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RILEGGERE I GRUNDRISSE DI K. MARX

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di Alfio Neri
I Grundrisse di Karl Marx 

I Grundrisse di Karl Marx. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo, a cura di Marcello Musto, prefazione di Eric Hobsbawm, Edizioni ETS, Pisa, 2015.

Da cinquant’anni mancava un’introduzione ai Grundrisse. Oggi finalmente abbiamo un testo che ci permette di affrontare i Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica. I Grundrisse sono un testo enormemente difficile sotto tutti punti di vista. Sono appunti non destinati alla pubblicazione che offrono problemi di lettura colossali. Tuttavia, dietro la loro forma contorta, essi percorrono vie analitiche molto originali non sempre sfruttate.
La storia dei Grundrisseè fortunosa. Rimasti nascosti per un secolo, pubblicati durante la Seconda Guerra Mondiale, divennero noti dopo la prima ristampa tedesca del 1953. Negli anni cinquanta non furono quasi letti e solo in seguito furono recepiti come possibile alternativa al dogmatismo dell’ortodossia sovietica. Assieme agli scritti di Gramsci e ai manoscritti economico-filosofici del 1844, i Grundrisse aprirono la via alla possibilità di un nuovo marxismo critico di cui vi era un enorme bisogno teorico.
Nonostante il loro importante apporto concettuale, i Grundrisse non furono recepiti subito. Una ragione stava nelle loro enormi difficoltà di comprensione. Il testo non era destinato alla pubblicazione e questo lo si vede ancora benissimo. Adesso, dopo cinquant’anni, finalmente abbiamo un’opera che ci permette un approccio critico. Di questo lavoro, così prezioso e così inattuale, dobbiamo ringraziare il curatore, Marcello Musto. La sua opera di analisi storico-filologico-concettuale è di un’utilità straordinaria.
Il lavoro si articola in tre parti: nella prima vi sono le interpretazioni critiche dei Grundrisse; nella seconda le vicende di Marx al tempo della loro stesura; nella terza c’è la storia straordinaria della loro diffusione e recezione.
I saggi della raccolta, che comprende i contributi di 32 autori, permettono di affrontare i testi marxiani a strati, procedendo per gradi. Il lavoro è pensato per affrontare percorsi concettuali differenti e per focalizzare tematiche analitiche differenziate. Per questi motivi, mi permetto di segnalare una serie di percorsi di lettura di questo libro. Ne rimangono comunque molti altri che, per brevità, non riporto ma che, non per questo, sono meno importanti.
La porta d’ingresso dei Grundrisseè l’ Introduzione del 1857. In questo scritto Marx afferma chiaramente che la filiera Produzione/Distribuzione/Scambio/Consumo va intesa come una totalità. Non esistono individui isolati che lavorano separatamente, così come non esistono individui separati che parlano fra loro lingue private. Analogamente il processo di produzione va inteso come una totalità organica e storico-sociale. Questi concetti sono resi (più) comprensibili dall’attento saggio di Musto Storia, produzione e metodo nella Introduzione del 18571.
Un intervento centrale è quello di Carver sull’alienazione2. Lo segnalo perché dimostra la continuità fra il concetto di alienazione presente nel giovane Marx e il concetto di sfruttamento del Marx maturo. La dimostrazione di questa continuità di temi, fa tramontare definitivamente l’interpretazione di Althusser imperniata sull’ipotesi di una cesura epistemologica fra il giovane Marx e il Marx maturo3.
Un altro contributo rilevante riguarda le Forme che precedono la produzione capitalistica. Questa sezione, in passato pubblicata separatamente dagli Editori Riuniti, è illuminata dal saggio di Ellen Meiksins Wood4. L’autrice evidenzia i contributi storiografici degli ultimi decenni, rileva come Marx, mentre sviluppa la sua analisi storico-sociale, diventi sempre meno determinista, dimostra in modo convincente che la sequenza Modo di Produzione Asiatico-Classico-Feudale-Capitalistico non ha alcun valore teleologico.
Il cuore incandescente del dibattito teorico è però incentrato sulla teoria del Valore. Questo concetto è analizzato, ricostruito e riconfrontato con la tarda modernità nell’importante saggio di Postone5, forse il più importante dell’intera raccolta. Si tratta di un saggio che, per quanto sembri un commento esegetico, in realtà è l’abbozzo di un orizzonte marxiano di superamento dell’ortodossia marxista.
In questo momento, questo libro è il miglior approccio possibile alla lettura dei Grundrisse6. I saggi guardano al futuro e non hanno un’ottica antiquaria o nostalgica. Capiamoci, il passato si è ormai dileguato. Quello che conta è guardare al futuro.
Nota: Sono liberamente scaricabili qui l’indice del libro, il retro di copertina, la premessa di M. Musto, l’introduzione di Eric Hobsbawm e il saggio di M. Musto Diffusione e recezione dei Grundrisse nel mondo.

    1. Cfr. M. Musto, Storia, produzione e metodo nella Introduzione del 1857, pp. 58-97. 
    2. Cfr. T. Carver, La concezione marxiana dell’alienazione nei Grundrisse, pp. 118-145. 
    3. Althusser non ha letto sul serio i Grundrisse, cfr. 352, per questo non vi trova il concetto di alienazione, cfr. p. 355. 
    4. Cfr. E.M. Wood, Il materialismo storico nelle Forme che precedono la produzione capitalistica, pp. 161-179. 
    5. Cfr. M. Postone, Ripensare Il Capitale alla luce dei Grundrisse, pp. 217-241. 
    6. Esistono diverse edizioni italiane dei Grundrisse. In genere le citazioni nel libro curato da Musto fanno riferimento all’ultima: K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Manifestolibri, Roma, 2012.


      Recensione ripresa da  http://www.carmillaonline.com/2016/01/07/leggere-i-grundrisse/

L. SCIASCIA, Dal fascismo alla democrazia.

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«Nel '27» disse il giovane «c'era il fascismo, la cosa era diversa: Mussolini faceva i deputati e i capi di paese, tutto quello che gli veniva in testa faceva. Ora i deputati e i sindaci li fa il popolo...».
«Il popolo» sogghignò il vecchio «il popolo... Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera solo alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace,alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...».
«Io non mi sento cornuto» disse il giovane.
«E nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo...»

Leonardo Sciascia, da Il giorno della civetta, 1961.

CONTRO GLI EBREI IERI, CONTRO GLI ISLAMICI OGGI

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Il rapporto tra “grande spazio” e guerra nella riflessione di Carl Schmitt. Scritto negli anni della guerra, il saggio dimostra (se ce ne fosse ancora bisogno) come anche i grandi intellettuali non siamo immuni dal contagio dell'irrazionalismo quando questo diventa elemento centrale del momento storico. Un ammonimento per l'oggi in cui si tende a vedere i tanti Salvini in giro per l'Europa come elementi folkloristici. Un errore già avvenuto con Hitler.

Roberto Esposito

SANGUE, SUOLO E GRANDE SPAZIO IN C. SCHMITT

Dopo la pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger, l’edizione italiana dei saggi di Carl Schmitt raccolti in Stato, grande spazio, Nomos per Adelphi (egregiamente curati da Giovanni Gurisatti, con una postfazione di Günter Maschke) ripropone la domanda sulla relazione ambigua tra filosofia e politica. Che uso fare dei concetti di un grande giurista — quale senza dubbio Schmitt è stato — coinvolto pesantemente nella politica nazista? È possibile pensare contro di lui attraverso le categorie interpretative che egli stesso fornisce?

Benché l’antologia comprenda una serie di testi distesi lungo l’arco di un cinquantennio — da quelli degli anni Venti sul concetti del “politico” a quelli, degli anni Cinquanta- Settanta, sul nuovo nomos della terra — i saggi che pongono con più urgenza tale interrogativo sono gli scritti del periodo della guerra, a partire da L’or-dinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale.

In esso, scritto quando già le armate tedesche dilagavano a est e a ovest della Germania, l’autore legittima in termini giuridici la politica di guerra nazista. Il grimaldello teorico adoperato per smantellare l’ordine fissato dalla pace di Versailles e difeso dalla Società delle Nazioni è il concetto di “grande spazio”. Nato come estensione all’ambito mitteleuropeo della dottrina Monroe — che sanciva l’indipendenza americana da qualsiasi ingerenza straniera, consentendo di fatto l’espansione imperialistica degli Stati Uniti — esso si adattava perfettamente alle finalità criminali del Terzo Reich. Il punto di rottura dell’ordine giuridico precedente è giustamente identificato da Schmitt nella rivendicazione di Hitler, fatta al Reichstag il 20 febbraio del 1938, di un diritto alla tutela dei gruppi etnici tedeschi viventi in Stati esteri. Essa presuppone la sostituzione del concetto spaziale di impero (Reich) a quello, ormai considerato residuale, di Stato.

Diversamente da questo, stretto nei propri confini nazionali, il grande spazio imperiale è un territorio sovranazionale composto da una pluralità di nazioni subordinate, unite dalla identità etnica del popolo che lo abita.

A partire da un simile concetto, apparentemente neutrale, Schmitt elabora il versante più scopertamente strumentale del proprio discorso. Fin quando al centro dell’Europa è mancato un grande spazio di quel tipo, il diritto degli Stati europei non è stato che una copertura degli interessi delle democrazie occidentali occupate a costituire i propri imperi coloniali. Ma con la vittoria del nazionalsocialismo, anche in Europa si apre la possibilità di una “grande politica”, secondo le ambizioni di un popolo legittimato all’esistenza «dalla sua specie e dalla sua origine, dal suo sangue e dal suo suolo».

A tale aspirazione — scrive Schmitt — «l’azione del Führer ha dato realtà politica, verità storica e un grande futuro nel diritto internazionale». Solo adesso il popolo tedesco può finalmente sfuggire alla morsa delle potenze nichilistiche dell’America e della Russia sovietica che, come Heidegger sosteneva nella Introduzione alla metafisica, stringono alla gola la Germania e l’Europa intera. Il che non impedisce a Schmitt di legittimare il patto russo-tedesco del 1939 orientato a smembrare la Polonia. Nonostante le assicurazioni fornite da Schmitt al processo di Norimberga circa il carattere puramente scientifico dei propri saggi, la loro convergenza con la politica estera nazista è palese. È vero che il “grande spazio” del giurista non ha il significato inequivocabilmente razziale dello “spazio vitale” invocato dai nazisti. Ma è lo stesso Schmitt a ricordare come a rendere operativo il proprio concetto di spazio siano state le contemporanee ricerche biologiche tedesche.

Del resto, a fugare ogni dubbio sugli effetti del proprio discorso, egli non manca di ricordare che il rapporto tra un popolo e il suo spazio risulti incomprensibile agli ebrei, in quanto tali sempre sradicati e delocalizzati. Certo, anche nel caso di Schmitt, si può parlare, come fa Donatella de Cesare per Heidegger nel suo Heidegger e gli ebrei, di antisemitismo metafisico. Ma ciò non assolve l’autore dalle sue responsabilità. Ciò vuol dire che va messo all’indice? Sarebbe come dire che l’Emilio di Rousseau va dato alle fiamme perché il suo autore ha abbandonato i propri figli in orfanotrofio. Al contrario, i suoi paradigmi, alcuni dei quali straordinariamente attuali, come quello stesso di “grande spazio”, vanno adoperati anche contro le sue stesse intenzioni.

Che la categoria di Stato sovrano sia inadeguata alla comprensione del mondo contemporaneo è un dato di fatto. Così come l’idea che l’unico ordine mondiale accettabile sia un difficile equilibrio tra aree di grandezza continentali in dialogo tra loro. Non è a essa che anche l’Europa Unita, se mai diverrà tale, deve ispirarsi? Come Schmitt stesso dovrà riconoscere nel 1955, pur senza aver mai preso le distanze dalle tesi precedenti, «anche nella lotta spietata tra le nuove e le vecchie forze possono nascere giuste misure o formarsi proporzioni sensate».

La Repubblica - 4 gennaio 2016

LUCI E OMBRE DELLA NOSTRA CIVILTA'

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Diventa ogni giorno più difficile provare a ragionare pacatamente su quanto accade nel mondo grande e terribile dei nostri giorni. E' così grande la confusione, così innumerevoli le contraddizioni sotto il cielo, che nessuno può avere la pretesa di possedere la verità assoluta.  
Ma, pur sapendo che ogni affermazione può essere facilmente contraddetta, stamattina ripropongo un pezzo che a molti apparirà fazioso e parziale ma che, secondo me, mette in luce le ombre della nostra civiltà, anche se in modo troppo sommario e schematico. fv



di Alessandra Daniele
bomba 1Da sempre, in guerra il corpo delle donne è considerato sia territorio di conquista che strumento di propaganda. Anche in questo l’attuale Scontro di Civiltà rimette in scena ancora una volta gli stessi schemi millenari.
Ed è una grande occasione per gli imbonitori della Civiltà Occidentale quando il Nemico recita il suo ruolo in modo tanto diligente, quando sa corrispondere così accuratamente ai peggiori stereotipi. Alcuni degli aggressori di Colonia avevano addirittura in tasca un copione.
A tutti in questa guerra è richiesto d’interpretare disciplinatamente il loro ruolo, e d’interpretarlo come se fosse la prima volta.
Ci vengono richieste obbedienza, e ignoranza.
“Chi dimentica i propri errori è condannato a ripeterli”, ed è esattamente sulla continua ripetizione in loop degli errori che è costruito il sistema.
È una macchina il cui motore è una ruota. Il criceto che c’è dentro siamo noi.
Perché la ruota continui a girare, e ogni loop si ripeta come il precedente, occorre cancellarne la memoria.
Carmilla nasce come supplemento a una rivista chiamata “Progetto Memoria”.
La cosiddetta Civiltà Occidentale s’è resa responsabile o corresponsabile della maggioranza dei peggiori crimini contro l’umanità della Storia.
Considerando solo l’ultimo secolo:
Il Colonialismo, con l’oppressione, la schiavizzazione, la deportazione, e il massacro delle popolazioni locali.
La Prima Guerra Mondiale.
Il Nazifascismo, con le persecuzioni, le deportazioni, e i campi di sterminio per ebrei, rom, comunisti, anarchici, omosessuali, disabili, testimoni di Geova, dissidenti e appartenenti a minoranze etniche e religiose in generale.
La Seconda Guerra Mondiale.
La distruzione totale con armi nucleari di due città, Hiroshima e Nagasaki.
Le centinaia di proxy war fomentate e combattute in tutto il mondo fra la Nato e il Patto di Varsavia del cosiddetto Blocco Orientale, dalla Corea all’Afghanistan.
Le dittature militari europee e latino americane sostenute dagli USA, responsabili di milioni di morti e desaparecidos.
Il sostegno diretto e indiretto alle non meno sanguinose dittature e alle guerre civili in Africa e Asia.
Il sostegno diretto e indiretto alle guerre civili successive al crollo del Patto di Varsavia, dalla Jugoslavia all’Ucraina.
Il sistematico saccheggio di tutte le risorse naturali e la devastazione dell’ambiente, con le conseguenti carestie causa principale dello sterminio per fame di intere popolazioni.
Il Neocolonialismo in Africa e Asia, direttamente responsabile della nascita dell’integralismo islamico armato, dai Talebani all’Isis, dell’agonia delle popolazioni palestinese e curda, della distruzione di almeno quattro stati, Afghanistan, Iraq, Libia, e Siria.
E dell’attuale guerra, per la quale anche la Russia, ex cosiddetto Blocco Orientale, responsabile o corresponsabile di crimini contro l’umanità come l’Imperialismo russo e sovietico, i progrom, lo Stalinismo, il sostegno a dittature e guerre civili, il massacro dei dissidenti, e le proxy war, s’è arruolata nell’Occidente.
Quell’Occidente che oggi fa la morale al mondo, stando immerso fino ai gomiti nel sangue che ha versato.

Memento di Alessandra Daniele   Pubblicato il · in Schegge taglienti· http://www.carmillaonline.com/2016/01/11/memento/

***
Per quanto parziali e schematiche possano apparire le parole di sopra rimane indubbio per me  che  il problema dell'Africa non è mai stato la povertà, il problema dell'Africa è stato l'occidente che vi ha portato la miseria, uccidendo le Culture locali. 
Se l' Africa avesse seguito la via indicata da F. Fanon (Cfr. I dannati della terra) oggi il mondo intero sarebbe diverso da com'è.
fv 

IL SOGNO DI DAVID MARIA TUROLDO

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CANTA IL SOGNO DEL MONDO 

Ama
saluta la gente
dona
perdona
ama ancora e saluta.

Ama
Dai la mano
aiuta
comprendi
dimentica
e ricorda
solo il bene.

E del bene degli altri
godi e fai godere.

Godi del nulla che hai
del poco che basta
giorno dopo giorno:
e pure quel poco
–se necessario-
dividi.

E vai, vai leggero
dietro il vento
e il sole
e canta.

vai di paese in paese
e saluta tutti
il nero, l’olivastro
e perfino il bianco.

Canta il sogno
del mondo
che tutti i paesi
si contendano
di averti generato.

 David Maria Turoldo

DOMENICO NOTARANGELO. Matera tra passato e futuro.

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Foto di Domenico Notarangelo




Siamo particolarmente lieti di tornare a pubblicare tre brevi pezzi di uno scrittore e fotografo, Domenico Notarangelo, divenuto nostro amico in occasione del 50° anniversario del Vangelo pasoliniano. Domenico, pugliese di nascita, lucano di adozione, ha svolto a Matera per oltre mezzo secolo l’attività di giornalista, di dirigente politico e operatore culturale. Come corrispondente de “l’Unità” si è impegnato in battaglie giornalistiche e politiche per il progresso delle popolazioni meridionali. Coincide con questo periodo la sua scoperta della fotografia per documentare e denunziare le condizioni di arretratezza e di miseria della Lucania. Da subito si impegna a svolgere ruoli importanti nella cinematografia collaborando con numerosi registi, fra cui Luigi Zampa, Pier Paolo Pasolini, Francesco Rosi, Liliana Cavani, i fratelli Taviani. Per ”Il Vangelo secondo Matteo” assiste il Maestro anche nella scelta di numerose comparse e interpreta la parte del centurione. A lui Pasolini permette di scattare sul set numerose fotografie.


Matera1952. Il Governo approva la prima Legge Speciale di risanamento dei Sassi

18 mila persone abitavano ancora in grotta nei due rioni del Sasso Caveoso e del Sasso Materano fino al 1952, quando il Governo, presieduto da Alcide De Gasperi, approvò la prima Legge Speciale tesa al risanamento e al recupero degli antichi rioni materani. La legge stanziava i primi due miliardi destinati alla realizzazione di nuovi alloggi nelle periferie della città crendo nuovi rioni. In tempi successivi furono varate altre leggi e stanziati via via altri fondi. L’attenzione sulle primordiali condizioni di vita dei cavernicoli sorse in seguito alla denuncia che Palmiro Togliatti lanciò il primo aprile 1948 nel corso di un camizio elettorale nella piazza di Matera, definendo i Sassi una vergogna nazionale per responsabilità di tutti i governi nazionale, da quelli liberali a quello fascista. Subito dopo si precipitava a Matera portando la notizia che si voltava pagina con la prima Legge Speciale.
L’ultima Legge Speciale, la 771, veniva approvata nel 1986 con un finanziameno di ben cento miliardi di lire che dovevano bastare a completare il  risanamento. In effetti ad oggi lo svutamento delle grotte è opera compiuta, ma incompleto resta il processo di risanamento.


Pier Paolo Pasolini nel 1964 gira nei Sassi “Il Vangelo secondo Matteo”.


Nell’estate del 1964 Matera visse una stagionee di alto profilo culturale. Pier Paolo Pasolini scelse lo scenario dei Sassi e la Murgia materana per ambietarvi le riprese del Vangelo secondo Matteo. Per oltre un mese fra giugno e luglio i vicinati di Via Lombardo e di Via Fiorentini, e la Murgia San Vito divennero i set della Passione, Crocifissione e Resurrezione di Gesù. In quelle settimane a Matera confluirono molti intellettuali italiani, dal poeta Alfonso Gatto alla scrittrice Elsa Morante, allo scrittore Enzo Siciliano e tanti altri intellettuali per vestire il ruolo di Apostoli nel film di Pasolini. L’intera città ne restò coinvolta con le migliaia di comparse che animarono i set delfilm.
Ben presto il Vangelo, proiettato sugli schermi di mezzo mondo in oltre cinquanta lingue, impose Matera all’attenzione di milioni di spattatori che restarono suggestionati dal suo fascino. Si erano definitivamente aperte le porte della città dinanzi al mondo intero, contribuendo a farla uscire del millenario isolamento. Da quel momento Matera si associava a Gerusalemme e alla Terrasanta.


Matera. Dalle grotte dei Sassi a Capitale della Cultura Europea 2015


C’era la folla delle grandi occasioni nelle piazze centrali di Matera quel pomeriggio del 17 ottobre 2014, a migliaia assiepati dinanzi ai maxischermi. Si aspettava il collegamento con Roma per ascoltare dalla voce del Ministro Dario Franceschini il verdetto: quale delle città concorrenti era stata prescelta per essere Capitale della Cultura Europea 2019?  Finalmente, verso sera, il Ministro dal maxischermo annunciava: Matera. L’esplosione di gioia si alzò all’unisono dalla folla, e tutti avevano le lacrime agli occhi e si abbracciavano, esultavano, saltavano come morsicati dalle tarantole. L’attesa era durata molto a lungo ed era stata un’attesa durante la quale maturava in città una nuova atmosfera di maturità e di crescita generale. Nelle settimane che precedettero l’ambito riconoscimento, si palpava con mano dapperutto che la società materana stava cambiando e che andava definitivamente superando i secoli di esistenza in grotta.
C’era solo da chiedersi le ragioni del successo su altre città meritevoli e, forse, con maggiori requisiti di vittoria. Senza dubbio Matera aveva avuto la fortuna e il privilegio di vivere, a cominciare dal secondo dopoguerra, stagioni di crescite impetuose. La città dei Sassi ospitò a ripetizione, uomini di grande spessore: studiosi, intellettuali, scrittori e poeti, artisti e musicisti, e poi il cinema, col fior fiore di registi italiani e stranieri, e tutti avranno lasciato segni durevoli del loro passaggio. Due soprattutto, Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini che aprirono Matera e i suoi Sassi dinanzi agli occhi stupefatti di milioni di paersone.
Ora c’è da costruire sul prezioso riconoscimento di Capitale della Cultura Europea 2019 che carica Matera di nuove opportunità ma anche del delicato compito di rappresentare il bisogno di rinascita di tutto il Mezzogiorno.

Domenico Notarangelo


RICORDANDO DAVID BOWIE

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L’amore è l’origine di tutte le cose. 

Poesie per Bowie


ziggy
Arthur Rimbaud
Notte di giugno! Sedici anni! – Ti lasci esaltare.
La linfa è uno champagne e ti sale alla testa…
Divaghi; e senti alle tue labbra un baciare
Che palpita là, come una piccola bestia.
da Romanzo
***
Friedrich Hölderlin
Allora di nuovo esulto, dov’è il tuo pungiglione, morte?
Eterna, eterna, esulto nel risveglio,
…….È la mia anima, e in estasi celesti
…………Avverto la mia grandezza.
+++
Quand’ero fanciullo
Spesso un Dio mi salvò
…….Dalle grida e dalla frusta degli uomini,
……….Allora giocavo mite e sicuro
……………Con i fiori del bosco
………………..E le brezze del cielo
……………………Giocavano con me.
[…]
Crebbi tra le braccia degli Dei.
da Quaderno in quarto di Marbach, Poesie sparse 
Traduz. di Luigi Reitani
***
Walt Whitman
Come Adamo nel primo mattino
Viene incontro dal riparo di foglie, riposato dal sonno,
Guardami dove passo, ascolta la mia voce, vieni vicino,
Toccami, posa il palmo della tua mano sul mio corpo mentre passo,
Non temere il mio corpo.
da Come Adamo nel primo mattino
***
John Keats.
Poesia, Fama e Bellezza sono cose certo intense,
Ma Morte è più intensa – l’eccelso premio della vita è Morte.
da Perché mai risi
***
Vladimir Majakovskij
Resuscitami –
………………………..Voglio la vita non vissuta.
…….Perché non esista amore servo
…….di foie,
………………..nozze,
…………………………..pani,
e maledicendo i letti,
……………………………..saltando dalla branda,
inondi l’universo.
da Di questo
Traduz. di Serena Vitale
***
Bertolt Brecht
Lodate il freddo, le tenebre e il dissolversi!
Guardate lassù:
non dipende da voi
e potete morire senza timori.
(Lobet die Kälte, die Finsternis und das Verderben!
Schauet hinan:
Es kommet es nicht auf euch an
Und ihr könnt unbesorgt sterben.)
da Grande inno di ringraziamento
Traduz. di Roberto Fertonani
***
Emily Dickinson
Nella ragione, poi, cedette un trave
e giù
sempre più giù precipitavo:
ogni balzo era un urto contro un mondo.
Allora fu il conoscere compiuto.
da I felt a Funeral, in my Brain
Traduz. di Luciano Parinetto
***
Elio Pagliarani
Ma dobbiamo continuare
………………………………..come se
………………………………………..non avesse senso pensare
…………………………………………………………………………che s’appassisca il mare.
da La ballata di Rudi
***
Amelia Rosselli
un tenero sonetto è tutta la forza che ho
di creare, piena facile vita che io ho sempre e poi sempre
di nuovo e di nuovo distrutta, ma era dio a gridare
dentro di me spegnete tutte
le luci! Nessun amore sia concesso a colui che
odia ogni amore tranne la vita
scritta su carta, là scorre il mio
seme folle alla
morte.
da Sleep 
***
Elizabeth Bishop
The art of losing isn’t hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster.
Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn’t hard to master.
da One Art 
***
Eugenio Montale
Noi non sappiamo quale sortiremo
domani, oscuro o lieto;
forse il nostro cammino
a non tócche radure ci addurrà
dove mormori eterna l’acqua di giovinezza;
o sarà forse un discendere
fino al vallo estremo,
nel buio, perso il ricordo del mattino.
da Ossi di seppia, Mediterraneo 
***
Platone
Concludendo, dico che Amore tra gli Dei è il più antico e il più degno d’onore;
immensa la sua efficacia per condurre sulla via di virtù e di felicità gli uomini,
così vivi, come pure già morti.
da Simposio
Traduz. di Enrico Turolla
CAN YOU HEAR ME MAJOR TOM?

[Traduzioni citate: Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, Mondadori, Milano 2001; Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, Milano 2015; Bertolt Brecht, Poesie, Einaudi, Torino 1992; Emily Dickinson, Dietro la porta, Millelire Stampa Alternativa, Roma 1993; Platone, I dialoghi, vol. I, Rizzoli, Milano 1953. ]

DACIA MARAINI SULLA FRAGILE LIBERTA' DELLE DONNE

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Colonia, la fragile libertà delle donne.La questione è culturale: dobbiamo difendere con più fermezza gli ideali in cui crediamo e le nostre conquiste

di Dacia Maraini

«Mi hanno stracciato la camicetta, mi hanno messo le mani addosso, mi hanno rubato il telefonino, mi hanno sottratto il portafoglio, mi hanno cacciato un petardo sotto la maglia, mi hanno umiliata e offesa». Queste alcune delle testimonianze che vengono fuori sempre più numerose e precise. Ma dai gesti descritti possiamo riconoscere l’appartenenza a una fede religiosa? No, se riteniamo che le religioni siano una cosa seria, che predica il buon senso e l’armonia. Sì invece se una banda di dispotici aggressori, per giustificare la propria volontà di potenza, chiama in causa un Dio collerico e intollerante che impone di uccidere chiunque non si sottoponga al suo culto, propugna la schiavitù e chiede la decapitazione dei prigionieri. I terroristi vogliono spargere paura e sgomento, vogliono dominare e distruggere. Ma siccome non possono compiere i loro crimini in nome del puro egoismo, si richiamano a precetti religiosi arcaici e storicamente morti.
Come se noi prendessimo alla lettera la Bibbia, libro scritto in una epoca in cui la schiavitù era ammessa e legale, in cui la giustizia si identificava con la vendetta, in cui la pena di morte era praticata ogni giorno, in cui la tortura era considerata lecita, in cui gli adulteri e gli omosessuali venivano lapidati, in cui le donne non avevano diritti civili, in cui le classi abbienti depredavano e sfruttavano le classi povere.

Da noi c’è stato Gesù Cristo che ha sconvolto e rovesciato le prescrizioni della Bibbia: le parole «amore» e «perdono» hanno sostituito il «dente per dente» e l’odio di religione. Nei Paesi musulmani un Gesù è mancato, ma è invalsa la prassi di una saggia convivenza fra popoli e culture diverse. In certi momenti di crisi però si sente la mancanza di un libro sacro che reclami l’amore per il prossimo e la misericordia, come predica il Vangelo. Dove c’è misericordia non può esserci guerra, mentre i nostri terroristi si nutrono di guerra. La loro massima aspirazione è coinvolgere il mondo intero in una guerra santa in cui scannarsi ciecamente in nome di Dio.
Che c’entra tutto questo con le molestie contro le donne in una piazza tedesca in un giorno di festa? In realtà c’entra, soprattutto se si riconoscerà che i molestatori sono giovani emigrati. Ma emigrati di oggi o di ieri? È importante fare la differenza. A me sembra difficile che i migranti di oggi, che hanno rischiato la vita per mettere piede su una terra straniera tanto evocata, siano così stupidi da compromettere la loro permanenza con atti di teppismo. Credo piuttosto che siano emigrati di seconda o terza generazione (Formigli ci ha mostrato con testimonianze dal vivo, che le carte di identità da profugo si comprano al mercato nero), ragazzi che si sono sentiti discriminati e oggi sono affascinati da una violenza che li rende improvvisamente protagonisti. Fare paura, per chi si considera socialmente debole, dà una profonda soddisfazione, appaga le umiliazioni trascorse e fa sentire superiori, potenti, privilegiati da Dio.
Se ci chiediamo poi perché la polizia non sia intervenuta in tempo e perché abbia sottovalutato i gesti di questi giovani maschi infoiati, potremmo rispondere che anche in certi nostri figli di una storia patriarcale, alberga l’idea che strapazzare giovani donne che osano girare libere e sole per strada, sia in fondo una «ragazzata» da comprendere e lasciare correre. Così come considerano «ragazzate» le minacce di tanti mariti e fidanzati che intimidiscono le loro mogli col coltello e la pistola. La sottovalutazione è un atteggiamento culturale, non una debolezza psicologica. Provate a denunciare una molestia sessuale. Vi troverete davanti un agente scocciato, a volte divertito, poco disposto a prendere sul serio una «sciocchezza del genere». Oppure comincerà un interrogatorio in cui si chiederà alla ragazza com’era vestita, come si è comportata, facendole capire che in qualche modo, se l’è cercata.
Ancora per molti occidentali la donna è prima di tutto una proprietà e come tale va rispettata. Ma nel momento in cui sfugge al suo possessore e rivendica la sua libertà di movimento e di scelta, diventa pericolosa, una nemica da punire, e a volte perfino da sopprimere. Non si tratta, come ripeto, di una questione di genere, ma di cultura: e riguarda chi identifica la propria virilità con la proprietà dell’altro.

Ma allora, cosa fare? Prima di tutto direi, disfarsi della idea facile che esistano le categorie, sessuali o religiose, ma fare uno sforzo per riconoscere i responsabili degli atti di violenza, da qualunque parte stiano, e applicare la legge che li punisce. Ma per fare questo è necessario difendere con più fermezza le nostre conquiste di parità e libertà, sancite dalla Costituzione. È necessario distinguere fra rispetto e relativismo. Il relativismo troppo spesso significa appiattirsi acriticamente sui valori altrui. Rispetto significa invece esigere dall’altro quello che si pretende per sé. Se vuoi che io rispetti la tua religione, devi rispettare la mia. Se vuoi che io rispetti la tua vita, i tuoi valori, le tue abitudini, devi rispettare il mio mondo. Il rispetto non può che essere reciproco. E va praticato come un’etica pubblica riconosciuta da tutti.
Certamente le politiche di accoglienza vanno riviste. Non possiamo fare finta che il terrorismo internazionale non esista, o non sia pericoloso. Ma la risposta alla violenza non può consistere in altra violenza. Il terrorismo religioso, fatto di bombe umane e aggressioni improvvise, è un fenomeno complesso e nuovo che va affrontato con conoscenza e coraggio, unendosi per stabilire strategie comuni, sapendo che costerà soldi e sacrifici; ma se non vogliamo cascare nella loro provocazione, ovvero in una guerra mondiale che farebbe migliaia di morti, dobbiamo ragionare insieme, inventare nuove strategie, pensare in grande e a lunga scadenza, dando un esempio di maturità e di responsabilità.

Corriere della Sera, 10 gennaio 2016
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LA RIVOLUZIONE DELLE ARTI

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Nella prima metà del ’900 autori come Musil o Joyce compresero che i romanzi possono non avere finale. Dalle discipline visive ai new media, Bonito Oliva indaga sulle mille sfumature della contemporaneità.


Antonio Gnoli

La rivoluzione delle arti che rinnegò il Tempo



Il Tempo – nozione che racchiude esperienze molteplici e diverse – ci avvolge e ci condiziona. Pensiamo di controllarlo, dominarlo, governarlo. Farne il nostro strumento di misura (per esempio attraverso meridiane e orologi o, più naturalmente, con lo scandire delle stagioni e dei giorni). Siamo attraversati dal tempo. Lo leggiamo sui nostri volti che invecchiano, sui nostri corpi che deperiscono. Il suo trionfo è quasi sempre legato alla nostra fine. Ne conosciamo gli effetti. Assai meno l’essenza. Nota è la sentenza agostiniana: so cosa è il tempo fino a quando non ne parlo, non lo penso. Esso fugge e non si lascia prendere se non per l’illusione di un attimo.

I portatori del Tempo – Il tempo inclinato o è il libro curato da Achille Bonito Oliva (Electa, pagg. 400, euro 59), con il quale prosegue la serie dedicata all’Enciclopedia delle Arti Contemporanee. In questo terzo volume una lunga introduzione di Giulio Giorello dedicata al tempo quantitativo e alla concezione che la scienza ne ha dato a partire dalla riflessione greca fino alle più recenti nozioni di fisica quantistica. Per poi passare alle diverse declinazioni del tempo: Musica, Architettura, Arti visive, Cinema, Nuovi Media, Teatro, Fotografia, letteratura.

Prendiamo quest’ultima. Quante volte ci hanno ricordato che un racconto, o un romanzo ha un proprio tempo scandito idealmente da un principio, un centro e una conclusione.
Uno schema, tradizionale ma anche rassicurante come ricordava Thomas Hardy a Virginia Woolf: «Credevamo che vi fosse un principio, un centro, una conclusione. Credevamo nella teoria aristotelica. Adesso i racconti finiscono con una donna che esce da una stanza». L’epilogo, il tempo conclusivo appunto, è come se non si desse più. I romanzi di Kafka spesso si interrompono o non hanno una vera conclusione. Lo stesso accade con Musil e Joyce.

L’inconcluso sembra il nuovo paradigma novecentesco. Viene meno il tempo della filosofia della storia. L’idea che lo Spirito possa hegelianamente cavalcare la storia del mondo. La forma del tempo è il suo arresto apparentemente immotivato. Ne sa qualcosa l’arte del Novecento che interrompe la sua pacifica visibilità. Ed è come se tutta l’arte del secolo che si è chiuso diventi avanguardia o non sia arte. «L’arte d’avanguardia », scrive Bonito Oliva, «ha portato la forma soprattutto nella direzione della turbolenza, dell’alterazione e della destrutturazione della comunicazione». Benjamin parlava di paesaggio di rovine, oggi parleremmo di rovina del paesaggio. Dell’impossibilità che l’estetica fornisca ancora un alibi al bello.

Colpa del tempo inclinato? Per assumere l’espressione che dà il sottotitolo al libro verrebbe da dire che il tempo è uscito dall’asse della sua orbita. Scivola incontrollato in un universo sconosciuto.
Le nostre certezze legate al tempo rassicurante delle stagioni, o a quello ben più intimo delle convinzioni psicologiche lascia il posto all’imbarazzo di non saperlo più riconoscere (la crisi del capitalismo è epocale perché sono venute meno le ragioni del suo tempo storico). È come se il tempo si possa ormai rappresentare soltanto con un buco.

Un buco senza margini, né orli. Testimone di una distruzione avvenuta, ed esso stesso soggetto a distruzione. Può sembrare un discorso insensato. Lo è molto meno se si vanno a cogliere certi esiti dell’arte contemporanea. Gordon Matta-Clark realizzò Conical intersect nel 1975.

L’idea fu di intervenire con uno squarcio interno al Centre Pompidou, allora in costruzione. Di quel “gesto” non resta che qualche disegno, un video e alcune foto. Una visione malinconica e terrificante delle nostre vite inclinate verso il nulla.

La Repubblica – 11 gennaio 2016

I portatori del Tempo - Il tempo inclinato
a cura di Achille Bonito Oliva
Electa

ULIVETI IN PERICOLO

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Ogni tanto ci capita di trattare del tema della stregoneria. Ma, al di là degli aspetti di colore, cosa è stata realmente la caccia alle streghe e soprattutto che tipo di mentalità presupponeva negli inquisitori? Un articolo sull'atteggiamento della magistratura pugliese nei confronti della Xylella (la malattia degli ulivi) può aiutarci a capirlo.

Paolo Mieli

Un Paese che odia la scienza


L’Italia sta diventando sempre più un Paese ostile al metodo scientifico e amante delle teorie del complotto. L’ennesima dimostrazione viene dal caso della «Xylella fastidiosa», batterio che produce grave nocumento all’ulivo, penetrato in Europa diciotto anni fa e più recentemente in Italia, nel Salento. Nelle Americhe la si combatte da un secolo, purtroppo senza successo.

Il Consiglio nazionale delle ricerche di Bari ha lavorato sodo per scoprire origini e modo di debellare quello che prende il nome di CoDiRO (Complesso del disseccamento rapido dell’olivo). Prendendo in seria considerazione anche l’ipotesi di sradicare gli ulivi già colpiti per provare a sterminare gli insetti diffusori dell’infezione e creare un cordone sanitario che isoli le piante infette.

Ma la magistratura, con un’inchiesta della Procura di Lecce, si è opposta. Di più: ha accusato il Cnr barese di aver favorito la diffusione del batterio, ne ha fatto sequestrare il materiale sia informatico che cartaceo e ha deciso che gli ulivi malati restino lì dove sono. Ha poi anche denunciato «inquietanti aspetti» relativi al «progettato stravolgimento della tradizione agroalimentare e della identità territoriale del Salento per effetto del ricorso a sistemi di coltivazione superintensiva». In parole povere, i ricercatori avrebbero deliberatamente cospirato per abbattere i vecchi ulivi e soppiantarli con piante nuove.

Gli indagati sono accusati di diffusione colposa della malattia delle piante, violazione dolosa delle disposizioni in materia ambientale, falso materiale e ideologico, getto pericoloso di cose, distruzione di bellezze naturali. La «peste degli ulivi», secondo i magistrati leccesi, sarebbe stata volontariamente importata in Puglia dall’Olanda nell’ottobre del 2010 con un convegno ad essa dedicato.

Poi, nel 2013, un professore barese, Giovanni Paolo Martelli, avrebbe messo in scena la «folgorante intuizione» di aver individuato la Xylella come agente patogeno del disseccamento degli ulivi salentini. Quindi il capo della Guardia forestale, Giuseppe Silletti, peraltro su sollecitazione dell’Unione Europea, avrebbe disposto il taglio di cinquemila alberi (così da salvarne un milione). In combutta con il professore di Agraria Angelo Godini fautore dell’eliminazione degli alberi infetti, in particolar modo, secondo l’accusa, «quelli monumentali». Accuse che hanno dell’incredibile.

Nature e Washington Post si sono scandalizzati per questo che a loro appare come un «processo italiano alla scienza». L’inchiesta del procuratore Cataldo Motta e dei pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci ipotizza che gli scienziati abbiano diffuso colposamente la malattia e abbiano poi presentato i fatti in modo da poter avallare come soluzione l’eradicazione delle piante malate, per legittimare lo sterminio degli ulivi salentini. Negli atti si parla anche di persone avvistate in tuta bianca a spalmare unguenti su alberi di ulivo, che successivamente sarebbero stati bruciati per cancellare le prove.

Prove che avrebbero potuto portare al «grande vecchio» di questa cospirazione: la multinazionale dell’agroalimentare Monsanto. Persino l’ex Presidente del Tribunale di Bari Vito Savino ha preso le distanze da questa iniziativa giudiziaria e ha manifestato sulla stampa il proprio «sconcerto».

Ma i magistrati — come sempre si fa in casi del genere — hanno ribattuto allargando il campo delle accuse ad un numero sempre più vasto di imputati, i quali (Savino, Godini, Martelli) avrebbero condiviso «un medesimo approccio culturale nell’Accademia dei Georgofili di cui fa parte anche il professor Paolo De Castro, già ministro dell’Agricoltura, attualmente eurodeputato, che ha riferito in commissione proprio sulla questione Xylella». Europa, Guardia forestale, Georgofili, ex ministri avrebbero dunque congiurato per distruggere gli ulivi salentini allo scopo di impiantare in quel di Gallipoli nuove coltivazioni. E gli scienziati dell’Università di Bari, del Cnr e dell’Istituto agronomico alimentare (Iam) avrebbero aderito (dietro compenso?) al complotto.

Sulla Stampa Gilberto Corbellini e Roberto Defez hanno esortato coloro che in passato si sono indignati contro i tentativi di imporre per via giudiziaria le pseudo cure Di Bella o Stamina o contro il rinvio a giudizio e la condanna in primo grado della Commissione Grandi Rischi rea di non aver dato l’allarme per il terremoto dell’Aquila, a «insorgere per quanto sta accadendo nel Salento». Ma il loro appello è caduto nel vuoto.

Qualcuno ha messo in evidenza come l’inchiesta della procura di Lecce si basi su una grande contraddizione logica: da un lato i magistrati sostengono che non esiste «un reale nesso di causalità tra il batterio e il disseccamento degli ulivi», dall’altro accusano i ricercatori di aver diffuso il batterio. Saremmo quindi in presenza di «untori di una peste innocua» (ha ironizzato Luciano Capone sul Foglio ). Lo Iam è accusato, come si è detto, di aver dato inizio al contagio con le provette olandesi fatte giungere a Bari per il convegno scientifico del 2010.
L’Istituto ha risposto dimostrando che i campioni introdotti in Italia per quell’incontro scientifico erano tutti di una sottospecie diversa da quella ritrovata nel Salento. Ma, con logica acrobatica, l’accusa ha trasformato anche questa in un’ammissione di colpa: fu «priva di plausibile giustificazione l’introduzione da parte dello Iam di tutte le sottospecie di Xylella conosciute a eccezione di quella individuata nel Salento» che c’era già, tenuta ben nascosta, e non aveva perciò bisogno di essere importata.

Incredibile. L’inchiesta cita poi un’affermazione dell’esperto mondiale di Xylella, Alexander Purcell di Berkeley — «Contro la Xylella gli abbattimenti non servono a nulla» — che lo stesso Purcell nega di aver mai pronunciato ed è stata riferita da un’europarlamentare grillina. Il Movimento Cinque Stelle ha contemporaneamente depositato una mozione di sfiducia nei confronti del ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina colpevole di non aver ostacolato il complotto.

Nel frattempo l’Unione Europea ha avviato nei confronti dell’Italia una procedura d’infrazione per i ritardi nell’attuazione del piano di guerra contro il flagello salentino. A questo punto non è lecito nutrire dubbi: vincerà la Xylella e gli italiani si troveranno a dover pagare una multa all’Europa. Poi, come sempre accade, tra un decennio verrà il tempo delle pubbliche scuse ai ricercatori che hanno fatto il loro dovere e per questo hanno avuto dei guai. Così vanno le cose nel nostro Paese.


il Corriere della sera -11 gennaio 2016

L' ABC DELLA GUERRA SECONDO BRECHT

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In un libro (oggi quasi dimenticato) Brecht mise in versi le foto di guerra per rivelarne la natura autentica di strumenti di propaganda. Un libro da leggere come autoimmunizzazione dai messaggi occulti di giornali e televisioni.

Roberto Galaverni

L’abicì della guerra di Bertolt Brecht


L’abicì della guerra di Bertolt Brecht è un libro speciale, unico nel suo genere. La constatazione appare tanto più vera se si pensa che un autentico genere Brecht si era di fatto inventato nel realizzarlo: il «fotoepigramma», come lo aveva definito riferendosi al suo particolare assemblaggio di fotografia, testo poetico e, in molti casi, didascalia in prosa. Praticamente concluso nel 1945, quando lo scrittore si trovava ancora in esilio negli Stati Uniti, verrà pubblicato nella Ddr, la Repubblica democratica tedesca, solo dieci anni più tardi, nel 1955.

Brecht lo aveva concepito come una cronistoria degli anni hitleriani e della Seconda guerra mondiale. Fin dal 1938 aveva infatti cominciato a ritagliare da giornali e riviste fotografie che avrebbe ripreso più tardi. Apparentemente legato alla cronaca più immediata, L’abicì della guerra (riproposto ora da Einaudi) è però un libro che non ha tempo. Meglio ancora: è un libro dalle radici così profonde e universali da trovarsi di casa, ahimè, in ogni tempo e luogo.

Costruito come una specie di sillabario, l’ Abicì risponde a un preciso intento pedagogico: offrire al lettore una serie di istruzioni su come leggere e interpretare le immagini fotografiche. Da questo punto di vista risulta decisiva la questione del metodo, che coincide poi con la costituzione stessa dell’opera. Brecht instaura un gioco a due, spesso a tre voci — come detto: i versi, l’immagine e la relativa, invariabilmente tendenziosa didascalia informativa — che impone al lettore una continua dislocazione dei livelli del discorso.

Il fuoco della rappresentazione entra ed esce dall’immagine, entra ed esce dai versi, determinando un ambito conoscitivo in cui a importare sono le relazioni e il processo stesso della conoscenza, anziché la cosiddetta folgorazione estetica. In sostanza, si può pensare a una variante della tecnica dello straniamento resa celebre dal teatro brechtiano.

In questo caso, il lavoro della comprensione sta tutto nell’andirivieni tra immagini dal particolare impatto emotivo (anzitutto scene del teatro di guerra, con le sue distruzioni e nefandezze inevitabili), e dunque l’empatia immediata della prima visione, e il rovesciamento dell’immagine, con il conseguente distacco critico, operato dai versi (ogni volta una quartina epigrammatica, nobile dal punto di vista metrico ma discorsiva e diretta nel tono).
Attraverso questo procedimento di reazioni intrecciate, Brecht intende condurre a una demistificazione delle immagini come strumento di propaganda e oppressione, e al parallelo affioramento delle ragioni profonde, di natura socio-economica e politica, sottese e come nascoste nell’immagine stessa. C’è una fotografia che rappresenta un soldato americano preso di spalle, con una pistola in mano, mentre guarda il nemico agonizzante. «Un soldato americano in piedi presso un giapponese morente che è stato costretto a uccidere», recita la didascalia della foto. E i versi di Brecht a chiudere (in realtà ad aprire) la triangolazione: «Di sangue una spiaggia doveva tingersi/ che non era né dell’uno né dell’altro./ Erano, si dice, costretti a uccidersi./ Lo credo, lo credo. Ma domando: da chi?».

Il riferimento al contesto extra-artistico, a ciò che sta fuori dall’immagine ma che pure la fonda, diventa decisivo. Si crea così un particolare rovesciamento delle prospettive, secondo cui il pur gigantesco scenario della guerra, considerato qui in tutta la sua estensione, appare comunque parte circoscritta di una scena e di parametri di giudizio più ampi, sia nel tempo sia nello spazio.
La vis ironica e sintetica, il talento inventivo, la capacità di mettere in contraddizione piani diversi della realtà tipici dell’opera brechtiana, appaiono qui ridotti alla nudità dello schema, come se si trovassero allo stato puro. La spregiudicatezza nell’impiego strumentale dell’invenzione artistica, come se davvero si trattasse di maneggiare un utensile, e insieme la naturalezza, la semplicità, la familiarità del gesto, non possono che sorprendere una volta di più. Del resto, proprio nella tensione tra l’ardimento tecnico e metodologico da una parte, e l’essenzialità, il carattere elementare delle opposizioni e dei valori dall’altra, va trovato uno dei punti di forza del libro.

Il nuovo orientamento ideologico è sempre riportabile a opposizioni basiche che sono anche grandi simboli e metafore della tradizione occidentale: bene-male, alto-basso, bianco-nero, sonno-veglia, maschile-femminile. Non sempre accade (ad esempio nei fotoepigrammi sull’Unione sovietica) ma quando l’ideologia si congiunge con la percezione del tempo lungo della natura, con la pietà, con la gentilezza, con l’umanità, il sillabario brechtiano sulla guerra ha davvero molto da insegnare. E ci riesce. 


Il Corriere della sera – 27 dicembre 2015

SABATO 16 GENNAIO GRAMSCI A MARSALA

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RILEGGERE GRAMSCI NEL 2016.

Che senso ha leggere Gramsci oggi? A cosa può servire rileggere un autore così profondamente radicato nel 900 in un mondo che sembra avere ormai pochi punti di contatto con il XX secolo?
Gramsci apparentemente sembra che sia stato cancellato dall’orizzonte politico del nostro tempo. Eppure i suoi Quaderni e le sue Lettere vengono lette, con sempre maggiore attenzione, specialmente fuori d’Italia. 
Alcuni pensano che vada letto ormai come  un classico. Ma tanti hanno dimenticato cosa ha scritto Gramsci a proposito della lettura dei Classici : 
 “ Io penso che una persona intelligente e moderna deve leggere i classici con un certo distacco […] chi legge Dante con amore? I professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta o scrittore e ne celebrano degli strani riti filologici…” (Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, Ed. Sellerio, pag. 425)
Noi cercheremo di mostrare l’attualità del pensiero di Gramsci, rileggendolo senza paraocchi e pregiudizi ma, per così dire, iuxta propria principia.

Francesco Virga, gennaio 2016.

LA GRANDE SCOMMESSA

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Come diceva Brecht, è più criminale fondare una banca che sfondare una banca. Se non ci credete, andate a vedere questo film (fv)

LA GRANDE SCOMMESSA


di Marco Giusti

Adesso smettiamola di pensare ai film di Natale, agli incassi di Checco Zalone ai peli di Chewbacca e parliamo di cinema. The Big Short, da noi tradotto come La grande scommessa, anche se la vera traduzione sarebbe ‘Il grande scoperto’, è un grandissimo film.

Lo ha diretto Adam McKay, di solito regista di commedie di Will Ferrell, che lo ha pure scritto assieme a Charles Randolph traducendo in forma cinematografica il complesso saggio di Michael Lewis, dallo stesso titolo, che spiega come si arrivò alla bolla finanziaria che portò al crollo del mercato bancario americano nel 2008 e provocò quindi la crisi che stiamo ancora vivendo in Europa.

LA GRANDE SCOMMESSA

McKay lo fa però seguendo le regole ferree del suo cinema di commedia, con un cast di primissimo livello che vede assieme Christian Bale, Steve Carell, Ryan Goslyng e Brad Pitt, qui anche produttore, e quando le cose si fanno troppo complesse da capire per il pubblico, ferma tutto, chiama una star come Margot Robbie mentre sta dentro la vasca da bagno, ancora fresca di Lupo di Wall Steet, o la sexbomb Selena Gomez o il cuoco Anthony Bourdain mentre cucina, per spiegarci in maniera più facile cosa sta capitando.
LA GRANDE SCOMMESSA 

Così, anche se non sapete niente di subprime, CDO, AAA, capirete tutto grazie a precise metafore come lo zuppone di pesce dove ricicli pesci avariati proposto da Bourdain. Geniale. La storia è presto detta. Ricordate la frase finale di Valeria Bruni Tedeschi in Il capitale umano di Paolo Virzì, “Avete scommesso sulla rovina di questo paese e avete vinto”? E’ più o meno questa anche la storia di La grande scommessa che, senza grande moralismi, racconta, attraverso i giochi d’affari di quattro gruppi diversi di investitori e trader, la scommessa di piccoli e cinici geni della finanza che scoprono la bolla che è dietro il mercato bancario americano, capiscono che tutto il sistema nazionale presto crollerà e ci puntano contro.

LA GRANDE SCOMMESSA 

Lo spiega bene il guru delle finanze Ben Rickert, cioè Brad Pitt, ai due famelici giovani avvoltoi che lo hanno chiamato in aiuto, Charlie Geller, cioè John Magaro, e Jamie Shipley, cioè Finn Wittlock. “State scommettendo contro il vostro paese”. Senza sapere il disastro economico e umano che accadrà in America e in tutto il mondo. Non può essere una vittoria. Il primo a predire il crollo del sistema è Michael Burry, interpretato da Christian Bale come un genio più stralunato del suo Batman. Burry lo dice ai suoi investitori e prevede il crollo per la fine del 2007.

LA GRANDE SCOMMESSA 

Nessuno gli crede, soprattutto i banchieri che lo sostengono. Ma ha ragione. Lo capisce un altro investitore, Jared Vennett, un grandioso Ryan Gosling, che cerca così di unirsi a un gruppo di trader più forti, quello capitanato da Mark Baum, Steve Carell, perfetto. Baum, a poco a poco, capisce che quel che dice Vennett non solo è vero, ma che porterà a un disastro pauroso.

Tutti i personaggi, tranne Burry, circoleranno nel grande convegno annuale degli investitori economico a Las Vegas, l’American Securities Forum, e lì ognuno di loro prenderà la sua propria decisione morale sul cosa fare, cioè se investire sulla fine dell’impero economico americano o no. Ma nel tempo del film abbiamo perfettamente capito come si è arrivato a questo disastro e perché, seguendo una politica economica suicida che ci ha poi coinvolti tutti.

LA GRANDE SCOMMESSA 

Qua non si tratta di scegliere tra il posto fisso alla Lino Banfi e il liberismo renziano, qua si tratta di capire che fine sta facendo un paese e decidere che posizione prendere a riguardo. Se Il lupo di Wall Street di Martin Scorsese è un capolavoro del genere, ma riguardo un periodo precedente a questo, La grande scommessa si muove su un terreno analogo e spiega molto bene cosa sia stata la politica economica bancaria americana. Tutto il brano che riguarda la bolla finanziaria delle case è magistrale. Grande film. In sala da oggi.

http://www.dagospia.com/

G. GALASSO INTERVIENE NEL DIBATTITO INTORNO ALLA LUNGA DURATA DELLA STORIA

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Giuseppe Galasso

La storia non si fa col calendario

Torniamo a parlare della «durata», la categoria che tanta parte ha avuto, e continua ad avere, negli studi storici dalla metà del Novecento in poi. Non per parlare, però, ancora una volta, del peso che l’adozione di questa categoria ha avuto rispetto alla storia politica e alla massiccia «invasione» (come alcuni la definiscono) del suo campo da parte delle discipline sommariamente (e approssimativamente) indicate come «scienze umane». Un peso certamente non fausto, e ancor più fuorviante, se si considera il dato incontestabile che quella che si intende per «storia politica» non ha mai presentato una tipologia unica. Ognuno dei suoi grandi autori differisce dall’altro, in una varietà impressionante e altamente istruttiva di moduli euristici e narrativi, che formano l’incommensurabile ricchezza, non solo culturale, della storiografia occidentale (per stare solo a essa) dai tempi di Erodoto a oggi.

Quando si parla quindi della storia politica come pura storia degli eventi, dei fatti militari, politici, diplomatici, istituzionali e simili, bisognerebbe, quindi, avere ben chiaro che questa storia è stata l’opera di autori che nei loro rispettivi moduli storiografici e letterari, e per i valori e le idee che li hanno ispirati, rappresentano ciascuno un mondo diverso. Tanti storici politici, insomma, tanti tipi o casi di storia politica.

Ma — ripetiamo — non è di questo che vogliamo parlare qui, bensì della famosa «durata». La sua distinzione in breve e lunga è di immediata percezione. L’alternativa posta dai due aggettivi sembra non lasciare spazio alcuno a una composizione della loro così netta antinomia. A guardare le cose più da vicino si scopre, però, che non è del tutto così, e per almeno due serie di ragioni.

La prima serie dovrebbe essere di più semplice approccio. Si tratta della facile constatazione che lunga e breve durata non sono due universi chiusi in se stessi, incomunicanti e incomunicabili nella loro azione e proiezione storica. In altre occasioni ho parlato di Alessandro Magno, di Giulio Cesare, di Carlo Magno, ma sono innumerevoli gli esempi possibili di condottieri, guerre, conquiste, dominazioni che dimostrano quanti e quali possano essere i rapporti, non sospettabili di primo acchito, tra lunga e breve durata. In questi casi l’azione di breve durata — una guerra, una conquista, l’avvio o le variazioni di dominazioni e imperi o regni di nuova istituzione, l’imposizione di determinate leggi e ordinamenti, e così via dicendo — pone le premesse e stabilisce le condizioni per svolgimenti e realtà della lunga durata.

Bisogna, inoltre, precisare che, quando parliamo qui di lunga durata, non ci riferiamo, come dovrebbe essere ovvio, alle lunghe durate di imperi e di Stati o di determinati equilibri politici. Ci riferiamo ai processi strutturali, antropologici etc. che in quei dati politici hanno solo una premessa o condizione. Tali processi — nella teorizzazione più autentica della lunga durata — si svolgono, infatti, sostanzialmente per propria natura e con propria logica; e sono essi a imporsi, in ultima analisi, nel fluire sotterraneo di mentalità e atteggiamenti, ai quadri politici in cui si ritrovano.

Più complessa e, soprattutto, più importante è la seconda serie di ragioni. La durata, lunga o breve che sia, è sempre un elemento temporale. Il tempo storico non è, però, il tempo del calendario. Non si misura, cioè, solo con il numero dei secoli o degli anni o dei giorni. Il tempo storico ha misure ancora più essenziali nella densità, nella qualità, nella velocità, nella complessità, negli effetti, nel tono, nella rilevanza degli eventi che in esso hanno luogo e nella sensibilità e mentalità con la quale il tempo è percepito e vissuto.

Perciò anche nel linguaggio corrente si dice spesso che certi giorni contano più di molti anni. Perciò uno storico del valore di Jacques Le Goff distinse acutamente fra il «tempo della Chiesa» e il «tempo del mercante». Perciò Adolfo Omodeo amava parlare di «primavere storiche». Perciò parliamo immaginosamente di «secoli bui» e di «secoli d’oro». Perciò la mentalità economica moderna ha introdotto la massima che «il tempo è denaro». Perciò una volta si sproloquiava sulla differenza fra la concezione orientale del tempo (incline più alla meditazione che all’azione) e quella occidentale (attivistica, rapida, frenetica: si ricordi il persiano di Montesquieu a Parigi).

Sono modi — questi, e gli altri, numerosissimi, citabili al riguardo — più o meno stringenti e pertinenti di considerare ed esemplificare questa materia. Valgono, comunque, indubbiamente, a darne un’idea schietta e sintetica. Soprattutto, poi, permettono di affermare e provano che l’antinomia di breve e lunga durata è più parziale e meno sostanziale di quanto si pensi. In quell’antinomia irrompe sempre, sottomettendola a sé, la forza discriminante del tempo storico in tutta la complessità degli aspetti che sono suoi.
Ciò significa, in ultima analisi, che il tempo non è determinato dal calendario, ma dalla storia. E non soltanto questo. Anche per il tempo storico vale, infatti, ciò che del tempo ci hanno detto da due secoli a questa parte filosofi come Kant, scienziati come Einstein e coloro che hanno sviluppato o modificato le loro vedute (non molto, comunque, né sostanzialmente, a mio sommesso avviso). In altri termini, e un po’ alla grossa, il tempo storico è puramente e semplicemente tempo, ma diventa un tempo particolare non tanto perché è teatro di «quella guerra illustre contro il tempo», che, secondo lo pseudo-anonimo manzoniano, impone alla caducità del tempo nella sua successione calendariale la memoria imperitura della storia. Lo diventa perché è una dimensione essenziale e primaria, costitutiva e imprescindibile — non calendariale e non filosofico-scientifica — del mondo umano nel suo divenire storico.

Da questo punto di vista l’antinomia di breve e lunga durata è un criterio di merito e di metodo assai debole rispetto alla essenzialità del tempo storico, che le compenetra entrambe, ed entrambe piega alle sue logiche e alle sue dinamiche. Né, con ciò, quell’antinomia perde tutto il suo senso e la sua utilizzabilità. Viene soltanto ricondotta nei limiti che sono suoi, mentre una terza durata non c’è, e terza durata non è in alcun senso il tempo storico in cui sia la breve che la lunga sono inscritte.


Il Corriere della sera – 12 dicembre 2015

RILEGGERE GRAMSCI NEL 2016

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“Rileggere Gramsci nel 2016”

E’ ispirato alla figura di un grande intellettuale del Novecento il primo Album Letterario del 2016 organizzato dall’associazione culturale Otium di Marsala. Sarà infatti la figura di Antonio Gramsci -  politico, filosofo, linguista e critico letterario - al centro della discussione di sabato 16 gennaio alle ore 18.
 A guidare la conversazione sarà Francesco Virga, attento e raffinato lettore dell’autore, che così anticipa l’evento: “Apparentemente pare che Gramsci sia stato cancellato dall’orizzonte politico del nostro tempo. Alcuni pensano che i suoi scritti vadano letti come dei classici, in realtà la sua “grandezza” è assolutamente contemporanea. Noi lo leggeremo senza paraocchi e pregiudizi, analizzando i suoi testi con gli occhi di oggi”.
In particolare, nel corso dell’incontro verranno letti e commentati alcuni passi dei Quaderni del Carcere, la raccolta degli appunti e delle note che Gramsci scrisse durante la sua prigionia nelle carceri fasciste, e delle Lettere dal Carcere, una raccolta epistolare considerata oggi un’autobiografia indiretta dell’autore.

L’incontro avrà luogo nei locali dell’associazione culturale Otium, in via XI maggio 43 a Marsala, ed è aperto a tutti.

Pamela Giampino

LA TRAPPOLA DI COLONIA

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Benzina sul fuoco
Illustrazione di Ben Jennings presa dal Guardian, con sotto scritto: “No wonder liberals would do anything to avoid fanning these flames, since we see in this righteous indignation a racist old trope about barbarians at the gates"


Vi segnalo un interessante articolo, obiettivo e senza enfasi di nessun tipo, su Der Spiegel del 9 gennaio 2016, tradotto da Internazionale.
Sella rassegna stampa dell’Ucei potete leggerlo integralmente.
Spiegel StaffLa trappola di Colonia, Internazionale, 15/21 gennaio 2016, Numero 1136, pp. 14-20
– Articolo da Der Spiegel online International in inglese
Spiegel Staff, Chaos and Violence: How New Year’s Eve in Cologne Has Changed Germany, Der Spiegel international.

RICORDANDO ROSA LUXEMBURG

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"La libertà è sempre la libertà di dissentire " R. Luxemburg


« Ora è sparita anche la Rosa rossa.
Dov'è sepolta non si sa.
Siccome disse ai poveri la verità
I ricchi l'hanno spedita nell'aldilà »


Bertolt Brecht, Epitaffio, 1919

E. LEVINAS SU M. BLANCHOT E SULL' ARTE POETICA

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Pubblichiamo un estratto dal libro Su Maurice Blanchot (Caratteri Mobili, a cura di Augusto Ponzio e Francesco Fistetti), una raccolta di quattro saggi del filosofo Emmanuel Lévinas sullo scrittore e critico letterario francese, ringraziando l’editore.

L' arte «appartiene a un linguaggio che nessuno parla»
di Emmanuel Lévinas

Il modo di rivelare ciò che resta altro malgrado la sua rivelazione non è il pensiero ma il linguaggio della poesia. Il suo privilegio non consiste, nelle analisi di Blanchot, nel portarci più lontano dal sapere. Esso non è telepatico, l’esteriore non è il lontano. Esso è ciò che appare – ma in maniera singolare – quando tutto il reale è stato negato, realizzazione di questa irrealtà. Il suo modo d’essere – il suo genere –consiste nell’essere presente senza essere dato, nel non offrirsi al potere, essendo stata la negazione l’ultimo potere umano, consiste nell’essere il campo dell’impossibile al quale il potere non può aggrapparsi, nell’essere un congedarsi perpetuo da ciò che lo svela. Ne consegue per colui che guarda l’impossibile, una solitudine essenziale, che non può essere equiparata al sentimento d’isolamento e di abbandono nel mondo, superbo o disperato.
Solitudine nel campo desolato delle impossibilità incapaci di costituirsi in mondi. A ciò condurrebbe la letteratura. Sempre essa farebbe parlare ciò che non è mondo – gli dei e gli eroi, quando gesta e battaglie non erano Azione e Politica, ma eroismo e avventura. Oggi che gli dei se ne sono andati, essa lascia parlare e compiersi ciò che è più radicalmente non-mondo, l’essere dell’essente – la presenza della sua sparizione. Blanchot riprende per mostrarlo le sue antiche meditazioni su Mallarmé e su Kafka. Scrivere sarebbe ritornare al linguaggio essenziale che consiste nello scartare le cose nelle parole, nel far eco all’essere.
L’essere delle cose non è nominato nell’opera, ma si dice nell’opera, coincide con l’assenza delle cose che sono le parole. Essere equivale a parlare, ma parlare in assenza di ogni interlocutore. Parlare impersonale, senza «tu», senza interpellazione, senza vocativo e tuttavia distinto dal «discorso coerente» che manifesta una Ragione universale, discorso e Ragione che appartengono all’ordine del giorno.
Ogni opera è più perfettamente opera nella misura in cui il suo autore non fa conto di servire un ordine anonimo. Kafka ha cominciato a scrivere veramente quando ha sostituito «egli» a «io», perché «lo scrittore appartiene a un linguaggio che nessuno parla». Non che un ideale universale ed eterno comandi dunque la scrittura. Blanchot mostra come l’impersonalità dell’opera è quella del silenzio che segue alla dipartita degli dei, inestinguibile come un mormorio, quella del tempo dove affonda il tempo storico che possiamo negare come figli della storia, quella della notte in cui sorge la negazione del Giorno che noi neghiamo ancora come figli del Giorno. Il creatore è colui il cui nome si cancella e la memoria si estingue.
«Il creatore non ha potere sulla sua opera». Scrivere è spezzare il legame che unisce la parola a me stesso, invertire il rapporto che mi fa parlare a un tu – «farsi eco di ciò che non può cessare di parlare». Se la visione e la conoscenza consistono nel potere sui loro oggetti, nel dominarli a distanza, il rovesciamento eccezionale che la scrittura produce comporta l’essere toccato da ciò che si vede essere toccato a distanza. Lo sguardo è preso dall’opera, le parole guardano colui che scrive. (Così Blanchot definisce la fascinazione). Il linguaggio poetico che ha scartato il mondo lascia riapparire il mormorio incessante di questo allontanamento, come una notte che si manifesta nella notte. Non è l’impersonale dell’eternità, ma l’incessante, l’interminabile, che ricomincia sotto la negazione che se ne possa tentare.
Situazione che Blanchot accosta alla morte. Scrivere è morire. La morte, per Blanchot, non è il patetico delle ultime possibilità umane, possibilità dell’impossibilità, ma ripetizione incessante di ciò che non può essere afferrato, di fronte al quale l’«io» perde la sua ipseità. Impossibilità della possibilità. L’opera letteraria ci avvicina alla morte, perché la morte è questo brusio interminabile dell’essere che l’opera fa mormorare. Nella morte come nell’opera, l’ordine regolare si rovescia poiché il potere conduce a ciò che non può assumersi. Sicché la distanza fra la vita e la morte è infinita come è infinita l’opera del poeta di fronte all’inesauribile linguaggio che è lo svolgersi o più esattamente l’interminabile oscillazione o anche il trambusto dell’essere.
La morte non è la fine, è il non finire di finire. Come in certi racconti di Edgard Poe, dove la minaccia si avvicina sempre più e dove lo sguardo impotente misura questo avvicinamento sempre ancora distante. Blanchot specifica quindi la scrittura come una struttura quasi folle, nell’economia generale dell’essere, e per la quale l’essere non ha più economia, perché esso non porta più, affrontato attraverso la scrittura – alcuna abitazione, non comporta alcuna interiorità. Esso è spazio letterario, cioè esteriorità assoluta – esteriorità dell’assoluto esilio. È ciò che Blanchot chiama anche la «seconda notte», quella che nella prima notte, esito normale e annullamento del giorno, si fa presenza di questo annullamento e ritorna così incessantemente all’essere; presenza che Blanchot descrive con termini quali sciabordio, mormorio, ripetizione incessante, tutto un vocabolario che esprime il carattere, se così si può dire, inessenziale di questo essere della seconda notte. Presenza dell’assenza, pienezza del vuoto, «compiutezza di ciò che tuttavia si nasconde e permane chiuso, luce che brilla sull’oscuro, che è brillante di questa oscurità divenuta apparente, che toglie, rapisce l’oscuro, ciò la cui essenza è richiudersi su ciò che vorrebbe rivelarlo, attirarlo in sé e inghiottirlo».
La scrittura sarebbe, da parte sua, l’inverosimile procedere di un potere che, a un certo punto chiamato ispirazione, «vira» in non-potere. Ritmo stesso dell’essere, sicché la letteratura non avrebbe altro oggetto che se stessa (e bisognerà dire un giorno il senso latente dell’opera di Blanchot romanziere). L’arte moderna non parla che dell’avventura stessa dell’arte – cerca di essere pittura pura, musica pura. Senza dubbio l’opera critica e filosofica, che racconta questa avventura, è ben al di sotto dell’arte che è il viaggio stesso al termine della notte, e non soltanto il racconto del viaggio. E tuttavia al filosofo la ricerca di Blanchot apporta una «categoria » e un «modo di conoscenza» nuovo che noi vorremmo esplicitare, qualsiasi cosa ne sia, della filosofia dell’arte propriamente detta.

E. LEVINAS  

Testo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it

J. CORTAZAR, Cerco...

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Cerco la tua somma, il bordo del bicchiere in cui il vino si fa
luna e specchio,
cerco quella linea che fa tremare un uomo
nella sala di un museo.
E poi ti voglio bene, nel tempo e nel freddo.

Julio Cortazar

LIBERIAMOCI DALLA MALEVISIONE!

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di Redazione
Cover eBook Marilù Oliva MALEVISIONE (Medium)Dopo l’uscita del primo eBook di Mauro Baldrati, Fuga, Carmilla ci ha preso gusto e il libro elettronico diventa seriale. Pubblichiamo dunque (sempre gratuitamente) il nostro secondo eBook carmilliano: Malevisione di Marilù Oliva. Potete scaricarlo cliccando sui link alla fine del post.
Malevisione è un’indagine letteraria attraverso gli abissi della nostra televisione. Reality show che si trasformano in stragi, principi che cantano nel più seguito festival canoro del Bel Paese, telegiornali infarciti di sciocchezze e gossip, programmi culinari con imprevedibili ricette: questi racconti si spingono verso il paradossale, ma dimostrano che tutto è lecito pur di mantenere l’audience.
E alla fine della fiera occorre porsi alcune domande. Nessuno dice niente? E se l’utente, attraverso un nemmeno troppo sofisticato sistema di lavaggio del cervello e assuefazione, venisse cannibalizzato? Se ciò che in televisione ci viene propinato per bellezza non fosse altro che orrore? Un viaggio grottesco nel piccolo schermo che vi farà divertire ma anche rabbrividire: certo qualcuno, se già non se ne era liberato prima, ora sceglierà di non accendere più la TV.

Scarica l’ebook: Marilù Oliva, Malevisione, Carmilla eBook, 2016, formati EPUB, MOBI,PDF (Link di download temporanei, presto in arrivo quelli definitivi).

Ringrazio http://www.carmillaonline.com
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