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ROMA CAPITALE

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1878. Costruzione del Ponte metallico di Ripetta (Pinterest - Collezione Roma sparita)


Roma Capitale: l'invasione dei “buzzurri” e il ponte di Ripetta

 Lucio Caracciolo 

Dio ha maledetto Roma Capitale? Il dubbio che una divina jettatura pendesse sull'Urbe nacque appena due mesi dopo il fatidico 20 settembre 1870: le acque giallastre del Tevere sfondarono gli argini a Ponte Molle e nella città bassa, irruppero attraverso Porta del Popolo nel centro storico, quasi a lavare l'onta inflitta dall' Italia laica al millenario privilegio papale. Fiorì allora sui fogli "neri" e sulla bocca di beghine, bigotti, semplici popolani, la leggenda della "maledizione divina" su Roma italiana. Il governo di Sua Maestà provvide poi - con una certa flemma - a bloccare il flagello delle inondazioni, fortificando gli argini del Tevere. Nondimeno una qualche sorta di malocchio continuò a incombere sulla città, tanto da indurre già Ricasoli a chiedersi se vi fosse "dunque in questa Roma una fatalità, che deve rendersi maledetta per l'Italia".
Fatto è che l'idea di Roma - suprema missione unitaria che appassionò i più diversi esponenti del Risorgimento, da Cavour a Mazzini, da Garibaldi a Gioberti - per l'Italia è restata un mito astratto. La crescita della Capitale è una vicenda di continui fallimenti di Stato e Comune nel tentativo di orientarla secondo un progetto. È ormai più di un secolo che Achille - la mano pubblica - s'affanna sulle tracce di un'inafferrabile tartaruga - la speculazione privata. Di questa corsa a handicap cominciamo qui a tracciare una cronaca certo non esaustiva, sperando di illuminare, attraverso alcune storie esemplari, cause e meccanismi di una "fatalità" nient' affatto "celeste".
Converrà anzitutto tenere a mente che la Roma finalmente ricongiunta alla patria non ha nulla delle grandi capitali europee. Non gli ampi boulevards e i moderni palazzoni ministeriali, non le industrie con l' annesso squallore degli slums. Roma sorge come una gigantesca fattoria in una campagna malsana e paludosa. Scrive un testimone del tempo: "Di notte il silenzio della Città Eterna è punteggiato di continuo dal canto dei galli, da ragli di asini e belati di pecore. Pare d'essere in una città d'agricoltori, e questa impressione è largamente confermata di giorno, dai branchi di pecore e di capre che lasciano chiari segni del loro passaggio anche nelle strade principali". Ancora nella seconda metà del secolo la malaria miete le sue vittime ben dentro la cinta d'Onorio, a piazza del Popolo, al Colosseo, al Viminale.
Roma è rimasta, grosso modo, quella del Seicento, divisa come ai tempi di Nerone in quattordici rioni. Duecentomila abitanti s' accalcano a Borgo, a Trastevere e nell' ansa del Tevere tra piazza del Popolo e il Circo Massimo. Il viandante che s' avventura per le anguste strade cittadine resta stordito dal contrasto fra il fascino dei monumenti e lo stato di abbandono delle case e delle vie, meandro inestricabile e spesso impraticabile. Il marciapiede è considerato un lusso transalpino; quei pochi esistenti sono in verità trappole per pedoni distratti, essendo sistemati su dislivelli di un metro e più che si aprono come baratri davanti ai piedi dei passanti. L'esiguo traffico di carri, botti o sgangheratissimi omnibus ippotrainati s'ingolfa improvvisamente intorno al Corso, che le colonnette patrizie, irrinunciabile simbolo di dignità araldica, riducono a un accidentato percorso di slalom speciale.
Il fondo stradale è evocato dalle cronache come uno strumento di tortura che "storpia chi si attenta a muovervi un passo, taglia il tomaio delle scarpe, graffia ed iscorza le vernici delle ruote e, penetrando fra i quarti delle unghie dei cavalli, azzoppa e fa barcollare le povere bestie". La “Gazzetta di Firenze” annota malignamente che se i piedi potessero votare per la Capitale d' Italia, certamente non eleggerebbero la Città Eterna. E le case? Se escludiamo i palazzi in pietra degli aristocratici, esse offrono un colpo d'occhio ben misero. Sembrano tante casupole di campagna addossate l'una all'altra dalla mano di un architetto cieco o folle. Luride e spesso fatiscenti, emanano un insopportabile lezzo di cavolo - prodotto dall'abbondante uso di erbe cotte, tipico della dieta romanesca - il quale a suo tempo ispirò a Stendhal appassionate invettive contro le abitudini igieniche dei quiriti.
In questa Roma attardata convivono blandamente alto clero e plebe indigente, nobiltà e piccolissima borghesia. La gran parte dei romani vive d'espedienti, fra la certezza della broda elargita dagli ospizi di mendicità e la chimera d'una vincita al lotto, la via più corta dalla miseria alla ricchezza. Il solo ceto vagamente assimilabile alla borghesia mitteleuropea è quello dei "mercanti di campagna", gli affittuari del latifondo pontino. Tolta una manciata di botteghe di fabbriferrai che in qualche statistica assurgono al rango di industrie, e quei pochi lanifici che fino al 1870 vegetano dietro lo scudo dei dazi pontifici, non v'è traccia d' industria.
Roma sembra dar ragione ai suoi più astiosi avversari, per i quali la città è destinata a vivere alle spalle del mondo, "prima con la preda, poscia con lo scrocco". Per Roma l' arrivo degli italiani è una rivoluzione. Un equilibrio secolare è stravolto. Mentre Pio IX si esilia nei palazzi vaticani, donde scaglia anatemi contro i "figli di Belial", "rappresentanti della più velenosa bava d' inferno", in città si riversa un'orda di "buzzurri", soprannome non benevolo (significa "venditori di castagne") con cui i popolani designano i loro liberatori. Da Firenze arrivano a migliaia gli impiegati dello Stato. Dall'alta Italia accorrono commercianti, finanzieri, speculatori, attratti dal miraggio di una nuova capitale da costruire. Dal Mezzogiorno ecco premere un esercito di braccianti, accattoni, avventurieri, avvocati. Roma è un sogno a buon mercato, una promettente California. L'ondata d'immigrazione triplica in poche settimane il prezzo degli affitti. Il Comune è costretto a requisire financo i fienili. Cantine e sottoscala vengono disputati come alberghi di lusso. Un foglio locale segnala che all'albergo della Ghiffa, a piazza Montanara, si spendono pochi centesimi per dormire "con tutt' er comido", cioè soli in un letto, e quasi nulla per un materasso sul quale nel corso della notte possono adagiarsi altre due persone. I meno fortunati s'accomodano a frotte sulla scalinata di Santa Maria Maggiore, in aperta campagna, buscandovi le febbri.
Che ne sarà di questa città arretrata e infida? Raggiunta infine la meta dei padri del Risorgimento, l'"arca del nostro patto", l'"ara del nostro dritto", gl'italiani s'accorgono di non saper bene che farne. Un uomo solo - un "alpinista solitario", come ama definirsi - sembra avere le idee chiare: Quintino Sella, industriale di Biella, intellettuale e uomo di governo fra i maggiori della Destra storica. La sua voce parla alto: "Non è soltanto per portarvi dei travet, che noi siamo venuti in Roma!". Roma è per Sella sinonimo di civiltà e di progresso; l'Italia ha emancipato la sua capitale dal dominio clericale per farne il centro della scienza. "La scienza per noi a Roma è un dovere supremo", proclama lo statista piemontese. "Fuori i lumi! Fari elettrici anzi devono essere, imperocchè abbiamo a che fare con gente che si chiude gli occhi e si tappa le orecchie, abbiamo a che fare con gente che vuol pigliare i giovani fin dall'infanzia, avviarli alle proprie scuole secondarie e poi vuol dare a costoro i più alti uffici che si possano affidare all'umanità".
Dunque è chiaro: occorre costruire ex novo "una Gran Roma italiana che faccia equilibrio a Roma papale". In termini urbanistici la direttiva selliana significa edificazione di nuovi quartieri sui colli, soprattutto Esquilino e Viminale (qui devono sorgere i grandi centri di ricerca scientifica), e nell'area intorno a via Venti Settembre, modernamente concepita come "asse attrezzato" lungo il quale si scaglioneranno i ministeri. Simbolo della nuova capitale è l'enorme palazzo del ministero delle Finanze, vero tempio della burocrazia, innalzato per volere di Sella a pochi passi da Porta Pia. A perenne monito contro le mire reazionarie del clero temporalista, Sella suggerisce di erigere nel cortile del palazzo un monumento al centurione romano, che piantando l'insegna esclami: "Hic manebimus optime!".
L'utopia selliana di Roma "cervello supremo della nazione", città della burocrazia e della scienza, non inquinata da una "soverchia agglomerazione di operai che considero pericolosa e sconveniente", è troppo astratta per resistere all' assalto dell'immigrazione di massa e della speculazione fondiaria. Il piano di Quintino Sella sarà travolto, proprio quando cominciava a realizzarsi, dall'espansione indiscriminata dell'edilizia privata, vera padrona di Roma. Ben prima che il Comune possa varare nel 1873 il primo piano regolatore, la febbre edilizia comincia a stravolgere il volto della città. La grande finanza internazionale, piemontese, toscana, si getta alla conquista dei terreni. Nascono nuovi imperi finanziari. La Compagnia Fondiaria Italiana diventa nel 1875 proprietaria di un terzo della superficie compresa entro le mura urbane, estendendo i suoi possedimenti intorno all' Esquilino e a Porta Pia. Qui sorgono i primi "casermoni", mastodonti di cinque-sei piani destinati agli impiegati ministeriali. La Italo-germanica si accaparra centomila metri quadrati al Castro Pretorio e ai Prati di Castello, dove ha grossi interessi anche la Banca di Credito romano. Non più di sei o sette gruppi capitalistici monopolizzano in breve il mercato dei suoli e degli immobili. Il Comune cerca di regolare la spinta all'urbanizzazione "selvaggia" col sistema delle convenzioni, che in teoria dovrebbe basarsi sul reciproco vantaggio: il municipio appalta terreni, concede incentivi, provvede a costruire strade, fogne, condutture di acqua e gas, e ne affida l'edificazione a imprese private, che costruiscono, secondo i loro tempi e le loro necessità, case a reddito continuo. Quanto al piano regolatore, vale poco più di un pezzo di carta. A che serve accennarvi uno schema di sviluppo urbano monodirezionale, indirizzato sui quartieri alti, quando la stessa giunta approva un ordine del giorno in cui il piano regolatore è ridotto a "piano di massima", mentre si avverte che "il Consiglio si riserva di discutere partitamente ogni tratto di lavoro allorquando verrà l'opportunità dell' esecuzione"? Mentre il Campidoglio "si riserva" o deve fare i conti con sedicenti architetti che, fiutata la possibilità di guadagno offerta dalle necessità di una nuova capitale, si lanciano in ardite proposte come quella di impiantare la Camera dei Deputati al Colosseo, coprendolo con una volta di cristallo, le imprese immobiliari spadroneggiano. Non è ancora entrato in vigore il piano regolatore, e già il Comune ha firmato sette convenzioni per quartieri localizzati al di là delle mura cittadine.
La partita decisiva tra gruppi privati e pubbliche istituzioni si gioca sulla riva destra del Tevere, attorno a un terreno melmoso invaso da ortaglie e vegetazione spontanea, incassato fra Monte Mario e la fortezza di Castel Sant' Angelo: i Prati di Castello. Un consorzio di finanzieri di Francoforte, Amsterdam, Vienna, Torino, Napoli e Roma vi ha subito individuato il cuore della futura città e ha acquistato a prezzi agricoli quell' area paludosa. Nel 1872 l'architetto Cipolla presenta su incarico del consorzio il progetto di un grande quartiere residenziale, solcato da un boulevard che dovrà collegare Piazza del Popolo a Piazza San Pietro, sventrando il Borgo. Due ponti collegheranno il nuovo quartiere al centro storico. Stato e Comune si incaricheranno di rafforzare gli argini del Tevere per impedire le inondazioni. Accogliere questo progetto significherebbe stravolgere l'idea dello sviluppo unidirezionale verso Est, sostenuta dai proprietari di quelle aree, da Sella e dalla maggior parte dei pubblici amministratori. La commissione tecnica del Comune si orienta perciò a riservare i Prati di Castello per "grandi piazze, fiere di bestiame, ippodromi, mercato di commestibili, locali di pubbliche esposizioni, stabilimenti di bagni e cose simili". Sulle pendici di Monte Mario si progetta addirittura un "Tivoli", un enorme Luna park servito da una funicolare.
La contesa fra "prataroli" e "monticiani" (i fautori dello sviluppo sui colli) è anche l'occasione di un'aspra disputa politico-ideologica. A favore di Prati si schierano i liberali radicali, i mazziniani, gli anticlericali intransigenti, Garibaldi in persona. Costoro vedono nel futuro quartiere borghese a ridosso di San Pietro una sfida laica contro il "papa prigioniero". Lì, a un passo dai sacri palazzi, l'Italia moderna costruirà un Palazzo di Giustizia, emblema della civiltà liberale, monito contro le velleità temporaliste del clero. Campione di questo partito è dal 1872 il sindaco Luigi Pianciani, democratico mazziniano, che non perde occasione per denunciare l'oppressione spirituale del "prete". Per contro la stampa clericale e l'opinione pubblica moderata considerano la riva destra del Tevere un "cuscinetto" fra Italia e Vaticano, fra la Roma tuttora devota al papa re e i "buzzurri" che si stanno installando nei quartieri alti. Lo scontro resta impregiudicato per lunghi anni. Il piano regolatore del 1873 esclude in via di principio l'edificazione dei Prati, salvo prevedere per essi un "piano speciale di ampliamento". Il progetto Cipolla è respinto dal Consiglio comunale perché "astratto e quasi speculativo", come con raffinata ambiguità s'esprime un membro della giunta. È chiaro che la riva destra del Tevere non potrà accogliere in eterno paludi malariche e piante selvatiche, ma la prassi pilatesca del Comune facilita l' urbanizzazione "spontanea" pilotata dai trust finanziari.
Non scegliendo il Comune, scelgono infine i privati, i quali non acquistarono certo 65 ettari di terreno edificabile per coltivarvi broccoli o cavoli. E allora, siccome in Prati non sarà possibile costruire nulla fintanto che non sarà possibile un collegamento diretto con la sponda sinistra, i proprietari delle aree perdono la pazienza: nel 1878 costituiscono una società-ombra e affidano alle officine Cottrau di Napoli la costruzione di un ponte di ferro a Ripetta. Prima, i romani che avessero voluto attraversare il Tevere a quell'altezza non disponevano che della celebre barca di Toto, mitico fiumarolo che deteneva il monopolio dei traghettamenti in quel tratto d'acqua. Da tempo immemorabile Toto trasportava al di là della corrente i pochi romani che s'avventuravano nella selva di Prati. Solo la domenica il traffico s'infittiva: borghesi e ministri, aristocratici e popolani s'imbarcavano su quel barcone a fondo piatto per guadagnare le osterie suburbane e gustare le "fittuccine al pomidoro", il pollo spezzato "alla padella" o l'abbacchio alla cacciatora. Il ponte di ferro spazza via Toto e, quel che è più grave, l'antico porto di Ripetta. La via ai Prati è aperta. In pochi anni sorge dal nulla un quartiere residenziale per decine di migliaia di abitanti. È la fine dell'espansione orientata solo verso Est. D'ora in avanti Roma crescerà sempre intorno al suo centro antico, a macchia d' olio.
la Repubblica, 18 novembre 1984


DANILO DOLCI E LEONARDO SCIASCIA MAI COL POTERE

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Queste foto riprendono il trentenne Danilo Dolci  in alcune fasi del processo per direttissima che subì nel 1956 per aver organizzato il suo primo "sciopero alla rovescia". Accanto a Danilo, Piero Calamandrei e Nino Sorgi, suoi avvocati di difesa nel corso del processo.




Danilo e Carlo Levi












       Devo a  Danilo Dolci e a Leonardo Sciascia quaasi tutto quello che so sulla Sicilia e sulla mafia.  Col primo ci ho anche lavorato per due anni, nella metà degli anni settanta, e ho avuto così modo di conoscerlo meglio. Lo scrittore di Racalmuto, invece, l'ho conosciuto solo attraverso i suoi libri che non mi stanco mai di leggere e rileggere. 
        I due non si sono mai amati, eppure sono stati tra i primi a parlare e a scrivere di mafia. Lo hanno fatto con stile e modi assai diversi, tra loro, eppure hanno finito per sostenere le stesse cose. Peraltro scrivevano nello stesso giornale, L'ORA, diretto da Vittorio Nisticò. E quest'ultimo, al riguardo, qualche anno fa ha detto tutto quello che c'era da dire.
       Oggi mi piace ricordarli insieme perchè, durante il corso della loro vita, si sono trovati sempre a scrivere contro il potere. 
        Danilo Dolci, specialmente nei suoi primi vent'anni d'impegno in Sicilia, ha creduto fermamente a quello che faceva. Danilo era un uomo di fede e credeva nella forza delle idee.
         Leonardo Sciascia, da buon siciliano, non è mai stato un uomo di fede. Ed ha sempre avuto un debole per tutte le forme di eresia. Una forma sottile di scetticismo lo ha accompagnato per tutta la vita e la sua opera ne porta più di un segno. Eppure, in fondo, anche lui credeva nelle idee. Si rammaricava, infatti, del fatto che i siciliani ci credessero poco, a tal punto da scrivere:

 
"Qui non si è mai creduto che le idee muovano il mondo. Ci sono naturalmente delle ragioni, ragioni di storia, di esperienze. Ma la ragione che ha impedito alla Sicilia di andare avanti è il credere che il mondo non potrà mai essere diverso da come è stato. [...] in noi siciliani, persiste una mancanza di speranza, una diffidenza verso le idee perché le idee, anche quelle che apparivano nuove, subito sono diventate strumento di una certa classe sociale che grosso modo possiamo qualificare come borghese-mafiosa, non borghese. Io mi augurerei che in Sicilia ci fosse una borghesia. E’ una borghesia mafiosa, quella siciliana, anche là dove non sembra. Una borghesia che opera senza una visione del domani, a sfruttare determinate situazioni così come un tempo si diceva delle zolfatare: a rapina. Lo sfruttamento a rapina delle zolfatare era quello degli esercenti che si preoccupavano di cavare quanto più materia era possibile, senza curarsi dell’avvenire della zolfatara stessa, né della sicurezza di chi vi lavorava, Ora questa classe sembra inamovibile. Successa alla aristocrazia, essa si è comportata, anche grossolanamente, come l’aristocrazia. Per questo i siciliani non credono più alle idee. E infatti, quando cominciano a crederci, ecco interviene qualcosa per cui non ci crederanno più. Per esempio l’operazione Milazzo – è un giudizio per cui io mi batto da sempre – è stato un modo per ricacciare i siciliani nella sfiducia verso le idee."

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LOTTE POPOLARI E MIGRAZIONI IN SICILIA

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OGGI ALL'ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO

MARIA SILVIA CAFFARI, Mani pesci pani

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ph. Maria Ribaudo

Sono mani
Sono pesci
Sono pani
Ai rami
Bocche
Agli ami
Code
Richiami
rondini
Penduli
Semi
Scoppiano
Restano
Involucri
Svolano
Figli
Primavera
Pèrdita
Restituzione.


Maria Silvia Caffari

MARLON BRANDO VISTO DA GOFFREDO FOFI

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I diari di Marlon Brando

Goffredo Fofi

Pacchi di registrazioni su cassetta ritrovate, un ologramma del volto di Marlon che sembra scaturire dal mondo di là e confessarsi ai viventi, e un mucchio di spezzoni di film accuratamente scelti, di scene di lavorazione, di documenti e interviste televisivi e cinematografici. La preoccupazione principale di Marlon Brando è stata certamente quella di cercarsi interrogarsi trovarsi, nella convinzione che fosse possibile andare al fondo della conoscenza e, in sostanza, guarire, trovare la pace nell’accordo tra la propria biografia e la propria psiche, trai fatti della società e quelli della coscienza
Il film Listen to me Marlon - rispettoso e intelligente - che Steven Riley e il suo gruppo di collaboratori hanno costruito a partire dalle confessioni di Brando, da questa mole di materiale, è il tentativo di mettere insieme i pezzi seguendo in sostanza le indicazioni dell’attore, di dare unità alla parte privata e a quella pubblica della vita di un uomo celebrato e chiacchierato, che per decenni è stato al centro dell’attenzione dei media e dell’interesse degli spettatori. Ma non si tratta soltanto di una curiosità prevedibile per uno dei rari miti duraturi dello show business e della mass culture statunitense, di conseguenza un mito quasi mondiale, quel che il film di Riley finisce per suggerire - e non importa se questo era nelle sue intenzioni - è molto di più, e questo di più è Brando stesso a indicarlo, nelle sue confessioni registrate, presumibilmente a futura memoria. L’attore vi cita non a caso Shakespeare e maledice biblicamente la sua sorte, dopo aver arricchito, dice, centinaia di psicanalisti e psichiatri (e, anche se non lo dice, guru d’altro genere) e si confronta con Dio, che ci sia o non ci sia fa lo stesso, per chiedersi cos’è l’uomo, e cosa sono il bene e il male e come si mescolano e rendono difficile il distinguerli. Cosa è lui, Marlon Brando, il figlio di una madre dolce e alcolizzata, di un padre macho e violento che è stato a sua volta figlio di un padre che non lo ha amato, il giovane provinciale che diventa newyorkese negli anni che succedono a una guerra che non ha fatto in tempo a fare e che si scopre attore, e che attore!, frequentando l’Actor's Studio da allievo, ci dice il film, più di Stella Adler, figura materna protettiva ma esigente, che non di Lee Strasberg o di quell’Elia Kazan che lo porterà al successo in teatro e in cinema affidandogli il ruolo dell’istintivo Stanley Kowalski nel Tram che si chiama Desiderio. Da parte del pubblico giovanile venne allora venerato appena un po’ meno di James Dean e un po’ più di Montgomery Clift, e alla pari con l’unica giovane attrice che poté eguagliare la loro fama, Marilyn Monroe, che cadde molto prima di lui, distrutta, si può ben dire, dalla nemesi del successo che distruggerà solo più lentamente la vita di Brando.
Una fama eccessiva impedisce una vita normale, è ben noto, anche e forse soprattutto se la si è cercata, voluta. Ecco dunque i trionfi di Marlon attore nuovo, che impone sullo schermo una fisicità di inedita forza e un modo di recitare complesso, intimo e però evidente in cui la presenza fisica si impone insieme all’introspezione più accanita. Diventa il segno di un’epoca e questo gli impedisce di essere solo un attore con una vita normale. I suoi grandi film sono in realtà rari (il Tram, Fronte del porto, Viva Zapata, Il selvaggio e dopo anni di sciocchezze e rare buone interpretazioni per Penn o Huston, Il padrino e Apocalypse Now ovvero “the horror”, di Coppola, e quell’Ultimo tango a Parigi in cui Bertolucci lo guidò a essere e fare se stesso, a svelarsi e scoprirsi impudicamente e dolorosamente e bensì trionfalmente, in un incontro-scontro attore-regista che sapeva per entrambi di ossessive pratiche psicanalitiche. (Tentò anche la regia, e il film era buono anche se non lasciò molta traccia e Riley non ne parla, così come non parla dell’interesse di Brando per avere nel cinema un erede in Johnny Depp, che, tradito dalla critica quando tentò a sua volta la regia, tradì il suo mentore ed è oggi una qualsiasi pallida maschera del conformismo hollywoodiano.)
Fu il successo il suo nemico, la sua difficoltà a potersene districare, e il suo amore, nonostante tutto, per quel che il successo gli portava, anzitutto il denaro. È accaduto tante altre volte e accadrà ancora e sempre, nel contesto capitalistico dell'american way of life e della società dello spettacolo, è la condanna degli "arrivati”, destinati così spesso a fini ingloriose e addirittura tragiche.
Quel che però ricaviamo da questo film, e più che dal film dalle confessioni di Brando a se stesso ma nell’ovvia speranza che qualcuno prima o dopo potesse ascoltarle, è che egli, nonostante gli ovvi processi di autogiustificazione, fu - almeno nei suoi ultimi anni e dopo tante tragedie famigliari e una vecchiaia ingloriosa, e la perpetrata, e se conscia o inconscia è secondario, autodistruzione della propria immagine fisica - una persona molto più intelligente di quanto non si potesse pensare. Per questo il film di Riley è un giusto complemento alla visione dei suoi film migliori, e la dimostrazione che Brando è stato la tragica vittima di una cultura dell’ego e della fama, a lungo consenziente e alla fine spietatamente cosciente del proprio fallimento e della difficoltà di trovare risposta alle domande, metafisiche come sociali, che non angosciano gli stupidi soltanto fin quando pensano di essere più forti della condizione comune e della comune, umana fragilità.

Da “Il Sole 24 ore – domenica”, 15 novembre 2015

J. L. BORGES, Cosmogonia

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Né tenebra né caos. La tenebra

richiede occhio che veda, come il suono

e il silenzio richiedono l'udito,

e lo specchio, la forma che lo popola.

Né spazio né tempo. E neppure

una divinità che premedita

il silenzio che anticipa la prima

notte del tempo, che sarà infinita.

Il gran fiume di Eràclito l'Oscuro

non ha intrapreso il corso irrevocabile

che dal passato va verso il futuro

e che va dall'oblio verso l'oblio.

Qualcosa gpatisce. Qualcosa implora.

E poi la storia universale. Ora.
Lo stesso testo in lingua originale:
 
Ni tiniebla ni caos. La tiniebla

requiere ojos que ven, como el sonido

y el silencio requieren el oído,

y el espejo, la forma que lo puebla.

Ni el espacio ni el tiempo. Ni siquiera

una divinidad que premedita

el silencio anterior a la primera

noche del tiempo, que será infinita.

El gran rio de Heráclito el Oscuro

su irrevocable curso no ha emprendido,

que del pasado fluye hacia el futuro,

que del olvido fluye hacia el olvido.

Algo que ya padece. Algo que implora.

Después la historia universal. Ahora.




Da Jorge Luis Borges, La rosa profonda, Adelphi, 2013

STEFANO VILARDO PIU' INDIGNATO CHE MAI

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      Una delle epigrafi con cui si apre l'ultimo libro di Stefano Vilardo riprende un pensiero di Leonardo Sciascia, compagno di banco e amico per tutta la vita del maestro di Delia:

"Il racconto è un pretesto per dire certe cose, la trama non ha grande importanza, importante è il dialogo, [...], i pensieri, il senso della storia."

      E, infatti, in tutto il suo racconto Vilardo non fa altro che sfottere gli "impudenti culi di granito, dei voltagabbana d'ogni tempo, opportunisti della peggiore specie"di cui è ricca la storia della Sicilia e dell'Italia intera.
       L'autore dell'indimenticabile capolavoro Tutti dicono Germania, Germania (1975) - più attuale che mai! -, pur non avendo smarrito per nulla la lucidità dell' analisi accompagnata sempre dalla sua intatta capacità d'indignarsi, oggi si mostra deluso dalla piega che ha preso il mondo. Non a caso, ad un certo punto, scrive:

"Sconcertato sono. Amaramente deluso, che per davvero avevo creduto che saremmo riusciti a cangiare il male che rode questa terra con l'influsso salvifico della scuola, della scrittura"(S. Vilardo, Garibaldi e il cavaliere, Catania 2017, pag. 39)

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GOLIARDA SAPIENZA, Notte siciliana

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NOTTE SICILIANA



La luna mente
La lingua fra le labbra
Sanguina
Sul silenzio convulso degli uccelli
Dietro c’è un sole




[NON SAPEVO CHE IL BUIO NON È NERO]



Non sapevo che il buio
non è nero
che il giorno
non è bianco
che la luce
acceca
e il fermarsi è correre
ancora di più



Goliarda Sapienza, Ancestrale, La Vita Felice, collana Labirinti, 2013, pagine 126 e 45. Prefazione e cura di Angelo Pellegrino. Postfazione di Anna Toscano. 

IN MEMORIA DI E. A. EVTUSENKO

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Evgenij Aleksandrovič Evtušenko (1932-2017)


Sono Gagarin, il figlio della terra
Io sono Gagarin.
Per primo ho volato,
e voi volaste dopo di me.
Sono stato donato
per sempre al cielo, dalla terra,
come il figlio dell’umanità.
In quell ‘aprile
i volti delle stelle, che gelavano senza carezze,
coperte di muschio e di ruggine,
si riscaldarono
per le lentiggini rossigne di Smolensk
salite al cielo.
Ma le lentiggini sono tramontate.
Quanto mi è terribile
non restare che un bronzo, che un’ombra,
non poter carezzare né l’erba, né un bambino,
né far scricchiolare il cancelletto d’un giardino.
Da sotto la nera cicatrice del timbro postale
vi sorrido io
con il sorriso ch’è volato via.
Ma osservate bene cartoline e francobolli
e capirete subito:
per l’eternità
io sono in volo.
Mi applaudivano le mani dell’intera umanità.
La gloria tentava di sedurmi,
ma no, non c’è riuscita.
Sulla terra mi sono schiantato,
quella che per primo ho visto tanto piccola,
e la terra non me l’ha perdonata.
Ma io perdono la terra,
sono figlio suo, in spirito e carne,
e per i secoli prometto
di continuare il mio volo
al di sopra al di sopra dei bombardamenti,
delle tele-radiomenzogne,
che la stringono con le loro volute,
al di sopra delle donnaccole che baldanzosamente
ballano lo streep-tease
per i soldati nel Viet Nam,
al di sopra della tonsura
del frate
che vorrebbe volare, ma è imbarazzato dalla sottana,
al di sopra della censura
che nella sua tonacaccia, inghiottì in Spagna le ali dei poeti…
C’è chi
è in volo
nel simun vorticoso di stelle.
C’è chi
si dibatte
nella palude da se stesso voluta.
Uomini, o uomini
ingenui spacconi,
pensate: non vi fa paura
alzarvi dal Capo che porta il nome dell’uomo che avete ucciso?
Vergognatevi di questo baccano da mercato!
Voi siete gelosi,
rapaci,
vendicativi.
Come potete cadere tanto in basso se volate tanto in alto?!
Io sono Gagarin, figlio della Terra,
figlio dell’umanità:
sono russo, greco e bulgaro,
australiano e finlandese.
Vi incarno tutti
col mio slancio verso i cieli.
Il mio nome è casuale,
ma io non sono stato per caso.
Mentre la terra s’insozzava
di vanità e di peccato,
il mio nome cambiava,
ma l’anima no.
Mi chiamavano Icaro.
Giacqui nella polvere, nella cenere.
Mi aveva spinto verso il sole
il buio della terra.
La cera si sciolse, spargendosi qua e la’.
Caddi senza salvezza,
ma un pizzico di sole
rimase stretto nella mia mano.
Mi chiamarono servo.
La rabbia mi pesava sulla schiena
mentre, ritmando il tempo con le mani e coi piedi,
danzavano sul mio corpo.
Io caddi sotto le bastonate,
ma, maledicendo la servitù,
mi costruii delle ali coi bastoni
dei miei torturatori!
Ad Odessa fui Utockin.
Fece uno scarto il duca,
quando al di sopra dei suoi pantaloncini a piffero
si levò un cavallo volante.
Sotto il nome di Nesterov
girando sopra la terra,
feci innamorare la luna
col mio giro della morte.
La morte fischiava sulle ali.
E’ una virtù disprezzarla
e con Gastello imberbe
mi gettai in volo sul nemico.
E le ali temerarie
ardendo come un rogo, hanno protetto,
voi che foste allora ragazzi,
Aldrin, Collins, Armstrong.
E, sicuro della speranza
che gli uomini sono un’unica famiglia,
dell’equipaggio di Apollo
invisibile io ero.
Mangiammo dai tubetti,
avremmo brindato in viaggio
come sull’Elba,
ci abbracciammo sulla Galassia.
Il lavoro procedeva senza scherzi.
Era in gioco la vita
e con lo stivale di Armstrong
io scesi sulla Luna.

NICOLA GRATO, Prima di tutto l'acqua

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prima di tutto l'acqua
che deve essere buona
deve sapere di stelle
e roccia arenaria;
poi il pane come un sole
il vino che lasci in bocca
l'aria frizzante d'ottobre
e i fichi secchi e la ricotta
che sale nel tino come
nuvola da dietro un monte.
Questo conta in paese-
il di più è del demonio,
moneta di falso conio.
Nicola Grato


SANDRO PENNA, Porto con me la dolce pena

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Porto con me la dolce pena. Erro
entro terre più belle dell’amore.
E mi affaccio sul mare che si batte
contro scogli per ridere con sé.
Solitario un fanciullo scorgo assorto
in qualcosa di oscuro ch’io non oso
indovinare … Poi, scoperto, un guizzo
e un salto lo riportan gaiamente
a nasconder nel mare il suo peccato.


Sandro Penna

MARIELLA TRAMONTANO, E' ancora tempo di errori

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ph. Nicola Di Maria



È ancora tempo di errori
di confusioni
di inciampi
Puntuale e deciso
solo
m' appare
il lilla dei glicini in fiore.


Mariella Tramontano

C. GIUNTA RILEGGE LEONARDO SCIASCIA

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      Mi piace riprendere questo bel pezzo di Claudio Giunta che rilegge con intelligenza la ristampa di un libro di Leonardo Sciascia. Concordo su tutto meno che su un punto: neppure Pasolini era armato di "ideologia"! Pasolini è stato un "empirista eretico" prima ancora di Sciascia. fv

Perché è ancora importante leggere Leonardo Sciascia

di Claudio Giunta



Adelphi sta ripubblicando le opere complete di Leonardo Sciascia, ma a fianco dei tre volumoni previsti (due già usciti) sta anche facendo uscire dei volumi più sottili: la bella raccolta di scritti letterari Fine del carabiniere a cavallo, all’inizio dell’anno scorso; e adesso l’ultimo libro uscito vivente Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro). Curatore di tutti questi libri è Paolo Squillacioti, che è uno dei migliori filologi romanzi della sua generazione e si vede: nel senso che le sue annotazioni ai testi sono esemplari, e utilissime quando si tratta di saggi letterari, indispensabili addirittura quando si tratta degli articoli raccolti in A futura memoria, che fanno riferimento a cose e persone che molti possono aver dimenticato.
Questi trentuno articoli, usciti tra il 1979 e il 1988, riguardano soprattutto la mafia e il caso Tortora (ma Sciascia fa in tempo a reagire all’arresto di Sofri, nell’estate del 1988, e – in una nota sull’Espresso – a dirsi convinto della sua innocenza; e c’è nel libro anche un lungo articolo su Roberto Calvi: suicida, secondo Sciascia, non morto ammazzato). Tra gli articoli sulla mafia, sono noti quelli in polemica con Nando Dalla Chiesa, che non aveva gradito il fatto che Sciascia avesse criticato il modo in cui suo padre aveva vissuto a Palermo, “senza protezione e precauzione” (Dalla Chiesa, secondo Sciascia, “aveva di sé e dell’avversario immagini letterarie e comunque ‘arretrate’”); e sono celebri quelli sui “professionisti dell’antimafia”, con séguito di polemica con il Coordinamento antimafia e con i giornalisti Eugenio Scalfari e Giampaolo Pansa.
Ma non si legge o rilegge A futura memoria per ricordarsi che cosa è successo, in Italia, negli anni ottanta: la prospettiva di Sciascia è troppo parziale, e a chi non conosce o ricorda gli eventi per averli vissuti va consigliato, prima, un buon libro sulla storia italiana del secondo novecento. Né lo si legge per decidere, a distanza di trent’anni se e quando Sciascia aveva ragione, anche se è chiaro che aveva spesso ragione (certamente sulla persecuzione di Tortora; non meno certamente, ma è un’opinione personale, sull’antimafia e sul ruolo e la condotta della magistratura: “Spesso mi assale il sospetto che la macchina della giustizia si muova a vuoto o, peggio, arrotando chi, per distrazione propria o per spinta altrui, si trova a sfiorarla”). Perché allora?

Armature ideologiche
Per quelli che hanno letto tanti libri senza essere davvero esperti di niente, i saggi di Sciascia rappresentano una specie di risarcimento: la promessa, o la prova, che un’intelligenza e una cultura superiore possono avere una visione delle cose più profonda e più vera di quella consentita dallo specialismo. Naturalmente, Sciascia non è stato l’unico intellettuale del secondo novecento a parlare delle cose del mondo guardandole dall’alto, dalla specola della letteratura e della filosofia; ma a differenza di Pasolini e di Fortini, Sciascia non aveva, a proteggerlo, l’armatura di un’ideologia.
Ciò significa che nessuna idea preconcetta condizionava i suoi movimenti dando un corso obbligato alle sue idee: il che si apprezza particolarmente in tempi anideologici come dovrebbero essere questi. Sciascia non legge la realtà attraverso il filtro di Marx o di Adorno: adopera Manzoni, Pirandello, Brancati, Savinio, Stendhal, e li adopera non per riprodurre la loro visione del mondo ma per assorbire qualcosa della loro saggezza. Non crede che Manzoni abbia ragione quando parla della Provvidenza, crede che ce l’abbia quando riconosce in don Abbondio un emblema del trasformismo e della viltà italiana.
C’è un libro di Lionel Trilling che s’intitola The moral obligation to be intelligent: ogni pagina di Sciascia sembra scritta per adempiere questo mandato, quest’esercizio di moralità e intelligenza che si applica non ad altro che ai fatti prescindendo da ogni ideologico “impegno”.
Quanto al contenuto dei saggi di Sciascia, mi pare che la loro attualità e il gusto della rilettura stiano soprattutto in questo: che mentre parla di mafia, terrorismo, giustizia, politica, Sciascia parla sempre anche degli uomini in generale, e degli italiani in particolare, e che i suoi giudizi fanno sempre riflettere non necessariamente perché sono veri, ma perché sono interessanti e soprattutto – in un coro di virtuosi del non detto e della litote – perché sono chiari. A metà di un articolo sull’antimafia si legge per esempio:
I cortei, le tavole rotonde, i dibattiti sulla mafia, in un paese in cui retorica e falsificazione stanno dietro ogni angolo, servono a dare l’illusione e l’acquietamento di far qualcosa; e specialmente quando nulla di concreto si fa. I ragazzi bisogna lasciarli a scuola, che bene o male ancora serve. Se qualcosa di serio si vuol fare, perché non dar loro quella trentina di illuminanti pagine sulla mafia che si trovano nel libro I ribelli di Hobsbawm? Se ne può fare un opuscolo da distribuire largamente, e impegnando gli insegnanti a spiegarlo nel contesto della storia siciliana e nazionale. Costerebbe meno di quanto costano, in denaro pubblico, certe manifestazioni ‘culturali’ contro la mafia. E qui tocchiamo un altro punto, di un discorso che si deve pur fare sullo sperpero enorme del denaro pubblico per manifestazioni ‘culturali’. Ma tornando al sindaco di Palermo…
Qui l’associazione d’idee porta a toccare almeno tre punti che stavano a cuore a Sciascia come devono stare a cuore a qualsiasi italiano che viva con gli occhi aperti anche oggi, a più di trent’anni di distanza. Primo punto (e matrice del secondo e del terzo), la retorica che in Italia sta “dietro ogni angolo” e dà “l’illusione e l’acquietamento di far qualcosa”. Antiretorici come Sciascia sono stati forse solo due scrittori che Sciascia adorava, cioè Savinio e Brancati: ma forse più ancora di loro Sciascia teme l’unanimità, l’imbrancamento, l’irriflessa devozione a una causa, e il compiacimento dei devoti.
Secondo punto, la scuola, e che cosa fare con la scuola. La risposta di Sciascia suonerebbe di puro buon senso se il buon senso allora come oggi non fosse umiliato dalle mille “azioni parallele” che la scuola impone tanto a chi ci lavora quanto a chi ci studia: “I ragazzi bisogna lasciarli a scuola, che bene o male ancora serve”. E a scuola, se possibile, bisogna lasciarceli perché studino le materie curricolari, non la stramba civilisation della marcia della pace o dello sciopero per il femminicidio; né perché si apparecchino all’alternanza scuola-lavoro.
Terzo punto: lo “sperpero enorme del denaro pubblico per manifestazioni ‘culturali’”, cioè il problema della manutenzione della cultura. In una battuta d’intervista che si legge in La palma va a nord, la raccolta dei suoi scritti giornalistici di fine anni settanta, Sciascia è ancora più esplicito: “Quelle manifestazioni [culturali] che si poggiano generalmente sul denaro pubblico sono sbagliate e inutili”. Scandalo e bestemmia, nell’Italia delle mille mostre e dei mille assessorati alla cultura; ma come non vedere, oggi come e più di ieri, mentre scuole e università restano sottofinanziate, quali inutili o dannose idiozie si contrabbandano, a caro prezzo per la fiscalità generale e a esclusivo vantaggio dei troppi laureati in lettere, sotto il nome di “cultura”? (Avrebbe meritato, meriterebbe più lettori un libro tedesco tradotto qualche anno fa che argomenta questo punto di vista: Kulturinfarkt).

La domanda
Resta la domanda scolastica intorno all’attualità di Sciascia, a quasi trent’anni dalla morte. Resta, nonostante egli sia oggi forse il più trasversale, il più universalmente stimato degli intellettuali italiani del secondo novecento, mentre dagli anni settanta in poi era stato uno dei più discussi e maltrattati: come se, svanite le occasioni della polemica (il terrorismo, la morte di Moro, la lotta alla mafia, la malagiustizia del caso Tortora e di tanti altri casi), di lui si potessero apprezzare ora senza più scorie l’intelligenza, il senso morale, la libertà intellettuale.
Resta, questa domanda, perché si ha a volte l’impressione che alcuni estimatori di Sciascia – il lettore di Diderot che si definiva però “un conservatore”, e “il contrario di un illuminista” – abbiano del suo pensiero una conoscenza molto approssimativa, o peggio diluiscano quel pensiero in un vago moralismo. Ma come ho detto accennando al suo scrivere chiaro, Sciascia non aveva tra i suoi difetti la vaghezza, la fungibilità delle opinioni.
E in A futura memoria come altrove ha detto cose molto precise per esempio contro l’indistinzione tra il potere giudiziario e il potere politico, contro gli abusi della magistratura, contro le eccezioni alla norma fissata dalla legge, contro la volontà generale e il suo aedo Rousseau (l’uomo, scrive Sciascia, “che è all’origine di tutte le disgrazie di oggi”): sentimenti e idee che definiscono, per come lo si può definire, il profilo di un liberale. Se non lo si è, se non si condivide almeno questo minimo programma, non si capisce bene come ci si possa dichiarare suoi ammiratori, men che meno suoi eredi.
Claudio Giunta 

 Articolo ripreso da:

http://www.internazionale.it/opinione/claudio-giunta/2017/04/02/leonardo-sciascia



QUANDO E. EVTUSENKO VENNE A MARINEO

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Ecco la pagina del periodico CITTA' NUOVE in cui parlo del poeta E. Evtusenko





    Anche se non ho mai amato i "premi letterari", c'ero anch'io in p.zza Castello a Marineo, in quel settembre del 1995, ad ascoltare  Eugenij Evtusenko. E non mi sono limitato ad ascoltarlo. La stessa sera, ancora emozionato dalle parole del poeta russo e da quelle del giovane Cirus Rinaldi, scrissi un articolo per il periodico CITTA' NUOVE che trovate riprodotto sopra.
      Stasera ho appreso che Evtusenko sarà sepolto nel suo paese d'origine accanto a B. Pasternak. E, per il momento, non voglio aggiungere altro ma soltanto ripetere le sue stesse parole: < Io non amo che si beffino le speranze, anche se infrante >. fv

LA SICILIA DI SERAFINO AMABILE GUASTELLA

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Da un classico della letteratura etnografica, Le parità e le storie morali dei nostri villani (1883) di Serafino Amabile Guastella(Chiaramonte Gulfi, 1819 - 1899), che raccoglie e organizza apologhi e leggende dei contadini del circondario di Modica (Ragusa), riprendo questa paginetta sul potere maschile. Su di essa si potrebbero fare tante considerazioni relative alla distanza che ci separa da quel tempo e da quel mondo o al fatto che l'apologo che si racconta più che rappresentare una realtà di fatto ipostatizza una maschilistica velleità. E tuttavia a sentire certe cronache ho l'impressione che qualcosa della società patriarcale e di quei deliri d'onnipotenza continui a vivere nel mondo d'oggi. (S.L.L.)

La Ragione del villano

 Serafino Amabile Guastella

Il marito è il despota, il padrone assoluto, il pascià della famiglia, ed è siffattamente puntiglioso dell’autorità sua, che ad ogni sospetto si adombra. Alla moglie dà del tu, e vuol esser ricambiato col voi; e guai se in un impeto di tenerezza essa volesse deporre quel voi. In quel caso le guanciate non si farebber mica aspettare. Guai alla casa dove canta la gallina, dice egli con alterigia. Quando la moglie non è pronta a ubbidire, o ha dimenticato il comando, vien da lui rimbrottata con sozze e stomachevoli ingiurie; ma quando la misera si ricorda che anche essa è di carne, e strilla e rimbecca l’ingiuria, il villano scioglie la cinghia dell’asino, e mena colpi rabbiosi.
Un giorno domandai ad un villano (Mariano, inteso lu Marchisi, villano di Chiaramente, nota dell'Autore): Dimmi un po’, perché bastoni la moglie? Né Dio, né le leggi ti danno un diritto sì iniquo. E il villano, guardandomi in atto di meraviglia, come se mirasse un fenomeno, ricorse alla storia per cavarmi quel pregiudizio dal capo.
Quando Domineddio creò Adamo lo fece Re di tutte lo cose create, e, menandolo attorno pel paradiso terrestre, gli mostrò ad uno ad uno tutti gli animali utili e tutti i nocivi, ammaestrandolo a fuggir questi e a servirsi di quelli. Questo è il bove, e servirà ad arare la terra; questo è l’asino, e ti porterà sopra il dorso; questa è la pecora e ti darà il latte e la lana; questo è il cane, e ti guarderà la casa dai ladri; questo è il gatto, e te la terrà netta dai topi; questo è il gallo, e t’indicherà i cambiamenti del tempo. In quel punto Adamo vide venire Eva, uscita allora allora dalla mano di Dio, e veniva tutta smorfiosa e tutta adorna di fiori.
- E questa, o Signore Iddio, a che cosa potrà servirmi?
- Questa? Questa te l’ho creata per partorirti i figliuoli, ed essere la tua compagna; ma non ti esca di mente che il padrone sei tu, ed essa è la tua serva in tutto e per tutto.
- E, ditemi un po’, soggiunse Adamo, se non volesse obbedirmi con qual mezzo potrei costringerla?
Il Signore gli additò un grosso virgulto di quercia, e gli disse:
- Sai tu come si chiama cotesto?
- Si chiama una verga, rispose Adamo.
- T’inganni, replicò il Signore. Quando la scaricherai sulla moglie per raddrizzarla cambierà di nome, e sarà chiamata Ragione.

È con tal nome che il villano denomina la verga con la quale percuote la moglie.

da Le parità e le storie morali dei nostri villani, Biblioteca Universale Rizzoli, 1976

ripreso da:
  http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2017/04/la-ragione-del-villano-serafino-amabile.html
 

SPERIMENTARE FORME NUOVE DI FARE POESIA

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Cologno Monzese: La poesia cammina per le strade, 8 aprile 2017

La “piccola maratona dei racconti di poesia”: la poesia incontra l’oralità, la lettura incontra il teatro di narrazione

Spiegano gli amici della Biblioteca di Cologno:

Con la biblioteca di Cologno Monzese, e le biblioteche sorelle delle città di Guadalajara (Spagna), Grenoble (Francia) e Fundao (Portogallo), e grazie a un progetto europeo, la poesia torna protagonista di una serata che si svolgerà al Cineteatro “Peppino Impastato” di Cologno l’8 aprile 2017 dalle ore 20.30 in poi.
Non è un reading, non è teatro, non è improvvisazione poetica: è un misto di tutte queste cose e anche qualcosa in più. Riprendendo l’originale formula della “maratona”, coniata dalla biblioteca di Cologno nel 2005, si cercherà di far incontrare la poesia con l’oralità, la lettura con il teatro di narrazione.
Aprirà la serata il coro peripoetico che metterà in scena un dialogo a più voci tra un anelante poeta, un “passeggiatore di cani” e Federico (Federico chi? Per ora non possiamo dirvi di più…). Poi sul palco si alterneranno i lettori che racconteranno l’esperienza di leggere poesia, i giovani vincitori degli slam delle scuole superiori, i poeti performativi ed elettronici, i musicisti di PianoChePiove.
Verranno letti i “centoni” e le “poesie dorsali” create dai giocolieri che frequentano la biblioteca nonché le “poesie stese” dai ragazzi che, con la patafisica Carmen, gli insegnanti e le bibliotecarie, il 21 marzo a Cologno hanno portato la poesia a spasso per le strade.
Ma il piatto forte della serata sarà la performance degli “otto di Sigüenza”. Non si tratta di una variante raddoppiata della “banda dei quattro”, ma di otto artisti (due per ogni paese partecipante) che il progetto europeo ha chiuso “in convento” per dieci giorni a lavorare ed elaborare, in quattro lingue e con tante passioni in comune. Lo spettacolo che ne è uscito e che presenteremo durante la maratona “è un grido di libertà che si inchioda nello spettatore”, hanno detto le recensioni della prima tenuta in Spagna il 17 marzo. “Non importa sapere il latino per capirlo: rimiamo tutti nella stessa direzione, abbattendo i muri e costruendo ponti”.

Il programma completo

Strade che si incontrano
C’era una volta una piccola “maratona di racconti di lettura”. Nata nel 2006 e proseguita a fasi alterne fino al 2014, era ed è figlia di un progetto europeo, e della collaborazione a libri aperti tra la biblioteca e il Seminario de Literatura Infantil y Juvenil di Guadalajara (ES), la biblioteca di Cologno M.se (IT), il Centre des Art du Recit di Grenoble (FR) e Museu de Arquelogia con la biblioteca di Fundao (PT).
L’iniziativa sorgeva dalla folle idea di portare la lettura su un palcoscenico, restituendone, con un racconto interpretativo, le corde più segrete, l’impatto sulla storia e sulla vita di ogni lettore. Facendo così incontrare la lettura e il teatro di narrazione, l’oralità e la scrittura.
La nostra maratona non è mai diventata grande (saremmo tentati di dire: per fortuna), ma è cresciuta per le strade dove la cultura è di strada e le storie passano di bocca in bocca, come i libri di mano in mano. Così quando c’è stata l’occasione di affrontare il tema della poesia, con un nuovo progetto europeo e con i partner di sempre, non ce la siamo fatta sfuggire.
Che cosa meglio della poesia si nutre e si pasce di questo impasto di oralità e scrittura, di arte e di tecnica, di emozione e pensiero, di solitudine e di condivisione, di quotidianità e di eccezionalità?
Senza nessuna pretesa di definirla, nella serata dell’8 aprile accoglieremo la poesia in tutte le sue più aperte e spericolate varianti, ci lasceremo trasportare “come un pezzo di ghiaccio su una piastra rovente” (Robert Frost).

Convivenza culturale
La poesia cammina per le strade è un’idea di poesia e di convivenza culturale. Una scelta di campo a favore della creatività, della mescolanza dei generi, degli stili, dei linguaggi. Contro il purismo e per la contaminazione. Un cantautore non è un poeta? Un writer non è un pittore? Un performer non è un (fine) dicitore? Può darsi, ma la città è ormai una distesa scritta, dipinta e parlata che chiede e merita libertà di espressione, confronto e contraddittorio. La qualità taglia trasversalmente i messaggi. E il messaggio è divenuto esso stesso il medium, quale che sia la forma e il supporto che lo riveste.
Tempo fa una scritta è apparsa sui muri della Bicocca: la poesia è trovar una parola, là dove il silenzio metterebbe un punto.
Appunto.

Documento ripreso da:  https://gruppodilettura.wordpress.com/2017/04/04/cologno-monzese-la-poesia-cammina-per-le-strade-8-aprile-2017/

ROSARIO GIUE' CONTRO OGNI PAURA

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Rosario Giuè accanto al vescovo Lorefice

      Rosario Giuèoggi, nelle pagine palermitane de La Repubblica, ha pubblicato un bel pezzo che ripropongo con piacere di seguito: 

CHI HA PAURA DELLA CHIESA VOLUTA DA FRANCESCO 

“A chi fa paura la svolta di papa Francesco? In verità molti uomini e donne nelle comunità ecclesiali a Palermo e in Sicilia stanno sostenendo dal basso e con entusiasmo il suo tentativo di riforma. Un tentativo ritenuto, dentro e fuori la Chiesa, ormai quasi insperato. Il fatto che Francesco abbia messo al centro dell’essere Chiesa il Vangelo della Misericordia per tanti è una grazia, la chiave per risvegliare una nuova credibilità ecclesiale. Per decenni abbiamo visto mettere al centro i “valori non negoziabili” e ci si è presentati al mondo come “Chiesa del NO”, legati a pesi ormai disumani o ingiustificabili. Ma non ci si accorgeva che così non si era più capaci di “lavare i piedi” (Giovanni 13) agli uomini e alle donne di questo tempo post-cattolico?
La svolta di papa Francesco per alcuni, perciò, è stata spiazzante ma non hanno chiuso la porta. Anche il cardinale di Milano Angelo Scola, che certo non passa per riformista, ha affermato che il Papa sta dando un «pugno nello stomaco» alla Chiesa per scuoterla dal si è fatto sempre così. Altri stanno ad aspettare per vedere come vanno a finire le cose. Pensano: se dopo papa Francesco tutto ritorna come prima a che vale impegnarsi nella riforma?
….E se in Vaticano c’è chi (anche quattro cardinali) solleva dubbi e chi tenta di frenare l’azione di Francesco, è nell’ordine delle cose che anche a Palermo vi sia chi interpreti il ministero del Papa (e di chi qui lo rappresenta) come una fastidiosa parentesi e spera che finisca al più presto! Non manca una limitata frangia reazionaria dell’area cattolica e della destra politica che addirittura biasima Francesco e vede nel suo linguaggio centrato sulla Misericordia odore di eresia! Ci si professa obbedienti e paladini dei romani pontefici, ma di quelli del passato e che piacciono. Infatti costoro non difendono la “Tradizione” della Chiesa universale dal tempo degli Apostoli fino ad oggi. No, la si fa coincidere con le recenti scelte di altri pontefici a loro graditi. Per esempio, nel caso della pastorale familiare, si fa coincidere la “vera dottrina” con l’enciclica Familiaris consortio di Giovanni Paolo II del 1981. Perciò il linguaggio del discernimento spirituale e pastorale del caso per caso indicato dal Sinodo dei vescovi e ripreso da Francesco nel documento Amoris laetitia appare sconcertante e da rifiutare. Per questo parlano, addirittura, di Chiesa che si prostituisce. Ma, in verità, la Chiesa non ha venduto davvero la propria libertà quando ha intessuto alleanze politiche scandalose per un piatto di lenticchie?
Lo sappiamo: discernere è difficile, usare il linguaggio della condanna è più facile! Giovanni XXII convocò il Concilio Vaticano II affinché la Chiesa si aggiornasse e non già per condannare. I problemi oggi non vengono dal Concilio Vaticano II o dal fatto è stato attuato male; vengono, semmai, dal fatto che è stato sviluppato e attuato poco! Ma vorrei, con tenerezza e rispetto, domandare: vi rendete conto che una Chiesa pietrificata diventerebbe una setta oramai muta, incapace di comunicare il Vangelo ai giovani e alle donne in un mondo post-moderno? Vi rendete conto che se non si traduce il Vangelo, come si è fatto nei secoli passati (non è una novità!), la Chiesa rischia di diventare, ancor di più, un’organizzazione potente ma insignificante, senza umanità? L’ evoluzione teologica e pastorale, lo si voglia o no, è un dato della storia ed è necessario, anzi urgente, anche oggi
La verità è che il cambiamento, la «conversione pastorale» che papa Francesco pazientemente vuole far vivere alla Chiesa dal basso, è qualcosa di scomodo per tutti noi. Perché mette in questioni abitudini, poteri, privilegi e clericalismi. La questione reale è che, dietro l’apparente difesa della “vera Chiesa”, ciò che in profondità dà più fastidio e fa paura è l’aprire le porte ad una società più inclusiva, più giusta e pluralista. Chi è consapevole anche a Palermo che l’essere «Chiesa in uscita», a partire dalla Misericordia, sia la sola via possibile per essere credibili sa bene che sostenere lo sforzo di papa Francesco è un compito, è un’opportunità.” 


 Rosario Giuè su Repubblica/Palermo, mercoledì 5 aprile 2017.

ANCHE TOLSTOJ SI CHIEDEVA CHE FARE

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Quando Tolstoj si chiedeva che fare

di

Nel Vangelo secondo Luca, alla interrogazione delle folle che gli chiedevano «che cosa dobbiamo fare?», Gesù rispondeva: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto». È questa la citazione in esergo che apre Che fare, dunque?, libro di Lev Tolstoj scritto tra il 1882 e il 1886,  e ora edito in Italia da Fazi con la nuova traduzione di Flavia Sigona.
L’autore, che aveva già pubblicato i capolavori Guerra e pace e Anna Karenina, si interroga, trasferitosi a Mosca e a contatto con una nuova e più pesante povertà, quella urbana, su cosa fare per i disperati moscoviti che incontra in ogni strada, con il desiderio, che si farà illusione, di modificare quella condizione disperata in cui si trovavano moltissimi suoi connazionali. Tolstoj girava per la città e, inutilmente, elargiva elemosine ai bisognosi: «Durante la fallimentare esperienza di aiuto ai poveri vedevo me stesso come uno che voglia tirar fuori qualcun altro da una palude… mi mancavano le idee sulla causa di tutto ciò».
Questo libro è il frutto di una personale indagine sul proprio fallimento e sui mezzi che mancano per comprendere tale situazione: «Di poveri a Mosca ce n’è di tutti i tipi: alcuni si adagiano sulla propria miseria, altri lo sono diventati una volta arrivati in città, dove sono finiti in ristrettezze: tra di loro spesso ci sono dei semplici contadini che magari, in seguito a una malattia e alla successiva dimissione dall’ospedale si sono ritrovati senza mezzi di sostentamento, né la possibilità di tornare al villaggio. Altri hanno anche problemi con l’alcol; altri ancora sono vecchi, altri sono povere madri con figli»; una riflessione molto dura contro lo scandalo della povertà, che indaga le responsabilità della politica e dei ricchi e che si fa poi grido universale contro la fame e l’impossibilità di vivere in maniera decorosa in tutti i continenti.
Il penetrante quesito del titolo, che Tolstoj rivolge tanto a se stesso quanto ai suoi lettori, nasce dalla consapevolezza di una disuguaglianza vergognosa che porterà lo scrittore ad una commozione che gli farà decidere di immergersi tra le frange più povere della popolazione, lui che di nascita apparteneva a tutt’altra classe sociale, tra i disgraziati dei dormitori pubblici, tra le prostitute e i funzionari statali ormai senza lavoro. Ma Tolstoj capirà presto che il semplice assistenzialismo non è la strada giusta da seguire; lo capisce chiaramente durante una visita in una delle zone più povere della città di Mosca, dove resta colpito profondamente da un fatto in sé non decisivo, cioè due giovani che giocano per le scale, ma per lui illuminante. In quel frangente comprende che «non bastava sfamare e rivestire migliaia di individui, come si trattasse di caproni da sistemare per la notte; quelle persone che soffrivano il freddo e la fame avevano anche loro una vita, esattamente come tutti gli altri; anche loro si arrabbiavano, si annoiavano, si innamoravano, si intristivano e si divertivano».
Si tratta di pensieri e analisi che ancora oggi fanno sentire la loro potente attualità, in una contemporaneità, quale la nostra, che è caratterizzata da simili ingiustizie, dolori e innumerevoli povertà. L’interrogativo di Tolstoj, crudo e necessario, è un grido che si fa necessario nei momenti più complessi e che sorge in chi non accetta l’ordine regolare delle cose.
Il libro rispecchia questo andamento del pensiero di Tolstoj e può essere diviso in due parti: la prima di carattere più narrativo, la seconda invece di carattere più filosofico e speculativo. Nella prima parte si respira in ogni pagina la grandezza di Tolstoj come narratore, che riesce a tratteggiare con estrema precisione gli incontri, le vie e la città di Mosca. Il tono è quello di un’inchiesta vera e propria, dove il narratore si immerge nell’abisso e nella miseria dei poveri. A fare da contraltare alla rappresentazione della miseria, sta la descrizione del mondo dei ricchi, anch’essi ovviamente presenti nella città. È l’occasione per Tolstoj di descrivere una realtà a cui anche lui appartiene, senza risparmiare nulla, ma anzi insistendo molto sulle colpe e sui disinteressi delle persone come lui, maggiori responsabili di quella situazione.
La seconda parte invece, che si snoda tra questioni più astratte, pone domande assai pregnanti sulla nostra contemporaneità, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra le arti e la società: «La scienza e le arti saranno davvero al servizio del popolo solo quando i loro esponenti vivranno in mezzo alla gente». Sono parole che valgono ancora come una risposta agli interrogativi di oggi, tanto risolutive quanto di difficile attuazione.
L’arte, ma anche la scienza, sostiene Tolstoj, è tale, e quindi utile a tutto il popolo, solo quando non è esercizio narcisistico fine a se stesso, ma quando invece è libera dalle imposizioni o i comandi del potere. Questa questione sarà oggetto di uno degli scritti più importanti e che non smette mai di parlare di Tolstoj, Che cos’è l’arte?, dove lo scrittore russo si interroga sulla destinazione dell’esercizio artistico in chiave anche religiosa: «La destinazione dell’arte del nostro tempo è di tradurre dalla sfera della ragione alla sfera del sentimento la verità. […]  Il compito dell’arte cristiana è la realizzazione dell’unione fraterna degli uomini».
Un ruolo preponderante in questa riflessione di Tolstoj, lo assume lo spazio spirituale: verrebbe da dire, parafrasando le pagine finali del libro, che se una mutazione mai potrà arrivare, essa dovrà essere mediata dal sentimento religioso, e andare ad incidere quindi sulla spiritualità degli uomini. Solo attraverso un pensiero che si faccia reale azione, seguendo gli insegnamenti del Vangelo, nell’accompagnamento degli uomini e delle donne in difficoltà, nella condivisione della fatica e dei dolori, l’ascesi personale potrà tramutarsi in un affrancamento collettivo dalla miseria. Tolstoj si scaglia contro le regole che governano la divisione del lavoro, responsabili di aver sollevato dalla fatica parti privilegiate del popolo e di pesare ancora di più su chi vive in condizioni misere. Sul riconoscimento della fatica fisica si concentra lo scrittore, ed è questo che manca a molti rappresentanti delle classi più alte: per Tolstoj sarebbe cosa invece assai positiva un impegno in tal senso, perché permetterebbe a tutti di agire come lui stesso racconta di fare: «Ero giunto alla spontanea conclusione per cui, se avevo compassione del cavallo affaticato che cavalcavo, la prima cosa da fare era scendere dalla sella e proseguire a piedi». Sembra essere questa una delle possibilità di risoluzione dei conflitti e delle bassezze che generano disuguaglianza e ingiustizia sociale.
Leggere oggi il libro di Tolstoj fa uno strano effetto, in particolar modo perché si sente come l’autore sia mosso da una grande onestà intellettuale e ad un’aderenza al suo impianto ideologico teologico: nonostante sia ricco, famoso e acclamato, lo scrittore russo è infelice, perché ciò che vede non si avvicina al mondo che lui desidera. E chissà che queste parole non impressionino anche tanti lettori moderni perché se certo le nostre città non sono ovviamente la Mosca di fine Ottocento, l’ingiustizia sociale, che ha forse cambiato sembianze, non si è però mai allontanata.

Articolo ripreso da  http://www.minimaetmoralia.it/wp/tolstoj-si-chiedeva/

ANCORA SULLA GUERRA CIVILE SPAGNOLA

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La chiesa spagnola ha sostenuto fin dal principio il colpo di stato di Franco

Intellettuali e artisti nella guerra civile spagnola






La reale importanza della guerra civile spagnola si comprende anche come diretta antecedente della Seconda guerra mondiale. Ciò che accade sul suolo spagnolo dal luglio del 1936 al marzo del 1939 può ben essere definito la prova generale del secondo conflitto mondiale, in special modo riguardo al “duello” fra ideologie: socialcomunismo da un lato e nazi-fascismo dall’altro. 
Altre due considerazioni vanno fatte su questo evento storico: la prima ci porta su un piano puramente statistico e constatativo, essendo il conflitto civile spagnolo uno fra i più distruttivi e crudeli che l’Europa avesse visto sino al quel momento in relazione al coinvolgimento della popolazione civile; i morti furono oltre 600.000 e i bombardamenti non risparmiarono affatto le città, realizzando la prova generale della strategia della “guerra totale” perseguita dagli Stati maggiori durante la Seconda guerra mondiale. 
La seconda considerazione ci porta su un piano storiografico e interpretativo, poiché gli eventi spagnoli mostrano e anticipano microscopicamente il conflitto ideologico che si manifesterà in ben altra entità negli anni a seguire sul suolo europeo e mondiale.
mappe di Mario Nicotra, 5 B


la classe 5 B presenta voci,volti,opere di :
PABLO PICASSO E GUERNICA

 

SUL FONDATORE DELL' OPUS DEI

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I virili desideri di san Escrivà, fondatore dell’Opus Dei 

Juan Goytisolo


Il 6 ottobre in Vaticano il Papa Giovanni Paolo II canonizza fondatore dell’Opus Dei, ossessionata dalla conquista del potere. Questa canonizzazione-espresso,, la più rapida nella storia della Chiesa, eccita forti emozioni nei numerosi cattolici che conoscono il sostegno apportato dall’Opus Dei ai regimi più reazionari, in particolare in America Latina, e i legami storici che uniscono José Maria Escrivá de Balaguer e il generale Franco, dittatore fascista della Spagna.
In Spagna, nel corso degli ultimi anni, dopo la vittoria del partito popolare di José Maria Aznar, l’Opus Dei, una specie di massoneria cattolica fondata nel 1928 José Maria Escrivá de Balaguer,da a poco a poco ha ripreso il potere. Molti militanti dell’Opus Dei hanno rioccupato posti importanti nelle imprese e nel governo. Il che spiega il rinnovato interesse suscitato dalla divulgazione del Rapporto confidenziale sull’Organizzazione segreta dell’Opus Dei, redatto nel 1943 dalla Falange (il partito fascista spagnolo), impegnato a quel tempo contro mons. Escrivá de Balaguer in una aspra lotta per il potere nel seno della dittatura franchista. In questo rapporto Escrivá è descritto come una "mala lingua" dalla vita poco esemplare, con "parole ed atti pieni di secondi fini" e con una "devozione ostentata e lacrimosa, per nulla naturale, con atteggiamenti finti e forzati". Queste accuse non hanno per nulla disturbato la folgorante ascesa di mons. Escrivá, dapprima mondana (il fondatore dell’Opus Dei, "modesto" accumulatore di decorazioni e di onori, aveva ottenuto dal suo amico il generale Franco un titolo nobiliare: marchese di Peralta) e in seguito celeste, beatificazione nel 1982 e, consacrazione suprema, la santità, conseguita il 6 ottobre 2002.
Il lettore curioso della vita del nuovo santo Escrivá troverà in qualche opera e nelle agiografie pubblicate dall’Opus abbondanti testimonianze sui fatti e le gesta. Noi disponiamo di tracce non meno rivelatrici del personaggio come le sequenze filmate di qualche sua apparizione in Cadillac nera, in atteggiamenti pieni di grazia.
Ma la mia interpretazione personale, in Foutricomédie, delle massime tratte dalla sua opera capitale, Cammino - tradotta in più di quaranta lingue -, accende una luce nuova sui fantasmi sessuali di Escrivá. Il fondatore dell’Opus Dei era, non se ne può dubitare, come avrebbe detto Rabelais, fatto "del legno di cui sono fatti i santi".
L’opera principale del fondatore dell’Opus Dei, Cammino, fu scritta durante la guerra civile spagnola (1936-1939) e costituisce un elogio dello spirito fascista e del dittatore Franco. In uno dei rari incisi autobiografici del libro l’autore rievoca i momenti di "nobile e gioioso cameratismo" con gli ufficiali franchisti, durante i quali aveva ascoltato la canzone di un «giovane tenente dai baffi bruni» che recitava questa preghiera: «Di cuori condivisi / io non ne voglio; / e se do il mio / lo do tutto intero» (massima 145).
Il libro riflette il fervore franchista dell’epoca (“La guerra è il più grande ostacolo che si innalza sulla via facile. E tuttavia dovremo amarla [sono io che sottolineo] come il religioso ama i suoi discepoli” (311) e, naturalmente, la fervente esaltazione del “Caudillo” Franco (“Lasciarti andare? Tu?... faresti dunque parte del gregge? Tu sei nato per essere caudillo!” (16). “Caudillos!...Virilizza la tua volontà perché Dio faccia di te un caudillo” (833). Grazie al “fervore patriottico” (905) nella lotta contro lo “spirito voltairiano in parrucca incipriata o i liberalismi sorpassati del XIX secolo” (849) “la Spagna ritornerà all’antica grandezza dei suoi santi, dei suoi saggi e dei suoi eroi” (introduzione datata 19 marzo 1939).
Ma se questi aspetti di Cammino e molti altri, come la sua alta stima della funzione della donna nella società cristiana (“Le donne non hanno bisogno di essere istruite, basta che siano modeste, riservate (946)”) sono stati oggetto di esegesi da parte degli specialisti di Escrivá, mi rammarico per l’assenza di ciò che si potrebbe chiamare una lettura della “libido testuale” di Cammino, di quella santa sessualità esposta nella massima 28: “Mentre mangiare è un’esigenza dell’individuo, procreare non è che un’esigenza della specie, alla quale i singoli individui possono sottrarsi”. Come vedremo, i “singoli” che “si sottraggono” alla procreazione, come persone assennate possono trovare inCamminomassime molto sapide e sentirsi confortati nei loro desideri e sante ispirazioni sessuali.
Il fondatore dell’Opus Dei ha molta considerazione per il vigore della virilità e non nasconde il suo disdegno per coloro che ne sono sprovvisti, che egli qualifica “dolci e teneri come meringhe”. Eccone qualche esempio: “Abbandona quei gesti e quei modi puerili. Sii virile ”(3); “Sii forte. Sii. virile. Sii uomo ”(22), “Non essere puerile” (49); “Non essere molle, indolente ”(193); “Non hai vergogna di essere così poco virile perfino nei tuoi difetti? ”(50).
Il vigore preconizzato da Escrivá congloba tutti i campi della vita spirituale e affettiva. “Chi ti ha detto che non era virile dire delle novene? ”(574). La preghiera, sottolinea in diverse riprese, deve essere “vigorosa e virile” (691) e le lacrime di quelli chiamati alla milizia saranno ugualmente “brucianti e virili (216)”. Per questo conviene adottare un modello di condotta che non presti il fianco alla critica: “Se non sei virile e … normale, tu sarai non un apostolo, ma la sua risibile caricatura”(877). E sottolinea conseguentemente: “Essere puro come un bambino non significa essere effeminato ”(888).
A dispetto di queste esortazioni alla saggezza ci troviamo su una china pericolosa. Non è necessario essere uno specialista di Freud per apprezzare le metafore che si ripetono lungo tutto il Cammino: “Virilizza la tua volontà sì ch’essa sia, con la grazia di Dio, come uno sperone d’acciaio ”(615), “Braccio di ferro, potente, avvolto in una guaine di velluto ”(397), “Quel filo saldamente intrecciato che può sollevare pesi enormi ”(480) oppure “Non dimenticare che tutto ciò che è grande, sulla terra, è cominciato essendo piccolo”(821), ecc.
Il Padre redarguisce teneramente il discepolo: “Che povero strumento sei!”(477) e lo esorta ad agire con scienza e padronanza. “Grande o piccolo, delicato o grezzo…, sii uno strumento. (…) Il tuo dovere è di essere uno strumento”(484). E lo mette in guardia con fermezza: “Non si può lasciar arrugginire gli strumenti (486)”. Ma non è tutto petali di rose sulle strade che portano alla santità. “Una puntura. Un’altra e un’altra ancora. Sopportale! Tu sei così piccolo, non lo dimenticare, che nella tua vita – sul tuo piccolo cammino – tu non puoi offrire altro se non queste piccole croci ”(885). La fatica primordiale di lasciare un “deposito”, già prescritta fin dalla prima massima del libro, permetterà di “far sgorgare” l’antifona del catecumeno, tal quale un “fiume tranquillo e largo ”(145). “Ecco una devozione forte e feconda! (556)”, esclama. E la semenza, oh divina bontà, “germinerà e darà frutti saporiti, debitamente innaffiati”(119).
Nel momento in cui tanti preti cattolici sono accusati di pedofilia e di altre “virili” dissolutezze, la santificazione di Mons. Escrivá può incitare molte di queste anime tormentate a pregare “con la bramosia del bambino per i dolciumi, quando ha bevuto una medicina amara”(889). Verosimilmente le massime di Mons. Escrivá hanno loro apportato una specie di lubrificante e di guida efficace sul loro cammino cosparso di spine e di rose. Per questa ragione – secondo la proposta delle Suore del Perpetuo Soccorso glorificate nella mia Foutricomédie– il 6 ottobre 2002 essi festeggeranno con gioia l' ascesa di mons. Escrivá de Balague alle più alte sfere celesti.

Da “le monde diplomatique”, ottobre 2002, in “il manifesto” 3 ottobre 2002

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