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GIORGIO CAPRONI e PIER PAOLO PASOLINI

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GIORGIO CAPRONI e PIER PAOLO PASOLINI a ROMA
di Marco Onofrio

Giorgio Caproni e Pier Paolo Pasolini sono stati buoni amici. È un’amicizia che parte anzitutto dalla lettura (ebbene sì, una volta i poeti usavano leggersi, prima di parlare o sparlare l’uno dell’altro: non come oggi). Caproni non conosce Pasolini e si ritrova tra le mani, durante la guerra, le sue Poesie a Casarsa:
 
«L’anno era il 1942: l’anno più chiuso a ogni nostra speranza; e io non so ridire l’emozione, la commozione – mentre il mio zaino era pieno di bombe e di buio – che mi colse al suono di quelle limpide sillabe. Voltai – ma non subito, per timore d’un disinganno – la pagina. Mi batteva il cuore: più d’una fucilata m’avrebbe ucciso, quella notte all’addiaccio sotto una luna gelida che pur bastava a illuminarmi la furtiva lettura, una delusione. Ma non ci fu nessuna delusione. La seconda pagina confermava, avvalorava la prima. E così la terza, così la quarta, così le rimanenti. Giacché era la voce d’un poeta quella che, per un miracolo, mi aveva raggiunto in così nera circostanza. Era la voce – viva – della vita».

Poi, quando lo conosce di persona, a Roma, Caproni riversa su Pasolini la generosità con cui, nel ’38, lo aveva accolto Libero Bigiaretti: come quest’ultimo lo aveva introdotto nell’«uccelleria» dell’ambiente letterario romano, così Caproni si fa mentore del giovane e timidissimo poeta, appena inurbato dal Friuli.

«Eravamo già in corrispondenza fin da quando abitava ancora a Casarsa. Povero Pier Paolo, insegnava anche lui, era allampanato e poverissimo. Arrivava con un biglietto del tram in mano, guardava che numero aveva, sperava che gli avrebbe portato fortuna… Abbiamo fatto insieme tante passeggiate, parlavamo anche di poeti, ma senza dir male degli altri (…). Camminavamo in silenzio, magari per delle ore. (…) Facevamo lunghissime passeggiate da Ponte Mammolo a Viale Quattro Venti senza dire una parola. La sua miseria era spaventosa ed io avevo intuito la grandissima intelligenza di quest’uomo timidissimo. Gli presentai Attilio Bertolucci che gli fece conoscere Penna e Moravia e di lì prese il via».
E ancora:
«Mi telefonava, chiedeva un lavoro, andavo a trovarlo. Viveva con la madre Susanna dalle parti di Rebibbia, una casa né urbana né rurale, un piano terra di borgata con l’unico vantaggio di un po’ di sole. Lì la fame, anni durissimi. Chiacchierando a piedi attraverso Pietralata, la via Tiburtina e il Verano si arrivava a piazza di Spagna per il caffè. A Roma fui il primo a conoscerlo. Più tardi qualche grande estimatore: Gadda, Bertolucci, Moravia, Bassani, poi Penna, Volponi. Ricordo le cene romane e quelle primavere odorose di pini, fuori porta, e lui timido e impacciato, cerimonioso, che si tirava sempre indietro. Poi nel ’54 la prima casa decente, in via Fonteiana, a Roma, e poi a via Carini nel palazzo di Attilio Bertolucci. Si vedeva il verde, lotti vacanti, colline, cantieri, sterri, mentre a Rebibbia viveva tra le ferraglie. (…) La disciplina dello scrivere Pier Paolo l’ha avuta precoce, una forza incredibile di lavoro, insieme a una salute da contadino. Tutta la sua fortuna, quel che ha pubblicato dopo, seguiva il lavoro di quegli anni».

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Pasolini ricambia, appena può, la benevolenza con cui Caproni lo ha accolto a Roma. Un suo articolo del 1952, uscito su «Paragone» e poi raccolto in Passione e ideologia, contribuisce a far uscire la poesia di Caproni dal mormorio dei consensi “sottotraccia”. La vicinanza (Caproni abita in viale Quattro Venti) favorisce le occasioni di incontro: per un certo periodo si vedono quasi tutti i giorni. Pasolini va a vivere nello stesso palazzo dove abita Gadda. Anche Bertolucci vive a Monteverde, in via Carini. A distanza di pochi isolati abitano dunque Caproni, Gadda, Bertolucci e Pasolini. Non solo la vicinanza agevola le frequentazioni (alle quali Gadda si abbandona a stento, tra mille riserve mascherate in forma cerimoniosa), ma anche l’ambiente letterario, più spazioso e arioso di com’è oggi, giacché fondato su rapporti di colleganza e rispetto tra scrittori e artisti anche molto diversi fra loro, per cui «ci si riconosceva a distanza di chilometri quando ci si vedeva». Scrive Sandra Petrignani in Addio a Roma (2012): «Nei primi anni Cinquanta c’erano tutti, a Roma, e stringevano fra loro amicizie in alcuni casi affettuosissime, e a un certo punto Caproni, Bertolucci e Pasolini si trovarono ad abitare nello stesso quartiere, Monteverde, e dal ’59 al ’63 Pier Paolo prese addirittura casa in via Carini al 45, stesso palazzo di Attilio, e si affezionava ai suoi giovani figli, il piccolo Giuseppe e il più grande Bernardo che avrebbe mosso con lui i primi passi nel cinema, sul set di “Accattone”».
Pasolini si fa strada rapidamente, azzecca le mosse giuste, e insomma gioca bene le sue carte per la conquista del “centro”. Con Caproni non maschera le sue ambizioni:
«Quando abitavo in Viale Quattro Venti non voleva mai che imbucassi le lettere nella cassetta rionale. “No, tu devi imbucare in centro”, mi diceva, “tu hai la mania della marginalità”. C’era già in lui l’idea di diventare un protagonista. Una volta eravamo in Piazza di Spagna, stanchissimi perché si arrivava da Ponte Mammolo e una Mercedes, passandogli accanto, lo urtò: “Giorgio” mi disse, “ti giuro che diverrò un potente”».
L’abbrivio scandalistico che a un certo punto fa decollare la vita Pasolini, mettendola sotto i riflettori e – quasi sempre a suo discapito – sotto la lente d’ingrandimento dell’opinione pubblica, finisce inesorabilmente per allontanarli. Pasolini è afferrato da un vortice di impegni, è ormai uno scrittore noto, che appunto fa notizia. Caproni è a sua volta riconosciuto (vince due volte il “Viareggio” e pubblica con Garzanti), ma resta per sua natura schivo e solitario: viaggiano su binari differenti e dunque hanno meno occasioni di frequentarsi. In una lettera a Betocchi del 5 agosto 1957, Caproni scrive: «Io di Pasolini, di quel Pasolini che non mi piace, ammiro il coraggio e quasi lo invidio. Tenta strade nuove, e dunque è giovane, beato lui. Anche se mi fa incazzare». Pasolini, tuttavia, lo vuole nei suoi film. Il 14 gennaio 1965 Caproni viene operato di ulcera gastrica, e il ricovero gli impedisce di recitare nel “Vangelo secondo Matteo” (la parte di Caproni passa ad Alfonso Gatto). Dieci anni dopo Pasolini lo chiamerà urgentemente a Roma – mandandolo a prendere con una macchina in piena estate, durante le vacanze tra i monti della Val Trebbia, in Liguria, senza spiegargli il motivo – per doppiare la voce del vescovo in “Salò o le 120 giornate di Sodoma”: sarà il loro ultimo incontro, prima della tragica morte di Pasolini.
L’amicizia, ombratasi un po’ negli anni ’70, ha avuto tempo e modo di lasciare tracce nelle rispettive opere. Eccole.
Pasolini su Caproni (“A Caproni”, 1958-59):
«Anima armoniosa, perché muta e, perché scura, tersa:
se c’è qualcuno come te, la vita non è persa».
Caproni su Pasolini (“Pasolini”):
«Quanto celeste, quanto
bianco, quanto
verdeazzurro vedo
nel tuo nome uno e trino».
Caproni su Pasolini post mortem (“Dopo aver rifiutato un pubblico commento sulla morte di Pier Paolo Pasolini”):
«Caro Pier Paolo.
Il bene che ci volevamo
– lo sai – era puro.
E puro è il mio dolore.
Non voglio pubblicizzarlo.
Non voglio, per farmi bello,
fregiarmi della tua morte
come d’un fiore all’occhiello».

Marco Onofrio

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FILASTROCCA DELL'EPIFANIA

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Filastrocca dell'Epifania
(Ode all'ingenuità)


Chissà mai che l'avvento dell'Epifania
Porti con sé non solo feste e ipocrisia
Scacci via ogni mala sorte e malattia
Vinca pure la mafia e la massoneria
E scongiuri ogni umana cialtroneria
Dischiuda l'alba novella dell'utopia
Donando al mondo un po' di poesia...

P. S. L'ho composta alcuni anni or sono per tutti i "bambini" che credono ancora nella Befana e in un mondo migliore...
festeggiando Epifania presso Barbiana, Toscana, Italy.

PASOLINI E LE CENERI DI GRAMSCI

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Sud Reloaded – Pier Paolo Pasolini



A me basterebbe, lo giuro, la resurrezione della mia terra. effeffe

La Terra di Lavoro
da Le ceneri di Gramsci

di
Pier Paolo Pasolini 
Ormai è vicina la Terra di Lavoro,
qualche branco di bufale, qualche
mucchio di case tra piante di pomidoro,

èdere e povere palanche.
Ogni tanto un fiumicello, a pelo
del terreno, appare tra le branche

degli olmi carichi di viti, nero
come uno scolo. Dentro, nel treno
che corre mezzo vuoto, il gelo


autunnale vela il triste legno,
gli stracci bagnati: se fuori
è il paradiso, qui dentro è il regno

dei morti, passati da dolore
a dolore – senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,

eccoli con il mento sul petto,
con le spalle contro lo schienale,
con la bocca sopra un pezzetto

di pane unto, masticando male,
miseri e scuri come cani
su un boccone rubato: e gli sale

se ne guardi gli occhi, le mani,
sugli zigomi un pietoso rossore,
in cui nemica gli si scopre l’anima.

Ma anche chi non mangia o le sue storie
non dice al vicino attento,
se lo guardi, ti guarda con il cuore

negli occhi, quasi, con spavento,
a dirti che non ha fatto nulla
di male, che è un innocente.

Una donnetta, di Fondi o Aversa, culla
una creatura che dorme nel fondo
d’una vita d’agnellino, e la trastulla

– se si risveglia dal suo sonno
dicendo parole come il mondo nuove –
con parole stanche come il mondo.

Questa, se la osservi, non si muove,
come una bestia che finge d’esser morta;
si stringe dentro le sue povere

vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascolta
la voce che a ogni istante le ricorda
la sua povertà come una colpa.

Poi, riprendendo a cullare, cieca, sorda,
senza neanche accorgersi, sospira.
Col piccolo viso scuro come torba,

in un muto odore di ovile,
un giovane è accanto al finestrino,
nemico, quasi non osando aprire

la porta, dare noia al vicino.
Guarda fisso la montagna, il cielo,
le mani in tasca, il basco di malandrino

sull’occhio: non vede il forestiero,
non vede niente, il colletto rialzato
per freddo, o per infido mistero

di delinquente, di cane abbandonato.
L’umidità ravviva i vecchi
odori del legno, unto e affumicato,

mescolandoli ai nuovi, di chiassetti
freschi di strame umano.
E dai campi, ormai violetti,

viene una luce che scopre anime,
non corpi, all’occhio che più crudo
della luce, ne scopre la fame,

la servitù, la solitudine.
Anime che riempiono il mondo,
come immagini fedeli e nude

della sua storia, benché affondino
in una storia che non è più nostra.
Con una vita di altri secoli, sono

vivi in questo: e nel mondo si mostrano
a chi del mondo ha conoscenza, gregge
di chi nient’altro che la miseria conosca.

Sono sempre stati per loro unica legge
odio servile e servile allegria: eppure
nei loro occhi si poteva leggere

ormai un segno di diversa fame – scura
come quella del pane, e, come
quella, necessaria. Una pura

ombra che già prendeva nome
di speranza: e quasi riacquistato
all’uomo, vedeva il meridione,

timida, sulle sue greggi rassegnate
di viventi, la luce del riscatto.
Ma ora per queste anime segnate

dal crepuscolo, per questo bivacco
di intimiditi passeggeri,
d’improvviso ogni interna luce, ogni atto

di coscienza, sembra cosa di ieri.
Nemico è oggi a questa donna che culla
la sua creatura, a questi neri

contadini che non ne sanno nulla,
chi muore perché sia salva
in altre madri, in altre creature,

la loro libertà. Chi muore perché arda
in altri servi, in altri contadini,
la loro sete anche se bastarda

di giustizia, gli è nemico.
Gli è nemico chi straccia la bandiera
ormai rossa di assassinî,

e gli è nemico chi, fedele,
dai bianchi assassini la difende.
Gli è nemico il padrone che spera

la loro resa, e il compagno che pretende
che lottino in una fede che ormai è negazione
della fede. Gli è nemico chi rende

grazie a Dio per la reazione
del vecchio popolo, e gli è nemico
chi perdona il sangue in nome

del nuovo popolo. Restituito
è cosi, in un giorno di sangue,
il mondo a un tempo che pareva finito:

la luce che piove su queste anime
è quella, ancora, del vecchio meridione,
l’anima di questa terra è il vecchio fango.

Se misuri nel mondo, in cuore, la delusione
senti ormai che essa non conduce
a nuova aridità, ma a vecchia passione.

E ti perdi allora in questa luce
che rade, con la pioggia, d’improvviso
zolle di salvia rossa, case sudice.

Ti perdi nel vecchio paradiso
che qui fuori sui crinali di lava
dà un celeste, benché umano, viso

all’orizzonte dove nella bava
grigia si perde Napoli, ai meridiani
temporali, che il sereno invadono,

uno sui monti del Lazio, già lontani,
l’altro su questa terra abbandonata
agli sporchi orti, ai pantani,

ai villaggi grandi come città.
Si confondono la pioggia e il sole
in una gioia ch’è forse conservata

– come una scheggia dell’altra storia,
non più nostra – in fondo al cuore
di questi poveri viaggiatori:

vivi, soltanto vivi, nel calore
che fa più grande della storia la vita.
Tu ti perdi nel paradiso interiore,

e anche la tua pietà gli è nemica.

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, 1956

CI MANCAVA SOLO LA MECCA...

UN CONFRONTO TRA LA LOMBARDIA E LA SICILIA

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Qualcuno dei dati statistici sopra riportati sono probabilmente da aggiornare e rivedere. Ma complessivamente mi sembrano corrispondenti alla realtà e offrono, già da soli, una spietata fotografia  dello sviluppo distorto della regione siciliana. 
Restano da spiegare le ragioni storiche di questo anomalo sviluppo, su cui mi sono già soffermato altre volte,  e  su cui conto di tornare prossimamente.
 fv

BANCHE E POLITICA. UNA COSTANTE DELLA STORIA NAZIONALE

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Sarà anche vero l'aforisma di Brecht che è peggior reato fondare una banca che rapinarla o la credenza di una certa sinistra nel carattere criminogeno del capitalismo, certo è che gli scandali italiani in campo economico-finanziario non hanno eguale per continuità e sistematicità nell'Occidente avanzato. Il che la dice lunga sulle caratteristiche profonde di un paese che esprime costantemente una tale classe dirigente.

Gian Antonio Stella

Le banche e gli scandali una storia infinita


S’affondano le mani nelle casse, crac! / si trovano sacchetti pieni d’oro, crac!» Pare scritta ieri mattina, la canzone Il crac delle banche del 1896. Nulla spiega la diffidenza degli italiani per le promesse di condanne esemplari ai colpevoli di oggi, quanto la memoria di ieri: salvo eccezioni, i banchieri son sempre rimasti impuniti.
Se la cavò con una censura Pietro Bastogi, che dopo essere stato «il banchiere del granduca» di Toscana e poi il ministro delle Finanze del neonato Regno d’Italia, passò dall’altra parte del tavolo e, fondata la Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio andò a incassare il gigantesco appalto (dopo aver distribuito promesse e «zuccherini», pare) per costruire le Strade Ferrate Meridionali. Dove nel Cda sedevano, su 22 consiglieri, 14 parlamentari.

E se la cavarono con un po’ di polemiche sui giornali, senza esser mai indagati davvero dai giudici (che anzi si accanirono contro il deputato Cristiano Lobbia che aveva denunciato lo scandalo) Domenico Balduino del «Credito mobiliare» e gli amici banchieri che nel 1868 vinsero la gestione per vent’anni della Regia Tabacchi (il monopolio che era secondo Rothschild la principale entrata del Regno) in cambio di 180 milioni (raccolti con la vendita di obbligazioni garantite dallo Stato!) e cioè meno della metà dei 400 milioni offerti a tassi più bassi da un gruppo di banchieri francesi e britannici.

Per non dire della Banca Romana del 1893 quando Bernardo Tanlongo, un fattorino salito su su fino a governatore, inguaiato dalla bolla immobiliare post-unitaria, usò la possibilità di batter moneta per emetter decine di milioni di lire «abusive», un’enormità, per coprire un buco spropositato e vent’anni di bilanci falsi. Le prove erano schiaccianti. Ma «sor Tanlongo» diede un’intervista spiegando d’aver dato soldi a tutti: «Se precipito giù casco in buona compagnia». L’anno dopo il Corriere titolava: «Assoluzione di tutti gli accusati». E le carte che li inchiodavano? Misteriosamente sparite.

E giù giù, di decennio in decennio, sono finite nel nulla le denunce di Giacomo Matteotti nell’ultimo articolo scritto prima d’essere assassinato: «La condotta della Banca Commerciale riguardo al prestito polacco è uno dei casi di sfrenata cupidigia consentita dai governanti fascisti...» E poi lo scandalo del «banchiere di Dio» Giovan Battista Giuffrè, che negli anni 50 infinocchiò migliaia e migliaia di italiani, ma soprattutto parroci e vescovi, garantendo strabilianti interessi del 100%. Una catena di Sant’Antonio tollerata perfino da un rapporto della Finanza («La figura del Giuffrè appare marcatamente distinta da eccezionale vena d’altruismo rivolta al bene considerato nello spirito cristiano») fino alla bancarotta. Devastante. Ma coperta dalla Dc che bocciò alla Camera, per due voti, la proposta di abolire il segreto d’ufficio per le banche più coinvolte. E il «banchiere di Dio»? Finì in una cella. Non di un carcere, però: di un convento. Mentre l’inchiesta, con gli atti depositati sei anni dopo (sei anni!) evaporava…

E via così, di crac in crac… Come quello della Carical (Cassa Risparmio Calabria e Lucania), sprofondata in un baratro a causa di mutui dati sulla garanzia di edifici abusivi, finanziamenti ad aziende che non tenevano i bilanci, prestiti concessi ipotecando due o tre volte la stessa casa…

Tutto finito con 15 assolti su 16 imputati in primo grado e uno strascico di ricorsi e controricorsi fino alle prescrizioni. Proprio come nel caso del Banco di Napoli: i giudici scoprirono che per anni c’era stato un sindacalista ogni 9 dipendenti, che i depositi erano strapieni fino ai soffitti di lenzuola accettate in pegno per prestiti impossibili da recuperare, che la controllata Isveimer distribuiva stipendi medi di 375 milioni di lire e insomma la gestione era stata così scellerata da fare un crac di 9 miliardi di euro attuali. La sentenza per i buchi dei primi anni 90 è arrivata nell’estate del 2003. Titolo Ansa: «Banconapoli, assolti ex dirigenti». E così è andata più o meno anche per la Banca di Girgenti, travolta da un’ondata di arresti per «bancarotta, falso in bilancio, false comunicazioni sociali, appropriazione indebita»… Sette condanne (lievi) in primo grado, due in appello. E gli altri? Ciao ciao…

Storie di «terroni»? Per niente. Basti ricordare la storiaccia bruttissima del Banco Ambrosiano. Un caso per tutti, quello di Roberto Calvi: arrestato il 5 maggio 1981, fu condannato esattamente due mesi dopo a 4 anni di carcere e 15 miliardi di lire di multa ma subito scarcerato. Grazie. Come sia finita per lui sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, si sa. Ma gli altri? Le condanne in primo grado furono dure, quella volta. E colpirono 33 persone. In appello, però erano già scese a 17. Dopo la Cassazione le manette scattarono solo per due: un figuro secondario e l’indifendibile Licio Gelli. E potremmo andare avanti, con queste cronache, per ore e ore. Dalla bossiana Credieuronord affondata con pochi maxi-prestiti a capi leghisti al «rosso» Monte dei Paschi di Siena, dalla Popolare di Lodi a tante altre.

E ogni volta grandi falò di indignazione, parole tonanti, solenni giuramenti: «Mai più! Mai più!» Ma che fine faranno, di ricorso in ricorso, tutti gli altri processi aperti in questi anni che ciabattano stanchi di rinvio in rinvio? Con quei precedenti …


Il Corriere della sera – 6 gennaio 2016

JASMIN EFTE CONTRO TUTTI I MURI

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Tutti i muri intorno a noi,
i confini chiusi,
le guerre interminabili,
tutti i profeti,
i libri sacri,
pure l'inferno e il paradiso
esistono solo perché
noi non impariamo ad amare.


Jasmin Efte 

P.S. : I lettori di questo blog sanno ormai chi è l'autrice dei magnifici versi che siamo stati autorizzati a pubblicare. J.E. è il pseudonimo di una geniale giovane iraniana che  ama la libertà e la pace più della poesia.   fv

GLI ULIVI DI NERUDA E DI VAN GOGH

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Vincent Van Gogh



Accanto al frusciare
del cereale, tra le onde
del vento sull’avena,
l’ulivo
dal volume argentato,
stirpe austera,
nel suo ritorto
cuore terrestre:
le gracili
ulive
lucidate
dalle dita
che fecero
la colomba
e la chiocciola
marina:
verdi,
innumerevoli,
purissimi
picciuoli
della natura,
e lì
negli
assolati
uliveti,
dove
soltanto
cielo azzurro con cicale
e terra dura
esistono,

il prodigio,
la capsula
perfetta
dell’uliva
che riempie
il fogliame con le sue costellazioni:
più tardi
i recipienti,
il miracolo,
l’olio.
Io amo
le patrie dell’olio,
gli uliveti
di Chacabuco in Cile,
al mattino
le piume di platino
forestali
contro la rugosa
cordigliera,
ad Anacapri, là su,
nella luce tirrena,
la disperazione degli ulivi,
e nella carta d’Europa,
la Spagna,
cesta nera di olive
spolverata di fiori d’arancio
come da una ventata marina.
Olio,
recondita e suprema
condizione della pentola,
piedistallo di pernici,
chiave celeste della maionese,
delicato e saporito
sulle lattughe
e soprannaturale nell’inferno
degli arcivescovili pesciprete.
Olio,
nella nostra voce, nel
nostro coro,
con
intima
mitezza possente
tu canti:
sei lingua
castigliana:
ci sono sillabe di olio,
ci sono parole
utili e profumate
come la tua fragrante materia.
Non soltanto il vino canta,
anche l’olio canta,
vive in noi con la sua luce matura
e tra i beni della terra
io seleziono,
olio,
la tua inesauribile pace,
la tua essenza verde,
il tuo ricolmo tesoro che discende
dalle sorgenti dell’ulivo.

Pablo Neruda  

SI FACCIA PIENA LUCE SUI FATTI ACCADUTI A COLONIA 1 e 2

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Ieri ho sentito e letto cose allucinanti su quanto accaduto la notte di capodanno in una grande e civile città tedesca. Prima ancora di accertare i fatti realmente accaduti, i principali quotidiani italiani hanno usato parole di fuoco contro i presunti attori delle aggressioni denunciate da un gruppo di donne tedesche; si è tornati a parlare di guerre di religione e della presunta superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella degli altri. 
In attesa di conoscere meglio quanto realmente accaduto - non avendo dimenticato l'incendio del Reichstag ( Il Parlamento tedesco)  avvenuto negli anni trenta del secolo scorso, incendio operato dai nazisti ma attribuito ai comunisti! - faccio mio questa mattina quanto segue:

COLONIA E L'INAUDITO


Siccome in questo blog ci piacciono le patate bollenti, quella di oggi sono i fatti di Colonia: l’aggressione sessuale indiscriminata, di massa, che nella notte di Capodanno ha colpito le donne, tutte le donne che si trovavano lì, nella zona della stazione, a opera di una non meglio definita torma di giovani uomini definiti “arabi o nordafricani”. Novanta denunce (sembra destinate ad aumentare, e sembra inoltre che una cosa del genere sia accaduta pure ad Amburgo), indagini serrate ma non è chiaro su chi e cosa, visto che di quel migliaio e passa di uomini si sa molto poco. Rifugiati? Immigrati regolari? Immigrati irregolari (posto che in Germania ce ne siano)? Comparse?
La prima cosa che m’è venuta in mente è stata la modalità del tutto inconsueta con cui questa notizia è affiorata – non più tardi di 24 ore fa – fino a campeggiare ovunque (come senz’altro merita). Viene però da chiedersi come sia possibile che, nel mondo simultaneo in cui viviamo, dove ogni cosa è condivisa pressoché al suo accadere, questa notizia ci abbia messo ben cinque (cinque) giorni a farsi strada nelle home page e sui social. Perché sia tuttora così poco chiara nei particolari, e di fatto – nelle migliaia di ripetizioni e ri-confezionamenti – piuttosto monolitica, con un corpus narrativo sempre uguale e quasi privo di dettagli aggiuntivi, come di solito avviene nella natura “a cascata” dell’informazione. Una notizia che non si muove affatto come di solito si muovono le notizie (tanto che c’è persino chi sospetta persino teatrini e montature anti-Merkel, sceneggiate che smantellino la pietasdell’accoglienza).
Nulla di questo, ovviamente, toglie un’oncia allo stupore traumatico, al franco orrore che uno scenario simile suscita.

La seconda cosa che ho pensato – al netto dei clamori del solito coro tragico degli xenofobi e razzisti – è stata: finalmente, ora si dovrà affrontare quel cavolo di nodo taciuto, dribblato, ignorato finora persino dalle migliori menti della mia generazione: la sostanziale misoginia che – sostenuta da sistemi religiosi (non solo, non necessariamente islamici) fondati sulla coercizione e da sistemi politici fondati sulla tirannia e da sistemi educativi fondati sulla repressione sessuale – informa interi Paesi, intere culture.
Sì, anche molti dei Paesi dei rifugiati, le cui donne sono due volte vittime: nello spazio privato e nello spazio pubblico.

E da donna, da donna pensante, da donna pensante occidentale che i veli se li è dovuta levare poco alla volta, in decenni e forse secoli, io non posso tacere che, se c’è una questione, come dire, verticale, che riguarda popoli, Paesi, guerre e dittature, migrazioni e frontiere, ce n’è un’altra, ahinoi, orizzontale, che riguarda la condizione femminile trasversalmente e forse globalmente.
E questa questione incrocia, in tremenda rotta di collisione, tutti i nostri discorsi sull’integrazione e l’accoglienza, sulla mescolanza e il rispetto.

La scena che sembra emergere dai fatti di Colonia – gli inauditi fatti di Colonia, e sono particolarmente contenta di poter piazzare con pienezza quell’ “inauditi”, nell’Europa che pure ha bruciato le sue streghe e ha discriminatole sue donne, nell’Europa della crisi dove pure le teste delle donnesono le prime a cadere, i diritti delle donne i primi a essere messi tra parentesi (ma toccherà a tutti, tranquilli, è solo questione di tempo), nell’Europa e nell’Occidente che pure fonda intere industrie di pornografia e sfruttamento sul corpo delle donne – ricorda la scena, le scene descritte nel recentissimo libro di Mona Eltahawy “Perché ci odiano”, breve trattato sulla misoginia che copre, col suo velo nerissimo, intere aree del nostro mondo. Il palpeggiamento di massa, la riduzione della donna a corpo di soddisfazione collettiva e indiscriminata, a oggetto d’istinto predatorio primario, a prescindere dal suo aspetto, dalla sua età, dalla sua condizione: una cosa che le donne di altre zone del mondo – ci racconta con dovizia di dettagli la Eltahawy – conoscono bene, e fin dalla più tenera infanzia. Secondo un principio di possesso e di predazione autorizzato talora persino dalle leggi, e comunque di fatto vigente in ogni ambito della vita, a cominciare dalle relazioni più intime e familiari. Un principio mai messo in discussione, persino nei Paesi in cui le donne sono scese in piazza al fianco degli uomini per rovesciare regimi e tiranni: il loroprivato regime, i loro privati tiranni sono ancora tutti lì.
E non è questione di velo o non velo, anche se la motivazione prima del velo, vi ricordo, è sempre la legge di “modestia” inflitta alle donne, e la necessità che non “turbino” l’autocontrollo maschile, che, si sa, malgrado siano loro il sesso forte, è assai debole…
Infine, una vicenda come quella di Colonia e Amburgo – speriamo col passare delle ore più dettagliata e chiara in tutti i suoi aspetti – merita una franca, anzi spietata riflessione, perché tocca quel nodo dolente e cruciale dei diritti femminili e dei diritti umani(questioni pressoché indistinguibili in molte parti del mondo), e non possiamo consentire che, in nome di un imbecille e omertoso “relativismo culturale”, o in nome di un’opposizione purchessia agli scemi xenofobi (cosa sempre buona e giusta), lo si passi sotto silenzio. In troppi e troppe stanno tacendo, in queste ore, sia pure – taluni e talune – per il nobile scopo di non nuocere alla causa dei disperati che bussano alle nostre porte. 
Ma io sono furiosa, come donna, come cittadina del pianeta, come attivista dei diritti umani.Sono stanca di collezionare donne lapidate, decapitate, stuprate e impiccate. Donne violate in tutte le forme possibili. Donne zittite, cancellate a partire dal volto, dai capelli, dagli abiti.
Non si fanno rivoluzioni e non si fanno accoglienze, senza risolvere la questione delle donne. E nessuna donna può stare in silenzio, da qualunque parte stia, in qualunque dei nostri mondi abbia la sorte di vivere. 


Da https://manginobrioches.wordpress.com/2016/01/06/colonia-e-linaudito/
 
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P. S. : Da ieri, su giornali tv e rete, la consueta gazarra su quanto accaduto a capodanno in Germania. E, prima ancora di conoscere i fatti, sono state scritte cose di cui tanti dovranno vergognarsi un giorno. Stamattina, per fortuna, su radio tre ho ascoltato invece dei pacati ragionamenti che confermano i miei sospetti sulla dinamica dei fatti.  fv
Di seguito ripropongo l'ottimo intervento di Fabio D'anna:



Dai fatti di Colonia alla mancata integrazione. Il caso Zalone.

Viviamo ormai per slogan, per sentito dire, e gia' una voce e' sufficiente per mobilitare editorialisti, anchor man o woman, politicanti di tutte le fogge.

Si sa che circa 90 donne sono state derubate e/o palpeggiate a Colonia durante i festeggiamenti della notte di Capodanno.
Si dice che gli aggressori sembrassero arabi.
Notizie scarne e contraddittorie che dovrebbero suggerire cautela perche' non e' dato conoscere se gli aggressori agissero in gruppo, quale la loro nazionalita' e se il loro intento fosse la molestia sessuale o il furto.

Invece, si sono subito alzate le cordate ideologiche contro" gli uomini che odiano le donne" e gli immigrati che violentano le nostre donne e ci vogliono riportare al Medioevo.
Cosa possa entrarci, se provato per tutti i casi come gia' per gli arresti eseguiti, il furto con l'odio di genere o di razza rimane avvolto dal limbo della comunicazione da slogan.

A questo punto ci si dira' quale sia il
nesso tra il comico Zalone e i fatti di Colonia. Il legame non e' ,ovviamente ,diretto ma riguarda il tema del razzismo, dell'integrazione e della semplicita' del linguaggio.
Nella realta' odierna, come nel film, ci si muove da un diiffuso senso di razzismo( Nord- Sud, Neri-Bianchi) alla difficolta' di armonizzare le diversita'.
In Italia, come nella tanto decantata Europa, ci sono difficolta' , strumentalizzate politicamente in modo becero, sia contro i meridionali, sia contro gli europei" poveri" da parte dei nordici e degli appartenenti ai paesi ricchi.
In questo quadro, vi e' stata l'invasione dei
migranti provenienti dall'Africa e dal Medio Oriente. E anche qui si s-ragiona per slogan.
Sono nostri fratelli, accogliamoli tutti, buttiamoli in mare ci rubano il futuro.
Posizioni che tengono banco nel dibattito politico europeo e che sono viziate da residui ideologici permeati da razzismo, in un senso o nell'altro.
Perche' ragionare in termini di razza e' sia negare ogni futuro, sia tollerare tutto senza fissare e fare rispettare regole ben stabilite.
La tanto invocata integrazione non puo' prescindere dalla rigida osservanza della
legge, cosi come avvenne quando i
migranti eravamo noi e non sempre della
migliore specie.

Forse, allora, la politica e l'informazione dovrebbero andare a lezione da Zalone che,scegliendo la semplicita' del linguaggio, riesce a rifuggire dalla banalita' e dall' intellettualismo condito da borghesia danarosa e chic.
Insomma, se si guarda con occhi nuovi si puo anche sorridere di cio' che intristisce.

A PALERMO SI TORNA A PARLARE DI DANILO DOLCI

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Un calendario per la pace. Dodici volti a partire da Danilo Dolci


di Gabriele Bonafede

Sarà presentato domani, sabato 9 gennaio 2016, a Palermo, presso le edizioni Paoline, corso Vittorio Emanuele 456 (di fronte la Cattedrale) alle 18.00 il calendario della pace 2016 edito dal Movimento Internazionale per la Riconciliazione (MIR). Per ogni mese un volto di pace riconosciuto e riconoscibile: Danilo Dolci, Rocco Campanella, Rocco Rindone, Giorgio La Pira, Renato Accorinti, Maria Occhipinti, Turi Vaccaro, Tullio Vinay, Sarina Ingrassia, Pio La Torre, Jinyu Morishita, Giancarlo Lo Porto.
Il calendario unisce le esperienze di costruzione della pace in Sicilia a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, in un ampio contesto mediterraneo e mondiale, con una forte ispirazione all’impegno per la nonviolenza e la riconciliazione tra i popoli e le religioni.
Nella copertina del calendario una foto di Erminia Scaglia, con suor Anna, un arcobaleno e Gandhi. Il calendario sarà presentato da Francesco Lo Cascio, del MIR di Palermo, ed è espressamente dedicato ai volti di pace in Sicilia, primo tra tutti Danilo Dolci.

Danilo Dolci nel 1992
Danilo Dolci nel 1992

Così Francesco Lo Cascio commenta: “Da tre anni realizziamo dei calendari. Abbiamo iniziato il percorso con biografie di uomini di pace in occasione del centenario del MIR, nato con gli obiettori di coscienza della prima guerra mondiale. Poi sulla nonviolenza nella fotografia nel corso delle guerre.Il XX secolo è sempre considerato delle guerre, ma è anche il secolo della pace e degli uomini e fatti della non violenza: Luther King, Gandhi, la caduta del muro di Berlino. Quest’anno, continuando questo percorso, vogliamo raccontare la non violenza in Sicilia. Se si fa attenzione, lo sviluppo pratico della non violenza è avvenuto nel Meridione. Le dodici persone del calendario sono storie di nonviolenza in un luogo difficile, affrontate e vinte. In altri posti sono state fatte pubblicazioni, accademia. Da noi ci sono state lotte pratiche sul terreno, se pensiamo a Danilo Dolci, Junyu Morishita, ad esempio.”
Il volto di Danilo Dolci, per gennaio nel calendario, è quello del digiuno che aveva fatto in memoria di un bambino che era morto per fame a Trappeto. L’immensa figura di Danilo Dolci è anche poliedrica, perché ha operato in tanti settori portando a risultati concreti con una lotta non violenta e scientifica alla mafia, per la pace e contro le ingiustizie. Se pensiamo ad esempio alla realizzazione del lago del Poma o a quella dell’ospedale di Partinico, Dolci è stato un successo degli ultimi.
Troppo presto dimenticato e isolato in Sicilia negli ultimi anni della sua opera, mentre era considerato uno dei massimi esponenti della ricerca e della sociologia nel mondo, Danilo Dolci è stato un seme di pace e cooperazione che ha prodotto grandi frutti in Sicilia e altrove. E, dopo la morte, è stato finalmente riscoperto anche in Sicilia con nuove ristampe delle sue pubblicazioni e una rinnovata e doverosa attenzione. Giusto che il calendario parta dal suo volto perché segna, in qualche modo, un seme piantato, un inizio dell’azione di nonviolenza pacifica con risultati concreti in Sicilia.

Articolo tratto da  http://www.maredolce.com/

ANDIAMO A VEDERE IL CINEMA POESIA

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Un mondo tutto al femminile in un fluttuare di ricordi, rancori, delusioni e forti rimpianti. Dopo Le ricette della signora Toku un altro bel film giapponese in programmazione nelle sale italiane.
Cristina Piccino
I fantasmi silenziosi del Giappone nel diario intimo di quattro sorelle
Sovrastato dalle commedie annuali e dall’urto di Star Wars è da ieri in sala Little Sister di Hirokazu Kore-eda, giapponese, tra i più importanti registi contemporanei, anche se forse il nome dice poco al pubblico italiano visto che i suoi film non hanno circolato troppo spesso sul nostro mercato così ristretto nonostante siano presentati nei principali festival internazionali (compresa la Mostra del cinema di Venezia). Non perdetelo perché è davvero un bel film nonostante le inevitabili penalizzazioni del doppiaggio (più forti e fastidiose in film come questo), di quelli che regalano momenti di intensa emozione, leggerezza, e felicità.
Ispirato a un manga «familiare» di Akimi Yoshida, Little sister segue la vita quotidiana di quattro ragazze, quattro sorelle che vivono un una vecchia casa di legno nel bosco di Kamakura, a sud di Tokyo. Cosa racconta la semplicità apparente di quel presente, in bilico su equilibri rischiosissimi come quello di ciascuna esistenza? Piccoli drammi o episodi lontani, l’incognita del futuro, sentieri impalpabili lungo i quali si avventurano i personaggi che il suo sguardo segue con pudore e dolcezza.
Ci sono tre sorelle, la maggiore ha cresciuto le due più piccole quando la madre le ha abbandonate, appena adolescenti, nella vecchia casa di famiglia, dopo che il padre era andato via con un’altra donna. Al funerale dell’uomo le tre ragazze conoscono la sorellina, una ragazzina di tredici anni, Suzu, che la maggiore, Sachi, decide di portare con loro riconoscendo in lei la sua stessa dolorosa sofferenza alla sua età, quel sentirsi responsabili per tutto e per tutti che, come le dice l’uomo con cui ha una relazione, le ha tolto il piacere dell’infanzia. Ma la presenza di Suzu cambierà anche i rapporti tra le sorelle portandole dolcemente a riflettere su sè stesse e sulle scelte reciproche.
Siamo in un mondo declinato interamente al femminile, le sorelle, la anziana pro zia, la madre delle tre ragazze, la piccola Suzu, che condividono il fantasma paterno, quella figura per le tre maggiori fantasmatica, per Suzu invece concreta intorno alla quale continuano a fluttuare ricordi, rancori, delusioni, rimpianti. La memoria soffusa e delicata dell’infanzia, anche nel dolore, per una delle ragazze è l’odore della nonna, per un’altra i kimoni dell’estate, per Suzu le giornate col padre a pesca, per la sorella maggiore l’ostinazione a mantenere le tradizioni, come il liquore di prugna, e per quella appena più giovane, e molto fashion, lo smalto per le unghie che la madre le ha regalato quando aveva solo sei anni.

Il Diario narra lo scorrere di queste giornate, il rito sospeso del tempo quotidiano in cui nulla sembra accadere, i passaggi dell’esistenza, gli incontri e gli addii, le lente scoperte di sé, la crescita dei desideri, la necessità di lasciarsi alle spalle l’infanzia mondo dell’infanzia …
Oltre i bordi delle immagini balena, il Giappone in crisi delle piccole imprese oppresse dai debiti e dalle banche, di un’irrequietezza giovane, di sogni lasciati a metà. Non è facile mantenere teso questo filo dell’emozione, e renderlo immagine.
Kore-eda guarda al cinema classico del Sol levante, alle sfumature emozionali impalpabili di Ozu, anzi Little sister è forse il più vicino per sensibilità alle storie del regista di Viaggio a Tokyo, e non solo per i fiori di pesco che danzano spinti dal vento o per la delicatezza con cui costruisce la sua messinscena. Il movimento delle esistenze tra conflitti, silenzi, ferite anche involontarie, sorrisi, umorismo che disegna questa geometria narrativa c parlano di una ricerca del proprio posto al mondo in cui ognuno porta in sé le tracce di qualcun altro: le sorelle e la sorellina, il paesaggio, la memoria e i cambiamenti intimi del presente, quel passaggio tra le generazioni che procede per salti (la nonna più della madre), che può essere paura, follia, rimpianto ma anche una consapevolezza determinata che si palesa all’improvviso. E ai fantasmi sostituisce la realtà delle cose. Un film «piccolo» questo Little sister, senza proclami, che lieve rende la vita, e lo scorrere delle sue stagioni nel tempo del cinema.

Il Manifesto – 2 gennaio 2016

GESU' SECONDO ROBERT GRAVES

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Riti di Mitra, misteri dionisiaci, saturnali e la “vera” Epifania. Ritorna “Jesus Rex”, il capolavoro di Robert Graves.

Silvia Ronchey

Tutti gli dèi nascosti dietro al dio chiamato Gesù

Nel 1614 Keplero, dopo laboriosi calcoli, dimostrò che nel 7 a.C., quando dovette grossomodo avere luogo la nascita di Gesù (che il calendario etiopico colloca nell’8 a.C. e che comunque non poté precedere il 5 a.c., anno di morte di Erode), Giove e Saturno ebbero tre congiunzioni ravvicinate nella costellazione del Pesce, un evento raro che avviene ogni svariate centinaia di anni e che era stato tuttavia già, previsto, si dice, dagli astronomi caldei.

Una di queste congiunzioni fu nel mese di dicembre. Non che l’evento in sé spieghi la “stella grandissima”, che secondo i testi sacri — Matteo 2, 1-12, ma soprattutto gli apocrifi — sarebbe apparsa in quel tempo e avrebbe segnalato ai Magi la nascita di “un re per Israele”; o giustifichi un aumento della luminosità tale da oscurare le altre stelle, come scritto nel Protoevangelo di Giacomo. Né risulta compatibile con la cronologia della nascita di Gesù la visibilità della cometa di Halley, il cui passaggio si ascrive al 12 a.C. Ma la relazione tra il formarsi del calendario liturgico protocristiano e gli eventi astronomici che già sostanziavano i riti delle più antiche religioni, zoroastriana anzitutto e poi romana, è indubitabile.


La festività che nel mondo cristiano ortodosso è detta “delle Luci” ( ton Photon) accomuna in un breve giro di calendario il pellegrinaggio escatologico dell’élite pagana d’oriente e la festa solare chiamata nell’antica Roma dies natalis Solis Invicti, e ancora oggi da noi Natale; a sua volta legata sia ai Saturnali, sia alla festa di Mitra, il cui culto misterico prettamente maschile, originariamente indopersiano, romanizzato nella pratica rituale degli eserciti, era in grande espansione nel periodo in cui nacque la fortunata eresia giudaica che le scritture canoniche ed extracanoniche associano alla nascita di un “nuovo re di Israele” proprio in occasione dell’evento che qui festeggiamo il 6 gennaio e chiamiamo Epifania.

Nome a sua volta desunto dalla terminologia dei misteri greci. È l’epiphàneia di un dio, la sua sacra manifestazione, al centro della leggenda della stella e dei Magi. I tre maghi persiani dal cappello a cono del mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, i Drei Könige sulle cui magnetiche reliquie si impennò la cattedrale di Colonia,i tre savii stranieri dai nomi incerti e contorti che seguirono la stella ed ebbero l’epifania di un fanciullo divino, si prostrarono, scrive Matteo, con la rituale proskynesis che si riconosce al capo di un’altra e nuova religione, recandogli il crisma dei sommi doni sapienziali.

«I misteri religiosi sono in gran parte connessi con le predizioni astronomiche», scrive con apparente candore Robert Graves all’inizio della terza e culminante parte di Io, Gesù, il capolavoro (ora ripubblicato da Longanesi, e all’epoca intitolato Jesus Rex) che settant’anni fa dedicò al formarsi del culto di quelli che chiama i crestiani — i seguaci del Chrestòs, in greco “il Buono” — nell’epoca che va appunto dalla teofania occorsa ai Magi a quello che definisce «lo scisma dei gentili, capeggiato dal visionario Paolo di Tarso.

Un culto che sancisce — è la grande teoria di Graves, che fa qui la sua prima comparsa — la vittoria delle religioni dominate da divinità maschili, di cui JHWH, il dio onnipotente del monoteismo biblico, è l’esempio massimo, sulla religione femminile originaria, quella della Grande Dea, cui Graves dedicherà due anni dopo il suo libro più noto, La dea bianca. L’eclissi della divinità lunare e l’oblio del suo culto porteranno a fraintendere l’identità storica di Gesù, che nella ricostruzione di Graves, fantastorica, deliberatamente fantasmagorica ma non per questo meno scientificamente probante, riunisce in sé, per discendenza matrilineare, un’effettiva e clamorosa regalità.

La legittima successione del trono di Davide, ossia dell’antica Israele, e di Erode, ossia della Giudea romana, gli è assicurata da Maria, vergine di sangue regale consacrata al Tempio, che ha però segretamente sposato uno dei figli di Erode, avuto dalla prima moglie, di altrettanto impeccabile discendenza idumonea. È alla luce dell’effettivo status di aspirante Rex Iudaeorum che Graves interpreta, nel finale del libro, l’udienza personale concessa da Pilato a Gesù, il suo straordinario favore, l’inusuale titulus, INRI, apposto per suo ordine alla croce; così come il successivo, irrazionale e imprevedibile svolgersi del fatti, la catena di fraintendimenti, censure, tendenziosità che plasmeranno, in un sincretismo assoluto e a tratti costernante, la nuova religione maschile destinata a pervadere i confini dell’impero romano, dal medio oriente giudaico all’estremo occidente celtico, di quella gelosa idea di elezione e linearità, legata a un’inquietante promessa di “al di là”, che si sostituirà alla preesistente idea femminile di ciclicità della storia come della natura del cosmo.

Al bene informato Agabo, alter ego narrante di Graves nell’ipotetico anno Domini 93 d.C. cui la narrazione è ascritta, il nuovo culto si presenta dominato da un rito conosciuto col nome di eucarestia e adibito «a comodo ponte tra il giudaismo e i culti misterici greci e siriani, in cui il sacro corpo di Tammuz viene mangiato sacramentalmente e sacramentalmente bevuto il sacro sangue di Dioniso», il dio “Figlio della Duplice Porta”, nato prima a sua madre Semele e poi al padre Zeus, cui Gesù somiglia anche nell’avere due date astronomiche di nascita: a quella del solstizio d’inverno, che coincide con la nascita del sole, si aggiunge quella estiva cui si riconduce il suo battesimo — rappresentato con matematica perfezione neoplatonica da Piero della Francesca — che coincide con la levata eliaca di Sirio, la stella messianica del versetto di Isaia.

In Io, Gesù Graves, superbo esperto di mitografia greca ed ebraica, dipana il sincretismo fin dalla Natività. Se la Vergine Madre dalla veste azzurra e dalla corona di stelle d’argento è necessaria ipòstasi di Iside, nella grotta la mangiatoia dov’è adagiato il Bambino ripropone quella usata allo stesso scopo nei misteri delfici ed elusini e il bue e l’asino, cui già allude Isaia, simboleggiano i due messia promessi, il figlio di Giuseppe e il figlio di Davide, che il neonato adorato dai Magi riunisce. La sua storia ha tratti in comune con quella di Pèrseo, che il re Acrisio tenta di uccidere in fasce.

Nella narrazione di Graves, ironicamente accademica, irresistibilmente sacrilega, implacabilmente laica, i Magi non sono nulla di ciò che per due millenni l’esegesi dei teologi cristiani o degli storici delle religioni o tanto meno degli esoteristi e teosofi in voga in quegli anni ha abilmente e spesso fondatamente congetturato, ma solo tre ebrei damasceni della tribù di Issa- char, che nel palazzo di Erode a Gerico si presentano come astrologi appartenenti alla nuova setta degli “alleanzisti”: hanno stipulato una nuova alleanza con Dio attraverso la mediazione di uno spirito chiamato “Colui che viene” ovvero “la Stella”, che secondo la loro previsione si incarnerà quanto prima sotto spoglie umane e darà a Erode gloria eterna.

Ma Erode stesso ha basato la sua politica e il suo regno sulla congiunzione astrale di Giove e Saturno individuata da Keplero nel 1614. Dal fallimento del piano dinastico di Erode, che in Graves si snoda in sostanziale aderenza a Matteo, ascende l’astro del nuovo re che i tre astrologi giudei hanno correttamente individuato e adorato, ma che non sarà scorto in vera luce dai gentili. I suoi Atti e detti, originariamente scritti in aramaico, riceveranno, riferisce il beffardo Agabo, versioni multiple di una traduzione greca «erronea, a volte goffa e di tanto in tanto fraudolenta », cosicché i fondatori delle chiese gentili fraintenderanno «così stranamente la sua missione da fare di lui la figura centrale di un nuovo culto che, se lui oggi fosse vivo, giudicherebbe solo con avversione e orrore».

Lo vedranno come un giudeo rinnegato che «unendo la propria sorte a quella degli gnostici greci aspirò a una sorta di divinità apollinea, per di più fornendo credenziali che devono essere accettate per cieca fede — suppongo perché nessuna persona ragionevole», aggiunge Agabo, «potrebbe mai accettarle in alcun altro modo».


La Repubblica – 6 gennaio 2016

RITI E FESTE

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Le feste natalizie e di fine anno ci ricordano (al di là delle credenze religiose) l’importanza che riti e gesti strutturati rivestono nella vita degli uomini. Ripetere periodicamente un fatto mitico mette ordine e attribuisce senso al fluire caotico della realtà.

Carlo Rovelli

Perché non possiamo rinunciare alle feste


Le feste sono passate. Anche quest’anno è passata l’ondata di emozioni, pranzi, dolci, parenti, piccoli viaggi, regali e quant’altro che accompagna il periodo natalizio. Mi stupisce sempre quante cose riesca a smuovere questo periodo. Anche chi cerca di resistere, finisce per esserne trascinato. Non si può non andare a trovare un parente caro. Non si può, alla fine, non fare un regalo. Non si può non imbandire almeno un poco la tavola, preparare almeno un alberello, un piccolo presepe, una lucetta colorata, o almeno una candela. Non segnare questo tempo dell’anno con un gesto. Da dove viene questa immensa forza delle feste su tutti noi?

Per i cristiani il Natale è la celebrazione della nascita del Salvatore. La celebrazione dell’arrivo di Chi ci ha salvato. È una celebrazione che non può non smuovere nel profondo: l’arrivo dell’invisibile nel mondo. Il presepe ricrea questo momento magico assoluto, immerso in una luce di pura emozione. Ma la festa di fine dicembre è assai più antica e profonda del Cristianesimo: il Cristianesimo l’ha fatta propria, vi ha innestato la propria mitologia e la propria teologia, ma è salito su qualcosa di profondamente umano, che lo precedeva. Nella Roma antica già si accendevano le candele e ci si scambiava regali all’avvicinarsi della fine di dicembre, ben prima della nascita di Gesù. Tribù del Nord celebravano il solstizio d’inverno ben prima che arrivasse loro il messaggio cristiano. La forza che ci spinge a questi gesti è più antica del Cristianesimo. Che forza è?

Un grande libro, pubblicato alcuni anni or sono e scritto da uno dei maggiori antropologi del secolo scorso, Roy Rappaport, è interamente dedicato all’origine antica dei riti. Rappaport ha passato la vita a studiare i riti, a cercare di rintracciarne la storia e il senso. I riti, se ci pensate, sono qualcosa che sembra strano e poco comprensibile agli occhi di una modernità ingenua.

Un rito è un gesto, un’azione, una parola, che vengono ripetuti eguali, più o meno regolarmente, e che hanno un’intensa portata emotiva per chi li compie, anche se spesso non sembrano avere utilità diretta, o almeno non un’utilità capace di giustificare la straordinaria forza con cui permangono.

Perché da millenni ci scambiamo un regalo alla fine di dicembre? Sono crollati imperi, sono stati trucidati interi popoli, abbiamo cambiato religione più volte, siamo stati ricchi e poveri, dominati e dominatori, abbiamo creduto nelle streghe e siamo arrivati sulla luna, e con assoluta regolarità ad ogni fine dicembre ci siamo scambiati un piccolo regalo, abbiamo acceso una candela o una piccola luce. Non è straordinario?

Secondo Rappaport, la nascita dei riti risale alla formazione stessa dell’umanità: al periodo dell’apparizione del linguaggio articolato che caratterizza oggi così marcatamente la nostra specie. I riti secondo Rappaport giocano addirittura una funzione chiave nella costruzione stessa del nostro essere umani, e in particolare del nostro essere sociali. Comportamenti rituali, cioè elaborati gesti complessi ripetuti e senza apparente fine diretto sono comuni in molte specie animali e spesso ancorano la formazione di legami duraturi, come per esempio i complessi rituali di corteggiamento di molte specie monogame. 
Nella specie umana il linguaggio porta a costruire un complesso mondo astratto dove prendono vita innumerevoli entità nuove che prima non esistevano (leggi, matrimoni, sentenze, contratti, regni, nazioni, proprietà, diritti...), le quali hanno statuto di realtà per all’azione degli uomini, e hanno forza in quanto componenti di un sistema che è condiviso.

Tutto questo si regge sull’adesione di ciascuno al sistema condiviso, e quest’adesione, seguendo leggi profonde nella nostra struttura mentale di primati, si forma con un gesto rituale e si riafferma regolarmente in un gesto rituale. Il rito, insomma, è il fondamento stesso della complessa realtà sociale e spirituale umana entro la quale si svolge la parte più grande della nostra vita di esseri umani.

Così la vita comune di due persone che si amano si appoggia ad un rito che è il matrimonio; la vita professionale di un dottore si appoggia su un rito che è la sua laurea; gli anni di galera di un ladro dipendono da un rito che è il processo; la legittimità di un parlamento si appoggia sul rito elettorale; la legittimità della proprietà della mia casa si appoggia su un rito che è la firma da un notaio; la vita interiore di un cattolico su un rito settimanale che è la Messa cattolica, la vita interiore di un buddista sul rito della meditazione, e la vita scientifica del mio piccolo gruppo di ricerca a Marsiglia su quel rito un po’ sfilacciato che sono le nostre più o meno regolari riunioni per mangiare un panino e parlare di fisica..., e via così all’infinito.
    Rito di iniziazione africano

Alla ripetizione di gesti strutturati e regolati, affidiamo il compito di mettere ordine nel fluire caotico della realtà e di darci i punti fermi, i punti dove ancorare la nostra lettura del mondo, e il nostro essere nel mondo.

Non so se la lettura dei riti che fa Rappaport sia giusta nei dettagli. Non so neppure fino a che punto sia condivisa da chi si occupa oggi di antropologia dei riti. Ma certo ci insegna qualcosa di importante e profondo: noi esseri umani siamo complessi, siamo fatti di strati diversi che noi stessi spesso in generale non capiamo del tutto. Delle regole che ci portano, se non ci occupiamo di studiarle, non siamo neppure consapevoli. Diamo loro dei nomi, e ci lasciamo trasportare da esse e dalla vita.

E a ogni Natale, che siamo cattolici ferventi o atei cristallini, noi italiani torniamo a casa a trovare il nostro vecchio padre, e scambiamo qualche dono con i nostri amici. Così il mondo torna in ordine: ci rassicuriamo del legame di affetto che ci lega, ci sentiamo a casa nel mondo. E siamo pronti a ripartire per la vita.


Il Corriere della sera – 7 gennaio 2016

P. SALINAS, Abbracciato a te

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E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire
con domande, con carezze,
quella solitudine immensa
d'amarti solo io.

- Pedro Salinas - da ~ 'La Voce a Te Dovuta' ~

PAVESE, FA FREDDO ALL' ALBA...

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Fa freddo nell’alba
e la stretta di un corpo
sarebbe la vita

- Cesare Pavese - in Lavorare stanca

GLI ANNI PASSANO, MA LA VOGLIA DI VIVERE RESTA!

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Sostiene Pereira, mentre si allontanava tra la folla, aveva la sensazione che la sua età non gli pesasse più, come se fosse tornato un ragazzo, con una gran voglia di vivere(...) ebbe voglia di fare un bel sogno, un sogno bellissimo ad occhi aperti, ma di questo sogno non vuole parlarne Pereira.

 Antonio Tabucchi, Sostiene Periera

NEPPURE L'INQUISIZIONE RIUSCI' A CANCELLARE LA GIOIA DI VIVERE

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Dal fiorire degli studi sul fenomeno dell'Inquisizione nell'Europa rinascimentale emerge l'immagine di una società molto più trasgressiva e libera di quello che solitamente si crede.

Dino Messina

Le libertà nascoste dietro l’Inquisizione


Streghe, eretiche, mistiche, ebree, bigame, concubine, schiave, convertite... Sono numerose le protagoniste di saggi e incontri sull’Inquisizione, ma — ha detto la storica Marina Caffiero introducendo i lavori del recente convegno L’inquisizione e le donne , che si è svolto a Roma a cura dell’Università La Sapienza e della Congregazione del Sant’Uffizio — è la prima volta che un incontro di studi viene dedicato al tema. Ancora oggi non sappiamo quante siano state le inquisite, le condannate e così via.

Nonostante alcuni lavori specifici, come quello fondamentale di Andrea Del Col sull’Italia del Rinascimento, abbiano per esempio «ridimensionato sia i numeri dei processi sia delle condanne a morte (circa 700 processi con 250-270 condanne capitali certe tra 1400 e 1541) e una percentuale di condanne a morte che era del 22 per cento per gli uomini e di ben il 40 per cento per le donne».

Questa percentuale si spiega con il fatto che si riferisce al periodo culminante della caccia alle streghe, ma non risponde alla domanda di carattere storico-sociale: chi erano concretamente le inquisite?

Nei processi, risponde la storica Caffiero, tutti i ceti sociali sono rappresentati. Così «i reati non sono esclusivamente quelli ritenuti di pertinenza femminile (stregoneria, infanticidio)», ma troviamo false sante, visionarie e anche scrittrici, come Maria d’Agreda, la mistica spagnola vissuta nella prima metà del Seicento che sosteneva di aver visitato le Americhe senza mai uscire dal convento.

I processi dell’Inquisizione ci raccontano non soltanto una storia di repressione, ma anche un universo di libertà, perché documentano pratiche e stili di vita ben lontani dalla morale cattolica. «Emerge — sostiene Caffiero — una libertà disinvolta di comportamento, ad esempio nei rapporti sessuali e nella frequenza della bigamia e del concubinato, e soprattutto di movimento sul territorio. Mobilità con spostamenti frequenti in tutta Europa, falsificazione di identità e di documenti, travestimenti anche maschili, dissimulazione della propria fede, facilità della conversione».

Dagli archivi dell’Inquisizione esce insomma un mondo di trasgressioni e un’emancipazione femminile che furono solo in minima parte sanzionati.

Il Corriere della sera – 15 giugno 2014




SINCRETISMI. Passato e presente

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Guido Araldo, ricercatore del folklore e studioso delle tradizioni popolari, nel suo ultimo libro, Mesi Miti Mysteria, tratta delle radici profonde della nostra cultura. Una storia “altra” delle credenze più popolari che rivela la continuità sotterranea di un sapere primordiale attraverso il succedersi di epoche e culture.

Guido Araldo

Sincretismo: quando su novella pianta gemmò un fiore antico



La “globalizzazione” antica, quella dell’impero romano, andò in frantumi dopo un lungo periodo d’agonia, al quale non fu estraneo il cristianesimo che, nonostante il suo integralismo originario, dovette “venire a patti” con le credenze tradizionali del mondo contadino (da pagus: villaggio e quindi paganesimo). Credenze legate soprattutto alle pratiche agresti e alle stagioni dell’anno agricolo. Qualcosa di molto più profondo nell’animo umano delle favole sugli Dei dell’Olimpo.

Il primo cristianesimo si era sviluppato in ambito urbano, palesando un totale disprezzo verso le credenze contadine intrise di magia e consuetudini vecchie di millenni. In seguito, però, la grave decadenza delle città fece sentire i suoi riverberi anche sul nuovo culto vincente; e il mondo sempre più ruralizzato dei secoli VI, VII e VIII si rivelò meno propenso a lasciarsi plasmare dalla nuova religione trionfante, di quanto lo furono le grandi città dell’impero nei secoli precedenti.

Le credenze e usanze contadine erano indubbiamente molto più antiche delle divinità olimpiche, peraltro rimodellate dall’ellenismo e rimaste remote al mondo agreste. Accadde così che, mentre divinità come Giove o Cerere abbandonavano per sempre l’orizzonte culturale degli umani, non altrettanto successe per il frammentato universo di pratiche e credenze popolari legate alle divinità delle semine, dei raccolti, delle sorgenti, delle stagioni. Inoltre, conversioni in massa d’interi popoli germanici, come nel caso del re franco Clodoveo, si riducevano a gesti simbolici e superficiali: atti politici che non determinavano profondi e immediati mutamenti culturali.

Nonostante l’innovativa teocrazia cristiana provasse un autentico disgusto, se non orrore, nei confronti dei culti pagani delle campagne, si assistette a una progressiva stratificazione tra nuova religione e antiche tradizioni archetipali.

Nei secoli IV e V la società risultò stravolta moralmente e psicologicamente: tutti i momenti più importanti della vita umana erano stati occupati, impregnandoli della sacralità e dei simboli ultraterreni che caratterizzavano il nuovo messaggio della “buona novella”. In questo processo, veramente rivoluzionario, una casta sacerdotale inglobò l’anno terreno in un tempo mistico e i vecchi calendari, con le loro calende e idi, furono sostituiti dalle settimane, dalle domeniche (i giorni del Signore) con festività innovative come la Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste collegate alla luna piena di marzo.

In seguito, però, nonostante questi radicali mutamenti, le autorità civili ed ecclesiastiche dovettero accettare il substrato culturale atavico, contadino. In molti casi fu necessario plasmare i santi cristiani su antiche divinità, fino ad acquisirne le caratteristiche; e fu persino opportuno ricorrere agli stessi miti antichi, per quanto modificati. Accadde che i miracoli evangelici, così sobri e discreti, venissero resi mirabolanti da schiere di martiri sempre più numerosi, dalle storie più inverosimili. Lo stesso culto delle reliquie, osteggiato inizialmente dalla “Chiesa dotta”, dilagò inarrestabile, sfumando addirittura nel feticismo e rendendo sempre più labile il confine tra religione e magia.

Quanti luoghi sacri della tarda romanità e del primo medioevo corrispondono a templi di divinità agresti, se non olimpiche, cristianizzate in fretta e furia? Quanti santi popolarissimi sono personaggi mitici recuperati alla fede cristiana con formule compromissorie?

Il tentativo di questo libro, forse velleitario, è di raccattare briciole di un’eredità arcana, nascosta, ancestrale: perle della nostra più profonda “anima europea”. Un’identità che potrebbe rivelarsi preziosa nell’imminente civiltà planetaria. Un’identità atavica coinvolgente anche la Grande Madre Russia e, soprattutto, le terre del “Nuovo Mondo”, modellate sull’eredità del “Vecchio Mondo”. Ci sono radici profonde in ogni individuo e anche nei popoli che rimandano ad archetipi collettivi.

Sembra quasi che in Europa sussista un atavico “genius loci” che, diversamente da altri luoghi del bacino del Mediterraneo, risparmiò le sue contrade da deliri in grado d’estirparne l’identità più profonda, relegandole in un limbo della Storia senza passato e senza futuro.

Un “genius loci” insito nei nostri geni, che ci protegge? Un inconscio collettivo che può sembrare sfuggente, remoto, quasi un riflesso in un gioco di specchi; ma che affiora nell’etimologia delle parole, in miti e leggende che si rinnovano, si rimodellano e quando sembrano perduti, ricompaiono in nuove forme dalla sostanza immutabile. Un “genius loci” difficile da estirpare. Basta volgere lo sguardo verso il cielo stellato e ritrovare lassù, tra gli astri, magnifici miti ellenici, se non addirittura sumeri, caldei, minoici, micenei. La stessa misurazione del tempo rientra in questo “gioco di specchi” che sembra eterno e che si rinnova inalterato di stagione in stagione; con i suoi mesi, le sue feste, le sue leggende, i suoi eroi, i suoi santi e i loro segreti.
Oggi noi abbiamo perso il “tempo mistico liturgico” che per secoli e millenni ha segnato il ritmo della civiltà contadina, in un armonioso divenire ciclico annuale. Un ciclo che inglobava le stagioni, dove i santi acquisivano il ruolo di “marcatori del tempo” all’interno di un’immensa ruota che correva verso il Giudizio Universale; nella prospettiva della salvezza finale dell’umanità e della sua redenzione.


Quest’armonia temporale millenaria si è spezzata negli ingranaggi della nuova dimensione culturale generata dalla società industriale e post industriale. Non resta che raccogliere le tracce di tanto passato, per quanto possibile; allo scopo di ricomporre in un poetico mosaico un’eredità sempre più flebile e remota, senza la quale il nostro spirito boccheggia come pesce fuori dall’acqua.
 

L ' ITALIA DIVISA

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L' ITALIA DIVISA TRA CHI LEGGE E CHI NO
Christian Raimo

 Ci sono dei dati dell’Istat che finiscono regolarmente in posizione marginale, e sono quelli sulle abitudini culturali degli italiani. L’ultima rilevazione dell’istituto statistico dice che il 18,5 per cento degli intervistati nell’ultimo anno non ha letto un libro, non ha fatto sport, non ha visitato un museo, né una mostra, un sito archeologico, non è andato a teatro, al cinema, a un concerto. Questo dato diventa il 28,2 per cento per il sud.
Vorrei confrontare questa percentuale con quella citata da un libro di Giovanni Solimine uscito l’anno scorso, Senza sapere: l’89,7 per cento degli italiani guarda la televisione tutti i giorni, il 10 per cento non usa altri mezzi di comunicazione (fonte Censis). In nessun paese europeo c’è un numero così alto di teledipendenti.
Quella che evidentemente è la più grande disuguaglianza italiana non solo non è affrontata ma nemmeno riconosciuta, da questo come dai precedenti governi. C’è una parte della popolazione che legge e studia, ce n’è un’altra che guarda la televisione e basta. Questa seconda parte vive soprattutto al sud. Le inchieste di Save the children degli ultimi anni confermano ancora più crudelmente questo quadro: nell’ultimo anno il 48,4 per cento dei minorenni meridionali non ha letto neanche un libro, il 69,4 per cento non ha visitato un sito archeologico e il 55,2 per cento un museo, il 45,5 per cento non ha svolto alcuna attività sportiva. Spesso nemmeno la scuola al sud svolge un ruolo di contrasto alla depressione culturale delle famiglie.
Qual è il rapporto con gli altri paesi europei? Oggi solo il 41 per cento degli italiani legge almeno un libro all’anno, otto punti percentuali in meno rispetto a cinque anni fa. In Germania e nel Regno Unito la percentuale è quasi doppia, in Francia leggermente inferiore. Lo stesso rapporto 1 a 2 riguarda più o meno la spesa per la cultura e la quota del prodotto interno lordo.
Investire nell’educazione non è la stessa cosa che promuovere i consumi culturali
Ciò che è chiaro è che quest’emergenza non è stata intaccata dalle iniziative sporadiche proposte velleitariamente dal governo. E di questi fallimenti andrebbe tenuto conto. C’è stato un incremento sensibile o misurabile nella pratica della lettura grazie alle iniziative del Centro per il libro e la lettura (Cepell) dal 2008, data della sua istituzione? No. Bisognerebbe ripensare radicalmente quest’organismo, o altrimenti abolirlo? Sì. E lo stesso vale per molte altre iniziative, come per esempio quelle sull’educazione digitale nelle scuole. Ben finanziate, non monitorate, danno risultati spesso evanescenti.
Occorre cominciare a censire le abitudini e le pratiche più che i consumi culturali, diversamente, per esempio, da quello che fa l’istituto di statistica Nielsen per il Cepell. E in generale occorre capire che investire nell’educazione non è la stessa cosa che promuovere i consumi culturali.
I vari bonus di 500 euro per i consumi culturali destinati agli insegnanti e ai diciottenni che il governo Renzi ha stanziato e promesso cambieranno qualcosa nei dati terrificanti che abbiamo citato? È difficile saperlo, ma possiamo dubitarne, se si considera che con i 500 euro si possono acquistare computer, portatili o tablet; ed è quello che farà la maggioranza dei docenti e dei ragazzi.
Molto diverso sarebbe pensare progetti strutturali: sull’educazione alla lettura – per esempio – oltre a Solimine, vanno citati i lavori di Giusi Marchetta, Antonella Agnoli, Luisa Capelli, Sergio Dogliani. Potremmo cominciare a studiare le loro ricerche e a prendere spunto dalle loro esperienze se vogliamo sperare di ricevere una bella sorpresa all’opposto l’anno prossimo quando leggeremo i dati Istat e Nielsen sulla lettura e i consumi culturali.

W. WENDERS TRA CINEMA E FOTOGRAFIA

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– Wim Wenders, Una volta, Contrasto, 2015
foto del libro,
– molte foto in questo articolo dell’HuffingtonPost,
Stefano Vastano, Il cielo sopra le foto di Wim Wenders.
Paesaggi. Città. Deserti. Nelle foto del grande regista. Che qui spiega i suoi scatti da “romantico tedesco”. E i suoi film in 3D, L’Espresso, 13 ottobre 2015

Wenders, l’attimo tra due foto dove comincia il cinema
Torna “Una volta”, saggio per immagini del regista di “Alice nelle città” “Fissare il momento mi conforta di tutti i film che non ho fatto”
di Michele Smargiassi

Un film, dice Wim Wenders, qualsiasi film, comincia con il secondo fotogramma. Perché è solo quando due immagini dialogano che «inizia il montaggio e si muove una storia». Le fotografie dunque sono film potenziali, mai davvero iniziati: «Fare fotografie mi dà conforto per tutti i film che non ho fatto». Ma fermarsi qui darebbe l’idea che Wenders sia fotografo di risulta e consolazione. Tutt’altro.

Fra i tanti registi che hanno fatto foto (da Lattuada a Tarkovskij, da Kubrick a Kiarostami, da Tornatore a Van Sant), Wenders ha un pensiero compiuto sulla fotografia, e la sua è opera fotografica a pieno titolo, non hobby. Non da oggi, certo da molto prima di dedicare un film intero a un grande fotografo, Sebastião Salgado. Ottima idea quella di ripubblicare, più di vent’anni dopo, questo suo album- saggio, Una volta (Contrasto editore, 397 pagg., 24,90 euro), titolo che fa pensare all’è stato con cui Roland Barthes definì l’essenza del fotografico, ma in modo più splendidamente ambiguo, visto che (forse solo in italiano)
una volta si può intendere come nell’inizio delle favole, c’era una volta, scaturigine di tutte le storie; ma anche come nostalgia dell’irripetibile, una sola volta e mai più, l’immagine senza storia.
Anzi, a ben vedere, la poetica del fotografico sta alla radice del cinema di Wenders, tutt’altro che nascosta. L’irrequieto nomade di Alice nelle città scatta compulsivamente con una Polaroid nel tentativo di dare un senso al mondo, salvo poi imprecare: «Fare foto! Non viene mai quello che avevi visto!». Anche il regista di Il cielo sopra Berlino cominciò con la Polaroid e non per caso: è la fotografia che non si può manipolare (non è così vero…), quello che ti dà devi prenderlo o lasciarlo. E non puoi ripetere il ciak, perché la realtà intanto è cambiata: una volta, una volta sola. Vivere il momento, dice Wenders a Leonetta Bentivoglio nella bella intervista che apre il libro, questo solo i bambini e i fotografi lo sanno fare.

Come i grandi fotografi, Wenders lascia dunque il risultato alla fotocamera e si riserva la scelta dello sguardo. «La mia prima professione è quella di viaggiatore», e viaggiare fa rima con fotografare, da sempre. Portare a casa pezzi di mondo. Nelle foto di Wenders, se mettiamo da parte i ritratti (vivissimi, amicali) ai colleghi cineasti, c’è quasi sempre un solo attore, il paesaggio. Preferibilmente smisurato e deserto. Un po’ Bruce Chatwin un po’ Caspar David Friedrich: tra stupore e sublime.
Wenders sceglie, scatta e attende il «contraccolpo» della fotografia che magicamente registra «il suo oggetto e, dietro, il motivo per cui questo oggetto doveva essere fissato, mostra le cose e il desiderio di esse». E il desiderio di Wenders è che i paesaggi diventino storie: «alcuni le reclamano a gran voce». Ma questo accadrà solo a pochi di essi, nei suoi film. Le sue fotografie restano la traccia di un incontro irripetibile e senza seguito con un pezzo di mondo, un attimo di «ascolto del vedere».
Per questo Wenders scatta ancora in pellicola. Pubblicato nel ’93, Una volta annusa appena l’odore dell’incendio digitale. Ma sappiamo da interviste più recenti com’è andata. «Ho avuto fotocamere digitali, le ho regalate». I tecno-euforici miopi lo classificheranno come il solito passatista, e sbaglieranno. «Per me fotografare significa essere qui ed ora», ma «i fotografi digitali sono meno presenti quando scattano, perché pensano «be’, questo dettaglio, questo cielo li cambio poi con Photoshop». Ma per Wenders una fotografia è tale perché «tutto appare sempre e soltanto una volta, e di quell’una volta, la foto fa poi un sempre».

Repubblica, 9 gennaio 2016, p. 43. Pagina ripresa da https://georgiamada.wordpress.com/
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