha speso i suoi soldi tanto velocemente quanto ha impiegato a guadagnarli. Aveva investito nella fattoria e faceva sperimentazioni nella produzione del cibo, era un pioniere in quella che oggi chiameremmo coltivazione biologica e sostenibile. Aveva una visione: creare una piccola utopia socialista nella sua fattoria, voleva ottenere il benessere per i lavoratori, voleva costruire una scuola per i bambini, un ufficio postale… Credo che il suo ranch fosse pensato per essere un luogo dove poteva intrattenere hoboes, intellettuali e persone dalle più svariate provenienze, un ritiro per artisti e scrittori dove mescolarsi e contaminarsi a vicenda. Nelle sue lettere scriveva che non era un uomo della working class ma al tempo stesso ripensava alla sua infanzia trascorsa in povertà, in un quartiere della working class, nonostante sua madre provenisse da una famiglia benestante. Per questo era a suo agio sia tra le persone ricche che tra quelle molto povere. La maggior parte delle persone non può muoversi tra le classi sociali come ha fatto lui, credo che questo lo avesse reso un uomo diverso e al tempo stesso lo facesse sentire solo ed alienato.
London ha sempre lottato contro l’individualismo, credeva in un superuomo collettivo, possiamo dire che ha tentato di coniugare Nietzsche e Marx?

Certamente London credeva nell’idea di forza ma sapeva di essere un anti-individualista. Nella storia del Lupo di mare, Wolf Larsen è una sorta di superuomo ma guarda cosa gli accade, si ammala, rimane solo e muore. Penso che volesse confrontarsi con la teoria di Nietzsche ma non credo ci si riconoscesse.
Hai qualche aneddoto familiare sul tuo bisnonno?

Leggendo le memorie personali di mia nonna ho scoperto molte cose sui genitori di Jack. Ho fatto delle ricerche sulla madre Flora Wellman, che secondo quasi tutti i biografi non amava il figlio e lo aveva persino rifiutato. La vita di Jack da neonato era stata salvata da una donna nera, una ex schiava che lo ha tenuto con sé probabilmente fino all’età di 2 o 3 anni. È cresciuto quindi in entrambi i contesti, “nero” e “bianco”, e questo ha permesso che non diventasse razzista come molta gente invece lo considera. Penso che il loro rapporto sia stato male interpretato. Flora, preoccupata, gli ha scritto una lettera amorevole mentre lui era in viaggio e lui le ha scritto una dedica all’interno di un libro in cui dice una cosa del tipo: tu e io abbiamo sempre viaggiato insieme e penso che tra noi sia sempre andato tutto bene. È una frase molto affettuosa e questo credo sia il principale aneddoto di famiglia che ho.

Il manifesto – 18 marzo 2017
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