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PICASSO MAESTRO DELLA PITTURA CONTEMPORANEA

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  Colescott, Demoiselles d’Avignon 

Al Grand Palais di Parigi una singolare mostra ripercorre l’influenza che Pablo Picasso ha avuto sugli artisti del Novecento.

Francesco Poli

Da Lichtenstein a Cattelan. Picasso è diventato una mania

I grandi quadri multicolori dedicati al tema dei Moschettieri, insieme ai dipinti e alle incisioni di spudorata eroticità, sono le ultime vampate creative di Pablo Picasso, che muore a novantadue anni nel 1973. Questa produzione, esposta all’epoca nel castello di Avignone era stata giudicata da quasi tutti come il segno di una penosa decadenza. In modo sprezzante e stupido, il noto critico Douglas Cooper aveva addirittura scritto: «Sono scarabocchi realizzati da un vecchio frenetico nell’anticamera della morte».
 Picasso,

Ma proprio come era successo con le opere di tutti i suoi precedenti periodi, anche con questa pittura così genialmente sgangherata (e con quella dei precedenti cicli di d’après) Picasso riesce di nuovo a lasciare il suo segno nella storia dell’arte. La rivalutazione eclatante del Picasso finale avviene con la svolta post-concettuale degli Anni 80. Nella grande mostra «A New Spirit of Painting» alla Royal Academy di Londra (1981), con un gruppo di questi ultimi quadri viene proposto come il maestro di riferimento del ritorno alla pittura in chiave postmoderna, ironica, eclettica, transavanguardista, neoespressionista, e finanche della «bad painting».

Con un paradossale cortocircuito culturale, il massimo inventore del modernismo avanguardista diventa così un alfiere dello spirito postmoderno. La messa a fuoco di questa inedita interpretazione di Picasso è uno degli aspetti principali dell’interessante esposizione «Picasso.mania» che si è aperta al Grand Palais di Parigi.
    Colescott, Demoiselles d’Avignon 

A partire dal Picasso «moschettiere postmoderno» si sviluppa una sezione che propone lavori di artisti che nei modi più svariati fanno riferimento alle sue opere, ai suoi stili e al suo personaggio, da Malcom Morley a Georg Baselitz, da David Hockney a Julian Schnabel, da Martin Kippenberger a Georges Condo e Jeff Koons. Ma nel suo complesso la mostra non è incentrata tanto sull’evoluzione recente del «picassismo» (la cui influenza si era fatta sentire pesantemente per decenni fino agli Anni 50) quanto piuttosto sulla fascinazione del mito dell’artista, che diventa lui stesso insieme alle sue opere più famose una vera e propria icona pop, un elemento pervasivo della cultura di massa. E questo lo avevano già capito molto bene i veri artisti pop, tra cui in particolare Roy Lichtenstein che in molti quadri traduce in chiave ironicamente fumettistica lo «stile Picasso».

Intorno a tre opere di Picasso ruotano i lavori di molti artisti. Si inizia con le Demoiselles d’Avignon (di cui sono presenti alcuni dipinti e disegni preparatori originali), oggetto di versioni parodistiche, come quella di Robert Colescott, di plagi espliciti come quelli di Mike Bidlo, o di omaggi alla sua africanità da parte di Romuald Hazoumé.

Segue Guernica, icona politica contro tutte le guerre, su cui nessuno osa scherzare. Di particolare intensità è il film, dal titolo omonimo, di Emir Kusturica. E veramente impressionante è l’immenso assemblage di animali carbonizzati (della stessa identica misura del dipinto) di Adel Abdessemed che si intitola Chi ha paura del gran lupo cattivo?. Ma l’intervento più intelligente è l’installazione di Goshka Macuga: un grande tavolo per riunioni politiche con sullo sfondo la grande foto della sala dell’Onu dove si vede Colin Powell che sta pronunciando il suo famoso discorso sulle armi chimiche di Saddam Hussein (inesistenti). Dietro di lui, nella sala, c’era un arazzo che riproduce Guernica, che per l’occasione fu nascosto con un telone. Svelando la censura e mettendo di nuovo in evidenza l’immagine dell’opera, l’artista polacca dimostra la malafede politica e la forza di impatto sempre attuale di quel capolavoro.
    Picasso, Donna che piange

La terza icona picassiana è La donna che piange, dove si vede il viso di Dora Maar stravolto. Questo dipinto ha ispirato un’affascinante e spiazzante videoinstallazione di Rineke Dijkstra, dove non si vede mai il quadro ma solo le espressioni delle facce di ragazzi che lo stanno guardando e commentando. Questo e altri ritratti femminili degli Anni 30 (di cui sono esposti vari esempi), con i loro tratti scombinati e gli occhi da una sola parte come le sogliole, sono diventati nell’iconografia di massa gli stereotipi più diffusi dello «stile Picasso», e nelle vignette comiche, insieme alle composizioni astratte alla Mondrian, gli esempi classici dell’arte moderna incomprensibile. In ogni caso a dominare dappertutto in ritratti, documentazioni fotografiche e filmati è lui stesso: la sua inconfondibile figura piccola ma carica di energia, il suo sguardo penetrante, l’universo magico dei suoi vari atelier, i suoi calzoni corti con la mitica maglietta alla marinière.
   Cattelan, Picasso

Ed è proprio Picasso in persona che ci accoglie all’entrata, ma trasformato in una comica e grottesca maschera da carnevale di Viareggio. Si tratta di una «statua», in fibra di vetro e polistirolo a colori, di Maurizio Cattelan. Nel 1998 il MoMa di New York gli chiede un progetto, e l’artista realizza questo pupazzo con il testone che (animato da un attore all’interno) passeggia davanti al museo, si fa fotografare con i visitatori e rilascia autografi. Picasso diventa come Topolino, e il museo d’arte un parco d’attrazioni.


La Stampa – 21 novembre 2015

BRILLANTE SINOSSI DI UNA NUOVA RIVISTA

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di Simone Scaffidi
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«Sono un fascista e morirò fascista»
Licio Gelli

(21 aprile 1919 – 15 dicembre 2015)

Il n° 2 di Nuova Rivista Letteraria continua il percorso di risemantizzazione del verbo informativo e decostruzione di stereotipi, cominciato in maggio con la prima uscita della nuova serie, dedicata alle Grandi Opere Dannose Inutili e Imposte. Questa volta la critica, più che mai necessaria e di dirompente attualità, si concentra sull’avanzata di un immaginario autoritario, identitario e razzista, e si propone – attraverso il fortunato connubio tra letteratura e azione sociale – di stimolare pratiche culturali volte ad arginare l’ondata nazionalfascista che va riversandosi nelle nostre vite. Depurata da retoriche e parole d’ordine di dubbia efficacia, quest’opera collettiva e trasversale, tifa per un’evasione performativa che agisca su una realtà complessa e sfaccettata di nero. Di seguito un commento ai singoli articoli che compongono il volume.

La rinazionalizzazione delle masse – Wu Ming 1
Il numero si apre con l’editoriale di Wu Ming 1, che nel titolo riprende la celebre opera di Mosse e nel testo il Pasolini di Petrolio, quello che i troppo occupati a blaterare di Valle Giulia hanno nascosto in cantina. Il fascismo che abbiamo di fronte è un fascismo fagocitato dalla globalizzazione e dal neoliberismo, interiorizzato dalla sinistra istituzionale europea, è una realtà conclamata che finge di combattere la tecnocrazia UE. «Non è detto – si domanda l’autore – che la falsa soluzione, a furia di aggravare il problema, non diventi essa stessa il problema principale».

La serialità del male– Silvia Albertazzi e Fausto Capitanio
Da Auschwitz-Birkenau alla risiera di San Sabba, dalle carceri cambogiane a quelle sudafricane di Robben Island. Banalità e serialità del male sono elementi della stessa prigione: acciaio, cemento ma anche assenza ed ombre. Fausto Capitanio con le sue istantanee in bianco e nero – che percorrono l’intera rivista fungendo da testo nel testo – coglie la violenza dell’assenza, dando voce al silenzio dei “colpevoli”. Silvia Albertazzi ribadisce l’esigenza di questa fotografia, una fotografia sociale che non faccia da corredo alle vittime ma aspiri a gettare nuovi sguardi sul presente.

Perché i bambini non sono razzisti? – Franco Foschi
Ci hanno insegnato che dai bambini non s’impara, ai bambini s’insegna. E ce l’hanno insegnato che eravamo bambini. Che i genitori, la scuola, la chiesa, lo Stato, educano; e i bambini devono stare in silenzio e seduti ad ascoltare, per imparare, per il loro bene. Be’ è arrivato il momento di ribaltare il paradigma. Quale bambino lamenta l’oscurità della pelle della propria compagna? Quanti genitori invece lo fanno quotidianamente? Sediamoci ad ascoltarli, e se all’inizio faremo fatica a capirli, sarà solo colpa nostra e delle costruzioni sociali identitarie che ci portiamo dentro.

Il nemico della città – Maysa Moroni, Andrea Natella, Giuliano Santoro
Si può fascistizzare lo spazio urbano? Certo che sì, e lo si può fare cominciando dal linguaggio, magari militarizzandolo. «Gli spazi pubblici sono soldati che hanno perso dei gradi (il degrado) e che devono riconquistarli con nuove decorazioni al valore (il decoro)». Reprimere la socialità e la vivacità dei quartieri popolari, con criminali operazioni di gentrificazione, è una delle armi dei fascisti dello spazio. Astronauti del pianerottolo, fautori di una guerra fredda che pretende espellere il conflitto dalla galassia urbana.

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Da «Prima gli italiani» a «Prima i poveri»– Fulvio Masserelli
«Prima i francesi!», «Prima gli italiani!». Bisogna ammetterlo, ci siamo sbagliati. Il fascismo, checché ne dicano i grandi esperti, non ha patria. Chiacchiera di Nazione, Dio, Sangue ma in fondo è troppo concentrato sul proprio ombelico e sui pronomi possessivi per essere davvero interessato al bene di una fantomatica comunità nazionale. Eppure la “priorità nazionale” è un concetto che piace alle vecchie-nuove-destre, e guarda caso viene fuori ogniqualvolta si tratti di difendere i propri interessi specifici. Con ogni mezzo: «la strumentalizzazione – ad esempio – di un caso particolarmente eclatante di “italiano povero” può divenire l’occasione per attivare il discorso e orientare l’iniziativa di gruppi o comitati verso la rivendicazione anche pratica della “priorità nazionale”»

Figli di Annibale – Agostino Giordano
«Respingere» è il motto degli italianissimi. Respingere dalle frontiere e respingere dalle città, dalle scuole, dalla società “per bene”. Osama, un ragazzo tunisino di quindici anni esprime così le pressioni di quel dito puntato come un manganello nelle costole: «È come trovarsi ogni volta su un palco sotto i riflettori, sapendo che ogni cosa uno possa dire, il pubblico comunque “ti insulterà, ti fischierà, ti sputerà addosso. Tu vorresti salirci su quel palco?». Akin, ragazzo nigeriano di quindici anni, invita gli italianissimi a non mettere gli stranieri su un palco ma ad aprire le orecchie e ascoltare una canzone: Figli di Annibale degli Almanegretta. Amhed sedicenne algerino ci consiglia di guardare film come Welcome di Lioret. È una guerriglia culturale, e loro lo sanno.

Il mito di Roma nell’immaginario vittimista italiano– Wu Ming 1
La chiamano ancora “Letteratura d’evasione”, per riferirsi a qualcosa di leggero, in fondo trascurabile. Eppure la buona fantascienza apre brecce temporali che ci costringono a riflettere sul presente, reinterpretarlo, plasmarlo. È questo il caso. Dal titolo ci si aspetta un saggio/reportage, dall’incipit un ingresso narrativo al saggio e invece no, è proprio un racconto di fantascienza. Il mito di Roma nell’immaginario vittimista italiano è il titolo della tesi del dottorando Tonio, studioso di storia italiana all’Università di Harvard 28 sul pianeta Terra 10, in anni in cui «la parola “Italia”, come molte altre, rimanda a immagini e vicende che la Specie si è lasciata alle spalle da 50mila anni». Questo racconto è una scheggia di meteorite depositata nei polmoni dei fascisti dei millenni a venire. E un omaggio a Luca Rastello.

Il mito di Venezia nell’immaginario nazionalista italiano– Piero Purini
«Venezia Giulia», quest’associazione di lemmi forzata e fortunata nasce per legittimare e dare una direzione al nazionalismo italico, ma è anche utile, come si esplicita nel testo, all’indipendentismo veneto e croato. In un’espressione ritroviamo la sintesi di due potenze politico-economiche che nei secoli hanno governato parte della penisola italiana: la Serenissima Venezia, baluardo a difesa delle invasioni d’oriente, e l’imperiale Roma di Giulio Cesare. La scelta non è chiaramente casuale e «il mito di Venezia – condito con qualche gladiatore – si dimostra comodo per tutti i nazionalismi a caccia di giustificazioni».

Venezia, o il racconto assente della violenza imperialista – Alberto Sebastiani
Venezia è una iena, non un leone. Si ciba di carcasse politiche ed economiche, succhia il sangue dell’impero bizantino per diventare grande e autoproclamarsi difensora dell’occidente dalle popolazioni d’oriente. Anche qui siamo di fronte a un pezzo ibrido che si serve della letteratura – storica e di fantascienza – per addomesticare il Leone di San Marco, farlo scendere dal piedistallo e riportarlo in piazza tra i piccioni. L’analisi di Sebastiani de Le catene di Eymerich e La luce di Orione di Valerio Evangelisti ci accompagnano alla scoperta di un imperialismo veneziano legato alle Crociate e alla repressione degli “eretici”, lo stesso imperialismo che verrà esaltato durante le Guerre d’Indipendenza e il periodo fascista per giustificare l’accaparramento delle terre di quella “Venezia Giulia” di cui ci parla il Purini.

Fascists love Putin – Valerio Renzi
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Per chi a sinistra non se ne fosse ancora reso conto è arrivato il tempo di farsi una spietata autoanalisi o di indossare la camicia rossobruna. Il corpo e la immagine di Putin generano orgasmi negli italianissimi. Tuttavia Putin più che essere considerato un vero e proprio camerata, rappresenta la possibilità di una svolta autoritaria, un alleato per contrastare il mondialismo dai palazzi che contano, un generoso finanziatore per imporre il nazionalismo in ogni paese.

L’Epopea del Nazionalismo Rivoluzionario Messicano – Fabrizio Lorusso
Francesco Vanzetti, aspirate docente di Studi Latinoamericani dell’Università Autonoma di Città del Messico, sostiene un colloquio per un posto da “professore-ricercatore non definitivo a tempo pieno”. L’ordinario, jefe de jefes, lo lascia parlare per un po’ di nazionalismi e populismi latinoamericani, poi s’irrigidisce: «Insomma, va be’, corporativismo, populismo, ma lei lo saprà, qui in Messico, ecco, noi abbiamo il “Nazionalismo Rivoluzionario”…». Istituzionalizzare la Rivoluzione di Zapata, Villa e i Magon si può? No, non si può. Quello che si può è cambiare le parole, trasformare la Controrivoluzione in Rivoluzione e costruire con la reazione un partito ambiguo ma solido: il Partido Revolucionario Institucional per l’appunto, rimasto al potere per più di 71 anni.

Bombay/Mumbai, il destino nel nome – Alberto Prunetti
È solo una sillaba ma contiene in seno l’affermazione politico-culturale dello Shiv Sena, partito xenofobo di estrema destra che nel 1995, approfittando della sua posizione di governo nello stato di Maharashtra, decise di cambiar nome alla città, per ragioni di purezza e rivendicazione delle origini marathi. L’autore, da un punto di vista d’osservazione privilegiato, ci racconta del «fuoco che ha devastato Mumbai. Un fuoco che è stato innescato dal gioco di specchi tra identità in opposizione, dalle finzioni delle etnie, delle identità, dei credi assoluti e incompatibili».

Libro e moschetto 2.0 – Giuseppe Ciarallo
Ma chi sono i gramsciani di destra? Esistono davvero? E ai neofascisti piacciono sul serio Che Guevara e Corto Maltese? Ma soprattutto, quali sono i punti di riferimento letterari degli acuti fascisti del terzo millennio? Ad alcune di queste domande Ciarallo prova a dare una risposta fornendoci una piccola enciclopedia di personalità letterarie care all’estrema destra italiana.
Pegida 

Non finirà mai! – Wolf Bukowski
Transitando dalla letteratura alla società, da Il passo del gambero di Gunter Grass, ai Mondiali di calcio del 2006, l’autore ci racconta una Germania vogliosa di un patriottismo sano che si lasci definitivamente alle spalle i fantasmi del nazionalsocialismo. Si tratta ovviamente di una menzogna, utile solo a ripassare i confini di nero e giustificare l’intransigenza economica dei potenti. Le destre, ben lungi dal stare a guardare, sventolano bandiere rosso-nero-dorate, tentando giochi di prestigio come quelli del Pegida, movimento ambiguo solo agli occhi di chi non ha il coraggio di riconoscere un’aquila travestita da passerotto. «Non finirà mai, dunque? No di certo, se neppure riconosciamo quando ricomincia».

Closelandia. Cosa importa che una terra sia vicina, se mi è preclusa? – Massimo Viaggi
Con l’aiuto del romanzo La figlia della catalana Uson, che narra la storia della secondogenita di Ratko Mladic – generale serbo accusato del massacro di Sebrenica – Viaggi mette a nudo le difficoltà di comprensione, anche interiori, generate dai nazionalismi e dall’esaltazione delle identità, nonché di decifrazione dei codici linguistici da essi adoperati. Nel momento in cui i significati delle parole saltano e s’impregnano di ambiguità, la confusione semantica può uccidere. «Ciò che rende devastante l’impatto di una parola è da un lato l’uso mediatico e di propaganda che se ne fa, e dall’altro il contesto storico-politico entro il quale viene usata». Per questo l’autore può permettersi di essere d’accordo con Borghezio che nel 2011 definì Mladic un patriota («anche se Mladic non rubava, Garibaldi bisogna vedere»): perché quella parola non ha più nulla a che vedere con gli ideali risorgimentali.

L’ignoranza è forza! – Paolo Vachino
Parole, parole e ancora parole. Comprimerle, nasconderle, dimenticarle, sostituirle con inglesismi, spettacolarizzarle al fine di somministrarle al pubblico, meglio se pigro, sfruttato, massificato. Che cos’è un Talk Show? Uno “spettacolo di parole”. Ci avevate mai pensato? In questo show, per fare un esempio, quanto costano le parole e a chi appartengono?

Quei temerari sulle patrie volanti – Milena Magnani
Identità locali e lingue minoritarie non sono naturalmente associabili a chiusura e nazionalismo, anzi. Un esempio di processo singolare e performativo è la rivista Usmis, sorta agli inizi degli anni ’90 e interamente redatta in friulano.«Usmis fu un laboratorio animato da sogjets zingars, da poeti e liberi pensatori anarchici e anticonformisti, un laboratorio che diede vita a psicogeografie e scioperi creativi»

Omo lava più bianco – Silvia Albertazzi
L’autrice ripercorre le immagini di My Beautiful Laundrette, film del 1985 diretto da Stephen Frears e sceneggiato da Hanif Kureishi correndo sul filo delle relazioni tra cultura di appartenenza, genere e classe. La comunità pakistana nell’Inghilterra della Tatcher viene descritta come un universo complesso, in cui lo sfruttamento economico non è solo subito ma anche agito contro gli strati più deboli della società. Immaginatevi poi uno skinhead razzista che irrompe sulla scena innamorandosi di un ragazzo pakistano “di successo”. Una miccia che aspetta solo di essere accesa in una società che è già una bomba ad orologeria. Un film da rivedere oggi in Italia – consiglia l’autrice – con una maggiore consapevolezza rispetto al 1985.

Muri (im)portanti – Cristina Muccioli
Il muro è pagina resistente, è arte e strumento di guerriglia culturale. A dipingere si è iniziato proprio dai muri e non si è più smesso. Artisti come Bansky e Blu, per citare i più noti, hanno ereditato una lunga tradizione di scritture resistenti murali. Obiettivo principale della loro opera è gettare uno sguardo altro e oltre, disintegrare muri per abbattere quella rettitudine che è barriera, frontiera, confine.

Ci sono sempre delle frontiere – Sergio Rotino
Analizzando il ciclo de Le città oscure dei due fumettisti belgi François Schuiten e Benoit Peeters, Rotino s’interroga sul peso che urbanistica e architettura giocano nelle nostre esistenze. Su come i modelli urbani influiscano sulle vite delle persone. Nei fumetti del duo belga è presente una forte critica a un’urbanistica che diventa scienza, senza tener conto del fattore umano e naturale. L’autore sposa la critica e ci invita a perderci nelle città di Schuiten e Peeters per comprendere attraverso il linguaggio e la ricerca delle immagini quanto lo spazio e il tempo urbano possano essere strumenti di costrizione e d’imposizione d’ordine.

«Più della metà delle cose che esistono / non esistono*
Le razze non esistono, ma il razzismo uccide»
* verso del poeta friulano Federico Tavan

 Documento tratto da   http://www.carmillaonline.com/  Pubblicato il  

CONOSCENZA E COSCIENZA DEI LUOGHI

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Becattini Giacomo

La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale

"La coscienza dei luoghi"è un libro intestato al solo Giacomo Becattini, e probabilmente è giusto così, non fosse altro che il saggio in gran parte è composto da inediti dell'economista toscano e da testi pubblicati su riviste come "Il Ponte", "Il Sole 24 Ore", "Sviluppo locale", "Contesti". E' opportuno aggiungere però che la presentazione di Alberto Magnaghi e il lungo dialogo tra i due professori emeriti (frutto di diversi incontri tra il 2006 e il 2010) ci dice moltissimo sulla "lunga marcia degli studi economici verso il territorio". Ricordiamo, infatti, che la carriera accademica di Becattini si è caratterizzata per una particolare attenzione alle ricchezze dei distretti industriali, intese innanzitutto come accumulo di conoscenze ed esperienze di imprenditori e lavoratori. Interessi che hanno reso Becattini - da tempo convinto che gli studi economici non dovessero interpretare il territorio come semplice e neutro spazio geografico - l'interlocutore ideale di Magnaghi, non a caso fondatore della Scuola territorialista italiana. Quello che possiamo cogliere dal dialogo tra i due professori, forse con ancor più evidenza rispetto le pur apprezzabili pubblicazioni scientifiche, è che l'obiettivo di avvicinarci a un'economia cooperativa, al fine di limitare i danni della globalizzazione finanziaria e di un capitalismo finanziario "che ha fatto deragliare il processo di incivilimento", vuol dire innanzitutto implementare una "coralità produttiva". In altri termini proporre una sorta di globalizzazione alternativa, fatta di innumerevoli mondi locali cooperanti, e di altrettante "coscienze di luogo". Esattamente l'opposto di quanto sostenuto dai "brillanti strateghi" che avanzano l'idea di approfittare della crisi "per rinnovare il guardaroba della nostra industria, abbandonando - era l'ora! - le chincaglierie pseudo-artigianali del Made in Italy per affacciarsi in forze - quali forze? - sulle scene prestigiose dell'hight tech e della grande industria […] Non possiamo esimerci dal notare che quel modo di ragionar implica che la posizione di un paese nella divisione mondiale del lavoro sia una cosa da decidere a un tavolino romano, fra una carbonara e un abbacchio" (pp.19).
Becattini, invece, senza dimenticare "la divaricazione tra Pil e benessere" (precisata, oltretutto, da studiosi come Joseph E. Stiglit, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi), ci dice che "il punto di partenza corretto dell'analisi produttiva dovrebbe essere che ogni luogo, per come l'hanno foggiato madre natura e le vicende della sua storia, ha, in ogni dato momento, un suo grado, diciamo, di coralità produttiva, basata, questa, non soltanto sula vicinanza tecnica, spaziale e culturale delle imprese, ma anche e più sulla omogeneità e congruenza culturale delle famiglie" (pp.59). Basandosi sulle analisi del pensiero di Marshall, di Giorgio Fuà e di altri eminenti studiosi, il nostro autore propone una via d'uscita dall'idea "anchilosante che vi sia un solo sentiero di sviluppo" (pp.93). Un modo per governare quelli che vengono definiti "i termini del conflitto della nostra epoca: il conflitto fra eterodirezione globale e autogoverno locale in comune dei mezzi della riproduzione della vita materiale e relazionale" (pp.220).
Un'analisi che, soprattutto nel dialogo col collega urbanista, viene valorizzata con casi concreti di stretta attualità, e che merita qualche ampia citazione. Così Magnaghi: "Faccio un esempio. E' nota la polemica sul sottoattraversamento di Firenze per la Tav [ndr: in realtà i fiorentini sono disinformati e, spesso, indifferenti se interrogati sulla vicenda], un'opera di cui nessuno è in grado di definire l'utilità. E' stato pubblicato un rapporto (cui ha partecipato il mio laboratorio dell'Università di Firenze, Lapei) che dimostra che una soluzione di superficie è più semplice, meno rischiosa e infinitamente meno costosa. Perché politici e amministratori non ascoltano nessuno - cittadini, comitati, movimenti, università - e insistono sulla soluzione più costosa e a rischio? Una risposta la si trova vedendo la composizione degli appalti: un intreccio indissolubile fra poteri e interessi economici e partitici. I politici locali si trovano a dover rispondere agli interessi delle imprese create dal loro stesso partito, per le quali più l'opera costa e meglio è" (pp.121). Situazioni simili, secondo Becattini, si sono aggravate ormai da decenni proprio a causa dei sempre più stretti rapporti tra politica e big business. E' altrettanto evidente che, in un'Italia dove la corruzione è stata sdoganata come "volano dell'economia" e dove le proteste degli ambientalisti e della società civile sono archiviate con la parola "comitatini" (cit. M. Renzi), sia Becattini che Magnaghi si fanno davvero promotori di un cambiamento di prospettiva: un'economia che torni ad essere "quello che era in origine, vale a dire lo studio dell’organizzazione sociale più favorevole alla felicità dei popoli". Del tutto coerenti quindi le parole di Becattini al termine della cosiddetta "metafora del lago", pubblicata nel 2012 per la società dei territorialisti: "L'economia è certamente la scienza degli affari, ma,'anche e più', essa è parte essenziale del discorso filosofico sull'uomo. O, come diceva John Stuart Mill: non può essere un buon economista chi sia soltanto un economista" (pp.114).

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE:
Giacomo Becattini, nato a Firenze nel 1927, è stato professore di Economia politica nell’Università di Firenze. È membro delle Accademie dei Lincei, Colombaria e dei Georgofili, nonché socio onorario di Trinity Hall (Cambridge). Fra i suoi libri ricordiamo: Il concetto d’industria e la teoria del valore, Boringhieri, 1962; Scienza economica e trasformazioni sociali, La Nuova Italia, 1979; Distretti industriali e made in Italy, Bollati Boringhieri, 1998; Dal distretto industriale allo sviluppo locale, Bollati Boringhieri, 2000; Il distretto industriale, Rosenberg & Sellier 2000; Miti e paradossi del mondo contemporaneo, Donzelli, 2002.
Alberto Magnaghi, architetto urbanista, professore emerito dell’Università di Firenze, è fondatore della Scuola territorialista italiana e presidente della Società dei territorialisti/e. Fra le pubblicazioni più recenti: Il progetto locale (Bollati Boringhieri, 2000, 2010), La biorégion urbaine (Eterotopia France, 2014), La regola e il progetto (Firenze University Press, 2014).
Giacomo Becattini,“La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale", Donzelli (collana Saggine), Roma 2015, pp. XVI-224. Con una Presentazione di Alberto Magnaghi e un Dialogo tra un economista e un urbanista di Giacomo Becattini e Alberto Magnaghi.
Luca Menichetti. Lankelot, gennaio 2016

L' INTERVISTA DI ENZO BIAGI A P.P. PASOLINI

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Questa intervista riproduce parte  dell’intervento di Pasolini alla trasmissione di Enzo Biagi, "Terza B facciamo l’appello".

Nel luglio del 1971 sarebbe dovuta andare in onda una puntata di "Terza B: facciamo l’appello", trasmissione di Enzo Biagi. Ma fu sospesa per una vicenda giudiziaria che convolse Pasolini nella sua qualità di direttore responsabile di "Lotta Continua"("istigazione alla disobbedienza" e "propaganda antinazionale"). Sarà presentata quattro anni dopo, il 3 novembre 1975, all’indomani del suo assassinio. 

Produco poesia, una merce inconsumabile
Pier Paolo Pasolini risponde a Enzo Biagi


Lei ha scritto: "Sul piano esistenziale io sono un contestatore globale. La mia disperata sfiducia in tutte le società storiche mi porta a una forma di anarchia apocalittica". Che mondo sogna?

Per un certo tempo, da ragazzo, ho creduto nella rivoluzione come ci credono i ragazzi di adesso. Adesso comincio a crederci un po’ meno. Sono, in questo momento, apocalittico. Vedo di fronte a me un mondo doloroso, sempre più brutto. Non ho speranze. Quindi non mi disegno nemmeno un mondo futuro.



Mi pare che lei non creda più ai partiti.

No. Se lei mi dice che non credo più ai partiti mi dà del qualunquista, invece io non sono qualunquista. Tendo più verso una forma anarchica che verso una scelta ideologica di qualche partito, ma non è che non creda ai partiti.



Perché lei sostiene che la borghesia sta trionfando?

La borghesia sta trionfando in quanto la società neocapitalistica è la vera rivoluzione della borghesia. La civiltà dei consumi è la vera rivoluzione della borghesia. E non vedo altre alternative, perché anche nel mondo sovietico, in realtà, la caratteristica dell’uomo non è tanto quella di aver fatto la rivoluzione e di viverla, ma quella di essere un consumista. La rivoluzione industriale livella tutto il mondo.



Lei si batte contro l’ipocrisia, sempre. Quali sono i tabù che lei distruggerebbe: le prevenzioni sul sesso, lo sfuggire alle realtà più crude, la mancanza di sincerità nei rapporti sociali?

Mah, questo l’ho detto fino a dieci anni fa. Adesso non dico più queste cose perché non ci credo. La parola "speranza"è cancellata dal mio vocabolario. Quindi continuo a lottare per verità parziali, momento per momento, ora per ora, mese per mese, ma non mi pongo programmi a lunga scadenza perché non ci credo più.



Lei non ha speranze?

No.


Questa società che lei non ama in fondo le ha dato il successo, la notorietà…
Il successo non è niente. Il successo è l’altra faccia della persecuzione. E poi il successo è sempre una cosa brutta per un uomo. Può esaltare, al momento, può dare delle piccole soddisfazioni a certe vanità, ma in realtà, appena ottenuto, si capisce che è una cosa brutta. Per esempio, il fatto di aver trovato i miei amici qui, alla televisione, non è bello. Per fortuna noi siamo riusciti ad andare al di là dei microfoni e del video, e a ricostruire qualcosa di reale e di sincero; ma come posizione è brutta, è falsa.



Perché? Che cosa ci trova di così anormale?

Perché la televisione è un medium di massa, che non può che alienarci.



Ma oltre ai formaggini e al resto, questo mezzo porta in casa adesso anche le sue parole. Noi stiamo discutendo tutti con grande libertà, senza alcuna inibizione.

No, non è vero.



Sì, è vero. Lei può dire tutto quello che vuole.

No, non posso dire tutto quello che voglio.



Lo dica.

No, non potrei, perché sarei accusato di vilipendio dal codice fascista italiano. In realtà non posso dire tutto. E poi, oggettivamente, di fronte all’ingenuità o alla sprovvedutezza di certi spettatori, io stesso non vorrei dire certe cose. Ma a parte questo, è il medium di massa in sé: nel momento in cui qualcuno ci ascolta dal video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico.



Io penso che in certi casi sia anche un rapporto alla pari: perché non potrebbe esserlo?

Alcuni spettatori, per privilegio sociale, possono esserci culturalmente pari... Ma in genere le parole che cadono dal video cadono sempre dall’alto, anche le più democratiche, anche le più sincere. L’insieme della "cosa vista" sul video acquista sempre un’aria autoritaria, fatalmente, perché viene sempre data come una cattedra. Il parlare dal video è sempre parlare ex cathedra, anche quando questo è mascherato da democraticità.


Lei è stato, molti anni fa, per Ragazzi di vita, uno dei primi scrittori italiani chiamati a comparire in tribunale sotto l’accusa di oscenità: a distanza di tempo, come giudica certi scrittori erotici di oggi e questo dilagare dell’erotismo nel cinema, nelle librerie e nelle edicole?
Mah, per me l’erotismo nella vita è una cosa bellissima, e anche nell’arte: è un elemento che ha diritto di cittadinanza in un’opera come qualsiasi altro. L’importante è che non sia volgare; ma per volgarità non intendo quel che si intende generalmente, ma una disposizione razzistica nell’osservare l’oggetto dell’eros. Ad esempio, la donna nei film o nei fumetti erotici è vista razzisticamente come un essere inferiore, quindi è vista volgarmente. Allora, in questo caso, l’eros è puramente una cosa commerciale, volgare.



Come mai un marxista come lei trae tanto spesso ispirazione dai soggetti che escono dal Vangelo o dalle testimonianze dei seguaci di Cristo?

Evidentemente il mio sguardo verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, non laico: tratto le cose un po’ come miracolose. Ogni oggetto per me è miracoloso: ho una visione – in maniera sempre informe, diciamo così – non confessionale, in un certo qual modo religiosa, del mondo. Ecco perché investo di questo modo di vedere le cose anche le mie opere.



Il Vangelo la consola?

Mah, non cerco consolazioni. Cerco umanamente, ogni tanto, qualche piccola gioia, qualche piccola soddisfazione, ma le consolazioni sono sempre retoriche, insincere, irreali… Lei dice il Vangelo di Cristo? No, in questo caso escludo totalmente la parola "consolazione": per me il Vangelo è una grandissima opera intellettuale, una grandissima opera di pensiero che non consola: che riempie, che integra, che rigenera… ma la consolazione, che me ne faccio della consolazione? "Consolazione"è una parola come "speranza".



Secondo lei gli intellettuali italiani scendono a troppi compromessi: facciamo dei nomi, citiamo dei casi… 
Il compromesso si può riassumere in un punto solo: quello di accettare in modo acritico – perché se fosse critico si potrebbe anche ammettere, anzi credo sarebbe inevitabile – l’integrazione.



Non l’accetta anche lei?

Sì, ma in modo critico (come vede, mi ero premunito). Cioè, certo non posso non accettarla: devo essere un consumista per forza, perché anche io mi devo vestire, devo vivere; non soltanto, devo scrivere o fare dei film e quindi devo avere degli editori, dei produttori…



Quindi anche lei produce per il consumo.

La mia produzione consiste nel criticare la società che in un certo senso mi consente, almeno per ora, di produrre in qualche modo.



La società ha sempre tremendamente amato chi produceva dicendo di non amarla.

Sì, è vero: può darsi che le signore della buona borghesia amino, in un certo senso, essere colpite. La società cerca di assimilare, di integrare, certo: è un’operazione che deve fare per difendersi. Però non sempre ci riesce, a volte ci sono delle operazioni di rigetto. Tanto più poi che non possiamo parlare di poesia come di merce: io produco, ma produco una merce che in realtà è inconsumabile, e quindi c’è un rapporto strano tra me e i consumatori. Immagini che a un certo punto, in Lombardia, arrivi uno che inventa un certo tipo di scarpe che non si consumeranno mai più, e che un industriale milanese costruisca queste scarpe: pensi alla rivoluzione che succederebbe nella Valle Padana, almeno nel settore dei calzaturifici. Io produco una merce, la poesia, che è inconsumabile: morirò io, morirà il mio editore, moriremo tutti noi, morirà tutta la nostra società, morirà il capitalismo ma la poesia resterà inconsumata.

Testo ripreso da:


Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro - Blog creato da Bruno Esposito
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UN MODO DIVERSO DI LEGGERE KAFKA

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  • Kafka, disegno di Cargo Collective
    Kafka, disegno di Cargo Collective



Uno dei motivi per cui ho accettato di parlare in pubblico di un argomento rispetto al quale sono grandemente sottoqualificato è che mi dà la possibilità di declamare per voi una storia di Kafka che ho smesso di utilizzare nel mio corso di Letteratura e che mi manca di leggere ad alta voce. Il titolo tradotto è Una piccola favola.

“– Ahimè,– disse il topo, – il mondo si rimpicciolisce ogni giorno di più. All’inizio era così grande da farmi paura, mi sono messo a correre e correre, e che gioia ho provato quando finalmente ho visto in lontananza le pareti a destra e a sinistra! Ma queste lunghe pareti si restringono così alla svelta che ho raggiunto l’ultima stanza, e lì nell’angolo c’è la trappola cui sono destinato.
– Non devi far altro che cambiare direzione, – disse il gatto, e se lo mangiò”.
(F. Kafka, Piccola favola, in: Il messaggio dell’imperatore e altri racconti, a c. di Anita Rho, Frassinelli, Torino 1949, p. 87).

Una mia grande frustrazione quando cerco di leggere Kafka con gli studenti è che è impossibile far loro capire che Kafka è comico. Né tantomeno apprezzare il modo in cui questa comicità è intimamente legata alla potenza dei suoi racconti.

Questo diceva, nel 1999, uno dei più interessanti scrittori statunitensi del dopoguerra, suicidatosi troppo presto, David Foster Wallace (1962-2008), nello scritto dall’autoironico titolo: Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka che forse dovevano essere tagliate ulteriormente (D. F. Wallace, Considera l’aragosta, 2005; ed. it. Einaudi, Torino 2006, p. 64: il saggio-reportage che dà il titolo al volume è un capolavoro che sarebbe piaciuto molto a Kafka). Wallace sosteneva che gran parte dell’umorismo di Kafka non è affatto sottile, o meglio è antisottile: “La comicità di Kafka dipende da una sorta di letterarizzazione radicale di verità solitamente trattate come metafore. (…) È  sempre anche tragica, e questa tragicità è sempre anche una gioia immensa e riverente. (…) Il suo in definitiva è un umorismo religioso eroicamente sano”. La conclusione di Wallace è che le storie di Kafka sono una specie di porta che si apre verso l’esterno: e questo è il comico.

Questa della COMICITÀ è la chiave con la quale leggo anch’io Kafka, perché, d’istinto, così lo lessi la prima volta, rimanendone io stesso sorpreso, all’età di quattordici anni. Ricordo che mia madre, che mi aveva passato un po’ scettica la sua copia dei racconti con la copertina nera e la muraglia cinese in rosso stampata sopra, rimase assai perplessa, e forse anche un po’ preoccupata, quando mi sentì sghignazzare durante la lettura della Metamorfosi. Le mie successive, e più sistematiche, letture di Kafka mi confermarono in questa impressione. Anche perché, negli anni Ottanta, i miei frequenti soggiorni nell’Europa centrale mi fecero sentire che il mondo rappresentato da Kafka si era fatto, in quelle realtà, con gli anni, sempre più tragicomico. L’incubo grottesco del cosiddetto “socialismo reale”, grazie a lui, appariva chiaramente comico. Per molti dei miei amici a Varsavia e Praga, Kafka costituiva una lucida chiave di lettura della realtà e la proposta di un salutare e resistenziale sghignazzamento. E infatti i suoi libri erano introvabili e, in Unione Sovietica, addirittura proibiti.  Il 27 e 28 maggio del 1963, nell’ottantesimo anniversario della nascita di Kafka, si tenne a Liblice, vicino a Praga, un poco ortodosso convegno di studi sulla sua opera che vide come protagonisti alcuni di quelli che sarebbero stati animatori della Primavera di Praga, e poi costretti all’esilio dopo l’invasione dei carri armati russi (cfr. Franz Kafka. La vita e l’opera negli studi marxisti degli anni ’60, a c. di Saverio Vertone, De Donato, Bari 1966).

Come ha giustamente scritto in seguito Milan Kundera: “Credo che il modo, non soltanto mio, ma dei cechi in generale, di capire Kafka è sicuramente diverso da quello vostro. Per noi Kafka è uno scrittore realistico perché la sua è una visione lucida della realtà. Nessuno di noi legge i suoi libri come se fossero delle allegorie. Inoltre siamo molto più sensibili al suo humour. La specificità dello humour di Kafka è che una certa comicità accompagna l’uomo in tutte le sue azioni”. Kafka “umorista realistico”? Ricordo che il dolce professore di Letteratura ungherese all’Università di Firenze e scrittore di teatro, Miklos Hubaj, raccontò una volta che, dopo il fallimento della rivolta di Budapest del 1956, molti intellettuali furono prelevati da casa dalla polizia, bendati e portati in camion in un viaggio di diverse ore, durante le quali tutti erano convinti che li avrebbe, alla fine, attesi la fucilazione. Quando i camion si fermarono, li fecero scendere e tolsero loro le bende, si trovarono difronte un paesaggio montano (erano in Romania) sovrastato da un enorme castello-prigione. Fu allora che il filosofo Georgy Lukàcs disse a voce alta, provocando una liberatori risata: “Ho sempre sostenuto che Kafka era uno scrittore astratto e piccolo borghese. Ora ho capito che era un grande scrittore realista!”. E ricordo anche che quando, nel febbraio del 1988, vidi al Thèatre du Gymnase di Parigi, lo splendido adattamento e messa in scena del regista inglese Steven Berkoff, de La metamorfosi di Kafka, con Roman Polanski nel ruolo principale di Gregorio Samsa, Polanski sostenne di scorgere da sempre nell’opera dello scrittore praghese una vena neanche tanto nascosta di comicità. E aggiunse: “Questa comicità sfugge completamente a uno spettatore non est europeo, abituato, o forse condannato, dalla scuola e da svariati libri, a considerare Kafka esclusivamente come lo scrittore della colpa e del vuoto”.

E un altro grande polacco (assai vicino alla sensibilità di Kafka), del quale mi sono occupato, Bruno Schulz, il geniale autore de Le botteghe color cannella (1934), nella sua introduzione all’edizione polacca (1936) de Il processo, tradotto dalla sua fidanzata Jòzefa Szelinska, aveva scritto: “Kafka stigmatizza e ridicolizza indefessamente la problematicità e la disperazione delle azioni umane in relazione dell’ordine divino (…). Il suo rapporto con la realtà è del tutto ironico, perfido, animato da cattiva volontà: il rapporto del prestigiatore con la propria attrezzatura. Egli simula soltanto l’esattezza, la serietà, la sforzata precisione di quella realtà allo scopo di screditarla ancor più radicalmente” (B. Schulz, Introduzione a F. Kafka, Il processo, a c. di Anita Raja, Feltrinelli/I Classici, Milano 1995, pp. 10-11).

Naturalmente la comicità non è l’unica chiave interpretativa dell’opera di Kafka: uno scrittore talmente grande, sfaccettato e profondo da poter e meritare di essere considerato da molti punti di vista. Uno, assai interessante, è, ad esempio, quello di Giuliano Baioni, per molti anni professore di Letteratura tedesca all’Università di Venezia, che, dopo aver sottratto Kafka all’interpretazione in chiave simbolica (Kafka. Romanzo e parabola, Feltrinelli, Milano 1962), ci ha dato con Kafka: letteratura e ebraismo (Einaudi, Torino 1984), un quadro assai chiaro e documentato della Praga ebraica (dove si confrontavano sionisti, ebrei assimilati e mistici ebrei orientali) e dei profondi legami di Kafka e la sua opera con l’ebraismo. Ma Baioni ha trascurato proprio il rapporto tra la comicità di Kafka e l’ebraismo. Un bel proverbio ebraico dice: “L’uomo pensa, Dio ride”. Coloro che lo credono, immaginano la nostra esistenza come un grande teatro comico per un solo Spettatore che da lassù sorride dei nostri goffi tentativi di capire il mondo, di dargli un senso: dal suo punto di vista, i nostri pensieri e le nostre azioni, anche le più terribili, sono probabilmente uno spettacolo divertente.

La cultura ebraica, oltre al rispetto, al timore e all’amore, ha sviluppato progressivamente una vena comica che, come nelle migliori tradizioni del cabaret, tenta di interloquire con quel solo membro del nostro pubblico collocato in alto. In un continuo confronto con Dio, anche dopo le più grandi sofferenze, l’umorismo ebraico cerca di mantener vivo questo singolare spettacolo, nel quale si impara e si tenta di affrontare la vita con una poetica filosofia della sopportazione, mai rassegnata. Una filosofia che non prende in considerazione la rinuncia né la resa, ma anzi si incaponisce a chiamare continuamente in causa Dio, per raccapezzarsi nel disordinato e oscuro teatro nel quale siamo stati, senza nostra scelta, chiamati a recitare. L’umorismo ebraico è una formidabile arma di difesa e di attacco. Come ha spiegato lo psicoanalista Cesare Musatti: “L’ebreo è colui che con le proprie caratteristiche, anche di sfortuna, di miseria e di stenti, e insieme dei personali elementi caratteriali da un lato, e la sua capacità dall’altro di sapersi destreggiare in queste situazioni difficili, riesce a convertire, attraverso gli artifici comici di cui lui stesso fa le spese, la propria infelicità in uno stato di dominio della situazione” (C. Musatti, Mia sorella gemella la psicoanalisi, Ed. Riuniti, Roma 1982). L’umorismo ebraico è uno degli elementi distintivi della Modernità e uno dei cardini della cultura occidentale. Con la cultura ebraica l’ironia non è più soltanto indirizzata verso l’“esterno” (com’è stata la Satira), ma si rivolge anche verso l’“interno”, diventando AUTOIRONIA.

In questo viaggio all’interno di se stessi, l’umorismo diviene materia per la Psicoanalisi, e non è un caso che Sigmund Freud abbia dedicato una delle sue opere più importanti all’indagine sull’ironia come uno dei meccanismi comunicativi che caratterizzano il linguaggio dell'inconscio: Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905). Per scriverlo, il padre della psicoanalisi raccolse una gran quantità, probabilmente divertendosi molto, di “storielle ebraiche”. Freud sostiene che proprio in esse è contenuta una tipica forma umoristica che mette in mostra quegli aspetti caratteristici degli ebrei, che in genere attirano la critica aggressiva degli altri. Questo spirito autocritico può esser identificato con l’umorismo che si ha proprio quando l’autore, elevandosi sopra le proprie miserie, debolezze, piccole grandi viltà quotidiane, rende oggetto di risata questa sua condizione infelice. Ed è questo anche l’aspetto drammatico del vero umorismo ebraico: gli ebrei, mettendo in piazza i propri “difetti”, riescono a convertire l’aggressività degli altri, certe volte, in simpatia, altre addirittura in solidarietà. C’è, secondo Freud, una grandezza d’animo, qualcosa di elevato e nobilitante, nel comportamento umoristico.

Molti stentano a crederlo, ma l’ebreo praghese Franz Kafka era un tipo malinconico, tormentato e solitario, ma anche, e si potrebbe dire in egual misura, allegro, amichevole e ironico. Si racconta di come avesse fatto ridere tutti i suoi amici leggendo loro, per la prima volta, il capitolo iniziale del Processo (1925). In una lettera del 1913, indirizzata alla sua prima fidanzata, Felice Bauer (cfr. Lettere a Felice 1912-1917; che Elias Canetti “smascherò” come una vera macchinazione per farsi lasciare dalla fidanzata: cfr. E. Canetti, L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, 1969; tr. it. Longanesi, Milano 1973), Kafka le descrive la scena della piccola cerimonia privata, con la quale si celebra la sua promozione e quella di due colleghi che con lui lavorano nell’Istituto di assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori di Praga. Ne scaturisce un episodio degno di Woody Allen. Gli ingredienti ci sono tutti: il Presidente, descritto come “raffinato per l’occasione solenne, tale da ricordare un po’ l’atteggiamento del nostro imperatore nelle udienze”; gli impiegati, Kafka e i due colleghi, che vedono nel Presidente un essere superiore, l’emanazione di una creatura quasi divina; il cerimoniale, formale, apparentemente e assurdamente simile a mille altri; il discorso pomposo; gli atteggiamenti un poco forzati. E in più c’è lui, Kafka o, meglio, il suo vero volto nascosto. Nel mezzo dell’incontro, sente prorompere dal petto un irrefrenabile bisogno di ridere. Cerca di contenersi e si sforza di mascherare con ogni mezzo quell’improvviso, liberatorio bisogno: colpi di tosse, sguardo basso e come sempre timido, risate (probabilmente esagerate) ai garbati scherzetti del Presidente. Ma, fatalmente, si giunge al momento cruciale: “Allorché dunque con larghi gesti delle mani tirò fuori alcune frasi melense, fu troppo per me; il mondo che fino a quel momento avevo ancora avuto davanti agli occhi, scomparve del tutto, e attaccai una risata così cordiale, così forte, così priva di riguardi, come si può forse trovare tra alunni del popolo sui banchi di scuola”.

Ecco il DRAMMA e il RISIBILE: il dramma del non essere, e forse di non voler essere, all’altezza di un mondo che mostra un volto ostile e nemico; e, d’altra parte, il ridicolo della propria degradazione e inadeguatezza. Questa è la sua grandezza e la profondità delle sue vedute, del resto così attuali. Questa, in fondo, la sua umanità, con tutte le debolezze del caso. Come scrisse un filosofo da lui assai amato, Friedrich Nietzsche: “Probabilmente io so perché solamente l’uomo è capace di ridere. Egli soffre così profondamente che ha dovuto inventare il riso. L’uomo, ossia l’uomo più infelice e malinconico, è in tutta evidenza anche l’animale più allegro”.

Kafka è il TRAGICO che si fa COMICO. Lo ha spiegato bene il poeta Edoardo Sanguineti (Sanguineti’s song. Conversazioni immorali, a c. di Antonio Gnoli, Feltrinelli, Milano 2006, p. 91): “Non c’è dubbio che il grande comico convive con il tragico. Non è possibile esprimere il tragico. Non è possibile esprimere il tragico se non nella forma del comico. È quello che io chiamo fou rire. Presa alla lettera, la comicità diventa isterica e perciò tragica. Kafka, per esempio, è comico. C’è un aneddoto che per me è rivelatore di quel che dico. Kafka leggeva Il processo agli amici e a un certo punto non riusciva più ad andare avanti perché piangeva dalle risate. (…) L’arte tragica è surrogata dall’arte isterica”. Val la pena di citare in proposito ciò che dice il più grande amico di Kafka, Max Brod (1884-1968), al quale si deve, per disobbedienza alle sue ultime volontà, la salvezza dei suoi scritti: “Sovente gli ammiratori di Kafka, che lo conoscono soltanto per aver letto i suoi libri, hanno di lui una immagine totalmente falsa. Pensano che dovesse apparire ai suoi amici come una persona triste, anzi disperata. Era esattamente il contrario” (cfr, M. Brod, Kafka, 1937, 1954; tr. it. Mondadori, Milano 1956). Gli stessi concetti li ribadisce il suo più importante biografo: Ronald Hayman (R. Hayman, Kafka. Una biografia, 1981; tr.it. Rizzoli, Milano 1983).

E l’altro amico praghese, che tenne l’orazione funebre di Kafka (il 19 giugno 1924), anch’egli valente scrittore, Johannes Urzidil (1896-1970), nel prezioso libretto Di qui passa Kafka (1966; trad. it. Adelphi, Milano 2002), sostiene che l’ironia era la cifra di Kafka: “Quasi tutto in lui era ironia. (…). Aveva l’ironia dello sguardo rivolto su di sé con malinconica serietà”. Il suo era un “umorismo realistico” che, proprio nei contesti più seri, Kafka accentuava con fare irriverente e burlesco: “La satira di Kafka coglie l’insensatezza, ciò che è intricato e inattingibile, doloroso per natura, e che egli insegue con precisione sadica e spietata. Talvolta ciò che è doloroso viene mostrato in una maniera così esclusivamente bizzarra da non lasciare insorgere alcuna compassione”. Alla comicità in Kafka sono stati dedicati, in italiano, due interessanti libri: Guido Crespi, Kafka umorista (Shakespeare and Company, Roma 1983), che ha il merito di aver contrapposto per primo, nel nostro paese, all’immagine che si ha abitualmente di Kafka, quella di un uomo sofferente e perennemente angosciato, quella di un uomo apparentemente normale, dotato anzi di uno humour veramente fuori dal comune: Kafka vive di fronte all’assurdo, e l’assurdo non è solo terrificante, ha un aspetto ridicolo; e Renato Barilli, La comicità in Kafka (Bompiani, Milano 1999) che ci ha fornito una lettura psicoanalitica dei suoi scritti, mettendone in rilievo gli aspetti comici.

Come giustamente ha notato Lorenzo Tinti (L. Tinti, In dialogo con Kafka, l’imprendibile…, “Bibliomanie.it”) l’acquisizione della comicità dell’arte kafkiana da parte dei suoi esegeti è stata lenta e piena di riserve: “Eppure, lo spazio della narrazione kafkiana è lo spazio di una barzelletta vista dall’interno, è lo spazio privo di dimensioni da cui è preclusa ogni possibilità di distacco. E senza prospettiva la comicità si trasforma nell’orrore dell’insensatezza. La prima condizione di esistenza del comico è infatti una minima distanza di sicurezza che permetta di esorcizzarne la plausibilità (un classico adagio vuole che il comico sia “tragedia più tempo”), altrimenti ci si troverebbe invischiati in una dimensione apparentemente priva di logica o, meglio, dotata di una logica propria, sconosciuta e inconoscibile. Gli altri, all’esterno, riderebbero e noi, protagonisti inconsapevoli della loro barzelletta, ci dibatteremmo in una pania dagli esiti spesso drammatici”. Infatti, secondo Milan Kundera: “Ciascun personaggio di Kafka si trova rinchiuso nella barzelletta della propria vita come un pesce in un acquario; e la cosa non lo diverte affatto. Perché una barzelletta è divertente solo per chi è davanti all’acquario; la kafkianità, invece, ci fa entrare nelle viscere di una barzelletta, dentro l’orrore del comico. Nel mondo della kafkianità, il comico non rappresenta il contrappunto del tragico (il tragicomico), come avviene in Shakespeare; non è lì per rendere più sopportabile il tragico grazie alla leggerezza del tono; non accompagna il tragico, no, lo distrugge sul nascere, privando così le vittime della sola consolazione in cui possano ancora sperare: quella che si trova nella grandezza (vera o supposta) della tragedia”. Kundera (cfr. M. Kundera, L’arte del romanzo, 1986; tr. it. Adelphi, Milano 1988) collega giustamente Kafka con lo spirito nascente del Surrealismo nero praghese e sostiene che Kafka ci insegna a guardare oltre le apparenze e ridere delle nostre insensate tragedie.

Kafka, come ci ricorda sempre Max Brod (p. 44), era stato, fin da ragazzo, di una coscienziosità precisa e scrupolosa. Era maniacalmente attento ai più piccoli aspetti della vita e della realtà. Kafka era quindi comico perché il comico è minuzioso. Come ha notato Roberto Calasso (R. Calasso, K., Adelphi, Milano 2002, 2005, p. 78), questa è la regola di Kafka che formulò, ma subito cancellò, ne Il castello (il passo si può leggere nell’apparato del romanzo): “Il comico vero è senz’altro il minuzioso”. Calasso sostiene, a ragione, che questa regola è stata applicata in tutti i suoi scritti: “Di qualsiasi cosa si tratti, basta essere puntigliosi, esigenti nel precisare i passaggi, inflessibili nel seguirne le fasi – e il comico erompe. Invincibile, sovrano”. Sono surreali e ricchi di umorismo, e bisogna provare a leggerli con questa prospettiva per scoprirli davvero sorprendenti, tutti i romanzi di Kafka, da Il castello (1922), a Il processo (1925), ad America (1927), e i racconti, da La Metamorfosi (1912, ma pubblicata solo nel 1915), con il protagonista che si trova improvvisamente trasformato in un disgustoso insetto e si preoccupa, tra l’altro, dell’orario dei treni e dell’ufficio, a quella perla di umorismo nero che è, ad esempio, la conferenza di una “scimmia umanizzata” (Relazione per un’accademia, 1920).

Ma forse Un digiunatore (Ein Hungerkunstler,1922), uno degli ultimi racconti pubblicati in vita da Kafka, e uno dei miei preferiti, mostra più chiaramente come l’ironia emerga dalla tragedia. Il digiunatore sta sdraiato sulla paglia dentro una piccola gabbia di sbarre. La gente compra i biglietti per osservarlo. L’uomo, pallido, le costole sporgenti, si sforza di sorridere e di rispondere alle domande, o stende un braccio attraverso le sbarre perché sentano la sua magrezza. È controllato notte e giorno da rappresentanti del pubblico, solitamente macellai. Ma lui è l’unico a sapere che non c’è trucco, nel periodo di digiuno lui non mangia nulla, mai. Nondimeno l’artista non è soddisfatto di sé: nessun altro sa quanto sia facile digiunare. Dopo quaranta giorni si domanda: perché cessare proprio ora? Egli non vorrebbe lasciare la gabbia come il trapezista non vorrebbe lasciare l’aerea prigione. L’artista del digiuno sente che non c’è limite alla sua capacità di affamarsi. Ma la moda cambia. La folla non viene più. L’artista lascia l’impresario e si unisce a un circo. Ma non è più tanto famoso da essere presentato come parte dello spettacolo; la sua gabbia è posta accanto alle  scuderie, la gente ci passa accanto senza porvi mente. Lui reagisce affannandosi sempre di più. Alla fine dice: “Voi non dovete ammirare il mio digiuno. Sono costretto a digiunare, perché non ho mai potuto trovare il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato non avrei fatto tante storie e mi sarei rimpinzato come tutti gli altri” (F. Kafka, Il digiunatore, in: La Metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, a c. di Andreina Lavagetto, Feltrinelli, Milano 1991, p. 207).

Per un comico paradosso, tutto kafkiano, l’unico racconto incessantemente drammatico dello scrittore praghese, come ha notato Alfonso Pasti (A. Pasti, Kafka: fra umorismo e paradosso, Biobliomanie.it), è La tana (Der Bau), in cui s’immagina una sorta di talpa intrappolata nel suo ricovero (una delle tante bestiole nelle quali, come ha notato Canetti, pp. 118-127, Kafka si incarnò). L’angosciante racconto si trova in un manoscritto di 16 fogli, scritti senza interruzione, probabilmente nell’inverno 1923-1924, alla vigilia della morte. Quello fu probabilmente, come ebbe a riferire lo stesso Kafka nei suoi diari e successivamente l’inseparabile amico Max Brod, l’unico periodo della sua vita in cui si sentì felice. Andò ad abitare a Berlino con Dora Dymant che aveva conosciuto mesi prima sulle rive del mar Baltico. Quella con Dora fu l’unica storia compiuta, quieta e bella, della sua vita. Del resto, nei suoi Diari, alla data 13 dicembre 1914, Kafka aveva scritto (F. Kafka, Confessioni e diari, a c. di Ervinio Pocar, Mondadori, Milano 1972, pp. 510-511; a questo frammento Maurice Blanchot ha dedicato un capitolo del suo Da Kafka a Kafka, 1981; tr. it.  Feltrinelli, Milano 1983, pp. 101-106): “Ritornando a casa dissi a Max (Brod) che sul letto di morte, premesso che i dolori non siano troppo forti, mi sentirò molto contento. Dimenticai di aggiungere, e in seguito lo omisi apposta, che quanto di meglio ho scritto ha il suo fondamento in questa mia facoltà di morire contento…”.


  • Kafka, disegno di Cargo Collective
    Kafka, disegno di Cargo Collective

COME SI IMBROGLIA IL POPOLO OGGI

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In un breve saggio Marco Revelli tenta una interpretazione della realtà politica italiana che tenga conto delle profonde trasformazioni avvenute negli ultimi anni. E' un ulteriore approccio al tema del “populismo” oggi tanto dibattuto. Revelli ne vede bene le caratteristiche non solo di movimento di opposizione (Grillo, Salvini), ma anche di metodo di governo (Renzi). Un libro interessante, come interessante è la critica (che ne fa Marco Bascetta nella recensione che riprendiamo) di sottostimare i mutati rapporti tra le classi sociali che del fenomeno populista sono la causa prima.

Marco Bascetta

Un frammento del politico

Gli anni della grande crisi hanno recato in Italia evidenti novità politiche. Imponendo scenari inediti, ma anche portando a compimento processi e tendenze in corso ormai da molti anni. Tra questi due corni, tra continuità e rotture, si svolge la narrazione della più recente storia politica italiana che Marco Revelli condensa in un breve saggio (Dentro e contro, Laterza, pp. 140, euro 14) con l’intento di ricostruire i passaggi e le condizioni che hanno condotto all’attuale stile di governo, alle forme della politica su cui poggia, al suo programma di ridisegno degli assetti istituzionali e delle relazioni sociali.

Programma che ruota attorno all’opportunità di cavalcare l’evidente crisi della democrazia rappresentativa indirizzandola verso l’instaurazione di un rapporto tra governanti e governati fondato sulla subordinazione consensuale dei secondi ai primi a tutto vantaggio dell’efficienza competitiva del «sistema-paese» sul mercato globale.

È in questo quadro che si inscrive lo svuotamento dei corpi intermedi, partiti e sindacati, e delle assemblee elettive, in primo luogo il Parlamento, a favore di un costante rafforzamento dell’esecutivo. Il quale assume, tanto sul piano ideologico quanto su quello operativo la forma di un «populismo dall’alto», o «istituzionale», o «di governo» che si appella al rapporto diretto tra il premier e la «gente», rappresentata dalla platea sempre più risicata e imbrigliata degli elettori. Se scrivo «gente» non è per caso.

Il regno del «fare»

Si tratta infatti di un «populismo» assai singolare non facendo riferimento alcuno all’idea di «popolo» in quanto soggettività politica, sia pure astratta o immaginaria, e fonte della sovranità. Il che rende non poco problematico il ricorso estensivo a questa categoria politica nel descrivere un potere che si rivolge a quel regno borghese e operoso del «fare» e del mercanteggiare che siamo soliti chiamare, con indulgente simpatia, non «popolo» ma «società civile». È alle corporazioni che la compongono (con un occhio di riguardo per le più potenti), agli interessi e agli appetiti che la attraversano, alle pulsioni che la agitano, agli scambi che vi si svolgono, che la retorica governativa si rivolge, cercando di blandirne, di finanziaria in finanziaria, questo o quel segmento mascherato da «interesse generale». Di qui discendono quelle doti (e quella posizione sempre arrischiata e pericolante) di «funambolo» o di «illusionista» che Revelli riconosce a Matteo Renzi. Insomma un governo centralizzato e decisionista della frammentazione e della precarietà, attento a coglierne inclinazioni e potenzialità produttive, umori e paure, ma anche sempre esposto all’imprevisto.

Qualcosa di alquanto discosto, dunque, dall’afflato unificatore e omogeneizzante del populismo, del quale persiste semmai una robusta mano di vernice mediatica. Il «partito della nazione» e il suo condottiero emergono al termine di una vicenda almeno trentennale, «come la forma politica – scrive Revelli – con cui giunge a compimento la crisi terminale della democrazia rappresentativa. Non la produce, certo, quella crisi (perché essa è il risultato di un processo lungo di deterioramento, svuotamento e degrado). Ma la mette in sicurezza, per così dire. La certifica e la dichiara normale e definitiva.» Resta da spiegare però cosa abbia determinato quel deterioramento, svuotamento e degrado perché questo, e non la loro certificazione finale, è l’elemento su cui poggia il successo del nuovo corso intrapreso dalla fu sinistra italiana.

Pretese di governabilità

Si tratta di quella serie ininterrotta di sconfitte del movimento operaio, radicata nella profonda metamorfosi del lavoro, della sua natura e della sua percezione, che ha travolto forme politiche e organizzative, aspettative e strategie di vita. Sconfitta affrontata invano per un verso dai compromessi sempre più suicidi delle socialdemocrazie e per l’altro dalle illusioni resistenziali di una sinistra convinta di poter ripristinare condizioni ormai tramontate, di mantenere posture etiche private del loro fondamento culturale.

Sono il materiale umano e i rapporti sociali prodotti da questa profonda trasformazione ciò a cui il renzismo mette mano per normalizzarli e ricondurli nell’alveo della competitività di mercato, sulla base di un liberismo padronale non particolarmente innovativo. Vi mette mano anche, per altri versi meno convenzionali, il movimento di Grillo che, a dispetto del suo ideologismo giacobino, riesce comunque a tastare il polso del disagio sociale e a veicolarne il risentimento e il riflesso d’ordine.

La storia di questa normalizzazione viene, tuttavia, da molto lontano, Fin dall’insorgere di quella pretesa di «governabilità» che avrebbe messo fine alla prima Repubblica, ma soprattutto ai conflitti sociali che la avevano attraversata rappresentando un fattore di sviluppo, di diffusione del benessere e di riduzione delle diseguaglianze. La magistratura, con tutto lo strumentario repressivo ed emergenziale messo a punto nel corso dei tardi anni Settanta, se ne sarebbe dovuta incaricare. 
Ma come i Talebani messi in campo nella guerra fredda contro l’ «impero del male» i giudici schierati contro l’insubordinazione sociale sarebbero presto sfuggiti di mano ai loro stessi mandanti, finiti ingabbiati in quella opposizione tra legalità e illegalità che doveva sostituire il conflitto sociale e continua a pretendere di sostituirlo sotto le bandiere a 5 stelle.

Probabilmente, però, malgrado l’epopea dello scontrino, anche la stagione del protagonismo giudiziario volge ormai al termine, vittima di quello stesso principio di «governabilità» che era stato chiamato a garantire. Laddove decisionismo, efficienza e competitività, si affiancano e sopravanzano la retorica legalitaria sia pure senza entrarvi, almeno per il momento, in rotta di collisione.

La frenesia riformatrice del partito della nazione è tutta inscritta dentro questo equilibrio tra principio d’ordine e disinibizione esecutiva che si esprime, per esempio, nella soluzione prefettizia delle crisi politiche locali.

Si arriva così a quella manomissione della Carta costituzionale che si propone di conferire un quadro stabile e blindato al principio di «governabilità», e che Revelli descrive con chiarezza in tutti i suoi passaggi essenziali.

A questo punto si impone però una domanda di fondo che fuoriesce dalla contingenza politica. Una Costituzione (e ci riferiamo in particolare a quelle, come la nostra, stabilite al termine del secondo conflitto mondiale) può sopravvivere ai rapporti di forza tra le classi che ne hanno determinato la genesi e la natura? Il giurista risponderà di sì perché la Carta costituzionale non è solo un prodotto, ma anche uno strumento, una proiezione verso il futuro, un linguaggio comune, un quadro che non esclude evoluzione interna, un impianto categoriale «a priori», insomma. E anche lo storico potrebbe convenirne, ma dovrebbe onestamente aggiungere che questo è vero solo fino a un certo punto. E questo punto non è necessariamente, nel mondo contemporaneo, una rottura bellica o rivoluzionaria.

Non sono certo serviti i carri armati per inscrivere in Costituzione il pareggio di bilancio. Lo stesso articolo primo della Costituzione italiana, quello che nessuno si sognerebbe di toccare, rivela, a ben vedere, le ferite subite dalla storia: il lavoro si è infatti andato trasformando in qualche cosa sulla quale riuscirebbe impossibile fondare oggi una Repubblica. Ha cessato di essere, per dirla in estrema sintesi, una chiara soggettività politica rappresentabile nello Stato.

Riconfigurazioni istituzionali

Da questo angolo visuale la crisi della rappresentanza appare sotto tutt’altra luce. Non come tradimento dei rappresentanti arroccati nella cittadella della «casta», o asserviti agli interessi dell’oligarchia, ma come crisi dei rappresentati stessi, come trasformazione delle loro vite, delle loro aspirazioni e delle loro attività in qualcosa che non trova più il modo di incidere e pesare, né direttamente né indirettamente, sulla produzione di norme e sulla decisione politica.

Se i sindacati hanno lasciato cadere fuori dalla propria sfera di pensiero e di azione una fetta sempre più imponente di società, se i partiti si sono trasformati in compagnie di ventura e uffici di collocamento, questo non è l’effetto ma la premessa delle riforme che stanno riconfigurando la geografia istituzionale italiana. Se non si prende atto di questo sostrato la marcia trionfale dell’«esecutivo» appare come qualcosa di sostanzialmente abusivo, deviante, e dunque fragile.

La lettura tutta politico-istituzionale di questi processi sfocia inevitabilmente in una risposta politico-istituzionale. E cioè nell’idea che la parte migliore della rappresentanza, cresciuta consapevolmente nella crisi della medesima, torni a rappresentare attraverso una nuova forza politica parlamentare e in prospettiva popolare, gli sfruttati, gli svantaggiati e i cittadini defraudati degli strumenti della democrazia. Laddove il discorso e il programma anticipano le lotte quando non ne prendono direttamente il posto.

Una lettura focalizzata sulle metamorfosi del lavoro e sui rapporti di classe che ne conseguono sfocerebbe invece in quella idea di «coalizione sociale» che nel reciproco riconoscimento delle diverse soggettività investite dalla crisi e dalla sua governance liberista (nonché dalla percezione dei loro limiti) troverebbe la sua immediata politicità. Ma poiché di quest’ultima non è pronta a farsi pienamente carico si arresta sulla soglia della sua stessa esistenza.

Pur ben fondata sul piano dell’analisi resta incapace di continuità organizzativa e di esercitare forza politica . Troppo «in alto» gli uni, troppo «in basso» gli altri nella riproduzione perdente di quella distinzione tra sfera sociale e sindacale e sfera politica del tutto inadeguata a contrastare la poderosa fusione tra mercato e potere. Solo un rimescolamento generale imposto da una crescita fuori misura della pressione sociale sui livelli amministrativi e di governo potrebbe forse superare questo scarto. In Europa se ne vedono le tracce, in Italia assai meno.


Il Manifesto – 11 novembre 2015

ANTIFASCISTI IN SPAGNA E IN ITALIA

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Numerosi furono gli antifascisti savonesi andati a combattere in Spagna in difesa della repubblica. Considerati sovversivi dopo la guerra (e la caduta del fascismo) continuarono per anni ad essere spiati e schedati dagli apparati dello Stato democratico.

Giorgio Amico
Antifascisti savonesi nella Guerra di Spagna.

Quarant'anni fa, il 20 novembre del 1975, moriva dopo 36 anni di dittatura Francisco Franco. Con il crollo del regime falangista, ultima sopravvivenza del fascismo storico, si chiudeva un'epoca buia per la Spagna e l'Europa. Iniziava un processo di transizione che avrebbe riportato la democrazia nel paese iberico. Un percorso non privo di contraddizioni. Secondo José Álvarez Junco, professore di Storia del pensiero e dei movimenti sociali all’Università Complutense di Madrid, la destra, che non aveva un progetto né un leader, «si assicurò che non ci sarebbero state epurazioni nella polizia, tra i militari e nella magistratura; la sinistra, dinanzi a un regime franchista comunque ancora forte e strutturato e al rischio di una nuova guerra civile, ottenne l’amnistia e le elezioni democratiche» (Il Sole 24Ore del 15 novembre 2015).
Un accordo, definito il “Patto dell'oblio” che di fatto rimuoveva dal dibattito politico il passato franchista. Calava un velo su quattro decenni di violazioni dei diritti umani e di crimini efferati, mentre gli esponenti più giovani del regime continuavano tranquillamente la loro carriera nei partiti del centrodestra. Un fenomeno che ricorda molto da vicino la mancata epurazione dell'apparato statale dopo la Liberazione in Italia.
Secondo Almudena Grandes, una scrittrice molto impegnata politicamente conosciuta e apprezzata anche in Italia, la Spagna soffre ancora oggi per l'occasione mancata quaranta anni fa di democratizzare radicalmente il paese. Per lei la crisi di rappresentanza dello Stato spagnolo, evidenziata sia dal successo di Podemos sia dalla crisi catalana, trova le sue ragioni in una transizione alla democrazia che non ha saputo realmente fare i conti con il passato:
“Credo che la crisi che la democrazia spagnola sta vivendo sia legata alla transizione democratica che ha reso la Spagna un Paese fragile: non ci fu una rottura estesa ed efficace con la dittatura, le istituzioni conservano molto di quell’epoca. C’è dunque all’origine un problema sentimentale e morale, e il problema territoriale è la manifestazione di un Paese che non si riconosce nei simboli nazionali spagnoli, perché non si è fatto un progetto rotondo e la transizione è stata ambigua». (Il Sole 24Ore, cit.).
Particolarmente sentito il problema dei caduti repubblicani. Sono infatti centinaia le fosse comuni sparse nel Paese, molte delle quali mai aperte. 150mila cadaveri restano senza un nome, mentre più di 1000 famiglie di caduti riconosciuti non possono recuperarne i corpi. Una ferita aperta a cui la legge della «Memoria histórica», approvata alla fine del dicembre 2007 dal Governo Zapatero, aveva cercato di dare soluzione, ma che il governo di centrodestra di Mariano Rajoy ha sostanzialmente congelato.

Contraddizioni della transizione che emergono anche dalle pagine di un libro appena edito a cura dell'ISREC di Savona e dedicato alla figura di Umberto Marzocchi, esponente di primo piano del movimento anarchico italiano e internazionale, fiorentino per nascita, ma savonese d'adozione, avendo risieduto nella nostra città dal 1921 fino alla morte nel 1986, con l'interruzione forzata dell'esilio (1923-1945) in Francia e appunto nella Spagna repubblicana e rivoluzionaria.
Leggiamo infatti di come Marzocchi, già dirigente dell'ANPI e della Camera del Lavoro, recatosi nel 1977 ad un convegno anarchico a Barcellona venisse arrestato assieme a un altro antifascista savonese [Oreste Roseo, recentemente scomparso] da poliziotti in borghese con i mitra spianati.
“In quell'istante – ricorda Marzocchi in un'intervista ripresa nel volume – abbiamo pensato a una carneficina, ritenendo si trattasse di un commando fascista. Fummo caricati su auto cellulari, condotti al commissariato principale di via Layetana e rinchiusi in celle separate, isolati gli uni dagli altri, fino al momento del rilascio , avvenuto la sera del 4 febbraio. Dopo aver confermato al giudice il verbale dei nostri interrogatori, siamo stati espulsi ed accompagnati dalla polizia fino alla frontiera francese”. (Vincenzo D'Amico- Giuseppe Milazzo- Giacomo Checcucci, Umberto Marzocchi, ISREC, p. 39-40)
Liberato dopo cinque giorni di prigionia grazie ad una mobilitazione internazionale subito attivatasi, Marzocchi denuncerà i limiti della transizione postfranchista in una grande manifestazione antifascista convocata a Savona dalle associazioni partigiane che vede la partecipazione di Umberto Terracini.
Iniziativa non isolata, ma ultima tappa di un costante impegno dell'antifascismo savonese a fianco dei democratici spagnoli contro il regime di Franco, testimoniato anche dalla pubblicazione nel 1961 a cura dell'ANPI di un quaderno su “L'epopea antifascista spagnola. Cenni storici sulla Guerra di Spagna”. Un impegno unitario che vede la partecipazione di tutta la sinistra, comunisti, socialisti e anarchici, al di là dei contrasti ideologici e delle lacerazioni provocate dai tragici fatti di Barcellona del maggio 1937 e dall'assassinio degli anarchici italiani Berneri e Barbieri.
Un conflitto aspro, scaturito da due concezioni diverse della lotta in corso: quella rivoluzionaria dei comunisti dissidenti del POUM e degli anarchici che legava indissolubilmente la resistenza antifascista alla partecipazione popolare dal basso, al potere dei consigli operai e contadini e all'approfondimento del processo rivoluzionario a partire dalla riforma agraria e dall'espropriazione di latifondisti e magnati della finanza e dell'industria. E quella patriottica e repubblicana del Partito comunista (e della Russia di Stalin) che non intende andare oltre la fase antifascista e che in nome dell'unità nazionale antifranchista respingeva fermamente ogni ipotesi di rivoluzione proletaria. Da qui lo scontro fratricida in Catalogna e la messa fuorilegge di anarchici e poumisti.

Una divisione destinata a durare a lungo, se ancora nel 1962, in piena destalinizzazione, Giacomo Calandrone, un altro savonese illustre impegnato nella guerra civile spagnola, nel suo libro di memorie “La Spagna brucia” ricostruiva contro ogni evidenza storica e la mole di materiali e documenti ormai disponibili la rivolta del POUM a Barcellona come opera di “agenti del nemico, lieti di coprirsi con una bandiera politica, per poter meglio svolgere la loro opera di provocazione”.
Eppure, nonostante la durezza dei contrasti, l'impegno antifascista a Savona riesce a mantenersi unitario, come unitaria era stata la lotta ai tempi della guerra civile, quando fra il settembre 1936 e l'estate 1937 ben 27 savonesi erano andati a combattere e a morire per la libertà del popolo spagnolo, mentre altri 19 risultano essere stati inquisiti, processati e confinati per attività di appoggio alla causa repubblicana.
Vicende ricostruite in un libro di Antonio Martino, “Antifascisti savonesi e guerra di Spagna”, edito anch'esso a cura dell'ISREC. Una ricerca incentrata sullo spoglio scrupoloso dei fascicoli della Regia Questura oggi depositati presso l'Archivio di Stato di Savona. Dalle schede biografiche dei personaggi studiati non emergono tanto le motivazioni politiche e i percorsi individuali, quanto la vigilanza assidua esercitata su di loro dall'apparato repressivo del regime (ma anche in qualche caso dello Stato repubblicano). Un limite che si spiega con la natura di carte di polizia dei materiali analizzati, più rivolti alla scoperta della attività pratica e dei contatti personali dei potenziali antifascisti che alla definizione delle loro effettive posizioni politiche e ideologiche.
27 savonesi di cui 21 già residenti all'estero, per lo più in Francia, espatriati per motivi politici o di lavoro, in larghissima parte giovani e di condizione operaia. Dati in sintonia con il quadro complessivo dei 4000 combattenti italiani in Spagna, in gran parte già residenti all'estero (in Francia soprattutto, ma anche in Belgio, Svizzera, Stati Uniti, Unione Sovietica e Argentina), con un'età media di trent'anni, di condizione prevalentemente operaia.

    Giacomo Calandrone
Di questi 27 antifascisti 3 (Giuseppe Dughetti, Francesco Siri e Attilio Strazzi) cadranno in combattimento , mentre altri 8, rifugiatisi in Francia dopo la caduta della Repubblica, verranno consegnati alle autorità italiane dopo lo scoppio della guerra e l'armistizio fra i due paesi. Elevatissimo è il numero di coloro fra questi ex combattenti di Spagna che continueranno la lotta armata antifascista nella Resistenza francese dopo l'invasione nazista e poi dopo l'8 settembre 1943 in quella italiana. Sono 14 (Emilia Belviso, Libero Bianchi, Giacomo Calandrone, Tommaso Carpino, Costanzo Cecchin, Carlo Gazzaniga, Stefano Giordano, Amedeo Isolica, Umberto Marzocchi, Italo Oxilia, Pietro Pajetta, Vincenzo Raspino, Silvio Torcello, Luigi Vallarino) i resistenti già combattenti in Spagna, alcuni di essi ricopriranno incarichi di comando nella guerra partigiana grazie proprio all'esperienza militare accumulata nella guerra civile spagnola. Quattro di essi (Cecchin, Pajetta, Raspino e Torcello) perderanno la vita, fucilati dai nazifascisti o caduti in combattimento. Pietro Pajetta “Nedo” sarà insignito della Medaglia d'oro al valor militare.
Interessante anche l'appartenenza politica dei volontari savonesi in Spagna, rispecchiante perfettamente il più generale dato nazionale. Troviamo infatti soprattutto militanti del Partito comunista, ma anche socialisti, repubblicani, anarchici (Umberto Marzocchi). Fra loro una straordinaria figura di donna, quell'Emilia Belviso, già militante dell'apparato clandestino del PCI in Italia, poi voce di Radio Barcellona, infine coraggiosa combattente partigiana nel maquis prima a Parigi e poi a Nizza. Non mancano figure di primo piano dell'antifascismo come il capitano Italo Oxilia, lo stesso che aveva fatto espatriare Turati e liberato Rosselli, Nitti e Lussu dal confino di Lipari o Leonida Campolonghi, figlio del primo segretario della Camera del Lavoro di Savona, drigente della LIDU (Lega dei diritti dell'Uomo) e riorganizzatore della Massoneria italiana nell'esilio parigino.
Belle figure di combattenti, uomini e donne che dedicarono con estrema coerenza e dedizione totale la loro vita alla lotta per un'Italia libera, democratica e giusta. Pericolosi sovversivi per uno Stato che, nonostante la caduta del fascismo e l'avvento della repubblica, continuava a mantenere nei posti di comando di polizia, magistratura, forze armate, elementi formatisi durante la dittatura.
E così Libero Bianchi, portuale savonese, risulta dal 1950 inserito nel Casellario Politico Centrale del Ministero degli Interni come “comunista pericoloso” e per questo costantemente seguito nei suoi spostamenti e spiato nelle sue attività fino al momento della morte nel 1963. Eguale attenzione nei confronti di Italo Oxilia, il cui fascicolo viene chiuso solo nel 1971 e su cui si annota come vivesse “da solo in modestissime condizioni economiche”, avendo impegnato l'intero patrimonio di famiglia nella causa antifascista, “conservando le sue ideologie di socialista saragatiano”. Evidentemente, nonostante il PSDI fosse forza di governo dal 1948, la coerenza del vecchio militante socialista continuava a risultare sospetta per l'Ufficio Politico della Questura.

    Umberto Marzocchi
Ma Bianchi e Oxilia non sono i soli a essere monitorati da quegli stessi apparati che li avevano già spiati durante il fascismo, la vigilanza continuò per anni per molti altri antifascisti. Solo fra il 1949 e il 1951 verranno revocati in ottemperanza a disposizioni ministeriali molto tardive “i provvedimenti di qualsiasi genere richiesti per motivi politici in data precedente al 25 aprile 1945” nei confronti di Giovanni Gismondo di Alassio, Carlo Spallarossa di Finale, Francesco Ferruccio di Dego e Tommaso Carpino di Bardineto. E se questo era l'ordinario, possiamo immaginare cosa fossero i controlli (e le schedature) nei confronti di figure particolarmente in vista come Umberto Marzocchi o Giacomo Calandrone, mandato nel dopoguerra a organizzare le lotte bracciantili in Sicilia e deputato comunista fino al 1958.
Tutto questo mentre fucilatori e torturatori repubblichini uscivano dalle galere e in molti casi, vedi Almirante, riprendevano l'attività politica nelle fila del MSI. Segni evidenti di quella incompleta democratizzazione dello Stato, in Italia come in Spagna, che determinerà episodi oscuri come Gladio e la strategia della tensione negli anni '70. Vicende mai chiarite, ancora oggi senza colpevoli, che non risparmieranno neppure Savona e che rendono ancora più necessario mantenere viva la memoria di chi nelle galere e al confino fascista, in terra di Spagna e poi nella Resistenza sacrificò la sua giovinezza e in molti casi la vita per la la libertà di tutti.
Testo di Giorgio Amico, pubblicato su I resistenti n.3 2015, ripreso da Vento Largo.

IL SENSO DELL'UMORISMO DI UN'AMICA IRANIANA

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L'Arabia Saudita è la moglie degli USA. L'Iran è l'amante sexy che sta corteggiando gli USA affinché lasci l'Arabia Saudita per stare solo con lei e i figli illegittimi che avranno. Essendo una donna ferita, l'Arabia Saudita butta bombe nel cortile della casa della rivale (lo Yemen) per far incazzare l'Iran. L'Iran se ne frega, allora l'Arabia Saudita dà uno schiaffo alla sorella dell'Iran, Sciita, chiamandola "Brutta troia!" Ecco perché è stata assalita l'ambasciata dell'Arabia Saudita a Tehran.

(Jasmin Efte)

ALBERT CAMUS CONTRO LE VERITA' ASSOLUTE

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Ho orrore di tutte le verità assolute, delle loro applicazioni totali, dei loro presunti detentori d’ogni risma. Prendete una verità, portatela con cautela ad altezza d’uomo, guardate chi colpisce, chi uccide, cosa risparmia, cosa elimina, annusatela a lungo, accertatevi che non puzzi di cadavere, assaggiatela tenendola un po’ sulla lingua, ma siate sempre pronti a sputarla immediatamente. L’uomo libero è questo: il diritto di sputare.


Albert Camus

Ricordando TINA MODOTTI

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  TINA MODOTTI, ARTE VITA LIBERTÀ
 
EMIGRANTE, OPERAIA, ATTRICE, FOTOGRAFA NEL MESSICO DEGLI ANNI VENTI, ANTIFASCISTA, MILITANTE NEL MOVIMENTO COMUNISTA INTERNAZIONALE, PERSEGUITATA ED ESULE POLITICA, GARIBALDINA DI SPAGNA.

Nacque il 17 agosto 1896 a Udine. Deceduta a Città del Messico il 5 gennaio 1942.

P. GAUGUIN, un uomo in fuga

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Destino dell'uomo non è abitare un mondo, ma sognarne un altro”. Lo ha scritto Francesco Biamonti. Non troviamo niente di più adatto per descrivere la pittura di Gauguin in mostra a Milano.

Lea Mattarella

Paul Gauguin. Il paradiso terrestre di un artista sempre in fuga
«Amo la Bretagna, in essa trovo un che di selvaggio, di primitivo. Quando i miei zoccoli risuonano su questo suolo di granito, sento il suono sordo, opaco e possente che cerco nella pittura», scriveva Paul Gauguin nel 1889 rivelando che i termini “selvaggio” e “primitivo” appartengono alla sua opera ancor prima della sua partenza per Tahiti.

La consapevolezza che per l’artista francese l’altrove era in fondo dappertutto, purché lontano da Parigi, è il filo rosso che lega le opere esposte da oggi e fino al 21 marzo a Milano, al Mudec, nella mostra “Gauguin. Racconti dal Paradiso” curata da Line Clausen Pedersen e Flemming Friborg e prodotta da 24 Ore Cultura.

Sono raccolte circa 70 opere, tra dipinti, disegni, incisioni, sculture, di cui la metà appartiene alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen che conserva una delle più importanti collezioni al mondo del pittore. L’ ouverture dell’esposizione è affidata a due autoritratti.

Il primo è datato 1889. La composizione è scura, l’artista ha uno sguardo che ci oltrepassa, non incrociando il nostro. Gauguin indossa un pesante cappotto di lana come se dipingesse nel gelo. Qui Gauguin ha 40 anni, un passato di viaggiatore, agente di cambio, collezionista. È cresciuto in Perù, dove il padre giornalista aveva dovuto rifugiarsi, costretto a lasciare la Francia a causa delle sue idee repubblicane alla vigilia del colpo di Stato di Luigi Napoleone nel 1849.

Più tardi Gauguin si imbarca come marinaio su una nave mercantile e fa il giro del mondo. Tornato in Francia nel 1874, anno della storica mostra degli impressionisti, presso lo studio del fotografo Nadar, conosce Pissarro. Inizia così la sua vera avventura pittorica, sebbene già dal 1871 frequentasse tele e pennelli. Ciò che decide di fare è superare l’evanescente leggerezza impressionista, tutta libertà di pennellate.

La sua è una pittura che ha un peso specifico, un corpo, è solida, costruttiva. Gauguin amava le superfici, e che fossero il più piatte possibili. Amava incastonare vaste campiture di colore puro, cercando connessioni armoniche dove non soltanto i complementari apparissero nella loro intensità, ma anche accordi più legati, come per esempio certi suoi stupendi blu, accanto a rossi e viola.

Per essere certo che tutto apparisse al tempo stesso chiaro e sontuoso, circondava, anzi chiudeva le sue forme con un segno scuro, bluastro, al modo in cui il ferro contornava le figure delle vetrate gotiche.

Nel mondo gauguiniano gli esseri umani appaiono solenni, plastici, come se prosperassero silenziosamente in una loro classicità esotica. Attratto dalle filosofie orientali, soprattutto dal buddhismo, l’artista ha infuso nelle sue immagini femminili un fascinosissimo tasso di malinconia e di sospensione meditativa.

Se si guarda l’ Autoritratto con il Cristo giallo si capisce anche con che spirito Gauguin esprimesse la sua vocazione. In questo quadro datato tra il 1890 e il 1891 l’artista si sdoppia, anzi si moltiplica. È al centro di una composizione che ha, a sinistra, un suo dipinto e a destra una ceramica. Il primo è il famoso Cristo giallo , al quale l’artista aveva prestato le sue sembianze; la seconda il Vaso autoritratto in forma di grottesca . Il suo volto compare quindi tre volte in un quadro- manifesto: riguarda la fatica dell’artista, crocifisso, incompreso, deformato dal calore del forno che lui stesso paragona alle fiamme dell’inferno, quelle che secondo lui tormentano, detergono e purificano. Eppure, lo vediamo dal suo sguardo determinato, è cosciente di dover andare avanti su quella strada. Gauguin è un uomo in fuga, certo, ma non da se stesso.

Le sue fonti sono varie. Ama Raffaello, si incanta di fronte ai fiamminghi, guarda con interesse Degas, Manet, Puvis de Chavannes, ma anche il Medioevo.

Non lavora dal vero, ma sulla memoria. Suggerisce a Pissarro di passare meno tempo davanti al paesaggio e di stare più in studio perché ha bisogno di rielaborare il mondo attraverso il pensiero.

Uno dei capolavori qui esposti Mahana no Atua (Giorno di Dio) che è una delle sue tipiche visioni made in Tahiti, con le fanciulle intente a eseguire l’upa upa, una danza rituale proibita dalle autorità locali, all’ombra di un grande idolo, è stato in realtà eseguito nel suo atelier parigino, tra il primo e il secondo soggiorno in Polinesia (dove morirà nel 1903). Una delle prime opere realizzate a Tahiti è questa bellissima Ragazza con fiore del 1891.

Qui la modella nera è costruita come fosse una figura della ritrattistica rinascimentale su un fondo giallo su cui sbocciano fiori, che rivela un altro amore di Gauguin, quello per le stampe giapponesi. C’è forse l’eco di Van Gogh, lasciato ad Arles dopo un tragico tentativo di lavoro comune. Ma la cosa certa è che «si tratta di un’arte del tutto nuova. Ed è mia».

Anche la scultura, tra le sue mani, come è chiaro dagli esempi in mo-stra, esplorerà qualcosa di sconosciuto dando vita a opere che sembrano feticci. André Breton, il capo dei Surrealisti, aveva capito che prima di loro «Gauguin era stato il solo artista che avesse avuto la consapevolezza di portare in se stesso un mago».

La Repubblica, 28 ottobre 2015

GUY DEBORD SUL POTERE DELLA SCRITTURA

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Guy Debord. Potere alla scrittura

Archivio

Millequattrocento fogli di carta Bristol ricoperti con una calligrafia minuta, vigilata, cadenzata, tonda. Una calligrafia che tiene la linea anche quando la superficie è insufficiente ad accogliere quanto si vuole dire e le righe si assottigliano e avvicinano progressivamente come nelle acrobazie aeronautiche. Impercettibili sono le variazioni nella scrittura, nonostante tra un foglio e l’altro passino anche quarant’anni. Incuriosito, mi avvicino per decifrare il contenuto: si tratta di lunghe citazioni. Ci metto un po’ a capirlo, visto che  manca quasi sempre il virgolettato. Non più protetti dalle virgolette – quelle che in gergo tipografico chiamiamo anche caporali – questi lunghi passi sono sciolti dalla loro fonte, pronti quindi ad essere riutilizzati, riappropriati, trasformati dall’autore. Un détournement che oggi, al tempo del “copia e incolla” digitale, ci appare archeologica e terribilmente dispendiosa.
Cannes Villa Meteko, avant 1950

Un’ampia selezione di questo archivio, finora inedito, è collocato al centro della mostra Guy Debord. Un art de la guerre (fino al 13 luglio alla Bibliothèque nationale di Parigi), disposto su alte pareti trasparenti a spirale. Un maelstrom d’inchiostro. Debord, che aveva la precauzione di non sottolineare né annotare i libri che leggeva, trascriveva i passaggi che lo colpivano su diversi taccuini, divisi per soggetto: “Poésie etc.”, “Machiavelli et Shakespeare”, “Hegel”, “Historique”, “Philosophie, sociologie”, “Marxisme”, “Stratégie, histoire militaire”. Le pagine di questi taccuini non costituiscono quindi un semplice cabinet de lecture né una mera sezione documentaria dell’esposizione, di quelle che ne riempiono i “parerga”, sale cieche ai margini del percorso da vedere solo se restano tempo ed energie. Questa sala, da cui irradiano le singole sezioni di Un art de la guerre, ne è la macchina motrice, quasi un viaggio all’interno del cervello dello stesso Debord, che Philippe Sollers ha designato come “una biblioteca ambulante”.

Debord collage in onore di Asger Jorn, 1962

Solo partendo da tale mappatura dell’archivio possiamo comprendere cosa è stato, come si è propagato, dove ha fallito e quale eredità ha lasciato il situazionismo, sembrano suggerire i curatori (Laurence Le Bras e Emmanuel Guy). Ad essere messa in mostra è insomma la scrittura. Siete avvertiti: il visitatore di Un art de la guerre dovrà sapersi fare lettore paziente e, a volte, frustrato. Del resto si tratta di una mostra ospitata alla biblioteca nazionale, che ha avuto il merito di acquistare il fondo Debord, pronto a partire per l’università di Yale. Un tentativo di recupero istituzionale, di addomesticamento del nemico senza dubbio, là dove sono conservate le carte di Sade e Céline. Ma non solo. Non dimentichiamo che, malgrado la sua eco internazionale, la storia dell’Internazionale Situazionista è circoscritta nei primi sei arrondissements di Parigi: il café Moineau a rue du Four in cui si riuniscono sin dal 1952, il Marais, i Jardins de Luxembourg. I situazionisti scorrazzavano in quartieri oggi disertati dagli artisti e in mano alle real estate agencies. E’ l’ultimo momento in cui un’avanguardia artistica prende forma e si sviluppa nel cuore della città, là dove esplose la rivolta studentesca del maggio 1968, con le barricate a rue Gay Lussac.

Un putsch nella cultura

Agli occhi del lettore paziente di Un art de la guerre, la scrittura è presentata come una vera e propria vocazione di Debord, come dimostrano le sue pagelle di seconda liceo al Carnot di Cannes (1948-51). Italiano: “très bon élève”; Tedesco: “pourrait faire mieux”; Composition française: “capable de toutes les fantasies” – quale migliore descrizione dell’avventura del situazionismo? Seguono le riviste fondate: l’“Internationale lettriste” (4 numeri nel 1952-54), “Potlach” (29 numeri nel 1954-57), l’“Internazionale Situazionista” (42 numeri nel 1958-59). De La società dello spettacolo (1967) viene esposto il manoscritto originale, diviso in tre piccoli cahiers. Secondo il trozkista francese Jean-Michel Mension, durante i tredici mesi della sua redazione Debord smise eccezionalmente di bere – la dérive e tante idee situazioniste sono impensabili senza l’ivresse. Non mancano infine i parenti stretti della scrittura, ovvero la voce e la musica. La canzone era per Debord un’arma di propaganda, al punto che scrisse “Chanson des barricades de Paris” (1968), due canzoni per “Pour en finir avec le travail. Chansons du prolétariat révolutionnaire” (1974) e una nel 1980 che difendeva gli anarchici spagnoli incarcerati per aver appoggiato degli scioperi operai.

Debord Mémoires

Per quanto riguarda il lettore frustrato, non gli sfuggirà che ognuno ha il suo situazionismo. Il mio ad esempio passa attraverso le immagini piuttosto che la scrittura. Appartiene a un torrente carsico novecentesco nei cui inghiottitoi si trovano l’avanguardia dada e il punk, come ha brillantemente colto Greil Marcus in Lipstick Traces. A Secret History of the 20th Century. Tradotto da Odoya nel 2010, mi sembra che Tracce di rossetto sia stato accolto dai nostri intellettuali con sovrana sbadataggine.

Debord Mémoires

Se dividere scrittura e immagini è problematico nel caso del situazionismo, ho l’impressione che sin dalla fine degli anni ottanta è in atto un recupero della sfera visiva. Nel 1989 si svolge la prima esposizione sull’I.S. (Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps. A propos de l’Internationale Situationniste 1957-1972) a Parigi, Londra e Boston. Debord non vi partecipa, malgrado il vizio di rispondere a chiunque parlasse di lui. Nel 1991 esce l’integrale dei suoi film, presentata in anteprima alla biennale di Venezia. Già nel 1997, tre anni dopo il suicidio di Debord, lo storico dell’arte T.J. Clark e il suo traduttore inglese, Donald Nicholson-Smith, denunciano i tentativi espositivi e critici di “imprigionare la negatività di Debord in una torre d’avorio” (Why Art Can’t Kill the Situationist International). Prova a raggirare il pericolo The Situationist International (1957–1972) – In Girum Imus Nocte Et Consumimur Igni al museo Tinguely di Basilea e a Utrecht nel 2007.

Destruktion RSG-6, Galerie EXI, Odense, giugno 1963

Questo visual turn sembra contraddire le intenzioni di Debord che, dopo la conferenza di Göteborg dell’agosto 1961, sente la necessità di ricalibrare gli obiettivi del movimento su un piano più politico – un putsch nella cultura. Lo spettacolo del rifiuto deve ora lasciar spazio a un più radicale rifiuto dello spettacolo. Guai a trasformare la distruzione dello spettacolo in un’opera d’arte.

Direttive

Una fase che coincide con un irrigidimento del movimento, con una sua organizzazione più verticistica. I situazionisti erano una settantina, ma solo una quindicina era ammessa alle riunioni; erano un gruppo informale, ma aderirvi comportava l’abbandono di ogni altra affiliazione, come in una setta qualsiasi. Solo nel 1969 sarà tollerata l’autonomia delle sezioni nazionali. La sua storia è un susseguirsi di espulsioni e rotture plateali con alleati preziosi quali: i Lettristi riguardo all’affaire Chaplin; André Breton, quando in occasione dei suoi 60 anni centinaia di persone ricevettero un falso invito per una grande festa all’hôtel Lutétia; i maoisti, da Sollers, che Debord si rifiutò persino di incontrare, a Godard (“le plus con des Suisses prochinois”), a Sartre, “charogne avancé”; Henri Lefebvre, reo di aver plagiato l’idea debordiana per cui tutte le rivoluzioni, la Comune di Parigi in testa, sono anche una festa.

Direttive

Come nelle foto di gruppo ai tempi staliniani, Debord cancella uno a uno quanti lo affiancano. Una strategia stramba, se pensiamo ai numerosi prestiti concettuali senza i quali l’I.S. è impensabile: la critica della vita quotidiana e il romanticismo rivoluzionario da Henri Lefebvre; la psicogeografia dal gruppo Cobra (Constant e Jorn); il détour da dada e surrealismo; la deriva da Baudelaire e così via. In che modo poi quest’epurazione contribuì al rifiuto dello spettacolo non è chiaro.

Carta vetrata

Torniamo a Un art de la guerre: rispetto al visual turn delle mostre precedenti, pone al centro dell’attenzione la scrittura di Debord, in continuità con la pubblicazione delle sue Œuvres da parte di Gallimard nel 2004, un volume di quasi 2000 pagine. I quadri di Asger Jorn – che incontra Debord nel 1955, un evento che segna l’internazionalizzazione del movimento – sono poco più che un raccordo tra i documenti. Nell’economia espositiva non scandiscono alcun momento decisivo. Lo stesso vale per Jacqueline de Jong (artista dell’IS nel 1961), per il gruppo Spur o per i film di Debord, proiettati fuori dal percorso della mostra. Idem infine per l’immagine stessa di Debord di cui, come per Maurice Blanchot e Thomas Pynchon, ci restano poche foto (lo ha ricordato Laurent Jeanpierre). Due di queste aprono e chiudono la mostra: uno scatto del giovane Debord che brandisce un coltello (1951), come a dire “a noi due”; una piccola foto sfocata a rue du Bac (1991) in cui lo intravediamo a malapena, sprofondato nella sua poltrona come nel passato di un’epoca tramontata.



Che Un art de la guerre segni l’archiviazione del situazionismo? Che la Francia stia compiendo sul situazionismo la stessa operazione critica svolta su uno dei suoi precedenti diretti, il surrealismo, quella ovvero di considerare esclusivamente l’aspetto letterario trascurando quello visivo, al centro degli interessi internazionali? Difficile rispondere.

Debord esordisce sulla scena parigina con Hurlements en faveur de Sade, pilastro del cinema sperimentale francese assieme al Traité de bave et d’éternité d’Isidoure Isou (che segna l’affiliazione di Debord alla causa lettrista) e a L’anticoncept di Gil Wolman. La proiezione viene interrotta il 30 giugno 1952 al cineclub del Musée de l’Homme per le proteste del pubblico; l’integrale risale al 13 ottobre in una sala del quartiere latino. E’ lo stesso periodo in cui i situazionisti interrompono la conferenza stampa di Luci della ribalta di Charlie Chaplin, “l’escroc aux sentiments”, “maître-chanteur de la souffrance”, “finis les pieds plats”. “C’est fini le temps des poètes”, rincara la dose Wolman (“Perché gli spettatori urlano durante la proiezione de L’Anticoncept”). E quei 24 minuti di schermo nero e di silenzio con cui si chiude Hurlements segna senza dubbio la fine di un’epoca. Non è curioso però che Debord senta la necessità di mostrarla, questa fine, di farne un’immagine lunga quanto un film? In modo simile, nel 1963, per diffondere le cinque linee d’orientamento politico dell’I.S. – “Tous contre le spectacle”, “Dépassement de l’art”, “Réalisation de la philosophie”, “Abolition du travail aliéné”, “Non à tous les spécialistes du pouvoir, les conseils ouvriers partout” –, Debord realizza una vera e propria opera sospesa tra pittura, poesia grafica e graffito. Siamo lontani dalle direttive dei partiti politici.

Lettrisme

Debord maestro di stile, artista della rivoluzione che ha dato una forma precisa alle sue azioni quanto al suo personaggio (come crede, ad esempio, Daniel Blanchard, che lo frequentò ai tempi di Socialisme ou Barbarie)? Fare della vita un’opera d’arte? Del resto fu Debord stesso a pensare la sua esistenza e la sua attività in termini di archivio. Se fu uno stratega, lo fu anzitutto della sua posterità. Pare che sulla sua scrivania abbia persino affisso la seguente placca: “Guy Debord a écrit sur cette table La Société du spectacle en 1966 et 1967 à Paris, au 169 de la rue Saint-Jacques”. Prima dell’uscita di Panégyrique nel 1989 – l’unico libro che Sollers confessò d’aver letto in strada, camminando dalla libreria a casa – Debord pubblicò Mémoires (1958). Titolo inusuale per un libro d’esordio. La copertina è in carta vetrata in modo da rovinare i libri adiacenti una volta riposto in biblioteca, ovvero una volta diventato archivio – un’idea degna di Prière de toucher di Marcel Duchamp, con il seno posticcio incollato sulla copertina del catalogo di una mostra surrealista del 1947. Mémoires fu letteralmente fabbricato da Debord e Jorn, racimolando parole e immagini, fumetti e collage, foto e caricature. “Je voulais parler la belle langue de mon siècle”: così si legge in chiusura di un libro composto, dimenticavo, solo di citazioni. Senza caporali, naturalmente.

Da  http://www.doppiozero.com/rubriche/21/201307/guy-debord-potere-alla-scrittura


L' ARTE COMBINATORIA DI G. W. LEIBNIZ

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Il mondo moderno si caratterizza per l'estrema articolazione e complessità di un sapere impossibilitato ormai a trovare una sistemazione unitaria. La nostra è l'epoca dell'iperspecializzazione. Leibniz, che erroneamente si considererebbe solo un filosofo o un matematico, fu l'ultimo a tentare di riunire tutti i campi del sapere in un'opera titanica di oltre 120 volumi.

Franco Giudice

L’ultimo genio universale
Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646 – 1716)



Scrivere una biografia è impresa quanto mai ardua. Se non altro per la necessità di riassumere nello spazio ragionevole di un libro la storia di una vita che, oltre a essere inafferrabile per definizione, è stata ovviamente sempre molto più complessa e variegata di qualsiasi resoconto. Senza questa consapevolezza, che implica scelte selettive e inevitabili omissioni, il biografo farebbe la stessa inutile fatica di quei cartografi descritti da Borges che, dovendo tracciare la mappa dell’impero, ne realizzarono una le cui dimensioni coincidevano puntualmente con esso.

Non è però semplice trovare il giusto equilibrio tra l’aspirazione alla completezza e il vincolo della sintesi. E se questo vale per le biografie in generale, per alcune vale ancor di più. Soprattutto quando si tratta di personalità fuori dal comune e straordinariamente poliedriche, come nel caso di Gottfried Wilhelm Leibniz. Ma è proprio ciò che è riuscita a fare Maria Rosa Antognazza, offrendocene appunto un superbo e pionieristico ritratto a tutto tondo. Pubblicato in inglese nel 2009 da Cambridge University Press, il suo libro ha anche il pregio di essere avvincente e di godibile lettura, qualità ben rese dalla traduzione italiana di Stefano Di Bella.

La sfida con cui si è cimentata Antognazza era davvero immane. Leibniz fu uno dei maggiori protagonisti della vita culturale europea del Seicento, un genio versatile che conseguì risultati sostanziali e durevoli in molte e diverse aree del sapere: dalla filosofia alla matematica, dalla fisica all’astronomia, dalla storia alla linguistica, dall’etica alla teologia. Ma fu anche un diplomatico, un ingegnere, un bibliotecario, un promotore di società scientifiche, un uomo di corte impegnato in una serie incredibile di questioni politiche, amministrative e tecnologiche. L’intensa corrispondenza che intrattenne con mecenati e intellettuali, sia europei sia di paesi lontani come la Russia e la Cina, è così ampia da non avere forse eguali tra i suoi contemporanei.

Un ulteriore elemento di complicazione proviene poi dalle sue stesse opere. Quelle da lui pubblicate rappresentano soltanto una piccolissima parte della sua produzione intellettuale. Che si è rivelata, alla luce dei manoscritti che ci ha lasciato, davvero sterminata: «una massa di migliaia e migliaia di lettere e di centinaia e centinaia di abbozzi di trattati, frammenti, schizzi, annotazioni». Basti pensare che, una volta ultimata, l’edizione integrale delle sue opere, avviata nel 1923 e tuttora in corso, sarà costituita da ben 120 volumi.

Si può dunque comprendere perché i molteplici interessi di Leibniz, insieme alle difficoltà oggettive di maneggiare una mole così imponente di testi, abbiano quasi inevitabilmente finito per favorirne un approccio settoriale. Che iniziò già nel 1717, un anno dopo la sua morte, con l’Éloge scritto da Fontenelle per l’Académie Royale des Sciences, di cui era segretario. Preoccupato infatti di non riuscire a trattare in una narrazione biografica unitaria i diversi contributi di Leibniz alla filosofia e alle altre scienze, Fontenelle decise di analizzarli separatamente, abbandonando «l’abituale ordine cronologico» e seguendone uno tematico. Da lì in avanti il corpus degli scritti leibniziani è stato via via suddiviso «tra un esercito di studiosi in rappresentanza dell’intera enciclopedia del sapere».

Questo approccio ha portato non solo al frazionamento del sistema intellettuale di Leibniz, ma anche a privilegiare alcune sue componenti a discapito di altre. Certo, molti studi recenti hanno l’indubbio merito di aver chiarito importanti aspetti specifici del suo pensiero e della sua vita. A mancare finora è stato però un lavoro di ampio respiro, che collocasse Leibniz nel suo preciso contesto storico, e che fosse al tempo stesso il più esaustivo e dettagliato possibile. Una lacuna colmata da Antognazza, che ricompone «l’uomo smembrato da Fontenelle e dai suoi epigoni» in un quadro unitario e armonico.

Le attività teoriche e pratiche di Leibniz, in apparenza così eterogenee, rivelano – a ben guardare – un progetto dominante e comprensivo che scaturì da un sogno molto audace: «ricondurre la molteplicità della conoscenza umana a un’unità logica, metafisica e pedagogica, centrata intorno alla concezione teistica propria della tradizione cristiana e finalizzata al bene comune». Tanto più poi se consideriamo che Leibniz crebbe e visse in mondo attraversato da profonde divisioni politiche e confessionali, quello cioè del Sacro Romano Impero tedesco all’indomani della pace di Westfalia (1648).

Fu invece proprio tale contesto ad alimentare le aspirazioni di Leibniz. E per perseguirle si smarcò subito dalla rigida ortodossia luterana dei suoi docenti dell’Università di Lipsia, aderendo a quell’eclettismo filosofico che, ormai ben radicato in altre aree dell’impero, proponeva modelli enciclopedici e pedagogici innovativi per la riforma del sapere e della società nel suo complesso.

Così, non appena completò la sua formazione accademica, agli inizi del 1668 Leibniz era già in grado di abbozzare un piano globale per il progresso di tutte le scienze. Che non era però qualcosa di astratto, poiché il suo obiettivo pratico era il miglioramento della condizione umana e di conseguenza la celebrazione della gloria di Dio. Al quale se ne aggiungeva un altro non meno ambizioso: la riconciliazione delle diverse chiese cristiane sulla base di principi razionali universalmente condivisibili.

Una «visione originaria» insomma, che avrebbe catalizzato gran parte delle energie e dell’entusiasmo di Leibniz per il resto della sua vita, nella convinzione che i diversi ambiti del sapere potessero e dovessero integrarsi in modo unitario nel sistema intellettuale e morale di una persona. Di qui il grande progetto di una scientia generalis, destinata a essere esposta in un’«enciclopedia dimostrativa», che comprendeva tutta la conoscenza disponibile, insieme ai metodi della sua scoperta nel passato e a quelli del suo futuro sviluppo. E che era strettamente legato alla creazione di una characteristica universalis: un linguaggio cioè di simboli logici per eliminare le ambiguità delle lingue naturali e risolvere in modo pacifico ogni tipo di controversia. Il tutto in vista del bene supremo, che per Leibniz consisteva nella ricerca dell’autentica felicità del genere umano.

È dunque alla luce di questa «visione» che Antognazza ricostruisce la biografia intellettuale di Leibniz, che si snoda in due parti. La prima racconta gli anni dei suoi studi universitari a Lipsia, a Jena e ad Altdorf, per arrivare al 1668 quando il giovane luterano diventò consigliere giuridico presso la corte cattolica di Magonza. E culmina in un lungo soggiorno a Parigi (1672-1676), coronato da due viaggi a Londra e uno in Olanda, che segnò un momento chiave della sua formazione. Egli infatti ebbe modo non solo di ampliare le sue conoscenze, soprattutto nel campo della matematica, ma anche di entrare in contatto con tutti quelli che avevano una reputazione nel mondo scientifico e filosofico europeo.

La seconda parte invece copre gli ultimi quarant’anni della sua vita come consigliere di corte e bibliotecario del duca di Hannover, incarico che Leibniz fu costretto ad accettare quando sfumò la prospettiva di stabilirsi definitivamente a Parigi. E che videro l’urto tra i suoi sogni e la realtà, tra l’aspirazione a portare avanti i suoi ambiziosi programmi giovanili e la pretesa dei suoi datori di lavoro che egli si applicasse a servire gli angusti interessi della loro famiglia. In questi anni, nonostante il fardello degli incarichi amministrativi, Leibniz continuò a diffondere le sue idee in saggi, lettere e articoli per riviste, senza mai rinunciare al suo grande progetto ecumenico.

In questo libro, appassionato e ricco di informazioni, il lettore troverà una guida sicura per districarsi nella filosofia di Leibniz, per seguirne la complessa struttura metafisica, dove le monadi sono le «unità reali» di cui è fatto tutto l’universo, per capire perché ognuna di esse riflette l’«armonia universale» dell’eterno disegno divino, e perché quello che Dio ha scelto di creare è il migliore dei mondi possibili.

Ma troverà anche un’accurata descrizione della sua attività più propriamente scientifica. A partire dall’invenzione del calcolo infinitesimale che realizzò nel 1675, indipendentemente da Newton, e di cui ci viene documenta la genesi, la formulazione e la diffusione. E lo stesso vale per le ricerche nel campo della fisica dove, in polemica con la meccanica cartesiana, egli contribuì a chiarire il concetto di forza, fondando la nuova scienza da lui denominata appunto «dinamica».

Ma più di tutto, forse, il lettore apprezzerà l’attenzione per i contributi meno noti di Leibniz alla medicina, che andavano dalla proposta di un servizio sanitario pubblico alla compilazione di statistiche per registrare le principali cause di malattie e decessi. Un ulteriore esempio di come i suoi studi fossero sempre finalizzati al benessere della collettività.

Il Sole 24Ore – 3 gennaio 2016

LUNGA VITA ALLA NOSTRA COSTITUZIONE

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Mentre lo stesso Renzi ha apertamente riconosciuto che il suo futuro è legato all'esito del Referendum popolare  che dovrà dire l'ultima parola sul massacro ( di questo si tratta, non di una semplice riforma!) della nostra Costituzione Repubblicana operato dal suo Governo, riprendiamo il post di un blog che abbiamo sempre seguito con simpatia:

 Il compleanno della Costituzione italiana
post di Roberto Testa


Il primo gennaio del 1948,la nostra Costituzione, scritta dall’Assemblea Costituente e votata dal Parlamento, entrò in vigore. Approfittando di questo anniversario (che pochi ricordano, perché presi dalla frenesia e dagli impegni del “Capodanno”), vorrei raccontare una breve vicenda..
 Nel marzo dello scorso anno mi recai alla sede dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) di Pisa per una ricerca storica sulla Resistenza ed incontrai uno dei dirigenti. Contento e quasi stupito di aver incontrato un 18enne (insieme a me stava anche mio fratello di 16 anni), mi parlò un po’ dell’associazione, della sua storia e delle ultime iniziative; per una strana coincidenza, la domenica successiva avrebbero distribuito dei piccoli opuscoli a tutti i neo-maggiorenni che si fossero trovati nelle piazze di Pisa. Allora mi chiese “quanti anni hai?” e io gli risposi che ne avevo da poco compiuti 18, quindi lui mi regalò questo piccolo opuscolo, dicendomi :
Questa è la nostra Costituzione, questo è il risultato della lotta di tutti noi partigiani, del nostro sangue, e noi la regaliamo a voi, generazioni future, perché la proteggiate, la apprezziate e ne capiate sempre l’importanza e la necessità. Noi non siamo un’associazione che vuole fare politica, ci siamo illusi in un cambiamento dopo la fine della Guerra, con i grandi partiti, ma oggi chiediamo soltanto una cosa : che questo documento venga rispettato ed applicato in tutto e per tutto, perché rappresenta la democrazia antifascista, la libertà e l’uguaglianza.

Forse per istinto, girai subito la copertina del piccolo opuscolo ricevuto in dono e trovai una lunga citazione. 
Lui, accortosi del mio gesto, mi disse “leggi, leggi”. Io riconobbi subito quella citazione, che diceva
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità della nazione, andate là, o giovani, col pensiero, perché là è nata la nostra costituzione
(Piero Calamandrei, Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla Resistenza, Milano, 26 gennaio 1955)

Ritengo necessario soffermarsi su alcuni valori chiave presenti negli articoli della Costituzione: democrazia, libertà, giustizia ed uguaglianza, internazionalismo, lavoro

Suggerisco infine altre osservazioni che sicuramente possono stimolarci a riflettere :

 La Costituzione è un buon documento; ma spetta ancora a noi fare in modo che certi articoli non rimangano lettera morta, inchiostro sulla carta. In questo senso la Resistenza continua. (Sandro Pertini)
La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal Parlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà. (Luigi Sturzo)

Da  http://150anniinsieme.blogspot.it/2016/01/il-compleanno-della-costituzione.html

QUO VADO?

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Riprendiamo dal sito Italiaora.net, la cosa più intelligente che ci è capitata di leggere in questi giorni a proposito dell'ultimo film di Checco Zalone.

Antonio Menna

Numeri record per Quo vado, il film di Zalone. Ma dietro c’è una strategia studiata a tavolino


Non si parla d’altro, in questo momento. Zalone sì, Zalone no. Chi lo ha visto e chi non lo ha visto. Titoli strillati: un successo senza precedenti, numeri da capogiro, record. Il caso alimenta un nuovo caso. Chi non lo ha visto, ci andrà. Magari per dirne male. E poi un nuovo caso ancora. La grande operazione commerciale della Medusa film, non c’è che dire, è riuscita.

Quo vado, il film del comico pugliese Luca Medici (il nome vero di un musicista raffinato che finge di essere tonto per somigliare meglio agli italiani), nel giorno di esordio ha raccolto 6.850.000 euro; nel secondo giorno di programmazione quasi 7 milioni. Nella sua terza giornata circa 7.770.000 euro. Alla fine del primo weekend ha totalizzato 22.248.000 euro.

Qualcuno grida allo scandalo. Tutta questa gente al cinema per una commedia facile facile sarebbe il segno della bassa scolarizzazione del Paese. Altri urlano, invece, alla ripresa del cinema italiano. Tutto questo successo sarebbe il segno di quanto talento e quanto valore sarebbero capace di mettere in circolo i nostri connazionali. Forse è il caso di mollare il prosecco, Capodanno è finito.

Il successo di Zalone non è né scandaloso né strepitoso. Una onesta commedia qualunque con un onesto comico qualunque che non fa né schifo né osanna. Basta dare una occhiata dietro le cifre per capire di che si tratta. E’ il classico boom costruito a tavolino da chi ha il potere di decidere per noi facendoci credere che decidiamo noi.

E’ il business monopolistico della distribuzione. Riguarda il cinema come i libri. Loro scelgono cosa dobbiamo vedere e cosa dobbiamo leggere. E noi vediamo e leggiamo quello che ci impongono, credendo di deciderlo, decidendo che ci piace, o non ci piace, discutendone fino allo sfinimento e alimentando quel caso che fa soldi e nuovo business.

Due numeri per capirci: il film di Zalone è stato distribuito in 1500 copie. Mai nessun film, nella storia del cinema italiano, ha avuto questa distribuzione. Si è trattato di una vera e propria occupazione di tutti gli spazi disponibili. Il primo gennaio, Zalone in tutti i cinema. Questo l’ordine della Medusa. 

Gli schermi in Italia sono 3800. Su oltre il 40% degli schermi italiani c’è il film di Zalone. Considerando che l’80% degli schermi è riunito in multisala, si può dire che oltre il 60% dei cinema italiani montava una o più copie di Quo Vado. A questo va aggiunto che la maggior parte delle città italiane è servita da poche sale. La media italiana, secondo i dati dell’Anica, è di una sala ogni 18mila abitanti. Ma ci sono regioni come il Trentino, la Basilicata e la Calabria dove c’è una sala ogni 57mila abitanti. In ognuna di queste sale periferiche – con una strategia mirata – è stato montato il film di Zalone, che ha preferito i piccoli centri alle grandi città, imponendo di fatto a tutti gli abitanti di quei territori che volevano andare al cinema a Capodanno (periodo di boom per i film), di vedere quella pellicola.

Per avere un termine di paragone, che proprio in questi giorni è stato utilizzato: Star wars – il risveglio della forza, settimo episodio della saga, è stato distribuito in Italia in 800 copie e ha incassato circa 22 milioni di euro. In proporzione, numeri non distanti da Zalone. Il quale, peraltro, ha fatto anche meglio in passato. Sole a catinelle, il suo precedente film targato 2013, nei primi quattro giorni di programmazione totalizzò 18,6 milioni di euro. In sette giorni, 23 milioni (in totale, 51 milioni di euro di incassi). Uscendo alla fine di ottobre, in un periodo tutt’altro che favorevole e non certo paragonabile a Capodanno, con molte meno copie distribuite.

Quel film, peraltro, era costato alla produzione meno di 7 milioni di euro. Quo vado ha un budget di produzione dichiarato che supera abbondantemente i dieci milioni di euro. Cinque volte il costo medio di produzione di un film italiano (dati Anica: 1,96 milioni di euro a film). Tutti soldi – tanti – messi dalla Medusa, che detiene oltre al controllo della distribuzione cinematografica anche una buona parte delle sale nelle più importanti città italiane: quelle del circuito Cannon (ex Gaumont) e del circuito The Space Cinema.

Senza nulla togliere, o mettere, al talento di Zalone, che fa ridere o piangere a seconda dei punti di vista, il presunto boom del suo film di inizio anno è di quelli costruiti a tavolino da un mercato monopolizzato, controllabile, che orienta le scelte, costruisce fenomeni di marketing, gli affida tutti gli spazi, riduce al silenzio le voci alternative, obbliga alla scelta senza dirlo, e alimenta, con il suo circuito massmediatico, un caso dove il caso non c’è. Viene da chiedersi, a questo punto, perchè il Ministro dei beni culturali, Franceschini, abbia sentito il bisogno di twittare il suo “Grazie a #CheccoZalone”, scrivendo che “il successo di #QuoVado fa bene a tutto il cinema italiano e avvia alla grande un 2016 di ritorno nelle sale.”

Non è vero, è un successo organizzato e pilotato. Franceschini non lo sa oppure lo sa benissimo e dà il suo contributo al grande business?


http://www.italiaora.net/numeri-record-quo-vado-film-zalone-dietro-ce-strategia-studiata-tavolino/

OGNI FORMA DI MAFIA E' UNA MONTAGNA DI MERDA!

Heidegger & Evola

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Scoperto un inedito in cui Heidegger riprende quasi letteralmente Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola. E' la prima traccia di un rapporto (anche solo intellettuale) fra il filosofo tedesco e il massimo esponente della cultura di destra in Italia. Ricordiamo che Evola guardò sempre con ammirazione al nazismo, espressione di quello spirito aristocratico e guerriero che invece secondo il filosofo difettava al regime fascista.

Angelo Bolaffi

Heidegger & Evola


In un appunto inedito di Martin Heidegger sotto la voce “razza” si legge: «Quando una razza ha perduto il contatto con quello che solo ha e può dare durevolezza — col mondo dell’Essere ( des Seyns) — allora gli organismi collettivi da essa formati, qualunque sia la loro grandezza e potenza, sprofondano fatalmente nel mondo della casualità». Si tratta di una citazione dall’opera di Julius Evola “Rivolta contro il mondo moderno”, pubblicata in Italia nel 1934 e in tedesco l’anno successivo, riportata letteralmente dal filosofo tedesco salvo adattare alla propria ortografia filosofica il termine “essere”.
Thomas Vasek, redattore capo della rivista filosofica Hohe Luft in un approfondito articolo intitolato Un programma di sovvertimento spirituale apparso sul supplemento culturale della Frankfurter Allgemeine Zeitung di mercoledì 30 dicembre 2015 ha dato notizia dell’inedito e discusso le conseguenze filosofiche di questa scoperta che «potrebbe indirizzare l’incessante dibattito attorno ad Heidegger in una nuova direzione ».
E questo per almeno due ragioni. La prima di natura squisitamente filologica. Infatti in nessuna delle opere di Heidegger, neanche nei testi pubblicati postumi, compresi i cosiddetti Quaderni Neri, ricorre il nome di Julius Evola. Ma neppure nella ormai sterminata Heidegger-Forschung, neanche nel recentissimo e ben informato lavoro di Donatella Di Cesare intitolato Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri, 2014), troviamo alcun riferimento a Evola. Ne è, sia pure lontanamente, accennata l’ipotesi un legame tra il filosofo italiano e quello di Messkirch.

La seconda ragione che fa di questo inedito qualcosa di filosoficamente rilevante sta nel fatto, almeno secondo Thomas Vasek, che la recezione del pensiero di Evola da parte di Heidegger potrebbe rivelarsi chiave di lettura della sua critica del mondo moderno e delle sue convinzioni antisemite.


Giulio Cesare Andrea Evola (meglio conosciuto come Julius) era nato a Roma nel 1898 città in cui morì nel 1974. Teorico fortemente incline all’esoterismo iniziatico di una “filosofia della cultura” dominata da valori aristocratici e tradizionalisti nonché da un razzismo antisemita, Evola fu convinto sostenitore del fascismo (salvo poi entrare in urto con il regime da lui accusato di aver tradito i “valori originari”) e autore nel 1937 della introduzione alla quinta edizione italiana dei cosiddetti Protocolli dei savi di Sion: l’infame falso storico utilizzato dal razzismo europeo per “giustificare” la persecuzione degli ebrei.
Nella Germania degli anni Trenta durante la fase finale della Repubblica di Weimar, l’opera di Evola incontrò molto interesse negli ambienti della cosiddetta “rivoluzione conservatrice”. In particolare alcuni suoi saggi immediatamente tradotti in tedesco ebbero una importante risonanza come conferma una recensione di Gottfried Benn apparsa nel 1935 sulla rivista Die Literatur nella quale il poeta tedesco si espresse in termini di entusiastica adesione nei confronti delle tesi esposte da Evola proprio in Rivolta contro il mondo moderno giacché «chi ha letto questo libro», questo il suo giudizio, «vedrà l’Europa in modo diverso».

Le idee di Evola vennero anche discusse e criticate da Carl Schmitt come conferma l’epistolario intercorso tra i due autori oggi conservato nell’archivio di Düsseldorf.

E Heidegger? A parere di Thomas Vasek è possibile ritrovare nella sua critica della modernità segnata dall’”oblio dell’Essere” un’eco della “filosofia della cultura” di Evola. E della sua convinzione che al “mondo della tradizione”, nel quale un’aristocrazia spirituale aveva ancora un rapporto con la trascendenza, si contrappone con l’avvento tra il Settimo e il Sesto secolo avanti Cristo dell’umanesimo e del razionalismo la decadenza della modernità: «un meccanismo autoreferenziale che non è più possibile fermare».

Una diagnosi questa che, infatti, ricorda molto da vicino quella heideggeriana secondo la quale la metafisica platonica e il pensiero astratto e oggettivante sarebbero all’origine di un processo che conduce al dominio della “macchinazione” e all’affermazione di una razionalità calcolante onnipervasiva volta a un dominio strumentale.
E come secondo Heidegger «è il dominio della quantità, del numero che tutto livella e in tal modo sbarra l’accesso all’Essere che distrugge qualsiasi rango e qualsiasi elemento di spiritualità terrena» così per Evola «il mondo moderno derubato di ogni spiritualità trascendente perde fatalmente ogni legge gerarchica e ogni durevolezza».

In questo aspetto demoniaco della modernità si manifesterebbe secondo Evola lo “spirito ebraico” con la sua inclinazione per il calcolo e l’astrazione al quale per questo è possibile addossare la colpa di questo processo di decadenza. Analogamente per Heidegger che nella sua “storia dell’Essere” attribuisce agli ebrei un talento calcolatorio, “il temporaneo rafforzamento dell’ebraesimo” legato alla ascesa della razionalità moderna può essere identificato con il “principio di distruzione”.

Se le cose stanno così è allora legittimo ipotizzare che quello che è stato definito “l’antisemitismo metafisico di Heidegger” possa essere ricondotto alla “filosofia della cultura” di Evola? E per questo vedere nel “secondo Heidegger” «un esoterico radicalmente fascista che ambisce al dominio spirituale delle élites » per consentire «il ritorno degli dèi»? Fino ad oggi non disponevamo di documenti che confermassero un legame spirituale tra Evola e Heidegger. Ma la scoperta di questo appunto prova la lettura da parte sua del saggio più importante di Evola e comunque alimenta il sospetto che gli inediti del filosofo tedesco nascondano ancora molti segreti.

La Repubblica – 4 gennaio 2015

C'ERANO UNA VOLTA LE NORIE...

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L’enigma delle norie

di Nicola Fanizza

foto noria
( la fotografia proviene dall’archivio della casa editrice Adda di Bari)

Guglielmo si era levato a tempo debito. Doveva andare nella stalla, distante circa dieci metri dalla sua piccola casa di campagna, per governare Martino, un cavallo che aveva il pelo rosso come il fez dei bersaglieri. Sua madre – Rosina –, la sera precedente, gli aveva dato la consegna di adacquare le piante dei pomodori. Erano passati diversi giorni dall’ultima innaffiatura. Faceva molto caldo. La salsedine, dardeggiata dal sole di Ferragosto, si era rappresa quell’anno persino sugli acini dell’uva che si trovava nella «cavata». Si trattava della parte più bassa del podere, che era situato a meno di trecento metri dal mare. La scelta di piantare la vigna in quel luogo non era stata casuale. Lì, infatti, i vitigni potevano fiorire senza che i germogli fossero bruciati dal vento che veniva dal mare.
Dopo aver dato da mangiare a Martino, gli mise il collare, gli bendò gli occhi, lo legò alla noria (a ngéegne) e, infine, si mise a innaffiare. Mentre era intento al suo lavoro, il cigolio molto particolare della noria stimolò l’attenzione di alcuni soldati inglesi che pattugliavano la costa. Questi ultimi si avvicinarono alla noria, manifestando il loro vivo dissenso nei confronti della pratica di bendare gli animali. Ordinarono, pertanto, a Guglielmo – con le parole e, insieme, con i gesti – di togliere dalla testa del suo cavallo la benda che gli copriva gli occhi. Per loro gli abitanti del Paese delle Norie erano dei barbari che «maltrattavano» gli animali.
Guglielmo cercò di far capire a quei soldati che la bendatura di Martino era comunque necessaria, poiché quest’ultimo, girando con gli occhi aperti intorno al tamburo di Vitruvio, di lì a poco sarebbe svenuto. Disse loro – mimando la vertigine – che la «capa gira» anche ai cavalli! Nondimeno gli Inglesi furono irremovibili. Di fatto, nei tre anni che restarono nel Paese delle Norie, mostrarono in diverse occasioni di amare più gli animali che gli uomini.
Quei soldati non avevano mai sentito parlare delle norie, né avevano mai avuto occasione di vederne una da vicino. Si trattava di un sistema di secchi di rame o di legno inseriti in un nastro a catena che ruotava mediante una puleggia, a trazione animale (di solito cavallo, asino o mula): i secchi si riempivano di acqua in fondo al pozzo e, allorquando giungevano sull’apice della ruota*, rovesciavano il loro contenuto in una piattaforma che era collegata a sua volta a una cisterna (u palemmidde).
Appena i soldati andarono via, Guglielmo riprese il suo lavoro. Mentre rifletteva sulla «sensibilità» degli Inglesi, sentì provenire dalla sua casa l’eco del canto di sua madre. Quest’ultima aveva studiato canto, ma aveva dovuto smettere. Aveva una voce bellissima e per questo la invitavano in Chiesa per cantare l’Ave Maria di Gounod.
Erano passati quasi nove anni dalla morte di suo marito. Dopo quel tagico evento Giovanni – il maggiore dei figli – era stato costretto ad abbandonare gli studi e si era dedicato al lavoro nei campi per far fronte alle esigenze della famiglia. Guglielmo e Isabella, che erano più piccoli, avevano continuato, invece, a studiare. Tuttavia, nella tarda estate del 1941, anche Guglielmo aveva dovuto smettere di studiare. Suo fratello era andato in guerra ed era toccato a lui prendere il suo posto in campagna.
Quando Guglielmo, terminato il lavoro, tornò a casa e informò Isabella e sua madre in merito di ciò che gli era accaduto, quest’ultima gli disse che anche lui quando era piccolo non sopportava che si bendassero gli occhi a Martino e che si metteva persino a piangere per costringere suo padre a rimuovere la bendatura dagli occhi del cavallo.
Guglielmo cascò dalle nuvole. Non si ricordava affatto di quell’episodio e disse che lo aveva, comunque, rimosso. La cancellazione di quell’episodio dalla sua memoria, tuttavia, preoccupò un po’ sua madre e la indusse a chiedere a Guglielmo se aveva riposto nell’oblio anche la sua infantile paura nei confronti dei pozzi. Guglielmo asserì che ne aveva un vivido ricordo e che aveva ancora davanti ai suoi occhi il fuoco da cui si era originata. I vicini di casa gli avevano detto che quando si avvicinava a un pozzo poteva uscire il diavolo (u gaghêure) e trascinalo giù. Prima di scoperchiarlo, pertanto, doveva segnarsi di croce. Il sottosuolo era sede del maligno, dell’oscuro, con tutte le varianti che tale credenza poteva generare.
Guglielmo aggiunse che alcuni anni dopo, grazie allo studio del pensiero illuminista, si era messo alle spalle il fardello di quelle superstizioni. L’occasione per dimostrare che non aveva paura del diavolo si era presentata alcuni anni dopo, allorquando la catena della noria si era spezzata, precipitando insieme ai secchi in fondo al pozzo. Si era offerto volontario per recuperarla ed era sceso, tramite una fune, senza alcun timore nelle viscere della terra.
Quella sera, Guglielmo non riuscì a dormire. Gli vennero in mente gli eventi del suo passato più o meno recente. Si trattava delle piccole apocalissi che avevano reso meno opaca e monotona la sua vita. Ricordò in particolare la lezione del professore di storia, in cui aveva raccontato agli studenti il seguente aneddoto relativo alla vita di Cristoforo Colombo:
«Nel 1491, il navigatore genovese si era recato a Cordova per incontrare la regina Elisabetta la Cattolica. Ma aveva dovuto aspettare più di una settimana prima di essere ricevuto. La regina, infatti, da quando era giunta in Andalusia non riusciva più a dormire. Ciò che le toglieva il sonno era proprio il cigolio della noria che alimentava i giardini dell’Alcàzar. E pertanto ordinò che venisse distrutta. Non è un caso – aveva asserito il professore – che la parola “noria” derivava proprio dal cigolio molto particolare prodotto dalla ruota».
Per Guglielmo quel suono lento e tenue era simile a quello di un organo melanconico. La noria aveva la straordinaria capacità di diffondere nelle campagne intorno un suono rassicurante e, nel contempo, inquietante. L’immagine circolare del tempo di cui la noria era il simbolo non riusciva a neutralizzare del tutto lo spettro della morte. Quel suono gli appariva, infatti, come un vero e proprio pianto di morte. Da qui la necessità di vincere la morte, da qui la necessità di mettersi in gioco, di mettersi a girare come fanno i bambini, come i bambini che, però, girano con gli occhi aperti e non hanno paura della vertigine.
Quel suono era connaturato al paesaggio ancestrale di cui era la manifestazione uditiva indissolubile. Era un suono che era destinato, comunque, a scomparire, poiché già negli anni Trenta le norie cominciavano a essere sostituite con le prime motopompe elettriche. Di lì a poco tempo, la meccanizzazione del lavoro agricolo avrebbe introdotto nuovi rumori nei silenzi delle campagne, dove prima echeggiavano, insieme al cigolio delle norie, solo i gridi dei contadini o i loro canti.
D’altra parte, nessuno riusciva a dare risposte esaustive alle sue domande. Quando erano arrivate le prime norie nel suo Paese? Chi le aveva portate? Perché le norie erano presenti per lo più nel territorio rivierasco del suo Paese ed erano quasi del tutto assenti nelle altre riviere?
Il giorno dopo, Guglielmo smise di pensare al suo passato e rivolse la sua attenzione alla sua condizione presente e cominciò a prefigurare anche il suo futuro. Si era reso conto che non riusciva a vivere solo della sua vita, sentiva l’esigenza di ascoltare gli altri. E, per di più, si trovava a vivere in uno spazio sociale in cui erano quasi del tutto assenti le relazioni degne.
Avvertiva l’esigenza di andare via. Cominciò a pensare alla sua vita sul mare e chissà forse viaggiando, avrebbe creato nuove situazioni esistenziali e avrebbe trovato anche l’occasione per risolvere l’enigma delle norie.
La vita in campagna continuava nella sua monotonia. Benedetto, un vecchio marinaio che possedeva un piccolo fondo contiguo a quello della sua famiglia, gli ripeteva sempre la stessa filastrocca: «Ho visto mio nonno per diversi anni zappare in questo fondo per tirare via le pietre; in seguito, ho visto mio padre per trent’anni zappare in questo fondo per tirare via le pietre; e, infine, sono più di quarant’anni che anch’io zappo in questo fondo per tirare via le pietre. Ebbene Guglielmo, sono convinto che le pietre crescono!».
Per converso, Andrea era il solo contadino capace di ravvivare l’ambiente con le sue feste. Ballerino e giocatore, viveva una vita allegra e spensierata, una vita fatta di banchetti e di balli che teneva spesso nella sua casa di campagna. Terminata la guerra, aveva organizzato una grande festa per l’arrivo dagli USA di suo fratello Vito con la moglie americana. I bambini si aspettavano di vederla vestita come una pellerossa, ma, pur rimanendo delusi, erano rimasti comunque incantati dal fascino della bella signora.
Intanto, Giovanni nel dicembre nel 1944 si era fatto vivo con una lettera, in cui diceva che era stato fatto prigioniero e che si trovava in Inghilterra. Guglielmo non poteva abbandonare sua madre e sua sorella fino al ritorno a casa di suo fratello. Nell’attesa, si sottopose alle visite mediche per ottenere il libretto di navigazione.
Verso la fine del 1946, gli Inglesi liberarono tutti i prigionieri e suo fratello ritornò a casa. Subito dopo, Guglielmo riuscì a trovare un imbarco come mozzo su un motopeschereccio e, finalmente, partì per il Levante!


* La ruota verticale che stazionava sull’imboccatura del pozzo era collegata, mediate una trave di ferro, lunga circa sei metri, a un’altra ruota sempre verticale (vedi immagine), collegata, mediante denti di ferro a un tamburo orizzontale – il «tamburo» di Vitruvio! –, da cui si originava un’asta di legno alla quale veniva legato il cavallo.

Testo e foto riprese da   http://www.nazioneindiana.com/

W. BENJAMIN. Un'altra Germania era possibile

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W. Benjamin e B. Brecht giocano a scacchi


Torna in libreria “Uomini tedeschi” di Walter Benjamin. Un'opera minore, ma illuminante su come il filosofo vivesse lo sprofondare del suo paese in una spirale di irrazionalità e violenza che di lì a poco avrebbe portato alla vittoria di Hitler. Quasi un messaggio in bottiglia che Benjamin affida alle onde del tempo,ad avvertire chi (come noi oggi) l'avrebbe raccolto: “Leggi con attenzione, la vera Germania è questa”.


Luigi Forte

Walter Benjamin, un’altra Germania era possibile

Pensava con apprensione e malinconia al suo tempo Walter Benjamin, quando propose alla Frankfurter Zeitung, quotidiano della borghesia liberale di cui era collaboratore, alcune lettere di illustri personaggi tedeschi del passato. Meditava sul lento inabissarsi dei grandi ideali del classicismo weimariano che con Goethe e Schiller aveva segnato il punto più alto della cultura non solo tedesca.

Era il marzo del 1931 e le ventuno epistole, che abbracciano un secolo in sequenza cronologica fra il 1783 e il 1883, furono pubblicate nell’arco di oltre un anno, fino al maggio del 1932, tutte corredate da stimolanti commenti.

Nel gennaio dell’anno seguente Hitler saliva al potere e quel prezioso retaggio di nobili anime che lo studioso e critico berlinese aveva raccolto fu proscritto dalla memoria collettiva. Di fronte ai drammatici eventi degli ultimi mesi Benjamin si trasferì a Parigi e di là, grazie al critico teatrale Rudolf Rößler, che a Lucerna aveva fondato una casa editrice, riuscì a pubblicare in volume quei testi con lo pseudonimo di Detlef Holz. Così nasceva Uomini tedeschi che Einaudi ripropone ora con un ampio apparato di note e una bella introduzione di Enrico Ganni (pp. 186, € 18).

«Contegno umanistico»

Era il tentativo un po’ donchisciottesco di tenere in vita ciò che stava morendo attraverso la corrispondenza di autori ed epoche diverse che pure una cosa avevano in comune: richiamare alla mente - come scrisse nell’appendice lo stesso Benjamin - «un contegno che è lecito definire umanistico», dal quale sprigionavano forza e passione ormai estinte nel plasmare la vita privata. Un mondo variegato e complesso nel quale primeggiano onestà, solidarietà umana, sobria razionalità, ben lontano dalla folle ideologia della razza pura che marciava compatta al comando del Führer.

La Germania che qui emerge attraverso personaggi come Goethe, Forster, Seume, Hölderlin, Brentano, Büchner, la poetessa von Droste o i fratelli Grimm, è la nazione culturale che solo nel 1871 conseguirà la propria unità politica. Il passato è impregnato di valori umanistici e l’identità è soprattutto linguistica. Non a caso Jakob Grimm nella prefazione del suo Dizionario tedesco esortava i connazionali ad amare la propria lingua: «…imparatela, santificatela e preservatela, in essa sono depositati la vostra continuità e il vostro vigore in quanto popolo».
    Goethe giovane in Italia

L’identità smarrita

Quell’unità culturale andò presto smarrita e questo libro è la più schietta testimonianza dei molti progetti infranti. Ancora il vecchio Goethe, scrivendo all’amico musicista Zelter, ricordava che il mondo ormai era schiavo della ricchezza e della velocità, consapevole di essere tra gli ultimi di «un’epoca che non tornerà tanto presto». Era tramontato il tempo in cui illuministi come Lessing e Lichtenberg avevano plasmato lo spirito prussiano in forma ben più umana di quanto non facesse l’esercito federiciano. Ora il giovanissimo Büchner, membro fondatore dell’Associazione per i diritti dell’uomo, doveva fuggire in fretta e furia da Darmstadt, nel marzo del 1835, per non essere arrestato e invocava l’amico Gutzkow, in un momento buio della propria vita, di trovargli un editore per il suo dramma La morte di Danton.

Erano tempi duri, ma l’inquieto poeta Hölderlin era deciso a restare tedesco «anche se i travagli del cuore e la mancanza di cibo mi dovessero spingere a Tahiti». Mentre il naturalista e rivoluzionario Georg Forster scriveva alla moglie dall’esilio parigino che ormai tutto era pervaso da «ira cieca e passionale, da furioso spirito di parte» e che in Europa il dispotismo si faceva sempre più intollerante. Con lui ci sono altre figure di studiosi e scienziati come il grande fisico Ritter, il chimico Liebig (quello dell’estratto di carne) e il chirurgo plastico Dieffenbach.
   L'edizione tedesca

Davanti alla follia nazista

Alla realtà storica si affiancano nelle lettere dettagli privati, sensazioni, testimonianze di costume di alcune generazioni. Come quando la giovane Annette von Droste-Hülsoff confida al suo mentore la profonda nostalgia per i luoghi in cui non è o per le cose che non possiede: è il raptus di un’anima che incarna il bisogno di speranza della parte più nobile del paese, quella stessa che coltiva il pietista Collenbusch che bacchetta Kant per la sua fede che ne è priva e la sua etica senza amore. Un tema, quest’ultimo, che infiamma il cuore del pedagogista svizzero Pestalozzi (qui un «intruso», come il cancelliere austriaco Metternich) o di Wilhelm Grimm in una delicata missiva alla sorella della Droste.

Forse è vero, come suggeriva Adorno, che da questo libro emana un senso di dolore per una cultura affossata dalla follia nazista. Ma emerge anche un tratto autobiografico: in queste lettere si riverbera la nostalgia e il dramma stesso di Benjamin, anch’egli fuggitivo, senza futuro e senza patria.


La Stampa – 15 novembre 2015

LA DEMOCRAZIA SECONDO M. L. SALVADORI

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  Il primo vero libro sulla questione meridionale che ho letto con piacere è stato quello di M. L. Salvadori intitolato Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci.   Salvadori è uno storico serio che ha dedicato tutta la sua vita a comprendere le ragioni delle difficoltà storiche di realizzare concretamente i principi della democrazia. Anche per questo leggerò quest'ultimo suo lavoro.

Michele Salvati

L’utopia del popolo al potere legittima il governo delle élite

Tra le strenne natalizie ogni tanto si infila un libro serio, un libro di studio, da conservare e a cui ritornare. Il libro di Massimo L. Salvadori Democrazia (Donzelli) si può leggere di seguito, capitolo dopo capitolo, come si legge una storia. Perché è una storia, la Storia di un’idea tra mito e realtà , come dice il sottotitolo: l’idea di democrazia, «dall’antica Grecia al mondo globalizzato», specifica il frontespizio. O si può leggere il capitolo che interessa, quello su Machiavelli o Rousseau, sulla Rivoluzione francese o Tocqueville, su Schumpeter o la Democrazia cristiana, sul comunismo o sulla democrazia liberale.

Dunque, insieme, un libro di storia e di consultazione, scritto in una prosa semplice, con tutti i riferimenti necessari ad approfondire l’autore o il momento storico che interessa. E reso avvincente dalla percezione, sempre più chiara mano a mano che si procede, che sotto la storia c’è una biografia, la biografia di un autore che sul problema della democrazia ha ruminato per decenni, che su questa forma di governo ha intrattenuto illusioni, che per un breve periodo l’ha vissuta come uomo politico, e che su di essa ha raggiunto una conclusione serena.

«La democrazia, quando la si intende come il potere del popolo, continua a restare prigioniera di un dilemma irrisolto: da un lato si fonda sul principio che il potere debba appartenere all’insieme del popolo; dall’altro l’esperienza offerta da tutti i regimi definiti come democratico-liberali dice che questo insieme non può esprimersi e agire se non per mezzo delle élite che lo dirigono, lo rappresentano, e anche lo manovrano. (...) Ma tra la democrazia intesa in senso forte e la democrazia ridotta a mera formula (…) vi è uno stadio intermedio che ha già avuto una storia e che è possibile abbia ancora una storia: un sistema in cui il potere non risulti del tutto sbilanciato da una parte». Anche se è improprio definire questo sistema come democrazia (…in senso forte), «è stata la storia che chi scrive ritiene aver trovato la sua migliore espressione nel “compromesso socialdemocratico”». Con queste frasi si chiude il libro di Salvadori.

Raramente è una buona strategia, per raccontare un libro, cominciare dalla fine. Ma questo è un libro singolare: è sì una storia, ma è soprattutto una raccolta — ordinata storicamente lungo i 2.500 anni presi in considerazione, dalla Grecia di Pericle alla globalizzazione di oggi — delle riflessioni che maggiormente hanno contribuito a farci comprendere che cosa sia stata e cosa sia oggi questa forma di governo. E delle circostanze politiche e sociali che a quelle riflessioni dettero origine.

Dunque un insieme di quadri e di ritratti — di politici, di studiosi, di momenti storici di cambiamento intenso — staccati l’uno dall’altro nel tempo e nello spazio, anche se tutti radicati nella cultura occidentale: Salvadori è critico del tentativo di Amartya Sen di iscrivere altre culture nella storia della democrazia. Ho allora cominciato dalla fine — dalle concezioni disincantate, ma non totalmente prive di speranza, che oggi Salvadori condivide — perché queste fanno capire meglio il percorso politico e intellettuale dell’autore ed evitano di assimilare quest’insieme di ritratti e di quadri storici tra loro staccati a una antologia universitaria di dottrine politiche.

Se si vuole, il libro può essere usato a questo scopo, anche se le scelte dell’autore non derivano tanto da un intento didattico, quanto da un percorso di ricerca individuale. I ritratti di singoli studiosi e politici e i quadri storici meglio riusciti sono quelli sui quali Salvadori si è interrogato più a lungo e da cui ha tratto le sue conclusioni politiche più forti: Tocqueville e gli studiosi e protagonisti della democrazia americana dell’Ottocento, Marx, Kautsky e le vicende del socialismo e del comunismo, Max Weber, John Stuart Mill. Ma tutti i medaglioni sono utili ed efficaci, anche quelli di autori e momenti che Salvadori non ha approfondito nei suoi studi. Rispetto agli studiosi che arrivano a queste opere di sintesi provenendo dalla filosofia o dalla scienza politica, Salvadori ha il grande vantaggio di provenire dalla storia: anche argomenti molto teorici e astratti sono inquadrati in un contesto descrittivo storicamente ricco, che ne rende la lettura agevole e la comprensione approfondita quanto basta a un non specialista: il resto lo fanno i rimandi bibliografici.

Tutte luci, niente ombre? In una storia di questa ampiezza e ambizione di ombre ce ne sono ovviamente molte, anche se chi scrive fa fatica a vederle, perché proviene da un percorso intellettuale molto simile a quello dell’autore, suo coetaneo e compagno di esperienze politiche. E perché, più o meno, nei confronti della democrazia è arrivato alle stesse conclusioni, disincantate, ma non prive di speranza: quantomeno la speranza che in qualche forma politica futura, anche se non propriamente democratica, «il potere non risulti del tutto sbilanciato da una parte».

In una presentazione che non si rivolge a specialisti, tralascio una elencazione di punti di dissenso o una segnalazione di lacune e mi limito a indicare l’«ombra» più evidente, quella che si stende sugli ultimi due capitoli del libro, dedicati all’evoluzione della democrazia negli ultimi trent’anni, nell’era del neoliberalismo e della globalizzazione. La riflessione in materia è ben lontana dall’essersi assestata e richiede competenze, soprattutto di natura economica e di relazioni internazionali, che l’autore non controlla direttamente.

Tolti alcuni grandi nomi — Bobbio, Dahl, Sartori — egli è allora costretto ad affidarsi a una letteratura corrente di qualità eterogenea e ne fa buon uso: la definizione dell’attuale democrazia come «governo a legittimazione popolare passiva» è convincente. Ma, ed è inevitabile, la sua guida è meno sicura di quanto lo sia stata per i periodi precedenti, sui quali l’autore ha dato contributi importanti e per i quali i materiali storici sono più abbondanti e più solidi.

Il Corriere della sera – 20 dicembre 2015

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